Dal codice a barre (in italiano) al QR code (in inglese)

Di Antonio Zoppetti

La notizia di questi giorni (in italiano e rivolta a tutti) è che dal 2027 sarà adottato un nuovo protocollo che prevede la sostituzione dei codici a barre con i codici QR nel settore delle vendite, del largo consumo e della grande distribuzione. In itanglese si può – ormai forse meglio – sintetizzare tutto ciò parlando del nuovo standard dei QR code per il retail.

Il codice a barre e il codebar

L’idea dei codici a barre nasce negli Stati Uniti intorno agli anni Cinquanta, ma dopo un lungo periodo di esperimenti e insuccessi il sistema viene perfezionato nel 1973, mentre l’anno successivo trova le prime applicazioni pratiche e, intorno al 1977, il protocollo sbarca anche in Europa per diffondersi sempre maggiormente.

Se confrontiamo questa storia con le frequenze di “codice a barre” nell’archivio di Google libri, vediamo infatti che l’espressione spunta dal rumore di fondo nel 1972, e nel 1977 la sua frequenza comincia a salire fino al 1994. Dopo qualche anno di stallo le occorrenze continuano a salire a partire dal 1998, e non è un caso che in quegli anni i codici a barre ISBN siano diventati obbligatori anche per i prodotti editoriali come i libri o i cd. Non si tratta di un obbligo vero e proprio, per essere precisi, ma di un requisito imposto dalla grande distribuzione per cui, senza il codice, questi prodotti non possono più finire nei circuiti di vendita ufficiali.

In inglese tutto ciò si chiama barcode, ma se aggiungiamo su Ngram Viewer anche questa parola, vediamo che l’inglese spunta solo successivamente, e la sua frequenza è bassissima. Si tratta probabilmente del riversamento in italiano dell’inglese internazionale non tradotto, e fuori dalla comunicazione in inglese – o dalla sua ostentazione da parte di qualche anglomane che preferisce infighettare i concetti con una connotazione alberto-sordiana – l’italiano resiste e non cede.

Il QR code e il codice QR

Il codice Qr è bidimensionale e contiene molte più informazione di quello a barre. La sigla QR sta per Quick Response (code), il sistema risale al 1994, ed è stato sviluppato in Giappone dalla Denso Wave. Per un decennio è stato un sistema che si imposto solo lì, e per diffonderlo, nel 1999, l’azienda ha deciso di renderlo distribuibile liberamente. In questo modo, in seguito è stato utilizzato anche negli Usa e in Europa, e se visualizziamo questa storia su Ngram Viewer vediamo che l’espressione “QR code” compare nel 2005, nello stesso anno in cui negli Stati Uniti è stato lanciato un progetto che permetteva di leggere il codice attraverso i nuovi telefoni intelligenti denominati smartphone, per collegare i luoghi fisici per esempio alle relative voci della Wikipedia. Da allora il fenomeno è esploso.

La differenza rispetto alla storia dei codici a barre è evidente: l’espressione è stata esportata direttamente in inglese e senza traduzione, nonostante l’origine nipponica della tecnologia. In linea di massima, visto il diverso sistema di scrittura rispetto all’alfabeto latino, nel Paese del Sol Levante le multinazionali che puntano alla conquista del mondo tendono a impiegare l’inglese in modo ancora più marcato delle altre, tanto che anche il walkman era un marchio registrato della giapponesissima Sony. Comunque sia, invece di tradurre l’espressione come era avvenuto nel caso dei “barcode”, è avvenuto tutto il contrario: abbiamo cominciato a ripetere a pappagallo “Qr code”, e cioè l’espressione che le interfacce dei telefonini esportavano nella propria lingua, come è avvenuto per downolad, e-mail, directory, password, account

L’equivalente italiano codice QR (pazienza se l’acronimo nasconde una sigla in inglese, non è questo un gran problema, in fin dei conti) è apparso come soluzione secondaria e non è mai decollato, dunque in italiano si tende a utilizzare l’inglese, nella scrittura e nella pronuncia.

