Infowar: la guerra dell’informazione e della lingua

Di Antonio Zoppetti

Era il 1274 a.C. quando, sulle rive del fiume Oronte che scorre tra Siria e Libano, si consumò la grande battaglia di Kadesh, che rappresentò il culmine di una lunga guerra tra due superpotenze del Medio Oriente di allora, gli Ittiti e gli Egizi.

Chi vinse?
Non è chiaro, perché entrambi i contendenti dichiararono gli antagonisti come sconfitti, e anche se un poema che celebrava quello scontro come la schiacciante vittoria di Ramses II fu scolpito in ogni parte del Regno al punto da oscurare ogni altra versione, è più probabile che furono gli Ittiti ad avere la meglio.

Guerra, propaganda e informazione sono da sempre intrecciate in maniera inscindibile, e persino nel fratricidio può accadere che la guerra della comunicazione porti a giudizi antitetici, per cui l’uccisione di Abele da parte di Caino è diventata il simbolo del male, mentre quella di Remo da parte di Romolo è stata presentata come un atto di “giustizia” alla base del mito della fondazione di Roma.

Oggi, mentre non lontano dall’antica Kadesh si sta consumando un genocidio spaventoso, l’informazione, la propaganda, il giustificazionismo di chi si schiera da una parte o dall’altra viene chiamato infowar, l’ennesimo anglicismo spacciato per una novità che serve per riconcettualizzare l’acqua calda nella lingua inglese.

E pensare che la nascita della lingua italiana è strettamente connessa proprio alla guerra di propaganda e comunicazione, visto che la lirica siciliana, in volgare, è nata alla corte di Federico II per motivi politici, in un contesto di guerre.

Esistono anche altri precedenti letterari, piuttosto frammentari, di composizioni in volgare, ma non ebbero lo stesso successo e la stessa diffusione, a partire dal Cantico di San Francesco, che passò inosservato; era forse considerato un canto religioso e una preghiera, fu ignorato da Dante e da tutti i poeti successivi e persino nella Storia della letteratura ottocentesca di Francesco de Sanctis non era menzionato. La scuola poetica siciliana, al contrario, divenne un genere di successo e si può considerare il primo atto di una politica linguistica che promuoveva il volgare, insieme ai temi poetici. Qualche tempo fa ho ricostruito questa storia in un articolo, per chi fosse interessato ad approfondire, ma la sintesi è che Federico II, divenuto imperatore del Sacro Romano Impero, tentò una restaurazione illuminata del sistema feudale contro i Comuni che se ne volevano slegare, e allo stesso tempo prese le distanze anche dalla Chiesa. La poesia siciliana in un proto-italiano locale, ma allo stesso tempo “illustre”, e cioè in grado di arrivare a tutti gli italiani, non era una scelta “innocente” né casuale. Dietro quelle liriche c’era la volontà di affermare una nuova lingua che rompeva sia con il latino ecclesiastico sia con la poesia provenzale in voga nei comuni del Nord. Questi a loro volta si costituirono in una seconda Lega lombarda, dopo la prima contro il Barbarossa, in guerra contro Federico II. Le poesie in provenzale e siciliano non trattavano solo di temi amorosi, ma anche di vicende politiche, e l’affermazione della lirica siciliana si può leggere proprio come un atto di propaganda che, dietro le canzoni, pubblicizzava lo splendore del progetto federiciano. Fu questa scuola che fu poi imitata da i primi prosatori emiliani e toscani e poi da Dante, che la continuarono nei rispettivi volgari.

Oggi, i nuovi intellettuali e giornalisti con le fette di salame sugli occhi si svegliano all’improvviso e credono che la guerra di informazione sia qualcosa di moderno o di nuovo, e in questa miopia culturale e cerebrale si affannano a spiegare questo fenomeno attraverso la parola infowar. Questo “nuovo” e strabiliante concetto è emerso negli anni Novanta, ai tempi dei conflitti in Bosnia ed Erzegovina, e poi durante la guerra in Iraq, e rispunta sui giornali a ogni conflitto, dall’Ucraina a Gaza.

Intanto, mentre il concetto di infowar è di solito attribuito al “nemico” e ai “cattivi”, i nostri giornalisti e analisti credono invece di essere i portatori dell’”oggettività” dei valori occidentali, visto che sono schierati preventivamente dalla parte degli “americani” e utilizzano le loro categorie concettuali e la loro lingua in modo acritico. E infatti nella guerra dell’informazione abbiamo visto come sono stati raccontati gli eventi in Iraq, un Paese distrutto dopo aver sbandierato prove false secondo le quali Saddam Hussein sarebbe stato in possesso di inesistenti armi di distruzione di massa. In tv si vedevano più che altro le immagini dei bombardamenti “chirurgici”, non si vedevano le mamme irachene piangere i bambini morti e le case distrutte come nel caso della guerra in Ucraina, in modo da non mettere in risalto che quella guerra ha comportato la morte di circa 200.000 civili.

Sullo sfondo di queste tragedie umanitarie, nell’informazione di guerra e nella guerra dell’informazione in cui siamo parte in causa, ognuno racconta e mistifica come ai tempi di Egizi e Ittiti.

La novità sta semmai nello sterminio lessicale, che rimane un crimine intellettuale, anche se paragonarlo allo sterminio dei civili è a dir poco irrispettoso.

Comunque, mentre la propaganda di guerra è infowar, le mistificazioni sono diventate fake news (visto che le notizie sono diventate news), i carri armati sono diventati tank, la Cisgiordania è ormai affiancata dal nome inglese di West Bank, la città di Gaza è Gaza City – come fosse una tipica espressione della lingua palestinese – i bombardamenti e le incursioni sono raid… e accanto alla guerra vera si consuma quella per l’imposizione della lingua inglese che si vuole far diventare la lingua internazionale dell’umanità, ma che – come ai tempi di Federico II – non è una scelta innocente, è una ben precisa scelta politica dagli effetti collaterali devastanti: giorno dopo giorno le parole italiane sono affiancate e sempre più spesso sostituite da quelle inglesi, in sempre più ambiti, con una frequenza sempre maggiore.

La formazione in inglese e itanglese della nuova cultura coloniale

Di Antonio Zoppetti

La settimana scorsa l’università (privata) Bocconi di Milano ha inaugurato il nuovo anno accademico con una cerimonia iniziata con il benvenuto in italiano e proseguita con gli interventi in inglese (qui il video). La novità annunciata dal rettore Francesco Billari è che “dalle 32 classi in inglese sulle 53 totali il prossimo anno accademico passeremo ad averne 40 su 54”, e dal 2026 – poiché il nostro “sistema scolastico è troppo vecchio e ancorato a un mondo che non esiste più” – su dieci corsi erogati solo 3 saranno in italiano, mentre gli altri saranno in lingua inglese, una scelta “didattica” che rappresenta il 73% del totale dei corsi.

Con un’imbarazzante propaganda mistificatoria, questa decisione è stata associata al fatto che in Italia i giovani laureati sono meno del 30%, mentre in Francia e Spagna la percentuale è del 50%, arriva al 70% nel caso della Corea del Sud, e noi siamo nel fanalino di coda insieme a Paesi “inferiori” come il Messico e il Costarica.

Cosa c’entrano queste percentuali con la didattica in inglese?
Nulla, ovviamente. Giorgio Cantoni, in un pezzo su Italofonia.info è andato a vedere queste realtà universitarie straniere virtuose e ha constato che i corsi sono sostanzialmente ognuno nella propria lingua madre, e solo talvolta affiancati anche da quelli in inglese, che però si contano sulle dita di una mano.

Mentre il rettore bocconiano le spara a ruota libera e mette in correlazione i disoccupati che hanno smesso di studiare e di cercare lavoro (definiti Neet) con una situazione “figlia di una scuola ancien régime” che ha bisogno di un cambio di rotta prima che sia troppo tardi, questo rinnovamento basato sull’anglificazioen rischia al contrario di allontanare gli studenti. Ma l’obiettivo di simili decisioni è quello di creare una scuola elitaria e di serie A – nella lingua superiore di serie A – relegando l’italiano alla cultura popolare. E nonostante le citazioni dell’ancien régime bollato come retrogrado dalla Rivoluzione francese, il passaggio al new regime in lingua inglese non è affatto un processo rivoluzionario, appartiene invece alla logica delle scuole coloniali imposte in Africa che ha denunciato Ngugi wa Thiong’o, è il ripristino della diglossia neomedievale denunciato dal linguista tedesco Jurgen Trabant, quando la lingua dei dotti era il latino e il volgare apparteneva al popolino o al massimo alla poesia; con la differenza che il latino medievale non era la lingua madre di nessuno, era un lingua di cultura che metteva tutti sullo stesso livello, mentre l’inglese è la lingua naturale dei popoli dominanti che la impongono a tutti in modo coloniale sguazzando negli incalcolabili vantaggi che questo comporta. E da bravi collaborazionisti, in Italia, lavoriamo per la cancellazione della nostra lingua. Mentre i Paesi che hanno da tempo operato queste soluzioni, dalla Svezia all’Olanda, stanno facendo marcia indietro perché si sono accorti che l’inglese universitario si trasforma in un processo sottrattivo, e non aggiuntivo, che porta alla perdita della terminologia locale e alla semplificazione concettuale-argomentativa in un condizionamento che conduce a pensare in inglese, da noi questa follia è invece presentata come moderna e internazionale. Nessuno sembra porsi il problema delle conseguenze e del fatto che l’inglese non è un modo equo di risolvere i problemi della comunicazione, ma un pericoloso sistema di evangelizzazione. Dopo i primi segnali che ormai molti anni fa hanno riguardato l’università pubblica (dal politecnico di Torino a quello di Milano), e anche dopo anni di battaglie legali, sulla carta è stata riconosciuta la “primazia” della formazione universitaria in italiano, secondo un principio di proporzionalità che però non è stato definito, ma lasciato alla discrezione dei giudici, con il risultato che decisioni come quella della Bocconi e di altri atenei pubblici hanno il via libera nella cancellazione dell’italiano. Una strategia che non viene chiamata cultura della cancellazione, come si dovrebbe chiamare, ma viene al contrario venduta come vincente, moderna e ineluttabile.

Sinergy Grant e Academy di alta specializzazione tecnologica

Il 27 ottobre, sul sito dell’Università di Napoli Federico II, si leggeva che l’ateneo ha vinto il Primo Sinergy Grant con queste parole: “È il primo Synergy Grant per l’Università degli Studi di Napoli Federico II quello assegnato da l’European Research Council per EndoTheranostics – Multi-sensor Eversion Robot Towards Intelligent Endoscopic Diagnosis and Therapy a Bruno Siciliano, ordinario di automatica e robotica al Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione, coordinatore del PRISMA Lab, e già assegnatario di un Advanced Grant nel 2013, in collaborazione con il Consorzio CREATE.”

Questo testo in itanglese ben fotografa l’attuale situazione dell’italiano dell’università e della ricerca. Andando a spulciare il bando per partecipare ai “sinergy grant” dell’Unione Europea – disponibile in lingua inglese, of course – si legge che “la domanda può essere presentata in qualsiasi lingua ufficiale dell’UE. Tuttavia, per ragioni di efficienza, l’uso dell’inglese o la traduzione in inglese è fortemente consigliato”, al punto che in un’altra clausola si legge che l’ente si riserva il diritto di effettuare “traduzioni automatiche delle domande presentate in lingue diverse dall’inglese ai fini della valutazione.”

Certo, è sempre meglio dell’obbligo di presentare le domande solo in lingua inglese, come nel caso dei Progetti di ricerca di rilevanza nazionale e dei fondi italiani della scienza (i Prin e il Fis) sanciti dalle istituzioni italiane, ma ancora una volta emerge tutta l’ipocrisia del plurilingusimo sulla carta: chi mai presenterà in un’altra lingua un progetto che deve essere giudicato da chi consiglia fortemente l’inglese e in caso contrario minaccia di avvalersi di traduzione automatiche?

Mentre l’inglese diventa così un obbligo, talvolta dichiarato apertamente, talvolta mascherato da una prassi che di fatto esclude ogni altra lingua, l’istituzionalizzazione dell’inglese è affiancata da un altro preoccupante fenomeno: anche quando si ricorre all’italiano, di fatto è un ibrido a base inglese che non si può che definire “itanglese”, la newlingua che nasce dagli effetti collaterali dell’anglificazione della scuola, del lavoro e di sempre più ambiti.

La formazione, insomma, se non viene effettuata direttamente in inglese si può avvalere dell’itanglese. Tra gli infiniti esempi che si possono fare, ma sono davvero troppi, riporto un caso (che mi ha segnalato Domenico) di un istituto tecnico superiore della regione Puglia – dove “Gli Istituti Tecnici Superiori (ITS) sono Academy di alta specializzazione tecnologica istituite dal Ministero dell’Istruzione” – che eroga i seguenti corsi in “italiano”:

“Sales management & marketing nella crocieristica” (Taranto)
“Sustainable and Experiential Wine tourism management” (Brindisi)
“International Hospitality and Tourism Management 4.0” (Bari)
“Food management e sostenibilità nella ristorazione 4.0” (Lecce)
“Management della comunicazione digitale per il turismo e la cultura” (Lecce)
“Hospitality Management Innovation” (Lecce)
“Deep & Digital Tourism Innovation” (Gravina in Puglia)
“Food and Beverage Management” (Trani)
“Adventure and Green Tourism Hospitality Management” (Ugento)
“Sustainable Management for luxury tourism experience” (Fasano)
“Outdoor Tourism and Sport Event Management” (Bari)
“Management e Organizzazione dei Servizi Turistici” (Manduria)
“Management dell’alta ristorazione” (Conversano)
“Yachting and Tourism Services Management”  (Brindisi)

ad libitum sfumando.


Parola d’ordine: educare all’inglese e cancellare l’italiano

Ne è passata di water sotto i bridge da quando, dopo l’avvenuta unificazione dell’Italia il governo varò la prima riforma della scuola unitaria (la legge Coppino del 1877) che istituiva l’obbligo scolastico per i bambini e l’insegnamento dell’italiano. L’unificazione linguistica è avvenuta in seguito proprio grazie alla scuola, oltre alla stampa, alla radio, alla televisione… ma oggi questi stessi centri di irradiazione della lingua educano e impongono l’inglese e l’itanglese.

E così la RCS Academy per formare i “comunicatori del cibo” lancia, insieme alla rivista Cook, un master full time per il Food&Wine basato sui nuovi strumenti di comunicazione di marketing, social e digital.

E quale sarà mai la lingua dei comunicatori che si formano a questo modo se non l’itanglese? La stessa della manifestazione milanese dedicata al vino che però si chiama Milano Wine Week.

La stessa a cui ci educano sia le istituzioni sia le realtà private. Sabato sono andato in un grande magazzino, l’Upim (acronimo di Unico Prezzo Italiano Milano), ma forse oggi non si dice più così e bisogna dire store, visto che la cartellonistica promuoveva in inglese gli sconti di fine stagione diventati Mid Season Sale. Sembra di vivere in Paese occupato e colonizzato, dove per rivolgersi ai cittadini ci sono principalmente l’inglese e l’itanglese.

Alla stazione centrale di Milano non ci sono gli ingressi e le porte, ma ci sono solo i Gate, mentre le insegne dei negozi che vendono il prodotto italiano (arcaismo per Made in Italy) si chiamano di volta in volta italian bakery, italian hair style e via dicendo. E grazie forse agli studenti formati dalla RCS Academy, tra Ice Wine e Wine Bar, la cosa più “italiana” dell’immagine qui a fianco è un divieto di sosta, che forse sarebbe ora di rinominare in no parking, nel passaggio dall’ancien régime al new regime, cioè alla dittatura dell’inglese che piace tanto al rettore della Bocconi.

L’itanglese e la conoscenza di italiano e inglese

Di Antonio Zoppetti

Circola con un certo successo l’idea per cui ad abusare degli anglicismi siano soprattutto coloro che l’inglese non lo sanno, mentre chi lo conosce bene non avrebbe bisogno di ostentarlo e non mescolerebbe le due lingue a sproposito. Questa percezione che sembra descrivere la macchietta di Alberto Sordi in Un americano a Roma, però, non ha un gran fondamento, fuori dalle caricature, ed è anche molto funzionale alla visione che punta a istituzionalizzare l’inglese come la lingua internazionale e dell’Europa, facendolo diventare un requisito di base per tutti e dunque un obbligo, invece di una scelta. La conseguenza strisciante di questo presupposto è che lo studio dell’inglese salverebbe addirittura l’italiano, ma in realtà le cose non vanno affatto a questo modo.

L’angloamericano è una lingua che nel suo espandersi entra in conflitto con le lingue locali e sul piano internazionale rende le altre lingue di serie B, con il rischio di farle divenire i dialetti di un mondo che parla inglese; sul piano interno, invece, produce uno “tsunami anglicus” globale che in molti casi anglicizza gli altri idiomi sino a snaturarli. La rottura degli ecosistemi linguistici locali dà vita a ibridazioni chiamate di volta in volta itanglese, franglais, Denglisch e così via.

Naturalmente questo effetto glottofago e vampiresco non è connaturato all’essenza dell’inglese, è la conseguenza dell’imperialismo linguistico che vuole imporre a tutto il globo la lingua naturale dei popoli dominanti.

Per rendersi conto che l’itanglese non è affatto inversamente proporzionale alla conoscenza dell’inglese basta sentire in televisione i corrispondenti d’oltreoceano che introducono anglicismi ostentati con pronuncia marcatamente americana, aggiungendo magari un bel “come si dice in inglese” e sottintendendo che non è proprio come l’equivalente italiano che sono costretti ad affiancare per farsi intendere dal popolino. Basta ascoltare certi scienziati che riportano anglicismi-tecnicismi che sono per loro più naturali dell’italiano, visto che ormai studiano e pensano in inglese e allo stesso tempo perdono la terminologia nostrana che non viene loro più istintiva, sempre che ci sia, perché se non c’è la introducono direttamente in inglese e ci spiegano anche che è “necessario”. Lo abbiamo visto con la pandemia e con le cronache di guerra, o con le interfacce informatiche tradotte parzialmente da chi ben conosce l’inglese e lo ama al punto che preferisce lasciarlo crudo e intoccabile.

Non è l’ignoranza dell’inglese a produrre i lockdown e i covid hospital, i Qr code e i compound, i download e l’ecommerce, le vision e la cancel culture… Questi sono al contrario i detriti del globish.

E allora la verità è molto più semplice. L’itanglese è la lingua di chi non conosce o non ha a cuore l’italiano. Non mi pare che ci voglia tanto per comprendere una simile rivoluzionaria banalità.

E quello che posso constatare è l’oggettivo calo della conoscenza dell’italiano di chi esce dalla scuola secondaria superiore. La mia impressione è che le nuove generazioni conoscano sempre meglio l’inglese proprio a scapito dell’italiano.

Da anni tengo corsi sull’italiano corretto o le norme editoriali rivolti soprattutto a chi studia per imparare a scrivere professionalmente. In una scuola di scrittura creativa e “storytelling” destinata a una platea di ventenni diplomati, confrontando i risultati di uno stesso corso di 8 anni fa con quelli dell’anno scorso ho riscontrato un notevole abbassamento delle competenze di partenza, peggiorate in modo sensibile anno dopo anno. Tra i nuovi esempi reali che testimoniano un semianalfabetismo di ritorno, a parte gli immancabili “qual’è” con l’apostrofo, mi sono imbattuto per esempio in: “Io ti dissi… E allora tu mi dissi…”, al posto di dicesti, ripetuto però più volte in uno stesso dialogo, quindi non interpretabile come un refuso. In un racconto di un’altra persona ricorreva invece due volte “io capì” al posto di capii. E lo stesso errore l’ho riscontrato in un’occorrenza anche in un altro componimento di un’altra classe, dunque sembrerebbe un problema diffuso, come mostra anche un ricerca su google.

Una decina di anni fa queste cose non accadevano con la stessa frequenza e mi paiono lacune che testimoniano un cambiamento della scuola denunciato da più parti. Negli ultimi decenni l’italiano ha perso importanza, non è più centrale come un tempo; si dà per scontato che un madrelingua tanto in qualche modo lo sappia, e quello che invece sembra contare è la conoscenza dell’inglese. I ventenni a cui insegno lo conoscono abbastanza bene di solito. Eppure il loro linguaggio è molto anglicizzato, e la conoscenza dell’inglese non migliora affatto il loro italiano, che è al contrario mediamente peggiorato. Il loro lessico è molto limitato, e l’inglese stereotipato tende a colmare l’evidente incapacità di ricorrere a sinonimi. Se ripetono sempre e solo “target” come insegnano nelle scuole di marketing e ormai ovunque, non avviene solo perché preferiscono questa parola che appare loro più prestigiosa e suadente delle alternative italiane. Avviene soprattutto perché hanno molte difficoltà o sono addirittura incapaci di sostituirla a seconda dei contesti per esempio con platea, pubblico o destinatario. Gli anglicismi sono spesso parole-ombrello in cui rifugiarsi davanti all’incapacità di “possedere” l’italiano, e dunque finiscono per costituire un impoverimento espressivo, invece di un arricchimento. Un processo sottrattivo, anziché aggiuntivo.

Dubbi grammaticali

L’altro giorno è uscito un mio nuovo libro che raccoglie i più diffusi Dubbi grammaticali (Mind edizioni). È il secondo titolo di una collana in cui a ottobre avevo pubblicato una guida al congiuntivo rivolta a un pubblico di fascia più bassa e soprattutto agli stranieri, visto che — al contrario di quel che si dice — il congiuntivo non è affatto morto, sopravvive benissimo e chi lo sbaglia rischia di compromettere la propria reputazione in modo fantozziano. Comunque sia, nell’impegnarmi a divulgare l’italiano oltre a combattere l’itanglese, tempo fa avevo provocatoriamente sollecitato i cruscanti e i linguisti che sostengono che parole come chat o computer sono “italiane” a riscrivere le regole della grammatica, visto che escono dalle nostre norme orto-fonologiche. Nella speranza che la mia buttata non sia destinata in futuro a diventare una profezia, intanto in quest’ultimo lavoro ho dovuto registrare una prima interferenza dell’inglese che ha modificato le nostre regole e ha creato un’eccezione che esce dal semplice trapianto lessicale per coinvolgere l’uso dell’articolo da associare a certe parole. Ne avevo già accennato anche in un vecchio articolo su questo sito, ma di seguito riporto il passo in questione per intero.

Buona lettura.

Tratto da: Antonio Zoppetti, Dubbi grammaticali. La guida per evitare gli errori più diffusi, Mind edizioni, Milano 2023, pp. 71-72.

Dal codice a barre (in italiano) al QR code (in inglese)

Di Antonio Zoppetti

La notizia di questi giorni (in italiano e rivolta a tutti) è che dal 2027 sarà adottato un nuovo protocollo che prevede la sostituzione dei codici a barre con i codici QR nel settore delle vendite, del largo consumo e della grande distribuzione. In itanglese si può – ormai forse meglio – sintetizzare tutto ciò parlando del nuovo standard dei QR code per il retail.

Il codice a barre e il codebar

L’idea dei codici a barre nasce negli Stati Uniti intorno agli anni Cinquanta, ma dopo un lungo periodo di esperimenti e insuccessi il sistema viene perfezionato nel 1973, mentre l’anno successivo trova le prime applicazioni pratiche e, intorno al 1977, il protocollo sbarca anche in Europa per diffondersi sempre maggiormente.

Se confrontiamo questa storia con le frequenze di “codice a barre” nell’archivio di Google libri, vediamo infatti che l’espressione spunta dal rumore di fondo nel 1972, e nel 1977 la sua frequenza comincia a salire fino al 1994. Dopo qualche anno di stallo le occorrenze continuano a salire a partire dal 1998, e non è un caso che in quegli anni i codici a barre ISBN siano diventati obbligatori anche per i prodotti editoriali come i libri o i cd. Non si tratta di un obbligo vero e proprio, per essere precisi, ma di un requisito imposto dalla grande distribuzione per cui, senza il codice, questi prodotti non possono più finire nei circuiti di vendita ufficiali.