Morale della favola

Se nel 1972 l’italiano era ancora una lingua sana e la traduzione della tecnologia d’oltreoceano era un fenomeno naturale e spontaneo, 30 anni dopo (in una sola generazione) tutto era cambiato. La nuova lungimirante “strategia” dei terminologi colonizzati è stata la rinuncia alla traduzione in favore dell’importazione degli anglicismi crudi (che spesso certi addetti ai lavori certificano con una sorta di “bollino blu” che ne sancisce la “necessità”, l’“insostibuitilità” e altre simili sciocchezze che valgono solo per l’Italia); e così la terminologia informatica priva di anglicismi degli anni Settanta (quando c’erano terminali, periferiche, stampanti a margherita, schede perforate, calcolatori…) ha portato all’attuale deriva del linguaggio di settore dove è avvenuto un “collasso di ambito”: l’italiano non è più in grado di esprimere la modernità senza ricorrere alla stampella dell’inglese, e il settore si esprime oggi in itanglese.

Se nei prossimi anni il codice a barre sarà sostituito dal QR code, e non dal codice QR, avremo un anglicismo in più e una parola italiana in meno.

Naturalmente – lo ribadisco per i mistificatori che rivoltano le frittate delle mie riflessioni – la cosa grave non è che si dica QR code: si tratta di un singolo anglicismo che preso da solo non significa niente. La cosa grave è la somma di questi fenomeni che giorno dopo giorno si trasformano in “prestiti sterminatori” che fanno piazza pulita dell’italiano, e che negli anni Duemila non sappiamo far altro che ripetere in inglese invece di tradurre, adattare o inventare parole nuove. Le conseguenze di questa strategia sono sotto gli occhi di tutti. Se la rivoluzione industriale di fine Ottocento e del Novecento ci hanno portato la lampadina e la televisione, e non la lamp e la television, quella del nuovo millennio ci ha colonizzato con i computer, i mouse, il wireless e così via.

E per i negazionisti che fanno finta di non vederlo e di non capirlo, basta leggere come questo giornale riporta la notizia che all’inizio del mio articolo ho tradotto in italiano:

Per la cronaca: dai conteggi automatici (che considerano “QR code” due stringhe distinte) il testo riportato è composto da 141 parole in tutto, di cui 19 in inglese. Ma se si eliminano le date scritte in cifre e i nomi propri di persone o aziende (che non vanno conteggiate né come parole italiane né come parole inglesi) il rapporto è di 122 a 19, una percentuale che supera il 15% e che rende questo esempio un caso di lingua ibrida a base inglese, e non di una lingua sana che si appoggia sporadicamente a qualche “prestito” (considerando “QR code” come una parola sola, la percentuale scenderebbe a poco più del 9%, che non è comunque una bazzecola).

Un “alert” per la lingua italiana (anatomia dell’imposizione di un “prestito”)

di Antonio Zoppetti

Il nuovo “sistema di allarme pubblico per l’informazione della popolazione” che ci avvisa tramite un messaggino delle emergenze legate alla protezione civile ha un nome in inglese (che novità!): IT-Alert.

Questa scelta si inserisce in una prassi che da tempo non solo vuol fare dell’inglese la lingua dell’apparato burocratico-amministrativo dell’Europa, ma lo vuole imporre anche ai cittadini dell’Ue, benché sia una direzione illegittima (non esiste alcuna carta che ufficializzi l’inglese) che calpesta i principi dell’Unione fondati sul plurilinguismo.

Da quello che ho potuto ricostruire (se non vado errando), la differenza rispetto ai messaggi di prova già avviati in Francia e in Spagna è che da noi l’allarme è diramato non solo nell’idioma nazionale, ma anche in inglese, con la stessa logica del bilinguismo a base inglese utilizzato per esempio nella comunicazione delle stazioni e dei treni. Il plurilinguismo di una volta che presupponeva una comunicazione in italiano, francese, tedesco e inglese è stato cancellato, e la nuova strategia presuppone che tutti i turisti debbano sapere l’inglese. È la stessa logica con cui si concepiscono – tra le polemiche (almeno all’estero) – in modo bilingue i documenti come la carta d’identità, la patente o la certificazione verde dei vaccini contro il virus a corona. Applicare gli stessi principi anche agli allarmi pubblici non è però solo discriminatorio sul piano etico, è anche pericoloso su quello pratico. Di fatto l’inglese è conosciuto dal 20% dell’umanità, e non è detto che sia recepito da tutti. E chi non sa l’inglese o l’italiano? Peggio per lui, evidentemente può anche crepare. Eppure aggiungere una traduzione anche in altri idiomi non rappresenterebbe di certo un costo significativo. Ma questa logica che vale per le istruzioni di tutti i manuali degli elettrodomestici non vale per le emergenze nazionali.

Passando alla comunicazione in italiano, la scelta di usare la parola “test” invece di un più immediato e popolare “prova” (come in Spagna) la dice lunga su come le istituzioni abbiano a cuore la nostra lingua.
Certo, anche se qualcuno al microfono esordisce ancora con “tza tza prova” invece di un ben più moderno e internazionale “tza tza test”, quest’ultimo anglicismo è ben radicato, e non pone problemi di comprensibilità. Ma da quando, invece, un allarme è diventato un alert?

Mentre i linguaioli sono imprigionati nelle categorie dei prestiti di lusso e di necessità che vivono solo nella loro scatola cranica, la ricostruzione storica dell’allargarsi di alert aiuta un po’ meglio a comprendere come stanno le cose.

All’erta siam anglicisti!

L’etimo di allerta deriva dalla locuzione all’erta del gergo militare, che ha a che fare con una salita (erta) per scalare un luogo elevato da cui è possibile controllare un territorio (“All’erta!” “Allerta sto!”). È lo stesso meccanismo che ha generato allarme, letteralmente all’arme, cioè una chiamata a impugnare le armi perché arriva il nemico. Per tutto il Novecento i “red alert” che vedevamo lampeggiare nei film sono sempre strati tradotti con “allarme rosso” e a nessuno sarebbe venuto in mente di parlare di alert invece che di allarme. Nel nuovo millennio l’anglicismo ha invece cominciato a imporsi e a guadagnare terreno.

Più che un “prestito” per nostra volontà, questo bellissimo “dono” è il risultato dell’esportazione della lingua dei Paesi dominanti ai popoli inferiori, e per comprenderne i meccanismi di propagazione si può incrociare l’aumento delle occorrenze rilevato dall’archivio di Google libri con quello che si registra nell’archivio del Corriere.it. Come si vede in figura, dal 2000 al 2010 le occorrenze sono passate da una all’anno alla decina, per salire nell’ordine delle decine negli anni Venti e apprestarsi forse a raggiungere le centinaia nel prossimo decennio.

Entrando nelle notizie e analizzando i contesti di utilizzo, il percorso è chiaro, e si possono delineare tre fasi.

FASE UNO
All’inizio alert faceva parte di citazioni virgolettate dall’inglese, di articoli in inglese o di denominazioni di sistemi inglesi. Il primo a usare questa parola è stato Beppe Severgnini nella sua rubrica “Italians” e fino al 2003 la parola si trovava solo nei suoi pezzi. Quello stesso anno, tuttavia, arrivò Google a imporre la lingua d’oltreoceano a tutti, grazie al servizio “Google Alert” che permetteva di abbonarsi e ricevere automaticamente sulla casella di posta le notifiche per determinate parole chiave. Nello stesso periodo anche tutti gli altri sistemi informatici hanno contribuito a “prestarci” gentilmente la stessa parola, insieme a centinaia di altre non tradotte come download, spam, email, file, time-line… perché le multinazionali d’oltreoceano tendono a colonizzare i mercati conquistati, più che a rispettarne le peculiarità (a meno che ciò non comporti qualche penalizzazione sul mercato, e allora traducono). Dunque, le occorrenze sul Corriere di volta in volta riguardavano contesti come: “Da un po’ di settimane ho cominciato a ricevere degli «urgent fraud alert notice» alla mia casella di posta elettronica” (2005); “I continui messaggi di alert dei social-network («Sei stato invitato a…» (2009); “Vine, il social network delle emergenze (…) É anche possibile impostare Vine in modo che gli alert vengano trasmessi sul proprio telefono cellulare” (2009). Accanto a questi usi informatici, continuavano a circolare anche gli usi dovuti al riferire di cose americane senza tradurle (“A rivelarlo è la Fox news, all’indomani del travel alert lanciato dagli Stati Uniti per i cittadini americani che viaggiano in Europa”, 2010), e complessivamente la parola ci arrivata da queste pressioni esterne.