In inglese tutto ciò si chiama barcode, ma se aggiungiamo su Ngram Viewer anche questa parola, vediamo che l’inglese spunta solo successivamente, e la sua frequenza è bassissima. Si tratta probabilmente del riversamento in italiano dell’inglese internazionale non tradotto, e fuori dalla comunicazione in inglese – o dalla sua ostentazione da parte di qualche anglomane che preferisce infighettare i concetti con una connotazione alberto-sordiana – l’italiano resiste e non cede.

Il QR code e il codice QR

Il codice Qr è bidimensionale e contiene molte più informazione di quello a barre. La sigla QR sta per Quick Response (code), il sistema risale al 1994, ed è stato sviluppato in Giappone dalla Denso Wave. Per un decennio è stato un sistema che si imposto solo lì, e per diffonderlo, nel 1999, l’azienda ha deciso di renderlo distribuibile liberamente. In questo modo, in seguito è stato utilizzato anche negli Usa e in Europa, e se visualizziamo questa storia su Ngram Viewer vediamo che l’espressione “QR code” compare nel 2005, nello stesso anno in cui negli Stati Uniti è stato lanciato un progetto che permetteva di leggere il codice attraverso i nuovi telefoni intelligenti denominati smartphone, per collegare i luoghi fisici per esempio alle relative voci della Wikipedia. Da allora il fenomeno è esploso.

La differenza rispetto alla storia dei codici a barre è evidente: l’espressione è stata esportata direttamente in inglese e senza traduzione, nonostante l’origine nipponica della tecnologia. In linea di massima, visto il diverso sistema di scrittura rispetto all’alfabeto latino, nel Paese del Sol Levante le multinazionali che puntano alla conquista del mondo tendono a impiegare l’inglese in modo ancora più marcato delle altre, tanto che anche il walkman era un marchio registrato della giapponesissima Sony. Comunque sia, invece di tradurre l’espressione come era avvenuto nel caso dei “barcode”, è avvenuto tutto il contrario: abbiamo cominciato a ripetere a pappagallo “Qr code”, e cioè l’espressione che le interfacce dei telefonini esportavano nella propria lingua, come è avvenuto per downolad, e-mail, directory, password, account

L’equivalente italiano codice QR (pazienza se l’acronimo nasconde una sigla in inglese, non è questo un gran problema, in fin dei conti) è apparso come soluzione secondaria e non è mai decollato, dunque in italiano si tende a utilizzare l’inglese, nella scrittura e nella pronuncia.

Morale della favola

Se nel 1972 l’italiano era ancora una lingua sana e la traduzione della tecnologia d’oltreoceano era un fenomeno naturale e spontaneo, 30 anni dopo (in una sola generazione) tutto era cambiato. La nuova lungimirante “strategia” dei terminologi colonizzati è stata la rinuncia alla traduzione in favore dell’importazione degli anglicismi crudi (che spesso certi addetti ai lavori certificano con una sorta di “bollino blu” che ne sancisce la “necessità”, l’“insostibuitilità” e altre simili sciocchezze che valgono solo per l’Italia); e così la terminologia informatica priva di anglicismi degli anni Settanta (quando c’erano terminali, periferiche, stampanti a margherita, schede perforate, calcolatori…) ha portato all’attuale deriva del linguaggio di settore dove è avvenuto un “collasso di ambito”: l’italiano non è più in grado di esprimere la modernità senza ricorrere alla stampella dell’inglese, e il settore si esprime oggi in itanglese.

Se nei prossimi anni il codice a barre sarà sostituito dal QR code, e non dal codice QR, avremo un anglicismo in più e una parola italiana in meno.

Naturalmente – lo ribadisco per i mistificatori che rivoltano le frittate delle mie riflessioni – la cosa grave non è che si dica QR code: si tratta di un singolo anglicismo che preso da solo non significa niente. La cosa grave è la somma di questi fenomeni che giorno dopo giorno si trasformano in “prestiti sterminatori” che fanno piazza pulita dell’italiano, e che negli anni Duemila non sappiamo far altro che ripetere in inglese invece di tradurre, adattare o inventare parole nuove. Le conseguenze di questa strategia sono sotto gli occhi di tutti. Se la rivoluzione industriale di fine Ottocento e del Novecento ci hanno portato la lampadina e la televisione, e non la lamp e la television, quella del nuovo millennio ci ha colonizzato con i computer, i mouse, il wireless e così via.

E per i negazionisti che fanno finta di non vederlo e di non capirlo, basta leggere come questo giornale riporta la notizia che all’inizio del mio articolo ho tradotto in italiano:

Per la cronaca: dai conteggi automatici (che considerano “QR code” due stringhe distinte) il testo riportato è composto da 141 parole in tutto, di cui 19 in inglese. Ma se si eliminano le date scritte in cifre e i nomi propri di persone o aziende (che non vanno conteggiate né come parole italiane né come parole inglesi) il rapporto è di 122 a 19, una percentuale che supera il 15% e che rende questo esempio un caso di lingua ibrida a base inglese, e non di una lingua sana che si appoggia sporadicamente a qualche “prestito” (considerando “QR code” come una parola sola, la percentuale scenderebbe a poco più del 9%, che non è comunque una bazzecola).

L’itanglese travalica completamente il concetto del “prestito linguistico”

Di Antonio Zoppetti

Voglio provare ad analizzare con le categorie del “prestito linguistico” vari esempi reali di comunicazione “italiana” in itanglese che mi sono stati segnalati negli ultimi giorni.

Esempio numero 1

Nell’immagine sopra si può vedere la presentazione di una multinazionale come la Manpower in italiano e in spagnolo. Domenico, che si è preso la briga di cercare la stessa comunicazione anche nelle varie lingue, ha rilevato che mentre in italiano ricorrono leader, global workforce solutions, business, brand, talent shortage e cyber security… nelle versioni spagnola, greca, portoghese, polacca, svedese, tedesca… “ mai – ma proprio mai – ricorre un termine inglese”.

Inoltre, nei suggerimenti della ricerca in “italiano” si legge: “Job title, Industry o Skills”, che a prima vista sembra un rimasuglio di un’impostazione della piattaforma in lingua inglese, ma si tratta invece di una “traduzione”, come si evince da “o” al posto di “or” e da “città” invece di “city”. Solo che questa traduzione di straordinaria bellezza e trasparenza evidentemente si avvale dei cosiddetti “prestiti linguistici”, i famosi “doni” che secondo alcuni osservatori arricchirebbero l’italiano invece di rappresentare un fenomeno sottrattivo che lo depaupera.
Inutile dire che negli altri Paesi le stesse cose sono espresse nelle rispettive lingue locali.

Esempio numero 2

Dalla lingua delle multinazionali si può passare a quella di un’azienda nostrana come la Rinascente che nella sua ultima newsletter (giratami da Marco) composta da un centinaio di parole, ne sfoggia una ventina in inglese (dunque un’incidenza di circa il 20%).

Si può partire dal prestito di “necessità” design che, anche se è l’adattamento dell’italiano disegno, è oggi diventato insostituibile per indicare ciò che più contraddistingue il made in Italy (= prodotto italiano), e cioè l’italian design. E così, mentre i Paesi che primeggiano in determinati settori di solito esportano la propria lingua e i propri termini (si pensi all’inglese informatico), noi esportiamo le nostre eccellenze in inglese, come si evince da food e drinks che ben rappresenta la grande nomea della cucina italiana nel mondo dell’epoca dei MasterChef. E lo stesso vale per la nostra grande tradizione nel campo della moda, cioè il fashion: la maglieria diventa Knitwear (come closer, pelase!) e tra ready-to-wear, shopping e brand i negozi e punti vendita si trasformano in store, mentre una destinazione è destination è ciò che è senza tempo, o sempreverde, diventa timeless (ma andrebbe bene anche evergreen: l’itanglese è un arricchimento che offre tanti sinonimi).

Questi, più che “prestiti”, sono l’abbandono dell’italiano e la prova della sua regressione. Timeless è il segnale di un collasso dell’italiano, delle sue regole e della sua capacità di rinnovarsi e di evolversi. Dopo il capostipite topless, gentilmente “prestatoci” negli anni Sessanta, quando ben pochi comprendevano il suo significato di “senza la parte sopra” e lo ripetevano come il nome proprio di un costume o della pratica di stare a seno nudo, sono arrivati il genderless, gli homeless (i senzatetto erano detti un tempo barboni, ma questa parola è politicamente scorretta, mica come l’inglese che è inclusivo), il ticketless, le automobili keyless senza l’inserimento della chiave, il telefono cordless e il wireless (letteralmente la tecnologia “senza fili” brevettata da Marconi), e oggi less (come free) è diventato un suffissoide da applicare alle radici inglesi seguendo le regole dell’inglese. E così c’è chi disserta sulla sottile differenza tra childless e childfree per distinguere chi non può avere figli da chi non li vuole, mentre nel settore dell’automobile (cioè l’automotive) ci sono gli pneumatici tubeless (senza camera d’aria), i veicoli senza guidatore denominati driverless e via dicendo.

Quando la frequenza dell’inglese è di questo tipo, e quando le radici inglesi si ricombinano con altre parole inglesi e italiane in ibridazioni o variazioni morfologiche, non siamo più in presenza di qualche “prestito” come avviene nel caso degli altri esostismi, ma di un fenomeno di ben altra portata che si chiama anglicizzazione.

Esempio numero 3

Su un sito di scommesse, cioè di betting, per essere moderni, mi hanno segnalato un articolo intitolato: “Sisal Wincity Diaz, il primo punto di vendita Sisal eco-friendly, aderisce al progetto ‘No Plastic More Fun” in collaborazione con Worldrise Onlus‘.”

Tra le perle evidenziate ci sono frasi come “Il Canvass Meeting Retail 2023 si è reso totalmente Carbon Neutral”.

Chi non comprende la differenza tra Carbon Neutral e Carbon Free può cercare in Rete (o se preferite googlare) l’espressione, per raggiungere fondamentali spiegazioni in “italiano” come: “Carbon net zero vs carbon neutral”, un articolo in cui si legge che il net zerosi applica all’intera organizzazione e alla sua value chain, per ridurre le emissioni indirette di carbonio dai fornitori a monte (upstream suppliers) fino agli utenti finali” ma per capire cosa si intende per climate neutrality “bisogna spostarsi in ambito imprenditoriale, dove un’azienda opera una riduzione e un offsetting di tutte le emissioni di gas a effetto serra (GHG) generate durante l’anno”.

Ma tornando al pezzo di partenza è tutto un pullulare di espressioni come: “L’Azienda sta lavorando a un nuovo concept store altamente sostenibile”; “newgioco.it, ora molto più user-friendly dopo il totale restyling”; “un prize money totale di 120 mila euro”; “Federico Chingotto e Miguel ‘Mike’ Yanguas … guidano l’entry list maschile; Maria Virginia Riera (…) sono invece le prime teste di serie del main draw femminile”…

Questi strani “prestiti” non sono più singole parole, ma “prestiti sintattici” (come qualcun li ha chiamati), cioè pezzi di inglese più complessi di quelli lessicali-terminologici, che riguardano il trapianto di porzioni di frasi che si trascinano l’inversione sintattica del costrutto originale. Allo stesso tempo, le ibridazioni come newgioco si inseriscono in una tendenza denominare in inglese ogni prodotto o funzione in una gerarchia delle parole che vede l’inglese al vertice della concettualizzazione che sostituisce quella italiana: “SNAIFUN, l’app Snaitech che premia la cultura e la passione sportiva con news, quiz e pronostici, diventa Premium Partner di AC Milan”; “Il Futuro del Gaming e degli Esports in Italia: l’Osservatorio Italiano Esports presenta in Parlamento il Primo White Paper sul settore” (da notare l’uso delle maiuscole un po’ all’inglese e un po’ alla cazzo).

Per chiamare le cose con il loro nome, questi esempi di comunicazione ibrida sono il segnale di una creolizzazione che travalica completamente l’approccio basato sul “prestito” teorizzato in certi manuali di linguistica. Non si ricorre all’inglese perché “ci manca la parola” (i cosiddetti “prestiti di necessità”) né perché qualche anglicismo si ricava una sua valenza più prestigiosa dei corrispettivi italiani (i cosiddetti “prestiti di lusso”). La frequenza e la pervasività dell’inglese è una scelta stilistica e una “newlingua” ibrida volutamente ricercata e ostentata. È una sorta di registro linguistico o di gergo che sta prendendo piede in sempre più ambiti (informatica, lavoro, economia, sport, moda, cucina…) e che sta raggiungendo il linguaggio comune, dei giornali, della politica, della cultura…

Esempio numero 4

L’ultima frontiera di questi “prestiti” si può rintracciare nella recente scelta di rinominare i porti pugliesi con la dicitura Port of Manfredonia, Port of Monopoli, Port of Barletta… per opera dell’“Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Meridionale” il cui presidente è il professore universitario Ugo Patroni Griffi (come mi ha segnalato Domenico).

Mentre nelle regioni autonome in cui si parla per esempio il tedesco la segnaletica prevede le scritte bilingui, in Puglia l’italiano è stato semplicemente buttato via, e c’è solo l’inglese.

Se questi sono prestiti… forse anche le politiche di certi atenei come il Politecnico di Milano di insegnare in inglese invece che in italiano si potrebbero leggere come una forma di prestito linguistico “totale”?

Un “alert” per la lingua italiana (anatomia dell’imposizione di un “prestito”)

di Antonio Zoppetti

Il nuovo “sistema di allarme pubblico per l’informazione della popolazione” che ci avvisa tramite un messaggino delle emergenze legate alla protezione civile ha un nome in inglese (che novità!): IT-Alert.

Questa scelta si inserisce in una prassi che da tempo non solo vuol fare dell’inglese la lingua dell’apparato burocratico-amministrativo dell’Europa, ma lo vuole imporre anche ai cittadini dell’Ue, benché sia una direzione illegittima (non esiste alcuna carta che ufficializzi l’inglese) che calpesta i principi dell’Unione fondati sul plurilinguismo.

Da quello che ho potuto ricostruire (se non vado errando), la differenza rispetto ai messaggi di prova già avviati in Francia e in Spagna è che da noi l’allarme è diramato non solo nell’idioma nazionale, ma anche in inglese, con la stessa logica del bilinguismo a base inglese utilizzato per esempio nella comunicazione delle stazioni e dei treni. Il plurilinguismo di una volta che presupponeva una comunicazione in italiano, francese, tedesco e inglese è stato cancellato, e la nuova strategia presuppone che tutti i turisti debbano sapere l’inglese. È la stessa logica con cui si concepiscono – tra le polemiche (almeno all’estero) – in modo bilingue i documenti come la carta d’identità, la patente o la certificazione verde dei vaccini contro il virus a corona. Applicare gli stessi principi anche agli allarmi pubblici non è però solo discriminatorio sul piano etico, è anche pericoloso su quello pratico. Di fatto l’inglese è conosciuto dal 20% dell’umanità, e non è detto che sia recepito da tutti. E chi non sa l’inglese o l’italiano? Peggio per lui, evidentemente può anche crepare. Eppure aggiungere una traduzione anche in altri idiomi non rappresenterebbe di certo un costo significativo. Ma questa logica che vale per le istruzioni di tutti i manuali degli elettrodomestici non vale per le emergenze nazionali.

Passando alla comunicazione in italiano, la scelta di usare la parola “test” invece di un più immediato e popolare “prova” (come in Spagna) la dice lunga su come le istituzioni abbiano a cuore la nostra lingua.
Certo, anche se qualcuno al microfono esordisce ancora con “tza tza prova” invece di un ben più moderno e internazionale “tza tza test”, quest’ultimo anglicismo è ben radicato, e non pone problemi di comprensibilità. Ma da quando, invece, un allarme è diventato un alert?

Mentre i linguaioli sono imprigionati nelle categorie dei prestiti di lusso e di necessità che vivono solo nella loro scatola cranica, la ricostruzione storica dell’allargarsi di alert aiuta un po’ meglio a comprendere come stanno le cose.

All’erta siam anglicisti!

L’etimo di allerta deriva dalla locuzione all’erta del gergo militare, che ha a che fare con una salita (erta) per scalare un luogo elevato da cui è possibile controllare un territorio (“All’erta!” “Allerta sto!”). È lo stesso meccanismo che ha generato allarme, letteralmente all’arme, cioè una chiamata a impugnare le armi perché arriva il nemico. Per tutto il Novecento i “red alert” che vedevamo lampeggiare nei film sono sempre strati tradotti con “allarme rosso” e a nessuno sarebbe venuto in mente di parlare di alert invece che di allarme. Nel nuovo millennio l’anglicismo ha invece cominciato a imporsi e a guadagnare terreno.

Più che un “prestito” per nostra volontà, questo bellissimo “dono” è il risultato dell’esportazione della lingua dei Paesi dominanti ai popoli inferiori, e per comprenderne i meccanismi di propagazione si può incrociare l’aumento delle occorrenze rilevato dall’archivio di Google libri con quello che si registra nell’archivio del Corriere.it. Come si vede in figura, dal 2000 al 2010 le occorrenze sono passate da una all’anno alla decina, per salire nell’ordine delle decine negli anni Venti e apprestarsi forse a raggiungere le centinaia nel prossimo decennio.

Entrando nelle notizie e analizzando i contesti di utilizzo, il percorso è chiaro, e si possono delineare tre fasi.

FASE UNO
All’inizio alert faceva parte di citazioni virgolettate dall’inglese, di articoli in inglese o di denominazioni di sistemi inglesi. Il primo a usare questa parola è stato Beppe Severgnini nella sua rubrica “Italians” e fino al 2003 la parola si trovava solo nei suoi pezzi. Quello stesso anno, tuttavia, arrivò Google a imporre la lingua d’oltreoceano a tutti, grazie al servizio “Google Alert” che permetteva di abbonarsi e ricevere automaticamente sulla casella di posta le notifiche per determinate parole chiave. Nello stesso periodo anche tutti gli altri sistemi informatici hanno contribuito a “prestarci” gentilmente la stessa parola, insieme a centinaia di altre non tradotte come download, spam, email, file, time-line… perché le multinazionali d’oltreoceano tendono a colonizzare i mercati conquistati, più che a rispettarne le peculiarità (a meno che ciò non comporti qualche penalizzazione sul mercato, e allora traducono). Dunque, le occorrenze sul Corriere di volta in volta riguardavano contesti come: “Da un po’ di settimane ho cominciato a ricevere degli «urgent fraud alert notice» alla mia casella di posta elettronica” (2005); “I continui messaggi di alert dei social-network («Sei stato invitato a…» (2009); “Vine, il social network delle emergenze (…) É anche possibile impostare Vine in modo che gli alert vengano trasmessi sul proprio telefono cellulare” (2009). Accanto a questi usi informatici, continuavano a circolare anche gli usi dovuti al riferire di cose americane senza tradurle (“A rivelarlo è la Fox news, all’indomani del travel alert lanciato dagli Stati Uniti per i cittadini americani che viaggiano in Europa”, 2010), e complessivamente la parola ci arrivata da queste pressioni esterne.

FASE DUE
Dalle citazioni e dall’esportazione dell’inglese informatico, il passo successivo è stato l’emulazione da parte dei sistemi informatizzati della colonia Italia, che hanno cominciato a usare “alert” al posto di avviso (ma circola anche warning) o di allarme anche per la realtà nostrana: “Parte oggi il servizio «Sms Alert» e viene sperimentato da 500 passeggeri Atm” (2008); “Il nuovo sistema di allerta in caso di emergenze del Comune di Firenze. `Alert system Firenze´, questo il nome dell’applicazione…” (2014). È chiaro che se i sistemi informatici americani dicono alert, anche noi figli di Nando Mericoni dobbiamo adeguarci.

In questo modo alert in un primo tempo è penetrato nell’italiano ricavandosi un suo significato peculiare di tecnicismo (che non esiste in inglese) come un allarme/avvertimento automatizzato. E i giornalisti hanno cominciato a usare l’anglicismo in questi contesti, per la gioia del “non-è-proprista” che davanti all’obiezione per cui il “prestito di lusso” era del tutto fuori luogo avrebbe potuto rispondere con la solita tiritera: “Alert non è proprio come allarme, che ha una valenza più generica, si riferisce agli avvisi informatizzati…” e altre simili idiozie.

FASE TRE
Intanto l’anglicismo veniva importato sostituendo l’italiano anche in altri contesti e con ben altre valenze, tutte figlie dell’americanizzazione della cultura, per cui in un pezzo del 31 luglio 2012 si poteva leggere che le aragoste sono in grado di comunicare tra loro per esempio mettendosi in “stato di alert (animale sta dritto sulle zampe posteriori)”. In men che non si dica, da tecnicismo informatico alert ha cominciato a essere usato sul Corriere anche in senso lato al posto di allarme entrando nel linguaggio comune a partire dal 2015. E così, nel 2017, la parola è passata dai giornali ai vocabolari ed è stata aggiunta tra i lemmi dello Zingarelli. Mentre l’anglicizzazione permeava già la maggior parte dei neologismi, il 27 novembre 2018, tra i tanti esempi che si possono fare, si poteva leggere che le domande di aiuto psicologico degli studenti sono “un alert impossibile da non considerare che spinge l’Ateneo, ma anche l’intera città universitaria, a riflettere sul suo futuro.” In questo aumento delle frequenze e in questo allargamento di significato, in epoca di covid la moltiplicazione degli alert informatico-sanitari è cresciuta, e oggi siamo arrivati all’istituzionalizzazione di IT-Alert.

A questo punto è chiaro che alert è stato esportato in tutto il mondo globalizzato, e noi semmai, da veri colonizzati, alla fine lo abbiamo accettato senza remore ed emulato. Un’analisi delle occorrenze della parola in italiano (azzurro), francese (rosso) e spagnolo (verde) mostra bene che l’espansione delle multinazionali ha un impatto mondiale, anche se le occorrenze altrove sono più basse, oppure dopo un primo picco si sono poi abbassate, come in Francia (un Paese retrogrado che difende la propria lingua), mentre da noi continuano a salire.

Scenari futuri

Ho letto su un sito di collaborazionisti dell’inglese una piccata lamentela sul fatto che la parola è pronunciata “erroneamente” come “àlert” mentre bisognerebbe dire “alèrt” come in inglese. E questo è davvero inaccettabile per chi considera l’itanglese non come una creolizzazione della nostra lingua e cultura ma come un uso improprio della lingua sacra.

Il punto è che simili anglicismi che ci arrivano per via scritta non si amalgamano con il nostro sistema fonologico, e visto che la conoscenza dell’inglese è bassa, ecco che la pronuncia diventa problematica. Le nostre parole tendono a terminare in vocale e non in consonante, e l’accento si ritrae istintivamente, per cui alert segue il modello di Alberto-Albert e di pronunce per analogia basate su parole come transfert, contest, water, poster, escort… Ecco spiegata l’anticipazione non ortodossa, che si ritrova per esempio anche in “rèport” invece di “ripòrt” o “Nòbel” invece di “Nobèl” (per passare allo svedese). È probabile che nei prossimi anni gli anglopuristi avranno la meglio su queste pronunce da ignoranti che storpiano la purezza della lingua delle multinazionali e forse in futuro queste “italianate” cesseranno come è già successo a chewingum, puzzle, jumbo, cult… che solo in tempi recenti sono state finalmente anglicizzate anche nella dizione, come sta accadendo per i latinismi junior, plus, media

Quanto al lessico, forse verrà un giorno in cui ritorneremo a dire allarme invece di alert – come profetizza qualcuno sulla base del nulla – ma tutto lascia presagire che l’anglicismo sia destinato a radicarsi e a diffondersi, anche se la speranza è che non si trasformi in un prestito sterminatore, come nel caso del computer che ha scalzato e soppiantato il calcolatore.

Poiché questi trapianti non sono isolati, probabilmente alert si comporterà come moltissime altre parole inglesi, che una volta intrufolate mettono radici e fanno famiglia. Si possono prevedere future locuzioni in cui si ricombinerà forse con altre radici inglesi (es. alert system invece di sistema d’allarme, con inversione sintattica) o darà vita a parole macedonia mescolate all’italiano.

Soprattutto, se questo anglicismo continuerà a penetrare nel linguaggio comune e ad allargarsi, si prevedono forti cambiamenti morfologici come per moltissime altre parole inglesi. Per esempio, come chiamare un servizio di allarme se non alerting? Tra i neologismi della Treccani questa parola è già stata avvistata e registrata: “Non convincono invece i servizi di simulazione di finanziamento (…) e i servizi di alerting (www.ilsole24ore.com 04/09/2004)”.

Ma allora come chiamare, che ne so, un dispositivo di allarme o un addetto a questo tipo di servizio se non “alerter”? Anche questi precedenti si intravedono in denominazioni come il “segnalatore acustico SIP Audio Alerter 8186”.

Non vorrei passare per un fake-alerter, ma il mio timore è che presto l’allarmismo della storiella di chi grida a vanvera “al lupo! Al lupo!” potrebbe anche trasformarsi nell’over-alerting di Pierino e il coyote (se non direttamente Little Peter & the Wolf). Potrei sbagliarmi, certo (e lo spero), ma tutto ciò lo abbiamo già visto e lo stiamo vedendo con i corridori che diventano runner, con i negozi che diventano shop tra lo shopping e gli shopper, con i blog, i blogger e il blogging, mentre il cucinare è cooking, la coabitazione cohousing, e chi più ne ha più ne metting!

Gli intellettuali e la riorganizzazione della cultura e della lingua

di Antonio Zoppetti

Voglio condividere una lettera che ho ricevuto qualche giorno fa:

Questa mattina, in una traversa di via Padova [a Milano], ho incrociato il furgoncino che vedi nell’immagine e non ho potuto fare a meno di domandarmi perché mai una piccola ditta di Brugherio (!) debba avere una sotto-denominazione in inglese.
Qualche mese fa mi trovavo a passeggiare dalle parti di via Agnello/via Hoepli e, appeso a uno stabile, c’era un indecifrabile cartello in inglese, lingua che mastico a un discreto livello, ma in quel caso non capivo proprio: “REAL ESTATE”. Immagino che il cartello proponesse la vendita dello stabile decisamente dismesso e che fosse rivolto a investitori stranieri. La sensazione di essere in una città sempre più estranea e aliena mi è rimasta impressa a distanza di tempo.

Tutto questo per dire che non si tratta dei giornali, che peraltro vengono letti da pochissimi, ma ormai l’uso smodato dell’inglese è ovunque.

Un caro saluto

Elisabetta.

Nell’ultimo articolo avevo pubblicato la foto dell’Italian Bakery che hanno aperto sotto casa mia proprio di fianco a un Italian Hair Line. E la sensazione di vivere in un Paese occupato è molto forte in una città come Milano. Cosa spinge a queste denominazioni? L’italian bakery è forse una catena (ma oggi si dice franchising) che punta a diffondere i prodotti da forno americani, invece che nostrani (non lo scoprirò mai perché non ci metterò mai piede), mentre l’Hair line si inserisce in una tendenza già consolidata nell’uccisione di parrucchieri e barbieri che oggi si sentono (e si presentano come) hair stylist. Come nel caso del disinfestatore di provincia che si definisce attraverso il concetto di “pest control” questa comunicazione è rivolta agli italiani, e più precisamente ai figli di Nando Mericoni, il personaggio incarnato da Alberto Sordi che nel voler fare l’americano si rendeva ridicolo, mentre i suoi discendenti hanno sostituito l’ironia con una tragica serietà.

La newcultura del Real Estate

Sotto questa mentalità che considera l’inglese una lingua superiore e più evocativa o “internazionale” (ma va bene anche lo pseudoinglese, ciò che conta non è che sia inglese, ma che suoni così) c’è solo il nostro complesso di inferiorità, il nostro servilismo provinciale e la nostra neocultura coloniale (forse meglio newcultura?). Il caso di “Real Estate” è un po’ diverso, perché questa espressione è rivolta sia agli stranieri sia agli addetti ai lavori italiani, che buttano via la nostra lingua per sfoggiare l’inglese. Per comprenderlo basta leggere la definizione di Real Estate che riporta la Treccani nella sezione “Lessico del XXI secolo”:

Espressione ingl. composta dall’aggettivo real (‘immobiliare’) e dal sostantivo estate (‘proprietà, patrimonio’), con cui si indica l’insieme degli operatori, dei prodotti e dei servizi riferiti al mercato immobiliare.”

Leggendo la voce si scopre che il settore del real estate (e non immobiliare) a sua volta comprende il real estate developement (che va dalla valutazione di fattibilità dell’investimento, all’individuazione dell’area edificabile, alla gestione dei rapporti con le amministrazioni pubbliche e con gli istituti di credito, fino alla costruzione dell’immobile); il real estate management riguarda invece la manutenzione ordinaria o straordinaria del bene, detta building management, che si distingue dal facility management che comprende la gestione dei servizi di pulizia, portineria, sicurezza interna, e in generale dei servizi funzionali alle esigenze degli utenti dell’immobile; la riscossione degli affitti e la contabilità per conto della proprietà si chiama property management, mentre la gestione del patrimonio immobiliare si chiama asset management.

Se questo è il lessico del XXI secolo si vede bene che siamo fritti. Questo modello di cultura coloniale si limita a ripetere la concettualizzazione d’oltreoceano, con parole in inglese che vengono soltanto spiegate in italiano, per il popolino, abbandonando la nostra lingua madre e riscrivendo tutto con le categorie a stelle e strisce.

La riorganizzazione della cultura

Perché siamo finiti in questa spirale?

Per comprenderlo è bene buttare via gli attuali approcci dei linguisti, che con i loro “prestiti di lusso e necessità” sono ogni giorno più ridicoli, e studiare qualcosa di meno superficiale e di più ampio, per esempio le analisi di Gramsci che, come è noto, vedeva nell’emergere della “quistione della lingua” il riflesso di qualcosa di più profondo, e cioè un ricambio – di solito conflittuale – della classe dirigente. Un ricambio prima di tutto sociale e culturale, che si porta con sé anche la lingua.

In una raccolta di pensieri (tratti dai Quaderni del carcere) intitolata Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (Einaudi 1949), l’autore mostrava che ogni nuovo gruppo sociale emergente si crea i propri ceti intellettuali “specializzati” che li legittimano, per cui ogni imprenditore si circonda di tecnici o scienziati portatori di una nuova cultura o di un nuovo diritto. Naturalmente la definizione degli “intellettuali” non ha a che fare con il pensare – tutti gli uomini pensano – ma con la loro funzione sociale. Dunque la creazione di un nuovo ceto intellettuale ha bisogno di giornalisti, filosofi, artisti e tecnici che danno vita a categorie specializzate che sono però connesse non solo con i gruppi sociali dominanti, ma con tutti i gruppi sociali, anche quelli più popolari. La lingua italiana, insomma, non nasce dal basso – Gramsci considerava questa affermazione un “errore madornale, per superficialità” – ma si delinea solo perché esiste un modello incarnato da una classe dirigente che viene seguito e imitato. Il volgare di Dante irrompe, non a caso, quando si afferma l’epoca dei comuni che si impone sul latino medievale dove i vecchi intellettuali erano i chierici, mentre, secoli dopo, dietro la polemica tra classicisti e romantici o tra manzoniani e antimanzionani c’erano in gioco analoghe affermazioni – e battaglie – per la conquista dell’egemonia sociale, culturale e dunque linguistica.

L’inglese e la nuova questione della lingua

Oggi la nuova questione della lingua riguarda il rapporto con l’inglese. Da una parte c’è il progetto di fare dell’inglese la lingua internazionale, un progetto classista ed elitario che spaccia questa lingua come di “tutti”, mentre è soltanto la lingua dei Paesi dominanti, incomprensibile per l’80% dell’umanità, e praticata semmai dai ceti intellettuali più colti che la vorrebbero ufficializzare e imporre come la lingua dell’Europa (lo hanno già fatto in ambito militare), delle relazioni di lavoro, degli studi scientifici, e persino dell’insegnamento universitario in inglese, invece che nelle lingue nazionali. Dall’altra parte, questa “dittatura dell’inglese” calata dall’alto – e perseguita dai programmi scolastici che hanno reso l’inglese obbligatorio per tutti e che puntano a creare generazioni bilingui a base inglese ovunque – produce come effetto collaterale lo “tsunami anglicus” che anglicizza le lingue di tutto il globo, e in particolare l’italiano, al primo posto in questa sorta di creolizzazione. Se negli anni Sessanta Pasolini si era accorto che il nuovo italiano era tecnologico e che arrivava dai centri industriali del Nord, e non più dalla tradizione letteraria toscana, anche Gramsci si era accorto che la cultura tecnico-scientifica stava prendendo il sopravvento su quella umanistica, e che l’interesse per la scienza era tale che i giovani delle classi colte e aristocratiche consideravano gli studi classici sempre più come un inutile perditempo. Questa nuova cultura arrivava soprattutto dagli Usa, e “minacciava” la cultura Europea e dello stesso Regno Unito.

Da allora tutto si è enormemente amplificato. I centri industriali del Nord oggi parlano in itanglese e diffondono una lingua industriale che non è più fatta dai nativi italiani, ma importata direttamente degli Stati Uniti. La cultura d’oltreoceano è diventata il nuovo modello che viene preso come punto di riferimento persino nelle nuove realtà scolastiche, in un abbandono della nostra cultura, dei nostri approcci storico-critici tradizionali, in nome del pragmatismo spicciolo del problem solving. Mentre lo storytelling ha preso il posto della retorica, oggi i tecnici hanno preso il sopravvento sulla cultura umanistica, ma la tecnica arriva dagli Usa e si porta con sé non solo la lingua di provenienza, ma anche la riconcettualizzazione del mondo attraverso le categorie del modo di pensare (prima che di parlare) americano. L’esercito degli intellettuali che diffondono l’itanglese e l’inglese per conquistare anche gli intellettuali tradizionali – come direbbe Gramsci – è imponente e si sta affermando in modo incontrastato. In prima fila ci sono i giornalisti e i mezzi di informazione, che un tempo hanno unificato l’italiano e oggi impongono l’itanglese a cui ci educano. Lo stesso schema è seguito da tutti gli altri intellettuali specializzati, dagli scienziati ai tecnici, dagli economisti ai politici, dai formatori sino agli “influencer”, che con gli intellettuali hanno poco o niente in comune, ma che con la loro visibilità sono comunque in grado di influenzare e orientare anche la lingua. Le parole e le categorie d’oltreoceano invadono ogni aspetto della nostra società, trainate dall’espansione delle multinazionali, dalla lingua del lavoro, dalla comunicazione pubblicitaria, dal marketing, dal cinema, dalla televisione e da ogni altro aspetto della nuova cultura americanizzata.

E così l’itanglese è divenuto il nuovo modello di tutti i nuovi intellettuali, specializzati e generalisti, e questo modello dai centri di irradiazione della lingua si espande sino al disinfestatore di Brugherio o al parrucchiere del centro o della periferia. Alla faccia dei linguisti che ci dicono che va tutto bene, o che è normale che le lingue si evolvano, senza rendersi conto che l’attuale “evoluzione” sta portando all’abbandono e alla morte dell’italiano, e non al suo rinnovamento. Ma anche la morte in fondo è un fenomeno “normale”.

L’inglese che spazzola l’italiano

di Antonio Zoppetti

Nell’ultimo articolo, con l’esempio del “phubbing”, ho mostrato come i giornali educhino all’inglese con modalità ben collaudate. Sul Corriere di oggi è la volta del “brushing”, con cui si dà un colpo di spazzola all’italiano per introdurre il corrispondente in lingua inglese.

Nella categoria “e-commerce” – visto che commercio elettronico è lungo, obsoleto e soprattutto una patetica espressione italiana – si riferisce della “truffa del ‘brushing’ che può svuotarvi il conto corrente”. Leggendo l’articolo arriva la definizione: “La truffa è nota come «brushing», che in inglese richiama appunto la spazzolatura. Di cosa? Del conto corrente. (…) Così la vittima cade nella rete e il suo conto viene «brushato», spazzolato, svuotato.”

Il giornalista, nello spiegare il significato di “brushing” ricorre alla parola “spazzolatura” – che ha un significato tecnico nella produzione tessile e tra i parrucchieri – e non a “spazzata” che si usa in italiano in senso generico. E non contento dell’anglicismo, per completare la distruzione del nostro lessico aggiunge anche la sua ibridazione con l’italiano (“brushato”).

Analizziamo le motivazioni che portano a queste scelte, e chiariamo perché il problema non sono i singoli anglicismi, ma appunto la mentalità coloniale che porta a preferirli e a farne dei tecnicismi “di necessità”, per citare le categorie coloniali utilizzate da certi linguisti.

Spazzolare, in senso lato, in italiano indica il far piazza pulita, lo svuotare. Si può spazzolare per esempio un piatto di spaghetti – cioè divorarli con voracità – mentre spazzolata, da vocabolario, può riferirsi anche a un prelievo fiscale vessatorio. Analogamente, spazzare significa anche rubare, razziare denaro o beni preziosi, svaligiare una casa o un magazzino svuotandoli. E allora la parola italiana che si può usare al posto dell’inglese è semplicemente spazzata o spazzolata, invece che spazzolatura, ma guai a parlare di truffa della spazzolata! Bisogna seguire l’inglese, la lingua dei padroni, la lingua modello dei pappagalli italiani che ripetono come talebani il sacro idioma superiore. La grammatica inconscia è sempre la stessa: i tecnicismi informatici si devono dire in inglese, e così il calcolatore è stato buttato via in nome del computer, e il mouse non l’abbiano nemmeno tradotto. La terminologia informatica “italiana” segue queste regole e questa logica. Anche quando gli anglicismi non sono tecnicismi, ma metafore: spazzolata/messa in piega, topo, scarico (dei dati), influenti, piattaforme sociali… diventano termini monosignificato di ambito informatico: brushing, mouse, download, influencer, social… che si ricavano una loro nicchia che fa piazza pulita del lessico italiano. La giustificazione teorica di queste scelte linguiciste spacciate come necessarie (anche questa è la truffa delle spazzolate che svuotano il nostro lessico) è sempre la solita, e intrisa di ipocrisia: si dice così, è in uso, in inglese si chiama brushing

Si dice così? E chi lo dice?
– È un tecnicismo… è in uso…

È in uso? L’uso di chi? Di chi non sa fa altro che ripetere e introdurre l’inglese? Se fosse in uso non sarebbe necessario né virgolettarlo né spiegarlo. Non è affatto nell’uso comune, siete voi che lo state facendo entrare nell’uso con queste tecniche di comunicazione coloniale.
In inglese si dice così. In italiano non c’è un equivalente. Punto.

Il problema di come si può rendere in italiano, nemmeno si pone. E se qualcuno lo pone, la risposta è la medesima: l’equivalente italiano “non è proprio come….”.

In questo decervellamento culturale, e in questo stillicidio lessicale, il risultato è che l’italiano diventa itanglese. La ragione sta in parte nell’anglomania e in parte nel non conoscere la nostra lingua, per cui molti anglicismi avrebbero degli equivalenti, ma i palanti e gli scriventi sembrano non conoscerli o non volerli utilizzare.

E così ognuno introduce e diffonde i propri anglicismi insostituibili in ogni ambito: in politica la Meloni si definisce underdog, e Salvini vuole la flat tax; in economia si parla di spread e di joint venture; sul lavoro è tutto un pullulare di cariche in inglese, dai vertici che sono manager fino alle mansioni meno blasonate di dog sitter e rider, mentre oltre alle cariche si anglicizzano anche i processi produttivi, dall’outsourcing al branding, e le nuove scuole-aziende formano nella newlingua le nuove generazioni con i loro master.


Intanto i negozi diventano store, shop, outlet e sotto casa mi hanno appena aperto un “forno italiano” denominato italian bakery proprio accanto all’italian hair line… perché anche i panettieri, insieme ai parrucchieri e barbieri, ce la mettono tutta per dare una spazzolata all’italiano che sostituiscono con le americanate.

Ormai viviamo in un Paese culturalmente e linguisticamente occupato. L’itanglese è divenuto la nuova lingua dei giornali (nell’immagine seguente lo speciale cinema di Venezia) e dei nuovi centri di irradiazione della lingua.

I collaborazionisti della dittatura dell’inglese

Di Antonio Zoppetti

Lo scorso 30 agosto, la vicepresidente della Spagna e ministra del Lavoro Yolanda Díaz era impegnata in una conferenza stampa che si teneva a Madrid, nel suo Paese, quand’ecco che all’improvviso una giornalista straniera (presumibilmente anglofona) ha pensato bene di rivolgerle una domanda in inglese, e nella sua grande benevolenza, ha aggiunto che però avrebbe potuto rispondere in inglese ma anche in spagnolo: “Pero usted puede responder en inglés o en español.”

La politica non ha compreso la domanda, si è guardata attorno spaesata alla ricerca di un traduttore, fino a che qualcuno in sala le ha riassunto sommariamente la questione, e la donna ha così potuto rispondere nella propria lingua.

Il video è stato ripreso dalla tv del Corriere con un taglio volto a ridicolizzare la Díaz e a presentare l’episodio come qualcosa di estremamente imbarazzante: “La vicepresidente della Spagna sembra non capire nulla quando le viene posta una domanda in inglese. L’imbarazzo durante una conferenza stampa tenutasi lunedì a Madrid.”

I giornali hanno sguazzato nella vicenda, ponendo l’accento sul fatto che la ministra sarebbe rea di non conoscere la lingua di serie A che si vuole istituzionalizzare come la lingua dell’Europa e del mondo intero. Ed è rispuntata la solita tiritera che solleva una questione spinosa: “oggi come oggi” può un politico non sapere l’inglese? La risposta sottintesa – che serve a imporre le nuove regole – è “no”. Non sapere l’inglese è una vergogna ed è inaccettabile.

Questo tipo di informazione, più che raccontare la realtà la vuole ricostruire imponendo la propria visione neocolonialista e discriminatoria nei confronti delle altre lingue. La posta in gioco è quella di proclamare l’inglese non una lingua come le altre, ma farlo diventare un requisito culturale e un’abilità di base per tutti. Peccato che questo progetto imperialista e linguicista non ci convenga affatto.


Analizziamo i fatti da un’altra prospettiva.

Il problema è non sapere l’inglese o imporlo a tutti come il requisito della nuova cultura globale?

La politica spagnola è in buona compagnia, visto che tra gli 8 miliardi di abitanti del pianeta l’80% non conosce l’inglese, che non è la lingua “internazionale” come si vuole fare credere, ma la lingua madre dei Paesi dominanti che stanno cercando di imporre al resto dell’umanità. La politica spagnola è in buona compagnia anche tra i suoi colleghi spagnoli, italiani o francesi: solo una minoranza dei politici conosce l’inglese, il che è lo specchio di quanto avviene tra le gente dove l’inglese è padroneggiato da una piccola minoranza della popolazione. Ma, soprattutto, la politica spagnola era nella sua terra, parlava la sua lingua – che oltre a essere diffusa in tutto il mondo conta un numero di madrelingua ben superiore a quello degli anglofoni – e si rivolgeva agli spagnoli.

Ribaltiamo la questione. Come è possibile che un’inviata in Spagna non conosca lo spagnolo e si permetta di porre una domanda in inglese? Come reagirebbe un politico inglese, che mediamente se ne guarda bene dallo studiare altre lingue oltre alla propria, se durante una conferenza stampa gli ponessero una domanda in francese, spagnolo o italiano pretendendo di essere compresi? Con quale arroganza ci si permette di andare a casa altrui e dare per scontato che sia lecito imporre la propria lingua, invece di rispettare quella dei padroni di casa?

I giornalisti del Corriere non si pongono queste domande, perché come l’intera nostra classe dirigente sono colonizzati nella mente, e lavorano a favore dell’inglese, sia sul piano internazionale sia su quello interno, visto che non sanno fare altro che introdurre anglicismi per educare tutti alla newlingua ibrida che stanno imponendo con il loro modo di comunicare. Una lingua che si trascina con sé il proprio modo di pensare, concettualizzare ed esportare la propria visione. In gioco c’è proprio il disegno di rendere universale ciò che invece appartiene alla cultura anglofona, e per realizzare tutto ciò si confondono le acque e si tenta di sostituire la parola “internazionale” con “inglese”, come ha notato la giornalista Barbara Serra ricordando che le fonti giornalistiche americane non sono affatto internazionali, ma anglofone, una distinzione fondamentale ma che in Italia in pochi sembrano cogliere.

Il phubbing

Ecco un articolo del Corriere tra centinaia che seguono tutti lo stesso schema – che promuove e importa l’ennesimo anglicismo figlio della rimappatura concettuale con cui si anglicizza ogni cosa spacciandola per internazionale: il phubbing.

Il termine deriva dalla combinazione delle parole “phone” (telefono) e “snubbing” (snobbare), ma in modo ponderato il titolo acchiappone si guarda bene dallo spiegarlo, perché lo si vuole introdurre facendo sentire il lettore ignorante: solo leggendo l’articolo si scoprirà che indica l’atteggiamento “telefoninocentrico” di chi continua a “pistolare” sul cellulare in modo maleducato trascurando l’interlocutore che ha davanti.

Tutto ciò, naturalmente, si esprime in inglese, e visto che si tratta di un neologismo a nessuno viene in mente di tradurlo, adattarlo o inventare una nuova parola nostra. I nuovi centri di irradiazione della lingua stanno imponendo una terminologia che non è più fatta dai nativi italiani. Nell’italietta colonizzata si ripete a pappagallo la lingua dominante, che qualche arguto linguista forse presto inserirà nelle proprie bislacche categorie dei “prestiti di necessità”, anche se è una parola di cui non si sente il bisogno. Ma crearne il bisogno fa proprio parte del progetto “itanglese”.

Pensiamo a Fantozzi che guarda la partita in tv ignorando moglie e figlia che gli si piazzano davanti. Pensiamo a uno studente distratto che invece di ascoltare la lezione parla con il compagno di banco oppure fissa il vuoto assorto nei suo pensieri. Pensiamo a un adolescente brufoloso che invece di partecipare a una conversazione si isola ascoltando la sua musica in cuffia. Pensiamo a una canzone degli anni Venti del secolo scorso in cui, con le lacrime agli occhi, la bambina mormora che la mamma non le compera mai i balocchi perché presa solo dai profumi per lei. Esistono delle parole per descrivere questo genere di “snobbamenti” egocentristici o screanzati? No. Perché non avrebbero alcun senso, e non rispondono a una necessità che invece si vuole creare introducendo un anglicismo per descrivere questo stesso atteggiamento nel caso sia il cellulare, anzi lo smartphone, l’elemento di disturbo.

L’inglese: un obbligo per i cittadini ma non per i politici

Intanto, venendo a quanto accade in Italia, la politica si è schierata dalla parte dell’inglese: lo ha reso obbligatorio nella scuola – invece che essere una scelta – e soprattutto lo ha fatto diventare un requisito per essere assunti nella pubblica amministrazione o per presentare i progetti di ricerca. Ma questa imposizione dell’inglese che discrimina le altre lingue, e a maggior ragione i cittadini che le conoscono, non è un requisito anche per i politici, che ne sono esentati, e in molti casi faticano persino a esprimersi in italiano e a maneggiare il congiuntivo.