FASE DUE
Dalle citazioni e dall’esportazione dell’inglese informatico, il passo successivo è stato l’emulazione da parte dei sistemi informatizzati della colonia Italia, che hanno cominciato a usare “alert” al posto di avviso (ma circola anche warning) o di allarme anche per la realtà nostrana: “Parte oggi il servizio «Sms Alert» e viene sperimentato da 500 passeggeri Atm” (2008); “Il nuovo sistema di allerta in caso di emergenze del Comune di Firenze. `Alert system Firenze´, questo il nome dell’applicazione…” (2014). È chiaro che se i sistemi informatici americani dicono alert, anche noi figli di Nando Mericoni dobbiamo adeguarci.

In questo modo alert in un primo tempo è penetrato nell’italiano ricavandosi un suo significato peculiare di tecnicismo (che non esiste in inglese) come un allarme/avvertimento automatizzato. E i giornalisti hanno cominciato a usare l’anglicismo in questi contesti, per la gioia del “non-è-proprista” che davanti all’obiezione per cui il “prestito di lusso” era del tutto fuori luogo avrebbe potuto rispondere con la solita tiritera: “Alert non è proprio come allarme, che ha una valenza più generica, si riferisce agli avvisi informatizzati…” e altre simili idiozie.

FASE TRE
Intanto l’anglicismo veniva importato sostituendo l’italiano anche in altri contesti e con ben altre valenze, tutte figlie dell’americanizzazione della cultura, per cui in un pezzo del 31 luglio 2012 si poteva leggere che le aragoste sono in grado di comunicare tra loro per esempio mettendosi in “stato di alert (animale sta dritto sulle zampe posteriori)”. In men che non si dica, da tecnicismo informatico alert ha cominciato a essere usato sul Corriere anche in senso lato al posto di allarme entrando nel linguaggio comune a partire dal 2015. E così, nel 2017, la parola è passata dai giornali ai vocabolari ed è stata aggiunta tra i lemmi dello Zingarelli. Mentre l’anglicizzazione permeava già la maggior parte dei neologismi, il 27 novembre 2018, tra i tanti esempi che si possono fare, si poteva leggere che le domande di aiuto psicologico degli studenti sono “un alert impossibile da non considerare che spinge l’Ateneo, ma anche l’intera città universitaria, a riflettere sul suo futuro.” In questo aumento delle frequenze e in questo allargamento di significato, in epoca di covid la moltiplicazione degli alert informatico-sanitari è cresciuta, e oggi siamo arrivati all’istituzionalizzazione di IT-Alert.

A questo punto è chiaro che alert è stato esportato in tutto il mondo globalizzato, e noi semmai, da veri colonizzati, alla fine lo abbiamo accettato senza remore ed emulato. Un’analisi delle occorrenze della parola in italiano (azzurro), francese (rosso) e spagnolo (verde) mostra bene che l’espansione delle multinazionali ha un impatto mondiale, anche se le occorrenze altrove sono più basse, oppure dopo un primo picco si sono poi abbassate, come in Francia (un Paese retrogrado che difende la propria lingua), mentre da noi continuano a salire.

Scenari futuri

Ho letto su un sito di collaborazionisti dell’inglese una piccata lamentela sul fatto che la parola è pronunciata “erroneamente” come “àlert” mentre bisognerebbe dire “alèrt” come in inglese. E questo è davvero inaccettabile per chi considera l’itanglese non come una creolizzazione della nostra lingua e cultura ma come un uso improprio della lingua sacra.