In questo modo la nostra lingua si anglicizza e l’inglese internazionale guadagna terreno facendo tabula rasa del plurilinguismo, che dovrebbe essere un valore e non un ostacolo alla comunicazione internazionale da svolgersi nella lingua naturale dei Paesi anglofoni.

Bisognerebbe gridare forte che la lingua dell’Europa è la traduzione, per dirla con Umberto Eco, che l’inglese non è la nostra lingua e non è una lingua superiore rispetto alle altre. Che non è un requisito per saper governare, ma neanche un requisito per sapere insegnare una qualunque materia, per lavorare nella pubblica amministrazione o per presentare il proprio progetto di ricerca. Fare della lingua inglese un requisito da imporre ai cittadini (ma non ai politici) significa discriminare le altre lingue nazionali e ridurle a dialetti di un mondo che parla e pensa in inglese. L’attuale regressione dell’italiano e la comparsa dell’itanglese dipendono da questa mentalità suicida che dovremmo combattere, invece che sposare.

Itanglese: il problema non sono i singoli anglicismi, ma l’anglomania

Mentre certi linguisti fermi a più di un secolo fa credono di poter spiegare l’attuale interferenza dell’inglese con le categorie dei “prestiti” magari di “lusso” e di “necessità”, quello che avviene nei fatti è un fenomeno di ben altra portata. Il problema non sono i singoli anglicismi, ma la loro somma e i loro effetti. Il loro numero è tale da stravolgere completamente la nostra lingua. Talvolta l’inglese è introdotto senza alternative (chat, marketing, mouse), altre volte ci sono, ma vengono abbandonate (calcolatore e computer) o regrediscono (assassino davanti a killer, pallacanestro davanti a basket). In altri casi ancora l’inglese è spacciato come più evocativo (babysitter non è proprio come bambinaia…), oppure più preciso e tecnico (brand invece di marchio, selfie invece di autoscatto).

La frequenza degli anglicismi è tale da snaturare il suono dell’italiano e di trasformarlo in una lingua ibrida, in cui cambia la morfologia delle parole che non sono più né italiane né inglesi (backuppare, scooterino, fashionista…) e in cui si intacca anche la sintassi, cioè l’ordine delle parole e la struttura della frase (inversioni sintattiche come social media manager, red carpet, smart working…). Giorno dopo giorno, le porzioni di inglese si fanno sempre più complesse e si alternano all’italiano in un mescolamento che porta a un continuo cambiamento di codice linguistico. Tutto ciò genera una neolingua, l’itanglese, che esce dalle regole della nostra grammatica e si diffonde in modo sempre più esteso e profondo.

Mi hanno segnalato una serie di articoli in Rete che ben riassumono ciò che sta succedendo in sempre più ambiti, per esempio un pezzo intitolato: “Jesolo experience, between lifestyle and fine dining” il cui catenaccio recita: “Jesolo experience, taste and more. Il piacere di viverlo, il gusto di sognarlo, il desiderio di assaporarlo attimo dopo attimo, forever magical escape, now l’incanto del luogo.

Questa è la realtà, e in questo esempio non abbiamo a che fare con dei “prestiti” ma con un fenomeno di creolizzazione che non si può più negare.

Il problema non sono i singoli anglicismi – si diceva – questi sono solo gli effetti di qualcosa di più profondo e cioè l’anglomania. Il ricorso abnorme all’inglese e allo pseudo-inglese è uno stilema ricercato e voluto. E il futuro dell’italiano nella sua transizione verso l’itanglese dipenderà da questo. Se questi modelli non verranno arginati e si diffonderanno creando precedenti il destino è segnato.

Se il problema non sono i singoli anglicismi, per arginare l’itanglese occorre agire su questa nevrosi compulsiva che porta all’abbandono dell’italiano.

Ma l’anglomania, a sua volta, da dove nasce?

È il risultato di due pressioni molto forti. Da una parte l’espansione dell’inglese internazionale, la lingua della globalizzazione che entra in conflitto con le lingue locali e che genera in ogni luogo contaminazioni denominate franglais, spanglish, Denglisch… Dall’altra parte c’è la pressione tutta interna al nostro Paese, per cui la nostra classe dirigente – malata di un complesso di inferiorità connesso a un certo servilismo – invece di praticare l’italiano punta a distinguersi con un linguaggio anglicizzato che vive come simbolo della modernità e di una nuova cultura che però è piuttosto “coloniale”.

Il libro Lo tsunami degli anglicismi riflette proprio sulle cause della nostra anglomania e prova a ricostruire la storia della nostra americanizzazione culturale, sociale, economica e – dunque – anche linguistica. Di seguito riporto un paragrafetto che ricostruisce questo fenomeno in ambito politico.

Buona lettura e buona estate.

L’americanizzazione della sinistra e del linguaggio politico

Nel 1999, proprio nella sede degli studi d’italiano dell’Università di New York,1 la giornalista Mariolina Sattanino moderò un dibattito intitolato “L’americanizzazione della politica italiana”. Il vice-segretario Ds Pietro Folena sosteneva che l’americanizzazione della politica in Italia in realtà riguardava solo un fazione politica, Forza Italia, l’azienda-partito di Silvio Berlusconi che controllava la metà dei palinsesti televisivi. A questo modello contrapponeva quello del centrosinistra profondamente differente, perché basato sulla politica fatta sul territorio, attraverso la fitta rete degli iscritti (in realtà erano sempre meno già allora), che sarebbe stato “l’unico modo per combattere il potere dei mass-media in possesso del Polo”2 Questa concezione di vecchio stampo che riproponeva gli schemi del partito comunista di una volta, quando questo modo di far politica era esteso e in qualche modo funzionava, stava per essere spazzata via dagli eventi in un passaggio dal Pci al pc (nel senso di personal computer).

L’anno seguente, Walter Veltroni, grande ammiratore del cinema e della cultura d’oltreoceano, al Lingotto di Torino celebrò il primo congresso dei Democratici di Sinistra di cui era il segretario, anzi il leader, e che aveva come motto, anzi slogan, “I care” che prima era stato di Don Milani. Sette anni dopo, nel 2007, Veltroni era di nuovo al Lingotto quando annunciò la sua candidatura alla carica di segretario del Partito Democratico in uno scenario di schermi giganti che proiettavano le immagini delle nuove icone della sinistra, che erano diventate Martin Luther King e Bob Kennedy (oltre a Gandhi). Quello fu chiamato il V-Day, cioè il Veltroni Day.3
La svolta della comunicazione del partito erede del Pci era evidente e costituiva una scelta ben ponderata, nei modi, nei simboli e nel linguaggio. Dopo l’abbandono della falce e martello e della denominazione di comunista, questa nuova immagine ricalcava volutamente i modelli americani. Il tormentone della campagna elettorale che seguì fu “Yes We Can”, che ripeteva le parole di Barack Obama in corsa per la presidenza Usa, e valse a Veltroni l’appellativo di “Obama italiano” in un’emulazione ben più profonda di quella linguistica. Due anni prima, il centro sinistra aveva introdotto le primarie, come negli Usa – anche se da noi non hanno alcun valore legale e non sono previste né regolamentate dalla legge – per lasciare da parte il vecchio concetto di “sinistra” e presentarsi più come “progressisti”, in un ricalcare quel modello che sarebbe sfociato nel 2007 nell’assumere ufficialmente il nome di Partito Democratico (come appunto negli Stati Uniti). Mentre le feste dell’unità si trasformavano in democratic party, l’apoteosi dell’americanizzazione linguistica della nuova sinistra si è raggiunta con la comunicazione politica di Matteo Renzi, fatta di slide e di road map, che ha dato il via a una sistematica introduzione di anglicismi istituzionali, di cui il più celebre è stato il jobs act (2014), un nome che il politico fiorentino dichiarò di aver copiato da Obama, come si può vedere in un video sul sito de La Repubblica il cui catenaccio recita: “Il presidente del Consiglio spiega di aver copiato l’espressione ‘jobs act’ da Barack Obama ma poi aggiunge che il presidente Usa glielo ha concesso perché quella è una frase ‘open source’.”4

Questo aneddoto per cui il nostro presidente del Consiglio, nonché segretario del Partito Democratico, chiede il permesso al presidente degli Stati Uniti di poter utilizzare un nome in inglese per battezzare la propria riforma del lavoro è l’emblema non solo di una volontà alberto-sordiana di fare gli americani, ma anche di un servilismo che sarebbe stato inconcepibile per la vecchia classe dirigente della sinistra.

Il sito istituzionale che illustrava il jobs act spiegava agli italiani di aver in quel modo inaugurato il modello della flexicurity, anche se gli incentivi alle assunzioni erano ancora “oggetto di restyling”.5

In un baleno si è cancellato mezzo secolo di dibattiti e riflessioni all’interno della sinistra, da quelli su americanismo e antiamericanismo di Gramsci alle provocazioni sugli atteggiamenti “schizofrenici” del Pci nei confronti della cultura americana. Ogni contraddizione è stata risolta sposando definitivamente il modello americano e accantonando ogni atteggiamento critico.

Il jobs act non è stata un’espressione inglese priva di conseguenze, dal punto di vista linguistico, e ha inaugurato la mania compulsiva di chiamare act non solo le leggi (come in inglese) ma anche i piani operativi come il Food Act, il piano di azione presentato a Expo 2015“per valorizzare la cucina italiana di qualità” (un ossimoro linguistico questo modo di valorizzarla in inglese), lo Student Act (le misure per i giovani inserite nella legge di Stabilità presentata da Matteo Renzi nel 2016), il Digital Act per favorire la digitalizzazione del Paese (2017), e tra Green Act (manifesto per l’ecologia) e altre variazioni sul tema, nel 2020 è arrivato anche il Family Act (Ddl “Misure per il sostegno e la valorizzazione della famiglia”). Quest’ultimo “atto” è stato però un cavallo di battaglia delle destre, e va detto che il voler imitare i modelli a stelle e strisce, dopo la svolta della sinistra, è diventato un elemento che accomuna tutti gli schieramenti, è il nuovo denominatore comune, il nuovo paradigma che nessuno sembra più mettere in discussione. Banalizzando: l’antiamericanismo si è dissolto e l’americanismo ha conquistato l’intero arco costituzionale, senza eccezioni. Il linguaggio anglicizzato è l’effetto – talvolta una scelta consapevole, talvolta spia dell’inconscio – di questo mutamento ed emerge di continuo, non solo nel ricorrere alle espressioni inglesi crude, ma anche nel vezzo sempre più diffuso di chiamare “governatori” i presidenti delle regioni, mentre il presidente del Consiglio, come è scritto nella Costituzione, diventa il premier. Dietro la preferenza di queste parole c’è un mondo, e cioè lo scenario a stelle e strisce che si vuole scimmiottare e riproporre con orgoglioso compiacimento. Il vecchio politichese, fatto di formule talvolta astruse, si è rinnovato da una parte facendosi più terra-terra – dal celodurismo della lega degli anni Novanta, alle metafore calcistiche berlusconiane – e dall’altro anglicizzandosi. (…)

Tratto da: Antonio Zoppetti, Lo tsunami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica, GoWare, Firenze 2023, pp. 88-91.


1 La Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University a Manhattan.

2 Cfr. “Berlusconi, o l’americanizzazione della politica”, Wall Street Italia, 7/11/1999 (https://www.wallstreetitalia.com/berlusconi-o-l-americanizzazione-della-politica/).

3 Successivamente il v-day è stato utilizzato anche per indicare il vaffa-day grillino da cui è nato il Movimento 5 stelle, mentre in tempi di pandemia è stato usato per il vax day, la data fatidica che permetteva di vaccinarsi contro il covid, in un contesto dove l’inglese è diventato inarginabile.

4 “Renzi alla Cnn: ‘Ho copiato Jobs Act da Obama, mi ha detto che potevo usarlo’”, video di la Repubblica, 24/4/2016 (https://video.repubblica.it/dossier/governo-renzi/renzi-alla-cnn-ho-copiato-jobs-act-da-obama-mi-ha-detto-che-potevo-usarlo/236875/236641).

5 La citazione è tratta da: http://www.jobsact.lavoro.gov.it consultato nel 2016. Oggi la pagina è stata riveduta e si parla di flessibilità.

L’itanglese è lo stilema dei nuovi centri di irradiazione della lingua

Di Antonio Zoppetti

L’italiano contemporaneo è sempre più caratterizzato dalla presenza di anglicismi. Il loro numero abnorme e la loro frequenza esagerata sono tali da determinare un fenomeno che non si può più spiegare con le bislacche categorie dei “prestiti linguistici”. Il numero degli pseudoanglicismi – vocaboli che suonano inglesi ma che in inglese non esistono o hanno altri significati – è sempre più ampio, e in questi casi a essere “presi in prestito” non sono le parole e i concetti, siamo in presenza dei trapianti di suoni o di radici inglesi che vengono poi ricombinate in modo maccheronico. In questa caotica ristrutturazione lessicale sta emergendo qualcosa che non ha precedenti nella storia dell’italiano: l’ibridazione di centinaia e centinaia di parole miste che non sono più né italiane né inglesi perché escono dalle regole dell’ortografia e della pronuncia di entrambe le lingue, come chattare o computerizzare, shampista, scooterino o leaderismo, babycalciatore, cybercriminale o over quaranta… Sono sempre più numerose anche le combinazioni di radici inglesi (e pseudoinglesi) con inversione sintattica (smart working, social media manager) che mandano in frantumi la collocazione dei nostri vocaboli e il loro ordine. Tutto ciò ha ormai un nome: “itanglese”, anche se molti linguisti si rifiutano persino di pronunciare questa parola, visto che spesso negano il fenomeno o non lo ritengono preoccupante.

Ma cos’è l’itanglese?
È una lingua?
È una sorta di gergo che si sta consolidando in alcuni ambiti come quello del lavoro o dell’informatica?
O è una specie di nuovo registro linguistico elitario che gode di un elevato prestigio culturale, per cui dire che il business dei prodotti italian sounding nel settore food è superiore a quello dei brand del made in Italy suona più solenne e tecnico rispetto al giro di affari dei prodotti dal nome italofono nel settore gastronomico è superiore a quello del prodotto italiano?

L’itanglese è ancora di più di questi tre casi. È un nuovo stilema espressivo divenuto il modello linguistico della nostra classe dirigente, che lo diffonde e lo impone.

La lingua popolare e l’imitazione degli stilemi della classe dirigente

Antonio Gramsci, negli anni ’30, è stato tra i primi a riflettere sull’italiano popolare. Nei Quaderni del carcere notava che la lingua italiana aveva un’origine letteraria che la rendeva “aulica”. Non era l’espressione della nascente borghesia, che non era riuscita a creare una lingua unitaria, ma neanche delle masse, che si esprimevano nei dialetti ed erano così escluse dalla storia. La grammatica normativa, cioè le regole grammaticali scritte, si è così spontaneamente unificata nella storia sia come processo culturale sia perché esisteva un ceto dirigente che veniva riconosciuto come modello linguistico da imitare e seguire. Accanto alla grammatica normativa esiste infatti una grammatica popolare e istintiva che spinge a parlare in un certo modo senza esserne consapevoli, e in questo spontaneo e caotico processo di unificazione linguistica che tende al “conformismo grammaticale” delle varietà geografiche e culturali accade che il contadino che si “inurba” tende ad assorbire il linguaggio cittadino e abbandonare quello della campagna, così come la parlata delle classi dominanti diviene un modello per le classi subalterne e meno colte. Dunque l’unificazione linguistica è un fatto politico e ogni volta che emerge la questione della lingua sotto c’è sempre qualcosa di più profondo, e cioè una riorganizzazione dell’egemonia culturale delle classi dirigenti (Quaderni del carcere, 29, § 3), per cui nella polemica tra “manzoniani” e “classicisti” in gioco c’era un modello linguistico da far prevalere. “La grammatica normativa scritta è quindi sempre una ‘scelta’, un indirizzo culturale, è cioè sempre un atto di politica culturale nazionale.” In un paragrafetto intitolato “Focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse nazionali” Gramsci passava in rassegna i centri di irradiazione e di unificazione della lingua, che erano per lui rappresentati dalla scuola, dai giornali, dagli scrittori, dal teatro, dalla radio e dal cinematografo, oltre che dagli scambi e dalle conversazioni di qualunque natura, politica o religiosa, tra ceti colti e meno colti.

Negli anni ’60 Pasolini salutava con enfasi il fatto che l’italiano era ormai divenuto una lingua nazionale, dopo l’epoca dell’italiano letterario “aulico” e dei dialetti con cui si esprimevano le masse. E fu il primo ad accorgersi che l’italiano letterario basato sul toscano era finito, e che il nuovo italiano era sempre meno espressivo e sempre più tecnologico, perché i centri di irradiazione della lingua erano diventati i poli industriali del nord.
Negli anni ’80 linguisti come Sabatini o Berruto hanno rispettivamente classificato il nuovo italiano effettivamente parlato dalle masse come “medio” o “neostandard”, e cioè una lingua che era sempre meno aulica e sempre più “appiattita” su costrutti comuni estesi e radicati, anche se talvolta distanti dalle norme grammaticali, come l’uso di lui soggetto al posto di egli, i periodi ipotetici con il doppio imperfetto (se lo sapevo non venivo) e altri simili tratti che però erano impiegati anche da molti scrittori, oltre che sui giornali.

E nel nuovo Millennio cosa sta accadendo?

L’italiano newstandard ha come modello l’inglese

L’avvento di Internet ha cambiato completamente gli scenari dell’italiano medio e neostandard. Proprio quando qualcuno temeva per la morte del libro e della scrittura, e qualche sociologo teorizzava un ritorno all’oralità della civiltà elettrica caratterizzata dall’audiovisivo, il Web ha cambiato le carte in tavola, e nel giro di un decennio si è riempito prevaletemene di pagine scritte. L’italiano unitario di massa non è più dunque solo oralità e parlato, ha popolato milioni e milioni di pagine scritte dalla gente comune facendo nascere uno sterminato archivio di una letteratura popolare che non aveva precedenti per dimensioni. Gli scritti di massa non erano più filtrati dagli editori, erano lo specchio di come la gente scriveva. Spesso gli stilemi erano quelli giornalistici e televisivi che gli scriventi prendevano come modello, ma presto anche i professionisti e i giornalisti hanno cominciato a ispirarsi allo stile internettiano, in un gioco di reciproca fusione dei registri.
Intanto però, i focolai di irradiazione della lingua erano completamente cambiati, rispetto a quelli individuati da Gramsci e da Pasolini. L’attuale mondo virtuale è stato concepito, pensato e realizzato oltreoceano, con una terminologia e una riconcettualizzazione delle cose angloamericana. Se negli anni ’60 i poli industriali del Nord Italia diffondevano una neolingua tecnologica più che espressiva e letteraria, oggi il mondo del lavoro e della tecnologia parla, richiede e impone l’itanglese, e i nuovi centri di irradiazione della lingua si sono spostati fuori dall’Italia, e veicolano sempre più parole in inglese che non sono più create da nativi italiani, questi ultimi si limitano a trapiantare e giustificare anglicismi a tutto spiano. I mezzi di comunicazione di massa sono al centro della diffusione di neologismi sempre più in inglese, e i nuovi onomaturghi sono pubblicitari, doppiatori, giornalisti, tecnici, scienziati… che privilegiano l’inglese. Quelli che un tempo erano i modelli di diffusione e unificazione dell’italiano oggi diffondono l’itanglese.

L’itanglese è il modello dei politici, degli imprenditori, degli esperti, degli “infuencer” (visto che nessuno usa “influenti”), delle persone “colte”, e persino di linguisti che certificano la “necessità” degli anglicismi che inseguono, invece di deprecare. Come ho scritto in un commento allo scorso articolo, l’itanglese è la lingua dei comunicatori, dei formatori, delle pubblicità, dello sport, dei titoli delle manifestazioni culturali… in altre parole è diventato uno stilema.
Tutti i “centri di irradiazione della lingua” si stanno anglicizzando e ciò è l’effetto collaterale del progetto di rendere l’inglese la lingua della comunicazione internazionale, la lingua di serie A che è diventata obbligatoria a scuola, che sta pendendo piede come lingua dell’Europa, della scienza, della formazione universitaria, dei mercati globalizzati…
La nuova classe dirigente sta imponendo questa nuova lingua che è allo stesso tempo il modello di quella delle masse. E questo modello è caratterizzato dalla ricerca e dalla preferenza per i suoni inglesi e dall’abbandono di quelli italiani.

L’itanglese si può arginare solo spezzando il servilismo e il complesso di inferiorità alberto-sordiano del voler far gli americani; solo così le parole inglesi si dissolverebbero e perderebbero senso. Se non la smettiamo di percepire gli anglicismi come qualcosa di superiore rispetto all’italiano non ne usciamo. La battaglia non è contro i singoli anglicismi, ma contro l’assurda e deleteria percezione per cui l’inglese è una lingua superiore, più tecnica ed evocativa.
E questo cambiamento è un fatto sociopolitico che non può partire dalle masse, che lo subiscono, ma dall’alto.

Cinema revolution: come proteggere il cinema italiano in itanglese

Di Antonio Zoppetti

Quest’estate, dall’11 giugno al 21 settembre, in oltre 3.000 cinema sarà possibile vedere i film italiani ed europei al prezzo speciale di 3,50 euro. Il forte sconto per promuovere il cinema europeo è un’iniziativa del Ministero della Cultura che ha richiesto un investimento di circa 20 milioni di euro, e la sottosegretaria alla Cultura con delega al Cinema, Lucia Borgonzoni, ha dichiarato: “Un messaggio forte, sostenuto da un grande investimento: le sale sono importanti presidi sociali e culturali, riteniamo che sostenerle sia un dovere e per questa estate abbiamo messo a punto un gioco di squadra che vede il Governo e l’intero sistema cinematografico italiano scendere in campo per la loro ripartenza.”

E come si chiama questa preziosa e costosa campagna? In itanglese, of course: CINEMA REVOLUTION. Perché la lingua italiana non è affatto un “presidio sociale e culurale” da sostenere, ma da affossare.

I nostri politici e la nostra classe dirigente proprio non ce la fanno a parlare in italiano. Non vogliono. Se ne vergognano. Persino quando devono promuovere il prodotto italiano che chiamano Made in Italy, o quando inaugurano mostruosità come Open to meraviglia, che segue altri due portali voluti da Dario Franceschini, miseramente falliti con grande spreco di denaro pubblico: Very Bello del 2015 e ITsART del 2021.

Questa lingua creola ostentata da chi è colonizzato nella mente non è più né italiano né inglese, ed è promossa e diffusa dalle istituzioni in modo ufficiale.

L’italiano sta bene solo nella mente di certi linguisti

I linguisti sono liberissimi di utilizzare i loro schemini astratti e semplicistici basati sullo strambo concetto di “prestito linguistico”; e anche di contrabbandare come cose “reali” i loro giudizi soggettivi – che non stanno in piedi né dal punto di vista logico né da quello storico – per esempio distinguendo i prestiti di “necessità” e di “lusso”, dove la necessità è solo nella loro testa. Quando invece se ne escono con affermazioni per cui la lingua italiana starebbe benissimo stanno semplicemente dicendo sciocchezze che non sono avvalorate da alcun dato.

L’italiano è in regressione da tutti i punti di vista. Non è più una lingua di lavoro dell’Ue, viene messo in discussione come lingua della formazione universitaria, è stato sostuito dalla lingua inglese per i progetti di ricerca e scientifici (i Prin e i Fis), nella scuola è insegnato sempre peggio (e di generazione in generazione i giovani hanno delle lacune sempre più pesanti), e come se non bastasse si sta ibridando con l’inglese in sempre più ambiti, al punto che nel mondo del lavoro o dell’informatica siamo di fronte a un collasso di dominio: la nostra lingua non è più in grado di esprimere con proprie parole interi settori della modernità. Dallo spoglio dei dizionari emerge che negli ultimi 30 anni abbiamo accumulato più anglicismi di quanti ne abbiamo accolti negli ultimi 6 secoli: nel 1990 quelli non adattati erano circa 1.600 e oggi son più di 4.000, senza contare che costituiscono circa la metà delle parole nuove degli anni Duemila. Dunque l’italiano si sta evolvendo quasi solo importando parole crude provenienti da una sola lingua.