Il punto è che simili anglicismi che ci arrivano per via scritta non si amalgamano con il nostro sistema fonologico, e visto che la conoscenza dell’inglese è bassa, ecco che la pronuncia diventa problematica. Le nostre parole tendono a terminare in vocale e non in consonante, e l’accento si ritrae istintivamente, per cui alert segue il modello di Alberto-Albert e di pronunce per analogia basate su parole come transfert, contest, water, poster, escort… Ecco spiegata l’anticipazione non ortodossa, che si ritrova per esempio anche in “rèport” invece di “ripòrt” o “Nòbel” invece di “Nobèl” (per passare allo svedese). È probabile che nei prossimi anni gli anglopuristi avranno la meglio su queste pronunce da ignoranti che storpiano la purezza della lingua delle multinazionali e forse in futuro queste “italianate” cesseranno come è già successo a chewingum, puzzle, jumbo, cult… che solo in tempi recenti sono state finalmente anglicizzate anche nella dizione, come sta accadendo per i latinismi junior, plus, media

Quanto al lessico, forse verrà un giorno in cui ritorneremo a dire allarme invece di alert – come profetizza qualcuno sulla base del nulla – ma tutto lascia presagire che l’anglicismo sia destinato a radicarsi e a diffondersi, anche se la speranza è che non si trasformi in un prestito sterminatore, come nel caso del computer che ha scalzato e soppiantato il calcolatore.

Poiché questi trapianti non sono isolati, probabilmente alert si comporterà come moltissime altre parole inglesi, che una volta intrufolate mettono radici e fanno famiglia. Si possono prevedere future locuzioni in cui si ricombinerà forse con altre radici inglesi (es. alert system invece di sistema d’allarme, con inversione sintattica) o darà vita a parole macedonia mescolate all’italiano.

Soprattutto, se questo anglicismo continuerà a penetrare nel linguaggio comune e ad allargarsi, si prevedono forti cambiamenti morfologici come per moltissime altre parole inglesi. Per esempio, come chiamare un servizio di allarme se non alerting? Tra i neologismi della Treccani questa parola è già stata avvistata e registrata: “Non convincono invece i servizi di simulazione di finanziamento (…) e i servizi di alerting (www.ilsole24ore.com 04/09/2004)”.

Ma allora come chiamare, che ne so, un dispositivo di allarme o un addetto a questo tipo di servizio se non “alerter”? Anche questi precedenti si intravedono in denominazioni come il “segnalatore acustico SIP Audio Alerter 8186”.

Non vorrei passare per un fake-alerter, ma il mio timore è che presto l’allarmismo della storiella di chi grida a vanvera “al lupo! Al lupo!” potrebbe anche trasformarsi nell’over-alerting di Pierino e il coyote (se non direttamente Little Peter & the Wolf). Potrei sbagliarmi, certo (e lo spero), ma tutto ciò lo abbiamo già visto e lo stiamo vedendo con i corridori che diventano runner, con i negozi che diventano shop tra lo shopping e gli shopper, con i blog, i blogger e il blogging, mentre il cucinare è cooking, la coabitazione cohousing, e chi più ne ha più ne metting!

L’inglese che spazzola l’italiano

di Antonio Zoppetti

Nell’ultimo articolo, con l’esempio del “phubbing”, ho mostrato come i giornali educhino all’inglese con modalità ben collaudate. Sul Corriere di oggi è la volta del “brushing”, con cui si dà un colpo di spazzola all’italiano per introdurre il corrispondente in lingua inglese.

Nella categoria “e-commerce” – visto che commercio elettronico è lungo, obsoleto e soprattutto una patetica espressione italiana – si riferisce della “truffa del ‘brushing’ che può svuotarvi il conto corrente”. Leggendo l’articolo arriva la definizione: “La truffa è nota come «brushing», che in inglese richiama appunto la spazzolatura. Di cosa? Del conto corrente. (…) Così la vittima cade nella rete e il suo conto viene «brushato», spazzolato, svuotato.”