Il fenomeno dell’ibridazione è qualcosa di inedito nella storia dell’italiano; ci sono ormai centinaia e centinaia di parole e di espressioni miste, come zoomare o computerizzare, fashionista e librogame, over-sessanta, baby-delinquente e cyber-sicurezza… mentre intere famiglie di parole si formano a partire dalla combinazione di radici inglesi da fast food a pet food, da pet sitter a pet shop e bookshop… comprese le reinvenzioni all’italiana che con l’inglese ortodosso hanno poco a che fare come smart working o beauty farm. Tutto ciò non si è mai visto, soprattutto ai tempi della moda del francese, visto che le ibridazioni di questo tipo si contano sulla dita di una mano (voyeurismo, foularino, moquettista o parquettista, non c’è molto altro). Un linguista serio dovrebbe saperlo e raccontarlo, invece di omettere i dati e perseguire la strategia dello struzzo facendo credere che non stia succedendo niente o che sia tutto “normale”.

In questa follia anglomane questi “prestiti” sono sempre più sintattici: si portano cioè con loro l’inversione della struttura dell’italiano, per cui ci sono i covid hospital invece degli ospedali covid, gli election day invece del giorno delle elezioni e la rivoluzione del cinema (ma andrebbe bene anche rivoluzione cinema) diventa cinema revolution. Ma i linguisti, invece di studiare e mostrare quello che sta accadendo, preferiscono la rimozione psicotica della realtà e – fermi alle questioni del purismo o della lotta ai barbarismi del ventennio – esprimono le loro avulse serafiche opinioni campate per aria e perseverano diabolicamente nel voler spiegare l’attuale interferenza dell’inglese con gli schemini dei prestiti di lusso e di necessità di un secolo fa.

Che razza di prestito è cinema revolution?

Che razza di “prestito” è “cinema revolution”?

Passando alle cose serie, “cinema revolution” non è affatto un “prestito” né di “lusso” né di “necessità”, è l’espressione più evidente del tracollo dell’italiano, dell’ufficializzazione dell’itanglese istituzionale, dell’inversione sintattica di una newlingua creola che si sta acclimatando come l’italiano newstandard. È la logica dell’Alitalia che si rinomina in ITA Arways, della pallacanestro che diventa basket (invece semmai di basketball), del settore alimentare che diventa food, delle librerie che si denominano bookshop e dei parrucchieri che diventano hair stylist, dei promotori che si definiscono promoter e dei registi che si proclamano film maker… Tutto ciò ha a che fare con l’abbandono dell’italiano (altro che prestiti!) e con il trapianto di suoni, grafemi e concetti in inglese e pseudoinglese.

Dono o abbandono?

C’è qualche linguista che ha pensato bene di salutare i “prestiti” come dei “doni” con una stomachevole retorica che evoca l’accettazione del diverso e l’accoglienza, e con una manipolazione delle parole che fa credere che gli anglicismi siano un qualcosa in più, una ricchezza che si aggiunge, mentre al contrario sono una sorta di colonizzazione da parte di una lingua dominante, si rivelano sempre più spesso dei “prestiti sterminatori” che fanno piazza pulita del nostro lessico, come è successo a calcolatore abbandonato davanti a computer, e ormai inutilizzabile, e come succede con ogni espressione inglese importata senza alternative che viene spacciata per necessaria (il che è una scelta precisa e un giudizio, non una “necessità”) dal mouse al lockdowm, dal green pass al question time, dai download alla privacy, dai follower agli influencer, dagli hater ai caregiver

L’accettazione di questa lingua non ha nulla a che fare con l’accoglienza e con i doni, gli anglicismi sono doni come lo fu il cavallo di Troia, e l’inglese non rappresenta una risorsa in più, si è rivelato un processo sottrattivo che si trasforma nel depauperamento linguistico, sia a livello lessicale sia quando lo si vuole introdurre come lingua dell’università. I Paesi come la Svezia che da tempo formano in inglese se ne sono resi conto benissimo e stanno facendo marcia indietro, perché insegnare in inglese significa far regredire la propria lingua.

Gli anglicismi sono gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica, del disegno di far diventare l’inglese la lingua della comunicazione internazionale e di considerarlo una lingua superiore. Sono il frutto del complesso d’inferiorità di una classe dirigente formata da collaborazionisti dell’inglese che stanno uccidendo l’italiano e non sono nemmeno in grado di rendersene conto. Dunque minimizzano e negano. Anglicizzano e distruggono credendo di essere moderni e internazionali.

Italiano: open to mostruosità

Di Antonio Zoppetti

Anna mi ha segnalato “l’Italian teacher award 2023” evidentemente partorito dal “Ministero della Pubblica Distruzione e del Demerito Generalizzato”.

Si tratta della quinta edizione di un progetto che “ha lo scopo di celebrare i valori sociali e culturali degli insegnanti italiani, al fine di riconoscere un tributo a tante donne e a tanti uomini che si spendono ogni giorno per l’istruzione e la formazione delle nuove generazioni […] L’Atlante – Italian Teacher Award intende promuovere il valore sociale e culturale degli insegnanti italiani”.

E come esprimere cotanta italianità se non con un nome in inglese?
Su sito di Rai mamy Scuola si può sapere di più sulla mission del progetto e sulle partnership da cui è nato.

Questi approcci, e questa lingua, la dicono lunga su come vengono concepiti i progetti per educare le nuove generazioni, e non solo quelle, all’abbandono dell’italiano e al passaggio all’itanglese.

La redazione online del Corriere pubblicizza invece il Corriere Family. A soli 3 euro sono disponibili 3 account, per ricevere le newsletter e ascoltare i podcast.


Nel 2015 il ministro dei Beni culturali e del Turismo Dario Franceschini aveva lanciato il portale per il turismo e la cultura italiana chiamato VeryBello! fallito miseramente subito dopo.

Allora nel 2021 ci ha riprovato con la “Netflix italiana” per la valorizzazione culturale del nostro Paese intitolata ITsART, solo che è fallito tutto di nuovo (e gli investimenti per queste iniziative non sono pochi). Ma poco male, nel 2023 il nuovo governo di tutt’altro schieramento politico ci riprova con lo stesso schema, e sta nascendo un nuovo progetto il cui motto, anzi slogan è “Open to meraviglia” (in figura con le mie considerazioni) a cui auguro, con tutto il cuore, lo stesso successo delle precedenti iniziative.

E così, mentre la fallita Alitalia cede il posto alla fallimentare ITA Airwais, mentre le Poste italiane introducono le nuove denominazioni dei pacchi attraverso la categorie del Delivery, mentre nasce il Ministero del Made in Italy (e non del prodotto italiano), mentre le Ferrovie dello Stato offrono le tariffe premium, business e economy e il concorrente [*antico termine autoctono oggi meglio traducibile con competitor] Italo sostituisce la figura del capotreno con quella del train manager (nella comunicazione ai passeggeri e nei contratti di lavoro!), mentre il Salone del Mobile e la Settimana della moda di Milano si trasformano in Week Design e Fashion Week, mentre la squadra olimpica italiana diventa un team, mentre il progetto per la reintroduzione degli orsi denominato Life Ursus battezza gli esemplari con sigle come Jj4 (dove la i lunga è pronunciata “gèi” come se esistesse solo l’inglese), mentre i negozi diventano store, shop e outlet, mentre gli animali domestici diventano pet, il cibo food e altri migliaia di esempi del genere quotidianamente trasformano l’italiano in itanglese… capita che una nutrita schiera di linguisti continuino a guardare al fenomeno interpretandolo con le loro lungimiranti categorie dei “prestiti” magari di “lusso” e di “necessità”.

Qui non abbiamo a che fare con qualche prestito perché ci manca una parola e non la sappiamo né vogliamo più tradurre, italianizzare o riconiare all’italiana. Siamo in presenza del crollo dell’italiano e abbiamo a che fare con dei trapianti (altro che prestiti!) di parole e suoni che hanno una frequenza e una profondità devastanti, che riconcetualizzano il nostro modo di pensare trasformando gli insegnanti in teacher (ma ci sono anche i tutor), la famiglia in family (persino il vecchio Movimento per la vita è stato abortito in favore del Movimento pro life) e l’italiano in italian. Questi trapianti si ibridano generando una neolingua che ha ormai le sue regole, ed è fatta di commistioni come Verybello, mentre open to meraviglia è un’enunciazione mistiligue che esce dai “prestiti” e l’italiano open to mostruosità, dove invece di incitare a “vivere italiano” si incita a “vivere in itanglese”, una lingua che si trasforma in un ircocervo che è un mostro orribile, altro che meraviglioso!

Mentre certi linguisti propagandano la panzana che “la lingua si difende da sé” e che l’uso fa la lingua lasciando intendere che sia un processo “democratico” che arriva dal basso, quello che sta accadendo è che l’italiano muore perché i nuovi centri di irradiazione della lingua, per dirla con Pasolini, e cioè le istituzioni, i giornali, la televisione, le aziende, gli intellettuali e l’intera nostra classe dirigente ci educano all’inglese e all’itanglese dall’alto. Perché sono colonizzati nella mente e hanno sposato il progetto del globalese, l’inglese internazionale, la lingua naturale dei popoli dominanti e dei padroni che si vuole far diventare la lingua planetaria, dell’Ue, della formazione universitaria, del lavoro e della cultura di cui gli anglicismi sono gli effetti collaterali (come ho spiegato nel libro Lo tsunami degli anglicismi, per fare un po’ di pubblicità non occulta). Questi collaborazionisti del globish sono i veri responsabili dell’itanglese. E davanti all’attuale tsunami anglicus, utilizzare gli schemini astratti dei prestiti è un po’ come voler misurare la portata di uno tsunami con l’unità di misura della bottiglia! A quante bottiglie corrisponderà l’attuale onda anomala?

In questo contesto tipicamente italiano, visto che in altri Paesi la questione è affrontata in modo ben più serio, capita anche che un bravo comico come Crozza ironizzi sul fatto che le (discutibili e perfettibili) proposte di legge per l’italiano avanzate di recente ci facciano tornare ai tempi del fascismo, quando si volevano sostituire i barbarismi con ridicoli sostitutivi come fiorellare per flirtare, arlecchino per cocktail, pallacorda al posto di tennis e via dicendo. Peccato che, come aveva capito un paio di secoli fa Leopardi (ma già allora ben più avanti dell’intellettuale medio italiano dei giorni nostri), solo l’uso e l’abitudine rendono bella, brutta o ridicola una parola. Dunque questi sostitutivi sono “ridicoli” solo perché non si sono affermati, mentre quelli che hanno avuto successo (regista invece di régisseur, autista invece di chaffeur, calcio invece di football, calcio d’angolo invece di corner…) sono parole oggi del tutto normali. A proposito di italianizzazioni di epoca fascista si potrebbe anche ricordare il successo di pallacanestro al posto di basketball, e nella Breve storia della lingua italiana di Migliorini e Baldelli (Sansoni, 1964, p. 345) si può leggere: “Si sono oramai definitivamente affermati contro gli equivalenti stranieri, prima imperanti” sinonimi come pallacanestro. Gli autori si sbagliavano di grosso, nulla è definitivo, e oggi il basket ha la meglio sulla vecchia pallacanestro, anche se in inglese si chiama basketball. Il che dimostra che non abbiamo a che fare con “prestiti”, ma con un processo di creolizzazione lessicale ben diverso e più profondo, che sta portando a una neolingua ibrida, l’itanglese, che non è più né italiano né inglese.

Tornando a Crozza, è più che comprensibile scherzare sul fatto che il nuovo quadro dirigente governativo predichi benino (bene è una parola grossa) e razzoli male. Ma, belin… possibile, Crozza, che davanti al virgolettato della Santanchè non ti venga in mente che la cosa su cui pungere è come si è ridotto l’italiano?

Mettiamo i puntini sulle “i”: sul canale Nove marchiato Warner Bros Discovery, una rivista italiana denominata Open titola “La ministra Santanché contro il Far West dei bed & breakfast”, utilizzando 11 parole di cui 5 sono in inglese. In italiano rimane un nome proprio (“Santanchè” che non vale ai fini statistici), la parola “ministra” e per il resto ci sono solo articoli e preposizioni! Se ci aggiungiamo le denominazioni in inglese della rivista e del canale ci sarebbe anche il “nove” a salvare l’italiano. E tu fai dell’ironia sull’adattamento di sciampagna al posto di champagne? Ma non vedi che c’è solo l’inglese? Altro che guerra ai barbarismi… il problema è la creolizzazione da una lingua sola che ci sta schiacciando.

Come fai a non capirlo? Almeno tu Crozza… dai!



Lo tsunami degli anglicismi: perché?

Era il 2015 quando, in un intervento al Ted di Milano che è entrato nella storia (“Dal bello al biùtiful”), Annamaria Testa si domandava:

«E uno si chiede: “Ma perché?” Ma perché, nel momento in cui se guardiamo i marchi turistici di tutte le città del mondo, non c’è nessuno che faccia la cosa insensata di storpiare il suo nome, per promuoversi. (…) Perché noi qui in Italia beviamo “wine”? Guardate qua: mangiamo “food” e beviamo “wine” a Lucca, a Cernobbio, a Catania, a Milano. E la cosa è curiosa perché a New York, se al Waldorf-Astoria devono promuovere la settimana del vino italiano, dicono “vino”. Perché i ristoranti di New York, belli ed eleganti, che vendono cibo e vino, dicono “vino”».

Già. Perché?

Se lo è chiesto 1.000 volte anche Giorgio Comaschi nelle sue divertenti pillole (per es. “Mi dovete spiegare perché”), e poi se lo è chiesto anche Mario Draghi, qualche tempo fa: “Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi…”.

E soprattutto dovremmo chiederci perché gli anglicismi che da noi sono proclamati come “necessari” o “intraducibili” in Francia, Spagna o Portogallo sono invece espressi nella propria lingua, come ha documentato in un bellissimo servizio di pochi giorni fa il bravo Davide Gemello.


Perché? Perché? Perché? Perché? Perché?

Da quando, nel 2017, ho pubblicato il mio primo libro sull’interferenza dell’inglese, con i dati tratti dai dizionari che ne pesavano e dimostravano la dimensione preoccupante, da quando ho aperto questo sito, da quando ho pubblicato il Dizionario AAA delle Alternative Agli Anglicismi, la domanda “perché?” è quella che ricorre più spesso.

A volte è un “perché” retorico, che sottintende una verità che ci fa male e che quindi cerchiamo di rimuovere: forse, semplicemente, perché siamo scemi?

Le tante spiegazioni che circolano si appellano alla (spesso presunta) sinteticità dell’inglese, alla (presunta) pigrizia nel tradurre legata alla velocità della comunicazione nel nuovo logorio della vita internettiana, alla moda, al fascino e al prestigio, o a uno strano modo di voler essere “internazionali” che presuppone di parlare inglese, invece di fare come negli altri Paesi dove la propria lingua non viene affatto abbandonata a questo modo.

Queste spiegazioni non bastano. Non sono minimamente sufficienti per spiegare la dimensione, la profondità e la frequenza di un ricorso all’inglese che assomiglia ormai a una mania compulsiva e sta trasformando la nostra lingua in “itanglese”. Queste risposte sono solo un alibi.

E allora, ho provato a rispondere a questi infiniti “perché” con un libro che inquadra il fenomeno da una prospettiva diversa da quella della semplice linguistica. E ogni perché trova finalmente la sua soluzione.

Di seguito il comunicato stampa.

Lo tsunami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica (goWare)

Cartella stampa:

Tra influencer e jobs act, smart working e fake news, l’italiano del nuovo Millennio è sempre più caratterizzato dal ricorso agli anglicismi che in alcuni ambiti lo stanno trasformando in itanglese. Lo tsunami degli anglicismi è un evento di portata mondiale che si riscontra in ogni idioma, un “effetto collaterale” della globalizzazione, di Internet, dell’espansione delle multinazionali nordamericane e del progetto di fare dell’inglese la lingua planetaria. Nel contaminarsi, molte lingue locali corrono il rischio di diventare i dialetti di un “anglomondo” che pensa e parla in inglese, e in alcuni casi persino di scomparire. La nuova “questione della lingua” travalica il nostro Paese e si trasforma nella “questione delle lingue” minacciate da un globalese che si impone a scapito delle identità locali vissute come un ostacolo alla comunicazione e ai mercati internazionali.

Questo saggio affronta i risvolti della globalizzazione linguistica, un tema trascurato nelle sterminate riflessioni su quella economica o culturale, soprattutto in Italia.
Sul tavolo ci sono questioni enormi, che riguardano la scelta dell’inglese come lingua della formazione universitaria, della scienza e dell’Unione Europea, proprio nel momento in cui il Regno Unito ne è uscito. Tutto ciò non ha solo forti implicazioni politiche e culturali, ma anche economiche. L’inglese internazionale rappresenta un giro d’affari incalcolabile per i Paesi anglofoni che se ne avvantaggiano senza dover sostenere i costi per l’apprendimento di alcuna lingua straniera.

Con una prospettiva attenta all’ecologia linguistica e al plurilinguismo inteso come valore e ricchezza, l’autore ripercorre la storia delle relazioni pericolose tra globalese e itanglese e della nostra americanizzazione sociale, culturale e dunque linguistica. Si tratta di un processo politicamente sollecitato sin dai tempi del piano Marshall, ed è il risultato del sogno americano costruito negli ultimi settant’anni dal potere morbido del cinema, dei prodotti culturali, delle pubblicità e delle merci d’oltreoceano.

Dal confronto con quanto sta accadendo all’estero, quello che emerge è l’anomalia italiana, dove le forti pressioni internazionali esterne non sono controbilanciate da analoghe resistenze culturali e istituzionali come accade in Francia, in Spagna e in altri Paesi. Anzi, sedotti da tutto ciò che è a stelle e strisce, agevoliamo dall’interno questo processo cannibale. Dietro la nevrosi compulsiva con cui ricorriamo agli anglicismi – e ci inventiamo da soli i nostri pseudoanglicismi – c’è un cambio di paradigma sociale e una storia che non è ancora stata del tutto affrontata, forse perché non si ha il coraggio di raccontarla.

Titolo Lo tsunami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica
Autore Antonio Zoppetti
Editore goWare
Prezzo libro digitale form. Kindle 9,99 € | cartaceo 18 €
Pagine: 252
In commercio da: aprile 2023

Per saperne di più.

La “sostituzione etnica” non riguarda i migranti, ma il globish

Di Antonio Zoppetti

L’argomento che nei giorni scorsi è impazzato sui mezzi di informazione è quello della “sostituzione etnica” invocata dall’onorevole Lollobrigida. Come nel caso della legge sulla lingua italiana di Rampelli il dibattito che si è visto è superficiale, avvilente e ideologizzato, più che lucido e critico.

Le uscite che ammiccano alla sostituzione etnica non sono nuove – come ha ricordato su il Manifesto Roberto Ciccarelli (19/4/23) – hanno precedenti in dichiarazioni di Salvini del 2015 e in altre del 2016 di Giorgia Meloni che accusò il governo Renzi di prove tecniche “generali di sostituzione etnica in Italia”. Questa espressione infelice si lega alla teoria del complotto di un presunto “piano Kalergi” che favorirebbe l’immigrazione in Europa dall’Africa e dall’Asia con lo scopo di rimpiazzarne la popolazione. Una teoria che è sostenuta negli ambienti più estremi nella destra e tra i negazionisti dell’olocausto, ma che Lollobrigida dice di non conoscere.

Personalmente sono convinto che una sostituzione etnica sia in atto e sia innegabile, ma questa sostituzione non ha a che fare con gli immigrati dai Paesi poveri, bensì con l’importazione dei modelli culturali e linguistici dei Paesi dominanti e cioè quelli dell’anglosfera.

Razzismo, etnicismo e linguicismo

I gruppi etnici sono caratterizzati dal possedere una cultura e una lingua comune, che non hanno a che fare né con il colore della pelle né con il concetto sempre più messo in discussione di “razza”. La parola “razza” compare nella Costituzione italiana (art. 3: “Senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) e in quasi tutte le dichiarazioni dei diritti umani introdotte da analoghi principi. Da qualche tempo, un ampio movimento di opinione vorrebbe mettere al bando questa parola, e questo modo di pensare è sostenuto anche da un gruppo di biologi riduzionisti che abbandonando le storiche distinzioni tra fenotipo e genotipo, preferiscono ricondurre tutto ai geni, e sostengono che le “razze” non esistono dal punto di vista genetico. Ma non è negando o risemantizzando la parola “razza” che si possono eliminare le diversità o il razzismo. E per quello che mi riguarda le razze (e le diversità) esistono – comunque le si voglia chiamare – ed è per questo che bisogna gridare forte che sono una ricchezza, sono tutte sullo stesso piano, che bisogna tutelare quelle discriminate e condannare chiunque pensi che alcune siano superiori o inferiori.
E lo stesso vale per le culture e le lingue, che sono fenomeni completamente slegati dalla questione dei geni o dell’aspetto fisico, ma spesso ugualmente discriminate e gerarchizzate in una visione che le pone su piani diversi.
Oggi l’espressione “Terzo mondo” è considerata politicamente scorretta e si tende a sostituirla con “Paesi in via di sviluppo”, un’espressione decisamente peggiore e totalitaria, perché lo “sviluppo” a cui li si vuole condurre è quello occidentale, dunque tutto conduce a un modo di pensare che utilizza delle categorie di stampo colonialista, dove dietro la parola “Occidente” c’è il modello culturale ed economico degli Stati Uniti e dietro il politicamente corretto c’è il politicamente americano. Questa visione etnicista è stata apertamente sostenuta in più occasioni, per esempio dalla consigliera per gli affari esteri di George W. Bush Condoleezza Rice che aveva dichiarato: “Il resto del mondo trarrà un vantaggio migliore dagli Stati Uniti che perseguono i propri interessi, poiché i valori americani sono universali” [cfr. Robert Phillipson, English-Only Europe?: Challenging Language Policy, Routledge, Londra 2003].
Ma questo atteggiamento neocolonialista non è confinabile all’interno di una visione conservatrice, appare al contrario molto più esteso, radicato e trasversale. Si ritrova anche all’epoca del democratico Bill Clinton e nelle parole di un ex funzionario della sua amministrazione, David Rothkopf: “Gli Americani non devono negare il fatto che, tra tutte le nazioni della storia del mondo, la loro è la più giusta, la più tollerante, la più desiderosa di rimettersi in discussione e di migliorarsi continuamente, il miglior modello per l’avvenire”[“In Praise of Cultural Imperialism?”, in Foreign Policy, n. 107, estate 1997, citato in Serge Latouche, Mondializzazione e decrescita. L’alternativa africana, Dedalo 2009, pp.73-74].
È la stessa concezione espressa nel 2001 da Berlusconi: ”Io credo che noi dobbiamo essere consapevoli della superiorità della nostra civiltà. Una civiltà che costituisce un sistema di valori e principi che ha dato luogo ad un largo benessere nelle popolazioni dei paesi che la praticano. Una civiltà che garantisce il rispetto dei diritti umani, religiosi e politici. Rispetto che certamente non esiste nei Paesi islamici”.

E allora la vera “sostituzione etnica” che si vuole realizzare non è affatto un complotto, ma esiste, anche se non ha nulla a che fare con il piano Kalergi, ma con un piano di stampo neocolonialista che punta a esportare i valori “occidentali” in tutto il mondo. E passando dalle razze e dalle etnie alle lingue, voler fare dell’inglese la lingua planetaria è un pezzo importante di questo disegno. Ma per citare le parole della finlandese Tove Skutnabb-Kangas, tutto ciò si può riassumere con la parola “linguicismo”. Come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo è la discriminazione in base alla lingua madre, che porta a giudizi sulla competenza o non competenza nelle lingue ufficiali o internazionali. Questo riduzionismo monolinguistico, secondo la studiosa, non è solo ingiusto, ma è un “cancro” a cui va contrapposto il riconoscimento dei diritti linguistici. L’autrice si scaglia soprattutto contro le associazioni che proclamano i diritti fondamentali dell’uomo, dove i diritti della lingua sono assenti o poco considerati (a parte le belle dichiarazioni d’intenti), in particolare quello di ricevere un’istruzione nella propria lingua madre. Mentre i Paesi occidentali si presentano come paladini dei diritti umani e delle minoranze e hanno creato il mito per cui loro stessi li rispettano, “in relazione ai diritti all’istruzione linguistica, questo è semplicemente falso, l’Occidente e responsabile del genocidio linguistico e culturale nel mondo” [“I diritti umani e le ingiustizie linguistiche. Un futuro per la diversita? Teorie, esperienze e strumenti”, in Come si e ristretto il mondo, a cura di Francesco Susi, Amando Editore, Roma 1999 (pp. 85-114), p. 99].

La sostituzione delle lingue etniche con l’inglese, la lingua madre dei popoli dominanti, porta alla morte delle lingue minori, come è avvenuto e avviene in Africa e come ha denunciato lo scrittore Ngũgĩ wa Thiongo raccontando la storia dell’imposizione dell’inglese nelle scuole coloniali africane [Decolonizzare la mente, Jaka Book, Milano 2015]. Nel 1992 l’Unesco aveva stimato che il 90% delle quasi 6.000 lingue parlate nel mondo erano a rischio estinzione nell’arco di un paio di generazioni [Cfr. Joe Lo Bianco, “Language, Place and Learning”, pascal International Observatory 2007], e come ha scritto il tunisino Claude Hagège, in questo “olocausto che fluisce senza sosta, apparentemente nell’indifferenza generale” la principale minaccia è proprio l’inglese, che “svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle lingue”[Morte e rinascita delle lingue. Diversita linguistica come patrimonio dell’umanita, Feltrinelli, Milano 2002, p. 7]. Ma mentre le lingue minori rischiano l’estinzione, anche quelle più forti regrediscono. La strada aperta dal Politecnico di Milano di insegnare in inglese e di estromettere la lingua italiana dalla formazione universitaria – una via perseguita anche da altri atenei – va in questa direzione. Come il disegno che striscia in modo silenzioso e surrettizio di fare dell’inglese la lingua dell’Ue, invece di promuovere il plurilinguismo che vive solo sulla carta, ma non nella prassi. L’imposizione del globalese che si fa strada nel lavoro, nella scienza e in sempre più realtà entra però in conflitto con le lingue etniche locali, e gli anglicismi che esplodono in ogni idioma, e che in Italia raggiungono l’apoteosi, sono gli effetti collaterali di questa sostituzione che non è più solo lessicale, ma culturale: dunque è questa la vera sostituzione “etnica” in atto.

La sostituzione linguistica

Tra le ultime voci aggiunte sul Dizionario AAA (Alternative Agli Anglicismi) ci sono lemmi come service learning, overconfidence o jumpscare. L’approccio pedagogico alla formazione civile, che potemmo chiamare educazione civica, esaltato persino dalle scuole cattoliche è chiamato in inglese, service learning, mentre l’eccessiva sicurezza di sé (la sicumera che porta a giudizi e comportamenti improvvidi) è l’overconfidence, e la tecnica cinematografica dello spaventare all’improvviso è il jumpascare. Queste parole astruse diventano la terminologia preferita e diffusa dagli addetti ai lavori e dai giornali. E di esempi di questo tipo se ne possono fare a bizzeffe.

L’altro giorno leggevo che il fenomeno di dormire con il proprio animale è detto co-sleeping, una riconcettualizzazione che ripete le categorie in inglese, dove l’unica cosa che mi ha stupito è che non sia stata usata la parola “pet”, visto che dilaga (a quando il prestito di “necessità” con inversione sintattica del pet co-sleeping?). Invece di parlare di “prestiti linguistici”, sarebbe ora di chiamare le cose con il loro nome. Questi non sono “prestiti” sono trapianti lessicali che spesso si affermano e fanno piazza pulita dell’italiano.

Non è questa una sostituzione lessicale – e prima ancora concettuale – che spazza via le nostre parole etniche per rimpiazzarle con le parole-concetti in inglese? Possibile che la nostra classe dirigente non se ne renda conto e anzi non faccia altro che favorire questi fenomeni ogni giorno più diffusi? Possibile che non veda che è questa l’unica sostituzione “etnica” in atto?

Vivo a Milano, in una strada al confine tra la zona densamente popolata di musulmani di via Padova e un altro quartiere a forte presenza ispanica, non distante dalle vie dietro Porta Venezia, dove si sono concentrati molti immigrati africani. Avevo un ufficio nella Chinatown meneghina, come è soprannominato il quartiere intorno a via Paolo Sarpi, e mi sposto prevalentemente con i mezzi pubblici dove, soprattutto la sera, la percentuale di stranieri è molto alta. Spesso si sentono parlate arabe, orientali, e poi altre di difficile collocazione, andando a orecchio, ma a occhio sembrerebbero di albanesi, rumeni, turchi e altri ancora. Penso alla babele delle lingue che si ascoltano in metropolitana e per la città, e mi domando quale impatto abbia sull’italiano tutto questo pullulare di stranieri. Nessuno. Gli italiani non conoscono una parola di arabo o di cinese. L’unico terreno di scambio linguistico è quello gastronomico. Wanton fritti, kebap, sushi e sashimi, falafel, lo zighinì degli eritrei. Cose così, c’è poco altro. L’italiano è impermeabile alle lingue degli immigrati, risente invece dei modelli culturali ed economici statunitensi (ugualmente extracomunitari), che non sono presenti sul territorio a questo modo, ci arrivano in altre forme.

L’inglese e ormai usato per marcare il territorio milanese, dove in questi giorni si svolge la design week, e sul Corriere, sotto l’etichetta “Style”, si può leggere degli “eventi Audi alla design week per capire cos’è la circular economy”, della “concept car Groundsphere”, del “full electric”, e dell’”automotive” che cambia pelle. Ma a cambiare la pelle è la nostra lingua.

L’itanglese è una realtà che si assorbe attraverso la comunicazione cittadina fatta dei gate delle stazioni, del biglietto contactless dei mezzi pubblici, del bike sharing, degli open day delle scuole prima del back to school… Queste sostituzioni lessicali sono diffuse dai giornali, dalla pubblicità, dal mondo del lavoro, della scienza e della tecnica… e si riverberano inevitabilmente nelle bocche della gente negli uffici, in metropolitana, nei locali. Sulle insegne dei negozi sempre più raramente si leggono denominazioni come barbiere o parrucchiere, come se ci si vergognasse dell’italiano, e ormai tutti scrivono Hair Style. La messa in piega e qualcosa da vecchie signore cotonate, per essere moderni i nuovi parrucchieri che si sentono Hair Style Artist la chiamano brushing; il trucco è make-up, le truccatrici make up artist e chi fa le unghie nail artist.


Se vogliano fare un parallelo tra l’immigrazione delle persone e quello delle parole (ma è un accostamento pericoloso e poco calzante) dovremmo tenere a mente una cosa molto importante, che la nostra intellighenzia di collaborazionisti dell’inglese dalla mente colonizzata non sembra in grado di capire.

Nessuna parola o persona è “straniera” per la sua origine o provenienza, ma per non essere integrata. Dal punto di vista lessicale le parole straniere sono quelle non adattate, che non si amalgamano con il tessuto linguistico del nostro idioma, con i nostri suoni e il nostro modo di scrivere, e dunque rimangono dei “corpi estranei” per dirla con Arrigo Castellani. Ben venga l’interferenza di ogni lingua, se passa per l’adattamento e ci arricchisce. Ma quando il numero degli anglicismi crudi – e solo quelli – diventa abnorme per numero, frequenza d’uso e profondità, anche la nostra lingua va in frantumi. Allo stesso modo ben vengano gli emigrati di ogni Paese, etnia e colore. Sono una ricchezza e una risorsa che ci arricchisce, proprio perché si integrano, imparano l’italiano e dunque sono italiani, al contrario di troppi intellettuali colonizzati che sono nativi, come provenienza, ma hanno in testa solo l’angloamericano e preferiscono trasformare la nostra lingua in qualcosa d’altro, attraverso una sostituzione lessicale che fa dell’anglosfera l’etnia superiore.

Sarebbe ora di riflettere su queste cose e di cominciare a raccontare una storia che non è ancora stata raccontata, forse perché non si ha il coraggio di affrontarla. E visto che nessuno lo fa, ho provato a farlo in un lavoro uscito oggi (Lo tsunami degli anglicismi, edizioni goWare disponibile in formato digitale e cartaceo).

L’anglicizzazione della nostra classe dirigente ha a che fare con l’ignoranza

di Antonio Zoppetti

La questione degli anglicismi e di una legge sull’italiano ha avuto un grande spazio sui giornali e nei dibattiti televisivi anche la scorsa settimana. Il livello delle discussioni a cui abbiamo assistito è però davvero avvilente, perché a prevalere sono i luoghi comuni, la disinformazione e soprattutto l’incapacità di uscire dalle prese di posizione ideologizzate che sono rimaste ferme a un secolo fa e interpretano tutto come una riedizione delle politiche del fascismo e della guerra ai barbarismi.

La proposta di legge di Fabio Rampelli è stata attaccata e spesso mistificata attraverso pregiudizi del passato, invece che essere analizzata o criticata con gli occhi del presente. Ma la nostra classe dirigente sembra ragionare ancora con gli schemi del purismo, incapace di cogliere la realtà e di andare avanti, visto che rispetto agli Venti del secolo scorso il mondo è cambiato e la globalizzazione, l’avvento di Internet, il crollo del muro di Berlino, la fine della Guerra fredda… hanno posto la questione della lingua su un terreno completamente differente rispetto al Novecento.

Gli interventi di ospiti e giornalisti importanti in trasmissioni televisive di primo piano mostrano chiaramente l’impreparazione e l’ignoranza dell’intellighenzia nostrana sul tema della lingua. Questa bassissima competenza è l’altra faccia della medaglia dell’anglicizzazione, e si può combattere solo con una battaglia culturale di svecchiamento dei pregiudizi.

Pregiudizio numero 1: la negazione e la banalizzazione

Alla nostra classe dirigente non è chiaro che il problema dell’interferenza dell’inglese non è una questione di principio né di battaglie per l’autarchia e il sovranismo linguistico, è un problema di ecologia linguistica. Il problema non sono i “forestierismi” da bandire per motivi di principio, il problema sono gli anglicismi – e solo quelli – perché il loro numero sproporzionato è tale che stanno cambiando i connotati della nostra lingua trasformandola in itanglese. Il nostro ecosistema linguistico è schiacciato da questo eccesso, e la necessità di leggi per tutelare il nostro patrimonio linguistico è una risposta a una minaccia reale: lo “tsunami anglicus” ci travolge perché l’inglese planetario entra in conflitto con le lingue locali. Ma i nostri intellettuali non lo sanno, e dunque negano tutto ciò. Davanti alla questione dell’abuso dell’inglese sorridono, fanno spallucce e sfoderano i soliti stereotipi per cui tutto ciò sarebbe un falso problema. Ad Accordi e disaccordi di venerdì scorso (su La7) l’opinionista Andrea Scanzi ha raggiunto l’apoteosi di queste pochezze, e con il suo solito tono saccente e perentorio ho sciolinato i peggiori stereotipi banalizzando la questione e riducendo tutto al fatto che qualcuno vorrebbe impedirci di dire “brioche” o “rock”, mostrando di non avere la più pallida idea della questione. Tra l’altro “brioche” è uno pseudo- francesismo nel significato che gli attribuiamo noi di cornetto, ma il punto non è il forestierismo in sé, bensì il peso dell’interferenza dell’inglese nella sua totalità e complessità, che sta portando al collasso del dominio in molti settori: l’italiano non è più in grado di esprimere l’informatica, il lavoro, la scienza, la tecnologia…. senza la stampella dell’inglese. A Piazza Pulita di Corrado Formigli le cose non erano tanto diverse, e mentre De Benedetti liquidava la faccenda degli anglicismi come una questione inesistente e di nessuna rilevanza, invitando a concentrarsi sui problemi seri del nostro Paese, il conduttore mostrava una grafica in cui faceva passare una serie di forestierismi, ormai comuni e naturali, inglesi, francesi, spagnoli o tedeschi, senza accorgersi che il numero degli anglicismi indicati superava la somma di tutti gli altri forestierismi recuperati con un certo sforzo, nel caso di germanismi e ispanismi.

Pregiudizio numero 2: i peggiori sovranisti sono proprio i giornalisti

In tutto il mondo si riflette e si interviene sull’invadenza dell’inglese, nei Paesi ispanici esistono numerose istituzioni pubbliche e private che traducono anglo-tecnicismi e coniano neologismi che invece noi importiamo e accumuliamo in inglese senza nemmeno porci il problema. E lo stesso avviene in Francia che ha varato anche delle leggi severe per la tutela e l’integrità del francese; in Islanda esiste la figura ufficiale del neologista che crea alternative autoctone alla terminologia inglese; in Svizzera sono state emanate linee guida per evitare le parole inglesi nella pubblica amministrazione in nome della trasparenza, e la lingua italiana è ben più tutelata e promossa che da da noi. Ma il giornalista medio sembra ignorare tutto ciò, e davanti al problema dell’anglicizzazione non si aggancia al dibattito internazionale, ma subito si blocca come un mulo e non sa far altro che collegare la questione alla guerra ai barbarismi del ventennio. Ma ignorare il dibattito internazionale di oggi e guardare solo al nostro passato interno significa guardarsi l’ombelico e indossare i paraocchi svincolandosi dalle più attuali questioni planetarie, è un isolarsi dal mondo che si può leggere come il peggiore sovranismo culturale che si possa immaginare. E per far finta di uscire da questo provinciale modo di porre la questione si ricorre a un altro luogo comune da sfatare: questi signori sono convinti che parole come mouse o computer siano moderni “internazionalismi”, non sanno che non è così e più in generale confondono “internazionalismo” con ciò che avviene nell’anglosfera, che è il loro unico parametro di riferimento, perché sono colonizzati nella mente e non hanno altri modelli se non quelli dell’angloamericano.

Pregiudizio numero 3: la mistificazione e la ridicolizzazione dell’avversario

In questo quadro, la notizia della legge di Rampelli è stata riassunta e presentata enfatizzando solo la questione delle multe da 5.000 a 100.000 euro che ben si presta alle analogie con le leggi fasciste iniziate con una tassa sulle insegne commerciali che contenevano parole straniere. L’iniziativa non era affatto una novità del fascismo, era già stata proposta ben prima, per rimpinguare le casse dello Stato, anche se il fascismo l’ha rilanciata con un intento patriottico più che finanziario.

L’articolo delle sanzioni, in effetti, avrebbe potuto essere scritto in modo diverso e meno vago, perché così come impostato sembra quasi ammiccare provocatoriamente al passato, e istigare i facili accostamenti. Quanto alle altre “ingenuità” o punti deboli e critici presenti nel testo di legge, nessuno li ha nemmeno visti e forse recepiti.

Rampelli è dunque intervenuto un po’ ovunque per spiegare che le multe riguarderebbero le amministrazioni e non i privati cittadini, e che il suo intento era quello di riprendere le leggi francesi dove nei contratti e nella documentazione di lavoro è obbligatorio usare il francese e le multinazionali – come la Danone o la GEMS – che hanno violato le regole sono state pesantemente multate. Ancora una volta, un “sovranista” come Rampelli si è rivelato più “internazionale” dei suoi avversari che non sono consapevoli di ciò che avviene all’estero perché per loro l’estero è solo l’anglosfera, e non sanno che la legge Toubon è ben più radicale di quella “rampelliana”.

Una campagna di sensibilizzazione per l’italiano

E allora, per fare chiarezza e sgomberare i pregiudizi è necessario fare informazione e creare una nuova cultura. Per questo sto cercando di far circolare il “Rapporto sull’anglicizzazione” con i dati e i numeri tratti dallo spoglio dei dizionari, che purtroppo i giornalisti e gli intellettuali non conoscono. Per questo il rapporto è stato inviato in Parlamento – insieme alla nostra proposta di legge per l’italiano e alle 2.200 firme di chi la sostiene – sia ai rappresentanti del Governo sia alle forze di opposizione. La stessa istanza che abbiamo rivolto un paio di anni fa al presidente della Repubblica Sergio Mattarella con una petizione firmata da oltre 4.000 cittadini.

Purtroppo nessuna risposta ci è pervenuta.

Tuttavia, ieri sono riuscito a perorare molto brevemente davanti a Rampelli quello che a mio avviso è il punto chiave: la necessità di agire con strumenti culturali per ricostruire un tessuto sociale che spezzi il nostro complesso di inferiorità verso l’inglese e per fare in modo che la nostra lingua, così amata nel mondo, torni a essere qualcosa di cui andare fieri, invece che vergognarcene e buttarla via davanti agli anglicismi.

La risposta di Rampelli

Ieri sono intervenuto su Radio Radio nella trasmissione Punto e accapo condotta da Francesco Borgonovo e ho cercato di spiegare come stanno le cose e di divulgare il vero problema dell’anglicizzazione che è un fenomeno da pesare e misurare, non da liquidare come una questione di purismo o di principio. Nella seconda parte della trasmissione Borgonovo ha intervistato anche Rampelli che ha ribadito che le multe previste dalla sua proposta di legge non riguardano i cittadini che proferiscono forestierismi, ma le istituzioni che dovrebbero rivolgesi ai cittadini in italiano. Ha anche osservato che il tema della lingua, teoricamente, dovrebbe appartenere alla sinistra, non solo alla destra, anche se a sinistra sembra che nessuno lo capisca. E ha fatto presente che, davanti alla sua proposta, mentre la gogna mediatica italiana ha rispolverato il fascismo, nessuno in Francia ha mai tacciato di fascismo Macron, Mitterand né le commissioni istituzionali per l’arricchimento del francese davanti agli anglicismi.

Sono riuscito a intervenire per precisare ciò che, a mio avviso, manca nella proposta di legge di Rampelli, e cioè una campagna di sensibilizzazione a favore dell’italiano. Perché le lingue si orientano con altri mezzi rispetto alle multe (che ben vengano se sanzionano le multinazionali d’oltreoceano o le amministrazioni che introducono anglicismi demenziali al posto dell’italiano). Per stigmatizzare gli anglicismi bisogna perciò fare cultura, emanare linee guide e raccomandazioni, perché la battaglia contro l’anglicizzazione va condotta sul terreno della “connotazione”, per fare in modo che le parole inglesi non siano vissute come preferibili. L’abuso dell’inglese si può arginare solo con le stesse modalità con cui si diffondono le parole considerate “politicamente corrette” e non discriminatorie, e nello stesso modo con cui si sta operando nel caso di parole come sindaca o ministra e per le altre femminilizzazioni delle cariche.

Borgonovo è un giornalista ben informato, da sempre sensibile al tema della lingua, ha dunque colto benissimo il nodo della questione, e l’ha girata a Rampelli chiedendogli in modo molto diretto: “Ha sentito? Che ne pensa? Farete una campagna?”
La risposta è stata: “Sì, è perfettamente in linea con i nostri scopi politici.”

Vedremo come andranno le cose e che accadrà, ammesso che la nuova proposta di legge sia finalmente perlomeno discussa, al contrario delle precedenti.

Intanto continuo, come posso, nella mia opera di divulgazione, informazione e convincimento.

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PS
Sabato sarò a Crema (Biblioteca comunale Gallini, ore 10) e divulgherò i numeri e i dati dell’anglicizzazione dell’italiano in un incontro promosso dagli esperantisti per ricordare Daniele Marignoni, autore della prima grammatica di esperanto italiana.

L’esperanto non è una lingua “etnica”, non entra in conflitto con le lingue locali e rappresenterebbe la soluzione più etica, pacifica, razionale ed economica per la comunicazione internazionale, ma forse proprio per questo è osteggiato da chi ha tutto l’interesse a privilegiare l’inglese e a difendere il potere del globalese, di cui gli anglicismi sono solo un “effetto collaterale”.

Interverrà anche il professor Michele Gazzola, che parlerà dell’approccio al multilinguismo nella politica di comunicazione dell’Unione europea, visto che l’inglese non è la lingua ufficiale dell’Ue, e dovremmo ricordarcene più spesso.

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Aggiornamento del 17/4/023: per chi è interessato è disponibile la registrazione dell’evento:

Se la politica linguistica è solo di “destra”…

Di Antonio Zoppetti

Il 31 marzo è stata assegnata alla Camera la proposta di legge sull’italiano presentata dall’onorevole Rampelli il 23 dicembre 2022, e la cosa sta suscitando un putiferio mediatico. Eppure la “notizia” non sta nella legge, il cui testo era noto già da mesi, ma nella sua assegnazione, cioè nella sua ufficializzazione che potrebbe portare a una discussione in Parlamento, se non farà la fine di tutte le altre proposte cadute nel nulla.

Questo teatrino del giornalismo e della politica è però avvilente. Appare un guazzabuglio di stereotipi ideologizzati dove la mia impressione è che a nessuno importi davvero dell’italiano. Né ai giornalisti né, forse, ai legislatori che hanno formulato una proposta di legge con una modalità che pare volutamente pensata per scatenare le polemiche, più che per intervenire in modo serio.

Le multe non sono affatto una novità

I giornalisti hanno abboccato volentieri alla provocazione, come era prevedibile, e si scagliano stupiti contro la questione delle sanzioni previste dai 5.000 ai 100.000 euro per chi violerebbe la legge. Ma di che cosa si stupiscono questi signori? La proposta di queste sanzioni (qui la legge 734 presentata a dicembre 2022 ) non è affatto una novità, ripete parola per parola ciò che Rampelli aveva già proposto nel 2018 (qui il testo della legge 678), e la nuova proposta di legge ricalca con qualche ampliamento, le solite proposte avanzate anche in passato, basta confrontare i testi di legge per constatare che non c’è niente di nuovo sotto il sole.

Nel 2018 avevo scritto un pezzo polemico e sarcastico rivolto a Giorgia Meloni, che era tra i firmatari della scorsa proposta di legge di Rampelli, perché in quell’atto presentato in Parlamento c’erano degli evidenti copia e incolla tratti da quanto scritto in questo sito.

Per la prima volta mi ero reso conto che la battaglia che da anni conduco da queste pagine era arrivata all’attenzione della politica, e da allora ho provato in tutti i modi a rivolgermi direttamente ai politici per perorare la mia causa. In quel pezzo mi sono sgolato a gridare che la tutela della lingua italiana appartiene a tutti, non è né di destra né di sinistra, e che era auspicabile cercare di superare le posizioni ideologizzate, lasciare alle spalle il modello della politica linguistica del fascismo, e guardare alle politiche attuali di Francia, Spagna, Svizzera e le altre democrazie. E avevo soprattutto provato ad argomentare che la tutela, promozione e valorizzazione dell’italiano non passa attraverso la repressione e le multe, ma attraverso una campagna di sensibilizzazione e di educazione all’italiano, per spezzare l’assurda e servile mentalità dilagante che fa dell’inglese una lingua superiore e degli anglicismi qualcosa di più evocativo degli equivalenti italiani. Ma a destra non sembra che lo abbiano compreso.

Quale alternativa alla politica linguistica di Rampelli?

Per questo, nel 2020, ho lanciato una petizione rivolta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella con la richiesta di “una campagna mediatica per difendere e favorire l’italiano”. La petizione ha raccolto più di 4.000 firme, ma nessuna risposta è mai pervenuta.
L’anno successivo, visto che non demordo, insieme ad altri cittadini ho perciò presentato anche una petizione di legge di iniziativa popolare più articolata (assegnata alla Camera e al Senato), e di nuovo le richieste erano incentrate sulla necessità di una campagna mediatica e nelle scuole, ma anche sull’emanazione di linee guida e raccomandazioni per evitare l’abuso dell’inglese nel linguaggio istituzionale. Questa proposta è rimasta isolata, non è stata ripresa dai giornali italiani (anche se è stata riportata all’estero, in Francia, in Germania e in Svizzera), non è stata appoggiata dalla Crusca, e non è stata presa in considerazione dalla politica, nonostante sia stata sottoscritta da oltre 2.200 cittadini che l’hanno sostenuta con le loro firme.
Ho passato più di un anno a scrivere ai parlamentari, a volte sfruttando contatti che sapevo avrebbero portato a destinazione le mie lettere, ma tutti si sono voltati dall’altra parte, in particolare i responsabili della cultura di Camera e Senato del Pd della scorsa legislatura, ai quali ho rammentato invano che non potevano disinteressarsi della faccenda e lasciare la difesa della lingua italiana solo alla destra.

Quello che si vede oggi è il risultato di questo disinteresse.

Di che cosa ci si scandalizza, dunque? Ciò che sta avvenendo in questi giorni è la riedizione di ciò che si è già visto nel 2018, e a ritroso, nelle prime proposte di legge legate all’istituzione di un Consiglio Superiore della lingua italiana che risalgono al 2001. Ogni volta il dibattito si trasforma in una sterile polemica che riduce tutto a prese di posizioni nostalgiche ferme al fascismo e all’antifascismo, riviste alla luce dei concetti di sovranismo e anglomania spacciata per internazionalismo. E ogni volta, infatti, non succede un bel niente.

Le proposte del 2023

La “novità” è che nel frattempo è stata presentata la proposta di inserire l’italiano in Costituzione da parte del senatore di Fratelli d’Italia Roberto Menia (il disegno di legge n. 337 del novembre 2022). Ma ancora una volta si tratta di una non-novità, visto che questo tormentone era stato avanzato almeno due volte dalla Crusca, in passato, che è stato riproposto più volte da politici di Fratelli d’Italia, Forza Italia e, in tempi recenti, da altri, non solo da me, per esempio da un’iniziativa del professor Giuseppe Limone.

Come ho ribadito più volte, e come hanno osservato in molti a partire dal presidente della Crusca Claudio Marazzini, inserire nella Costituzione che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica non basta, e avrebbe solo un valore simbolico senza una politica linguistica da affiancare che preveda un’attuazione di cose concrete.

La nuova proposta di Rampelli va letta in questa chiave, ma appare deludente e sterile perché ripropone le solite vecchie tiritere rimaneggiate appena appena e in modo maldestro. La volontà di intervenire su questioni cruciali c’è, ma le modalità di intervento non convincono e sono inadeguate e irrealizzabili. Il richiamo a evitare gli anglicismi nei contratti di lavoro (copiato dall’approccio francese) e anche il sancire l’italiano come lingua della formazione sono condivisibili, in linea teorica, ma non è con i divieti, la repressione e le multe che si possono perseguire questi obiettivi. Manca inoltre una definizione di che cosa sia “l’italiano” e quali siano i criteri di “divieto”. Che fare davanti a parole come “computer” che italiano non è, dal punto di vista morfosintattico, ma è radicato nell’uso al punto da essere diventato insostituibile? E che dire degli altri 4.000 anglicismi crudi contenuti nei dizionari? Sono italiani, visto che i vocabolari li registrano, o sono stranieri? Sotto le parole del ministro c’è la solita ridicola distinzione dei prestiti di lusso e di necessità, una distinzione imbarazzante che non conduce a nulla. Chi dovrebbe decidere quali sono i prestiti di lusso e necessità, visto che tutto non ha alcun fondamento oggettivo e logico?
Una commissione che dovrebbe coinvolgere Crusca, Treccani, Rai e altre istituzioni, secondo quanto scritto nella legge, ma tutto ciò rischia di riportarci agli elenchi dei sostitutivi ai barbarismi pubblicati dalla Reale Accademia Italiani di epoca fascista, invece che ricalcare i modelli della politica linguistica francese basati sull’arricchimento della loro lingua e sugli equivalenti promossi dall’Accademia francese o dalle banche dati terminologiche ufficiali, esattamente come accade anche nei Paesi di lingua spagnola.

Il vuoto a sinistra e delle altre forze politiche

Se non ci fosse ancora il tabù tutto italiano della politica linguistica, se fossimo un Paese normale, assisteremmo a un dibattito e a un confronto tra le politiche di destra, di sinistra o di centro. Ma se le uniche forze politiche che si interessano alla lingua sono quelle di destra, è perfettamente inutile scandalizzarsi, lamentarsi e gridare al fascismo. Qual è l’alternativa? Che cosa propongono la sinistra o il movimento 5 stelle?
Nulla! Dalle altre parti c’è il vuoto. Questo non schierarsi non significa essere neutrali, significa fare gli ignavi, come avrebbe detto Dante, ed essere complici della regressione dell’italiano davanti all’inglese che entra in conflitto con le lingue locali e le minaccia.

La nuova questione della lingua non ha nulla a che vedere con il purismo e l’autarchia linguistica, ha a che fare con una globalizzazione che vuole rendere l’inglese la lingua planetaria. Gli effetti collaterali di questa politica – che viene data per scontata sia a destra sia a sinistra – sul piano internazionale portano alla regressione dell’italiano, al suo abbandono nell’Ue (visto che non è più lingua di lavoro), nella scienza o in alcune università che preferiscono formare in lingua inglese. E sul piano interno questi effetti collaterali portano allo “tsunami anglicus” mondiale che in Italia è particolarmente devastante visto che non abbiamo politiche linguistiche serie ed è la nostra classe dirigente a favorire l’uso degli anglicismi, invece di contrastarli e usare l’italiano.

Se la sinistra e le altre forze politiche non sono interessate, né capaci, di proporre un modello alternativo, le loro opposizioni alle politiche di destra sono inutili, becere e ipocrite.
Il tema della promozione dell’italiano diventa perciò un pretesto per uno scontro politico divisivo, ideologizzato e strumentale dove al centro non c’è affatto l’interesse per la lingua. Mi piacerebbe vedere un dibattito serio in cui si confrontino visioni del mondo e soluzioni diverse. Ma si vedono solo proposte superficiali che non stanno in piedi, da una parte, mentre sul fronte opposto si erge il consueto bla bla bla che critica ma non propone, perché non ha una diversa visione della politica linguistica. Semplicemente non ha intenzione di fare nulla.
Il risultato non può che portare all’ennesimo scontro divisivo che rischia di esaurirsi nell’ennesimo nulla di fatto. La politica degli struzzi che si vede a sinistra è deprecabile e scriteriata almeno quanto quella repressiva che viene presentata a destra con modalità che sembrano volere evocare di proposito le leggi del fascismo, invece di lasciarle alle spalle.

La battaglia contro gli anglicismi deve avvenire sul terreno della connotazione

Certo, se passasse una legge per bandire l’inglese nel linguaggio istituzionale e contrattuale, inevitabilmente anche le sanzioni per chi non la applica avrebbero un loro senso. Il che non significa multare chi dice “computer”, ma per esempio sanzionare le multinazionali, da Amazon a McDonald’s, che introducono le figure lavorative in inglese, e quelle realtà che ormai fanno firmare contratti direttamente in inglese, o che obbligano i propri dipendenti a usare l’inglese. In Francia colossi come la Danone o la GEMS sono infatti stati sanzionati, ma in Italia sarebbe possibile? Prima di tutto si dovrebbero multare le Ferrovie dello Stato, le Poste italiane e – perché no? – lo stesso Stato italiano che ha imposto l’obbligo di presentare in inglese i Progetti di ricerca (Prin) e quelli per la scienza (Fis) estromettendo la lingua italiana. Ma la battaglia contro gli anglicismi e contro l’inglese che minaccia l’italiano e le altre lingue del mondo andrebbe combattuta in tutt’altro modo e sul terreno della connotazione.
La terza via, mentre politici e giornalisti si scannano in vecchie e inutili polemiche che guardano al passato e sembrano incapaci di comprendere il presente e avere una prospettiva seria per il futuro, è quella della nostra proposta di legge. Il purismo è morto e sepolto, così come la guerra ai barbarismi e l’autarchia linguistica. La nuova questione della lingua è un problema di ecologia linguistica, non si può assistere senza fare nulla all’anglicizzazione selvaggia e miope dell’italiano che si trasforma in itanglese schiacciato dagli anglicismi che snaturano i suoni e le regole morfosintattiche dell’italiano storico. La nuova questione della lingua è un problema internazionale che diventa la questione “delle lingue” davanti al progetto politico del globalese che cancella il plurilinguismo e rende le lingue locali i dialetti di un mondo che si vuol far pensare e parlare nel solo inglese.

La tutela dell’italiano non può essere fatta con le multe, le purghe o i manganelli, ma con la ragione e il convincimento. Invece che riproporre schemi che si riallacciano al fascismo, e finiscono per essere controproducenti per chi ha a cuore l’italiano, basta applicare al problema degli anglicismi lo stesso criterio che da anni si sta impiegando in modo efficace per modificare l’uso di parole legate alla femminilizzazione delle cariche o per bandire le espressioni considerate politicamente scorrette.

Se le linee guida e le pressioni sociali sono in grado di incidere sulla lingua dei giornali che parlano ormai di sindaca e ministra, parole che allo stesso tempo vengono introdotte nei dizionari e sono raccomandate nel linguaggio amministrativo… se si predica il linguaggio inclusivo, se parole come “negro” sono state messe al bando… tutto ciò non è avvenuto con le multe, ma con le pressioni sociali. E allora basta pagliacciate, basta con la retorica dei due pesi e delle due misure. Che si metta in ridicolo e si condanni chi si eleva dicendo booster invece di terza dose, delivery invece di servizi a domicilio, smartworking invece di lavoro a distanza, caregiver invece di assistente familiare… ma anche chi si definisce underdog invece di sfavorito e plaude al family day o alla flat tax, invece di parlare del giorno della famiglia e dell’aliquota unica o alla peggio di una tassa piatta.

Chi fa finta di non capirlo, a destra e a sinistra, è in malafede e non vuole salvaguardare l’italiano, ha ben altri interessi ideologizzati e strumentali. Sarebbe ora di gridarlo forte e a tutti.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Italianismi di lusso e di necessità: anatomia di un delitto linguistico

Di Antonio Zoppetti

Sono rimasto molto colpito da questo articolo del Corriere.it dell’altro giorno:

Scommetto che anche voi, leggendolo, avrete subito pensato la prima cosa che è venuta in mente a me: “15enne” (“quindicenne” si scriveva nell’italiano antico) poteva benissimo essere sostituito dalla parola teenager. Tuttavia, riflettendoci, bisogna spezzare una lancia a favore della scelta del giornalista, perché teenager, pur essendo più evocativo, moderno e internazionale, risulta meno preciso, e non ci informerebbe sull’età esatta del nativo halloweeniano in questione. Lo stesso si può dire di un’espressione generica come over 14 o under 16: solo specificando entrambe le formule il lettore ne ricaverebbe l’età precisa, ma per economia linguistica scrivere un teenager over 14 ma under 16 sarebbe stato troppo lungo, dunque quel “15enne” si può considerare un italianismo di necessità e non di lusso (credo che ogni linguista serio ne converrebbe).

Analizziamo meglio l’articolo alla luce delle più moderne teorie della comunicazione.

Blitz

Qualcuno potrebbe storcere il naso davanti a una parola come blitz che nel sostituire italianismi di lusso come irruzione, non solo è più recente di raid, ma è anche meno in uso dal punto di vista statistico e in calo (vedi figura), dunque visto che come tutti sanno è l’uso che fa la norma, sarebbe meglio seguire la massa e scrivere sempre raid per non fare confusione e per evitare inutili e dannosi sinonimi. Senonché, ancora una volta, l’acume del giornalista è ineccepibile: parlare di raid e di rider crea un evidente bisticcio lessicale che è meglio evitare, anche a costo di privilegiare un doppione meno comune che in questo caso è motivato da esigenze di stile.


“Pizzo”

Il giornalista, giustamente, scrive “pizzo” tra virgolette, e non solo perché ricorrere alla lingua di Dante suona sempre più inappropriato, ma anche perché “pizzo” è una voce gergale e, soprattutto, è ambigua.
Senza quelle virgolette qualcuno avrebbe potuto pensare a un merletto, quei ricami che erano ancora in voga quando l’underwear era chiamato “intimo”, prima che si riconcettualizzasse l’intera categoria di ciò che si indossa sotto il dressing e l’outfit attraverso la terminologia più appropriata di boxer, slip, push-up, body e i nuovi capi intimi senza fronzoli. E prender “tangenti” per “mutande” potrebbe creare equivoci imbarazzanti.

Invece di “pizzo” l’autore avrebbe potuto scrivere paga una royalty o un fee, ma queste parole appartengono al diritto internazionale e non sono legate alla mafia o alla criminalità, dunque hanno un’opposta connotazione e il ricorso al gergale “pizzo” sembra preferibile (ricorrere invece a giochi di parole come “pizzo connection” sarebbe sì più aderente all’itanglese e all’anglopurismo, ma non sarebbe una locuzione stereotipata adatta allo stile giornalistico). Ecco dunque un altro italianismo di necessità.

Cessione dell’account

Un “pizzo” sul login dell’account di sicuro è un’espressione più tecnica, precisa e trasparente di “accesso all’account” (tra l’altro ac-cesso evoca i cessi, i water closet e i bagni), ma comunque è apprezzabile l’uso terminologicamente ineccepibile di account, che un tempo qualcuno avrebbe potuto designare con profilo, un italianismo decaduto anche per la sua solita polivalenza e ambiguità. Ormai è in uso solo per indicare per esempio il profilo “nasuto” di Dante, o la prospettiva dei dipinti degli antichi Egizi, e questa parola si tende a evitare anche per indicare lo skyline di una città, l’identikit di un criminale e a maggior ragione va evitato nel linguaggio informatico che deve essere univoco. Dunque “profilo” è italianismo di lusso da evitare.

Caporalato digitale

Qualche perplessità suscita invece l’espressione “caporalato digitale” e per molteplici motivi. Caporalato, come pizzo, è un italianismo gergale e dunque andrebbe meglio tra virgolette anche lui (per coerenza). In secondo luogo (= in seconda location) la parola “digitale” è ancora una volta ambivalente, fa pensare alle impronte digitali, e sarebbe più corretto parlare di digital (come in digital divide, digital art…) anche per uniformarsi alla regola dell’itanglese che si è ormai consolidata e che prevede in questi casi la caduta della “e finale” in parole come vision, mission, tutor, social, competitor

Last but not least, invece di caporalato digitale l’autore del pezzo avrebbe potuto scrivere digital caporalato, con inversione sintattica e pronuncia all’inglese; sarebbe preferibile anche perché è un’accezione nuova e indica qualcosa di nuovo rispetto al caporalato tradizionale della raccolta di pomodori. L’inglese è più adatto per descrivere ciò che è nuovo, e infatti la metà dei neologismi del nuovo Millenno è in inglese. Volendo evitare un vocabolo imbarazzante come “caporalato” forse si poteva ricorrere a un digital bossing o qualcosa del genere, ma non importa. Andiamo avanti.

Rider e food delivery

Quanto ai rider (pronuncia all’inglese) fa rider (pronuncia all’italiana) chiamarli fattorini, ciclofattorini o con altri patetici italianismi di lusso e non in uso; al massimo, se proprio si devono evitare le ripetizioni, esiste il sinonimo pony expess, anche se ormai di bassa frequenza e maggiormente legato a uno strumento di locomozione come lo scooter più che una bike, che grazie a Dio sta soppiantando l’italianismo di lusso bicicletta, come la prima parola inglese ha già fatto con motoretta, motorino e simili.
Colpisce invece lo scrivere food delivery in minuscolo invece di Food Delivery, preferibile; ma questo è un problema di interferenza dell’italiano sugli anglicismi che a volte vengono purtroppo storpiati. Lo so, può suonar blasfemo violare a questo modo la lingua sacra, ma a pensarci bene è un peccato veniale, rispetto a quanti vorrebbero parlare – pensate un po’ – della gastronomia a domicilio, che come mi ha fatto notare una volta uno “sveglio” (anzi smart) è anche concettualmente errata: e se uno si vuole far portare l’hamburger in un luogo diverso da quello che risulta essere il suo domicilio fiscale come la mettiamo? Per esempio al lavoro, a casa della fidanzata… (questo non è humour è un commento reale che mi hanno lasciato in passato). Per non parlare degli homeless che sono per definizione senza fissa dimora. L’inglese non pone di questi problemi.
Stesso discorso per “piatti a domicilio”: i rider non portano affatto i “piatti”, quelli sono a cura del committente, le pietanze sono consegnate nel loro apposito packaging, e chi dice piatti non ha idea di cosa sia il delivery e magari lo confonde pure con il take away, con il doggy bag, con il McDrive o con il catering. Quanto a italianismi di lusso come settore alimentare, ristorazione o pietanze invece di food sono un linguaggio troppo lungo (ci sarebbe cibo ma poi evoca il mangime dei cani e dei pet) e da boomer. E allora meglio le parole inglesi, che sono dei “doni” – non dimentichiamolo mai! – e dovremmo mostrare un po’ di gratitudine invece di criminalizzarle come ai tempi del fascismo! E a chi si lamenta perché non sono italiane andrebbe rammentato il proverbio: a gift horse dont’ look in the mouth!

Altre considerazioni statistiche

Alcuni puristi catastrofisti e oscurantisi, gli stessi che un tempo se la prendevano con i francesismi, da un po’ di tempo gridano al vento che l’italiano sarebbe in pericolo davanti all’inglese che stravolge il nostro modo di parlare. Ma proprio le analisi di articoli come questo dimostrano che non è affatto così, e che è tutta un’illusione ottica, un po’ come la temperatura percepita: se finisci all’ospedale in pieno agosto perché i tassi di umidità e la calura ti fanno svenire, hai preso un bel granchio! Perché se guardi il termometro magari segna solo 30 gradi e il tuo collasso non è dunque oggettivo, è un capriccio da ignorante, sei tu che ne percepisci 40 e credi di morire.

Anche per gli anglicismi avviene la stessa cosa.

Se contiamo le parole del titolo in questione sono 16 (“Rider 15enne paga ‘pizzo’ sulla cessione dell’account: blitz contro il caporalato digitale nel food delivery”), ma gli anglicismi sono solo 4 o 5 (rider, blitz, account + food e delivery che però si potrebbero contare come una sola parola, e non come due)! Avrebbero potuto essere ben di più, come a questo punto dovrebbe essere chiaro. E allora di che cosa si sta parlando? L’italiano è salvo ed è ben lontano da essere in pericolo, perché le parole come “il”, “del”, “nel”, “sul”, “contro”… resistono e continuano a essere prevalenti. Finché l’inglese riguarda il lessico non c’è alcun problema e non è il caso di fare tutto ‘sto casino per 4 o 5 parole inglesi!


Anche la firma del giornalista rimane italiana, Pierpaolo Lio, e lo stesso si può dire per la parola di apertura del pezzo che è “Milano” e non “Milan”. Dunque anche se su GoogleMaps si legge Milan, Venice, Florence… noi continuiamo a denominare i nostri luoghi nel nostro dialetto, a parte la regione Sicilia che preferisce Sicily, ma ciò è motivato dalla decisione di essere internazionali.

Certo, noi invece parliamo di New York e non di Nuova York come si diceva una volta, e mentre gli statunitensi parlano di Tuscany, Lombardy e adattano tutti i nostri toponimi noi non lo facciamo per i loro, ma ubi major minus cessat (espressione latina che si potrebbe tradurre con In front of English, Italian is dead), ed è normale in un mondo globalizzato!

Problemi di trasparenza

Un’altra delle fake che vorrei smontare riguarda la presunta poca trasparenza dell’itanglese.

Se si analizza l’articolo si vede benissimo che accanto ai titoloni cubitali è appositamente previsto, più in piccolo, un catenaccio che si rivolge proprio ai boomer e agli analfabeti e usa vocaboli come tangenti, credenziali, profili, fattorini… Dunque anche chi non è istruito perché per esempio conosce il francese, il tedesco, lo spagnolo o altri inutili dialetti del mondo (come l’italiano) riesce a farsi un’idea di che cosa diamine si parli, in attesa che tutti finalmente si convertano alla lingua dei popoli dominanti e dei nati fortunelli, che non devono apprendere altre lingue e preferiscono che sia il resto del mondo a dover imparare e utilizzare il loro idioma naturale. Del resto gli sforzi e gli investimenti dell’intera Europa che ha fatto dell’inglese la lingua obbligatoria da apprendere sin dalle elementari presto risolveranno tutto. E a mano a mano che i boomer moriranno – si spera presto – anche i catenacci giornalistici forse cesseranno finalmente di esistere e di avere un senso (o almeno di essere scritti in una lingua e in uno stile obsoleti). E chi non lo capisce non ha proprio idea di come funzioni il giornalismo, oggi come oggi.

Lo stile giornalistico e i suoi virtuosi presupposti

Parliamoci chiaro, i flussi dell’informazione internazionale ricalcano, ripetono e seguono ciò che viene battuto dalle agenzie dell’anglosfera, ed è un bene che sia così, perché se un domani dovesse scoppiare, che ne so, un conflitto con la Russia, la Cina o il mondo musulmano, mica si potrebbero riprendere le loro fonti che fanno propaganda, al contrario delle nostre che ben ci raccontano in modo neutrale e oggettivo avvenimenti come l’invasione dell’Iraq motivata da prove false, o l’aggressione della Russia all’Ucraina presentata senza raccontare tutti i precedenti che hanno portato Putin a commettere questo crimine ingiustificabile. Comunque, senza fare inutili polemiche, tornando alla lingua, è normale che se Dunald Trump si sveglia un giorno e dice “fake news” tutti i giornali il giorno dopo scrivano fake news, e non bufale, così come quando in Italia esplode il covid hai voglia a titolare che Conte ha introdotto le zone rosse, la quarantena, il coprifuoco, o ha blindato le città; se i giornali anglofoni chiamano tutto ciò l’italian lockdown anche noi dobbiamo epurare la nostra lingua, abbandonare quello che si diceva sino al 17 marzo 2020 e scrivere solo lockdown. O vogliamo ridurci come i francesi e gli spagnoli che parlano di confinamento? (parola che da noi evoca il fascismo, tra l’altro).
Del resto non è che un giornalista italiano, o di qualche altra area periferica dal peso pari a zero, possa inventare le proprie regole, ci mancherebbe solo questa! Quelle sono fissate dai canoni del giornalismo anglosassone, e al massimo i giornalisti periferici possono applicare questi canoni quando danno notizie locali irrilevanti per le fonti internazionali. Dunque le scuole coloniali di giornalismo, tra cui spicca il “Master Full Time e online per giovani” erogato da “RCS Academy”, insegnano le regole auree di quello anglosassone basato sulle famose 5 W (da pronunciare in inglese e non “doppie vu”, che fa molto provinciale), e cioè Who? (chi?), What? (cosa?), When? (quando?), Where? (dove?) e Why? (perché?).
Certo, mancherebbe un piccolo particolare: il come? Ma in inglese non comincia con “W” quindi tanto vale omettere questa insignificante quisquilia nello storytelling massmediatico, e se proprio si vuole insistere su questo benedetto “come?” la risposta è semplice: in inglese e attraverso gli anglicismi! In questo modo il cerchio si chiude, e l’anatomia del delitto linguistico è servita.

———————–

PS
Oggi, dalle 16:30 alle 18:00, si terrà il seminario digitale “L’italiano come lingua ufficiale nella Costituzione? Proposte di politica linguistica a confronto”.

È moderato da Michele Gazzola (Ulster University) e i relatori sono:
Massimo Arcangeli (Università degli Studi di Cagliari);
Claudio Marazzini (presidente dell’Accademia della Crusca);
Lucilla Pizzoli (Università degli Studi Internazionali di Roma).

La locandina → https://www.societadilinguisticaitaliana.net/wp-content/uploads/2023/03/Locandina-seminari-digitali-27mar-def.pdf
Il collegamento Zoom → https://us02web.zoom.us/j/87068830649?pwd=QVdoLzN2NnR6REYwZFZ6U0VDQ1hWZz09

A ognuno profuma questo barbaro dominio

Di Antonio Zoppetti

Ogni volta che vado dal dentista mi accoglie con le sue formule di cortesia marcate da una forte cadenza milanese: “Buongiorno mister. Vediamo un po’ com’è la situation.” Durante la seduta non si contano le volte in cui ricorre a “ok”, e molto spesso preferisce dire “yes” invece di “sì”, soprattutto se vuole dare risalto all’assoluta certezza dell’affermazione, come se “yes” equivalesse a “assolutamente sì” e non a un semplice “sì” che non possiede la stessa carica rafforzativa.
Le scelte lessicali che lo spingono a questo itanglese, più che consapevoli, sono istintive. Si fa bello, parlando a questo modo, ed è convinto di porsi in modo simpatico e moderno.

Questo tipo di parlata ad alto tasso di anglicismi non è infrequente, a Milano, e non è solo una scelta sociolinguistica in voga in alcuni ambienti di livello medio-alto, si potrebbe leggere come una nuova forma di varietà regionale. Se nelle caricature dei film degli anni Sessanta c’era il cummenda con la sua fabbrichetta e la sua avvenente segretaria che chiamava “Cicci”, oggi queste macchiette hanno cambiato gergo e ostentano parole come business, budget o cash.

Rimaniamo a Milano. In una modernissima scuola dove tengo lezioni di italiano all’interno di un corso di storytelling, due anni fa, la comunicazione inviata a inizio corso a tutti i docenti aveva come oggetto “New beginning”. Protestai per quella scelta, e devo dire che ha funzionato. Infatti l’anno seguente lo stesso messaggio di benvenuto con le indicazioni del corso era intitolato: “Kick off della faculty”. Nel frattempo la parola facoltà era stata cancellata, anche dal sito istituzionale, per essere sostituita da faculty, e gli studenti hanno così la possibilità di accedere alle info(rmazioni) cliccando la voce “La mia faculty”. Ri-protestai rivolgendomi alla “secretary” che mi guardò stupita perché l’avevo chiamata “secretary” (ma non si capisce perché chiamarla in italiano se la facoltà è faculty) e anche perché non capiva il senso delle mie rimostranze. “Non ti va mai bene niente” fu il messaggio subliminale conenuto nella replica informale che si trincerava dietro le scelte di chi si occupa della strategia comunicativa.

Questo tipo di itanglese, al contrario di quello del dentista, è ben ponderato. Arriva da chi si occupa appunto di comunicazione, ed è un vero e proprio nuovo registro linguistico che sceglie le parole inglesi per puntare a un livello alto e formale, dove l’inglese non è solo una scelta sociolinguistica che riprende una moda diffusa, ma diventa un modello da imporre ai parlanti. Dunque è ripetuto dal personale, che però è lo staff, e da alcuni docenti e studenti (visto che li indottrinano con questo lessico). Dietro questa strategia comunicativa c’è l’affermazione di un nuovo registro che forma e prepara i ragazzi (che sguazzano nell’itanglese giovanile già da loro) alla lingua del lavoro anglicizzata che il settore allo stesso tempo richiede e impone.

Se le parole di Machiavelli “a ognuno puzza questo barbaro dominio” furono poi riprese in ambito linguistico da Paolo Monelli per condannare i forestierismi, pare che oggi l’invasione degli anglicismi sia connotata invece dal loro profumo.

L’interferenza dell’inglese è uscita dalla sfera lessicale

Facciamo il punto della situazione, anzi: facciamo il check della situation, come direbbe il mio dentista e come piace agli strateghi dell’itanglese. Mentre i linguisti sono fermi all’interferenza linguistica di un secolo fa, quando le parole straniere erano poche (1.500 in tutto, soprattutto francesi, nella seconda edizione di Barbaro dominio di Monelli), e sono ancora legati all’insostenibile leggerezza dei prestiti di lusso e di necessità, il mondo è completamente cambiato. Gli anglicismi non adattati registrati dai dizionari, nel frattempo, sono oltre 4.000 (gli altri forestierismi, al contrario, sono aumentati in modo ragionevole e contenuto) e il cambiamento in atto ha fatto il salto: non riguarda più solo il lessico, ma coinvolge aspetti ben più profondi della nostra lingua. Il numero dei “prestiti sintattici” che si portano con loro l’inversione strutturale della nostra lingua (l’american dream e non il sogno americano) è altissimo. Così alto che diventa un modello per le neoformazioni invertite: covid hospital (e non ospedali covid), smart working (e non lavoro agile), flat tax (e non tassa piatta)… Coinvolge la morfologia, dunque c’è il babysitting e non il “babysitteraggio”, ci sono i blogger e non i bloggatori, sorgono centinaia di parole ibride che non sono più né italiane né inglesi ma creole (speakerare, chattare, computerizzazione, fashionista…), mentre i singoli anglicismi si ricombinano tra loro in tutti i modi (baby sitterdog sitter, cat sitter, pet sitterpet foodfood delivery…), si accostano a parole italiane in locuzioni miste (zanzare killer, pornoshop, librogame..), diventano prefissoidi forieri potenzialmente di infinite neoconiazioni (under 21, cybersicurezza/cybersecurity…). Spuntano i primi verbi in inglese (relax, remember, don’t worry) e si diffondono gli innesti nell’italiano di porzioni di inglese sempre più complesse (too much, save the date, one moment, number one, why not?, back to school, very good, oh my God!).

Tentare di spiegare la complessità – e la dimensione – del fenomeno con gli schemini del prestito (magari di lusso e e necessità) mi pare ridicolo, prima che inadeguato. Perché gli anglicismi – a differenza di tutti gli altri forestierismi – si stanno strutturando in famiglie di parole che si allargano nel nostro lessico con un effetto domino: smartphone, smartglass, smartwatch, smart city, smart card… → alla fine smart si afferma anche da solo per poi ricombinarsi nelle tariffe smart invece che agevolate.

Nell’immagine: due articoli del Corriere (l’accostamento non è mio, appartiene alla pagina) in cui nel primo pezzo si trovano quelli che un linguista chiamerebbe prestiti di necessità e dal secondo si evince bene lo stato dell’italiano di oggi: smartphone, privacy, cover, gadget… dove il concetto di lusso e necessità è un’opinione, non qualcosa di tangibile, oggettivo e scientifico.

Prestiti e malprestiti

Il radicarsi dell’inglese è così profondo che ormai moltissimi “prestiti” non sono più monosignificato, come mouse che indica un preciso dispositivo, ma si stanno differenziando in una serie di accezioni sempre più ampie. Questo fenomeno è poco indagato dai linguisti (o almeno non sono a conoscenza di studi del genere) e per questo ho provato a fare qualche ricerca. Dai miei calcoli esistono almeno 200 voci che possiedono più di un significato, ma se si considerano anche le accezioni che derivano dagli usi figurati sono molte di più, e credo che complessivamente generino ben più di 500 accezioni e definizioni diverse (cfr. “500 sfumature di inglese. Gli anglicismi dai tanti significati”).
Ci sono ormai anglicismi omografi: boxer = mastini ma anche mutande, in alternativa agli slip; i cracker (gallette salate) e i pirati informatici; la zip (cerniera) e lo zip (un documento, anzi un file, compresso); lo strip (spogliarello, abbreviazione di striptease, e c’è anche lo strip poker), e le strip (le strisce a fumetti). Poi ci sono gli omofoni, per esempio bed (cioè letto di bed and breakfast) e bad (di bad boy, cioè ragazzaccio), oppure cheap (poco costoso e quindi dozzinale, mediocre) e chip (cioè un circuito integrato, microchip), da non confondere con il cip onomatopeico di un uccellino che continua a cinguettare (fino a che non sarà “necessario” dire twittare) in italiano.

In questa confusione capita che in Rete, ma anche sui giornali, si legga “streaptease” invece di striptease, perché insieme alle regole dell’italiano saltano anche quelle dell‘inglese, di cui spesso si riproducono non le parole e i sigificati originali, ma i suoni, che sono la vera essenza che si ricerca con l’itanglese. Come scriverle è meno importante, e bisognerebbe fare lo spelling (in italiano compitazione) per non sbagliarsi, perché dal raid al rider – c’è poco da ridere (pronuncia italiana), una volta erano pony express – il passo è breve.

Forse si potrebbe inserire la categoria del “malprestito” (cioè i prestiti errati) da affiancare a quella degli pseudoanglicismi che ci inventiamo da soli (il footing derivato dalla radice foot, il dressing inteso come il codice del vestire che però in inglese è un salsina per condire l’insalata, il beauty case, l’autostop…), a quella delle decurtazioni all’italiana (il basket al posto del basketball oltre che della pallacanestro o la spending invece della spending review che indica la spesa invece della sua revisione, cioè tutto il contrario) e alle reinterpretazioni farlocche dell’inglese per cui un box (scatola) diventa un posto auto coperto o il mobbing (l’espulsione dal gruppo utilizzata in etologia da K. Lorenz) diventa la vessazione in ambito lavorativo.
Che strani “prestiti” questi…

Sinonimi e doppioni in inglese

C’è però un altro fenomeno che non mi pare sia stato indagato, ed è quello dei sinonimi in inglese che si possono ormai sfoggiare in modo sempre più disinvolto. Accanto al new beginning e al kick off si può ricorrere allo start e al dare il go a qualcosa. Una squadra può essere un team, ma anche un pool, e altre volte una task force. Un corsetta può essere il footing (come si diceva, che però è in calando) o il più ortodosso jogging, ma c’è anche il running. Una riunione può essere un meeting, ma anche una convention o un summit (vertice) se è particolarmente importante. Recentemente ha guadagnato terreno (cioè è trendy, è in o cool) underdog per indicare quello che prima dell’uscita del nostro presidente del Consiglio Meloni era di solito un outsider, o se volete una new entry inaspettata. Un completo di qualcosa (un tempo si sarebbe detto una parure, alla francese) può oggi essere meglio detto con kit, con set, o anche con palette di trucchi, in profumeria. I gadget sono ormai anche gift. si può bere un cocktail, ma anche un drink, oppure uno shot (o shottino, che in italiano sarebbe cicchetto); ci sono gli sketch ma anche le gag (al posto delle scenette), si può uscire allo scoperto facendo outing o coming out, un testimone di una campagna può essere un testimonial (pseudoanglicismo) o un endorser, e un fallimento può essere un flop, ma altre volte è un crack di un sistema che va in crash, in tilt o in blackout; ci arrivano sul cellulare (anzi sui nostri device, guai a dire dispositivi) gli alert ma anche i warning. Nelle casseforti c’erano le combinazioni, a militare le parole d’ordine, ma oggi le parole chiave e i codici di accesso sono solo in inglese, e le credenziali sono le password ma anche i pin. Un gara può essere un contest, ma anche una challenge e alla peggio una call (“Aperta la call per la realizzazione del logo del Comune”).

L’abbandono dell’italiano di lusso e l’abbandono di necessità

Siamo sicuri che siamo in presenza di semplici prestiti?

La situazione è ben più grave, siamo davanti al crollo dell’italiano e di una sua sostituzione con l’inglese alla ricerca del giusto mix dell’itanglese.

Quando l’austerità è austerity, la visione vision, la missione mission, un competitore competitor, una piattaforma sociale è social, un influente è influencer, un odiatore hater, un tutore tutor, l’economia economy, una nomina nomination, una comunità community, un concetto concept, un fondatore founder, l’orrore horror, un’edizione limitata una limited edition… non siamo davanti a “prestiti” ma all’abbandono dell’italiano, e con questa logica dell’abbandono forse di lusso o di necessità – lasciamo ogni giudizio ai linguisti – il verde diventa green, gli animali domestici pet, i biglietti ticket, i negozi shop e store… e il risultato è una lingua borderline dove persino ciò che si produce in Italia – cioè il made in Italy – e le nostre eccellenze si rinominano in inglese, dal disegno industriale diventato design, al settore alimentare che è quello del fooddell’epoca dei MasterChef.

Come se davanti al profumo dell’inglese fosse la nostra lingua a puzzare di merda.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

United colors of itanglese

Di Antonio Zoppetti

In italiano fino a metà Ottocento non avevamo il colore blu. C’era il celeste, il colore del cielo, e altre parole di derivazione esotica come l’azzurro (dei lapislazzuli) oppure il turchese o il turchino che facevano riferimento alle tonalità delle pietre provenienti dalla Turchia. “Blu” è un’italianizzazione del francese bleu, che a lungo si diceva alla francese, e che ne I neologismi buoni e cattivi di Giuseppe Rigutini (1886) veniva condannato come un vocabolo di cui non avevamo alcun bisogno.

Lo stesso è avvenuto per il marrone, dal francese marron cioè il colore della castagna, entrato poi nella nostra lingua non solo per indicare i marroni (per es. i marron glacé) ma anche per denominare il loro colore. Per molto tempo anche in questo caso si usava il francese crudo, tanto che nel Dizionario moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni di Alfredo Panzini (1905) si leggeva: “Per indicare il colore ‘marrone’, nel linguaggio della moda prevale, per vero abuso, la voce francese. E le belle voci nostre ‘lionato, avana’?”.

Tra i colori importati dal francese attraverso il gergo della moda ci sono anche il lilla (o lillà con pronuncia francese), il beige e il bordeaux, simile al Borgogna o al color vinaccia.

Oggi il francese è sempre più demodé, ed è l’inglese a essere di moda persino nel settore della moda, per cui il vetusto belletto per ravvivare le gote che un tempo era il fard è denominato blush, dai fuseaux si è passati ai leggins, dalle coulotte ai boxer e agli slip (pseudoanglicismo: mutatis mutanda) e dalle paillette al glitter (ma comunque sono sempre lustrini).

Naturalmente l’odierna interferenza dell’inglese non è minimamente paragonabile a quella del francese sino alla Belle Époque, sia per il numero delle parole importate, sia per la profondità con cui gli anglicismi si radicano nel linguaggio comune. Oggi le parole angloamericane non sono più condannate come ai tempi dei francesismi, da cui deriva il proverbiale “scusate il francesismo” con cui si chiede venia per una parolaccia. Al contrario, i nuovi linguisti – con qualche eccezione – spesso tendono ad assolverli con la retorica dell’uso che fa la lingua e con le ridicole etichette dei prestiti di “necessità”. E così se il francese era confinato a settori marginali della lingua come il costume, la moda o la cucina, l’inglese di oggi non è più d’élite ma di massa, e coinvolge i settori strategici della modernità come il lavoro, la tecnologia o la scienza, riguarda oramai la metà dei nostri neologismi del Duemila, e soprattutto dà origine a migliaia di voci ibride che non sono più né inglesi né italiane e costituiscono un dissesto lessicale senza predenti storici. Se stando alle marche di un dizionario come il Gradit di Tullio De Mauro i francesismi sono stati adattati nel 70% dei casi, con l’inglese questa proporzione è ribaltata: per il 70% delle volte gli anglicismi entrano senza adattamenti. E in questo tsunami anglicus si strutturano in famiglie di parole che si ricombinano tra loro allargandosi una rete sempre più fitta di espressioni che soffocano le nostre.

L’analisi dei colori in inglese mostra bene questo fenomeno.

Il green speranza

Il caso più evidente è forse quello del verde rimpiazzato da green. Tutto ha avuto inizio agli inizi degli anni Ottanta con un “tecnicismo” mutuato dal gioco del golf, dove il green era la zona intorno alla buca caratterizzata dall’erba ben rasata, e immediatamente dopo l’anglicismo è passato a indicare per estensione il campo da golf nella sua interezza, cioè il prato o il verde. In men che non si dica dal colore in senso letterale green è passato a indicare ciò che è verde in senso lato, e ha cominciato a circolare anche evergreen al posto di sempreverde per indicare qualcosa di intramontabile, sempre di moda (o attuale), dunque un classico, per esempio un brano musicale, un libro o un film.
Intanto, alla fine degli anni Novanta, attraverso l’espressione new economy che indicava la nascente economia della Rete, abbiamo iniziato ad abbandonare la parola economia per passare ad economy in sempre più contesti, quindi se c’era la new economy quella vecchia è diventata old economy, e oggi si parla di green economy, mentre tutto ciò che è ecologico è diventato green, per esempio i green bond, cioè le obbligazioni verdi o ecologiche (legate a progetti rispettosi dell’impatto ambientale). Dulcis in fundo, con la pandemia è arrivato il green pass, preceduto a dire il vero dalla green card (cioè una carta verde che consente agli immigrati di soggiornare e lavorare nel Paese che li accoglie), e green è ritornato a essere anche un colore, al posto del nostro verde che in sempre più ambiti sta diventano obsoleto e si avvia verso la stagione del foliage, per esprimere in inglese i colori autunnali.

Blue sky (il cielo è sempre meno blu)

Ormai anche il bleu francese tende sempre più alla sfumatura del blue in inglese, in un abbandono della sua italianizzazione che si ritrova invece nel colore primario ciano usato in tipografia (dall’inglese cyan a sua volta dal greco). Infatti l’ultima frontiera della green economy ha cambiato colore, l’economia circolare, del riciclo – ma anche quella legata al mare – è denominata blue economy (nessuno parla di economia blu, dell’italiano ci si vergogna). Nel caso del “blue” al posto del “bleu” e del nostro “blu” il capostipite risale ai blue jeans degli anni Sessanta (oggi quel tessuto e quel colore è espresso anche con denim), poi è arrivato il tecnicismo blue screen, cioè lo scontorno cinematografico che prevede la possibilità di ritagliare un figura su sfondo uniforme per sovrapporla ad altri sfondi, e questa chiave cromatica (convenzionalmente blu) non si dice in italiano, ma preferibilmente in inglese per essere maggiormente“tecnici”: è il chromakey. Ma del resto la gamma dei colori è la palette (letteralmente la tavolozza dei colori) e nessuno si sognerebbe di chiamarla “paletta” (che vergogna! Che parola ridicola!), dai programmi grafici ai set (assortimenti) di trucchi cosmetici, c’è solo la palette.

In economia e finanza si sono diffuse le blue chips, che non sono altro che azioni sicure, a rendimento costante, gli investimenti senza rischio (o a rischio zero), mentre nell’ambito musicale ci sono le blue notes, cioè le note calanti e gli intervalli tipici del blues o del jazz (dove blue ha un’accezione che denota tristezza e malinconia), ma ancora una volta guai a dire note blu, non avrebbe la stessa connotazione. E in attesa di rinominare il periodo blu di Picasso “blue period” possiamo accontentarci di chiamare un film a luci rosse blue movie (con slittamento cromatico). Quanto al rosso è già diventato red nel caso del tappeto rosso, le passerelle dei divi sono sempre e solo red carpet, sui giornali e sui mezzi d’informazione che si occupano di gossip (pettegolezzo e cronaca rosa sono tramontati definitivamente davanti ai prestiti sterminatori dell’angloamericano).

Poiché gli anglicismi si strutturano in famiglie e le loro radici si ricombinano in tutti i modi, tornando al green, non si deve dimenticare di citare il greenwashing, cioè una riverniciata di verde e un ambientalismo di facciata costruito sul modello di whitewashing (bianco + washing = lavaggio) che, come nella parabola evangelica dei sepolcri imbiancati, consiste nel dare una mano di bianco, una sbiancata, ed è un termine impiegato per stigmatizzare la consuetudine cinematografica di utilizzare attori bianchi nei ruoli che storicamente spetterebbero ad altre etnie. Cambio di colore: c’è anche il pinkwashing per indicare l’ipocrisia rosa e il femminismo di facciata; l’importante è ricorrere alle espressioni e ai colori inglesi, dunque nell’ambito della moda circolano il rossetto pink o la pink mania di vestirsi di rosa da vere pink lady.

Black&White (50 sfumature di grigio)

Quanto al bianco c’è il look total white oppure, passando al suo opposto, il total black che fa piazza pulita del completo in nero. Se in una celebre fiaba un bambino gridava “il re è nudo”, oggi anche i vestiti trasparenti con l’effetto nudo si chiamano nude look, mentre l’effetto bagnato dei capelli è il wet look o effetto wet. Ma dall’assenza di colore torniamo al black. Ha fatto la sua comparsa con il blackout, cioè l’interruzione elettrica (o della corrente), ma se va via la luce non si deve dire così, l’italiano è un registro troppo popolare e villano, blackout fa tutt’altro effetto e si appoggia al blackjack (un gioco d’azzardo che un tempo si chiamava anche fante nero o ventuno), alla blacklist (basta con lista nera!) e alle black comedy che un tempo erano commedie nere, mentre gli antiglobalisti più estremisti, preferibilmente detti no global, sono i black bloc. Stavo per dimenticare l’ultimo arrivato della famiglia, il black friday che in pochi anni di vita è già diventato un anglicismo “necessario” e insostituibile, visto che i saldi o gli sconti pre-natalizi farebbero tutto un altro effetto.

Dal black al dark il passo è breve. Una donna fatale (al punto di morirne) che un tempo era appellata anche con il francese femme fatale oggi è preferibilmente una dark lady, così come le atmosfere cupe, tenebrose e decadenti sono dark, e nei sexy club si diffondo le dark room. In informatica un dark pattern (lett. percorso oscuro) indica i siti progettati appositamente per confondere il navigatore e indurlo a compiere scelte e percorsi non desiderati (acquisti o abbonamenti non richiesti, impossibilità di trovare le funzioni di disiscrizione…), in altre parole le interfacce (o siti) ingannevoli (truccate o subdole), le trappole e i trabocchetti virtuali concepiti in modo truffaldino. Pattern nella grafica indica un motivo o uno schema che si ripete (anche di colori) che è molto simile a una texture, cioè a un insieme di disegni e decorazioni ripetute che costituiscono lo sfondo di immagini digitali (per es. una texture marmorizzata, che simula il marmo), che è meglio dire in inglese piuttosto che ricorrere a espressioni come motivo, composizione o riempimento. E così, mentre il Carnevale è in declino e lascia il posto alla tradizione di Halloween imposta dalle multinazionali alla fine degli anni Novanta, è sorta la generazione dei nativi halloweeniani che parlano in itanglese, e forse persino l’abito di Arlecchino si può meglio esprimere attraverso il concetto di patchwork.
Di recente si sta affacciando anche un po’ di marrone a smerdare del tutto l’italiano, per esempio con un tipo di eroina che qualche decennio fa si diceva brown sugar (lett. zucchero scuro) o con i dolcetti al cioccolato a quadretti chiamati brownie.

Presto forse passeremo a dire in inglese anche tutti gli altri colori che per il momento ci mancano: “Con i secchi di anglicismi coloriamo tutti i muri, case, vicoli e palazzi…”. Sarebbe ora di smetterla di dire giallo o arancione, non è più moderno e internazionale ricorrere a yellow di Yellow submarine e al colore dell’orange juice? Del resto la limetta (che resiste però nella cucina degli chef stellati) al supermercato è solo lime.

Che bei “doni” (come qualcuno li chiama) tutte queste parole inglesi così colorate! Senza di esse l’italiano sarebbe un mondo grigio, anzi gray.