Il giornalista, nello spiegare il significato di “brushing” ricorre alla parola “spazzolatura” – che ha un significato tecnico nella produzione tessile e tra i parrucchieri – e non a “spazzata” che si usa in italiano in senso generico. E non contento dell’anglicismo, per completare la distruzione del nostro lessico aggiunge anche la sua ibridazione con l’italiano (“brushato”).

Analizziamo le motivazioni che portano a queste scelte, e chiariamo perché il problema non sono i singoli anglicismi, ma appunto la mentalità coloniale che porta a preferirli e a farne dei tecnicismi “di necessità”, per citare le categorie coloniali utilizzate da certi linguisti.

Spazzolare, in senso lato, in italiano indica il far piazza pulita, lo svuotare. Si può spazzolare per esempio un piatto di spaghetti – cioè divorarli con voracità – mentre spazzolata, da vocabolario, può riferirsi anche a un prelievo fiscale vessatorio. Analogamente, spazzare significa anche rubare, razziare denaro o beni preziosi, svaligiare una casa o un magazzino svuotandoli. E allora la parola italiana che si può usare al posto dell’inglese è semplicemente spazzata o spazzolata, invece che spazzolatura, ma guai a parlare di truffa della spazzolata! Bisogna seguire l’inglese, la lingua dei padroni, la lingua modello dei pappagalli italiani che ripetono come talebani il sacro idioma superiore. La grammatica inconscia è sempre la stessa: i tecnicismi informatici si devono dire in inglese, e così il calcolatore è stato buttato via in nome del computer, e il mouse non l’abbiano nemmeno tradotto. La terminologia informatica “italiana” segue queste regole e questa logica. Anche quando gli anglicismi non sono tecnicismi, ma metafore: spazzolata/messa in piega, topo, scarico (dei dati), influenti, piattaforme sociali… diventano termini monosignificato di ambito informatico: brushing, mouse, download, influencer, social… che si ricavano una loro nicchia che fa piazza pulita del lessico italiano. La giustificazione teorica di queste scelte linguiciste spacciate come necessarie (anche questa è la truffa delle spazzolate che svuotano il nostro lessico) è sempre la solita, e intrisa di ipocrisia: si dice così, è in uso, in inglese si chiama brushing

Si dice così? E chi lo dice?
– È un tecnicismo… è in uso…

È in uso? L’uso di chi? Di chi non sa fa altro che ripetere e introdurre l’inglese? Se fosse in uso non sarebbe necessario né virgolettarlo né spiegarlo. Non è affatto nell’uso comune, siete voi che lo state facendo entrare nell’uso con queste tecniche di comunicazione coloniale.
In inglese si dice così. In italiano non c’è un equivalente. Punto.

Il problema di come si può rendere in italiano, nemmeno si pone. E se qualcuno lo pone, la risposta è la medesima: l’equivalente italiano “non è proprio come….”.

In questo decervellamento culturale, e in questo stillicidio lessicale, il risultato è che l’italiano diventa itanglese. La ragione sta in parte nell’anglomania e in parte nel non conoscere la nostra lingua, per cui molti anglicismi avrebbero degli equivalenti, ma i palanti e gli scriventi sembrano non conoscerli o non volerli utilizzare.

E così ognuno introduce e diffonde i propri anglicismi insostituibili in ogni ambito: in politica la Meloni si definisce underdog, e Salvini vuole la flat tax; in economia si parla di spread e di joint venture; sul lavoro è tutto un pullulare di cariche in inglese, dai vertici che sono manager fino alle mansioni meno blasonate di dog sitter e rider, mentre oltre alle cariche si anglicizzano anche i processi produttivi, dall’outsourcing al branding, e le nuove scuole-aziende formano nella newlingua le nuove generazioni con i loro master.


Intanto i negozi diventano store, shop, outlet e sotto casa mi hanno appena aperto un “forno italiano” denominato italian bakery proprio accanto all’italian hair line… perché anche i panettieri, insieme ai parrucchieri e barbieri, ce la mettono tutta per dare una spazzolata all’italiano che sostituiscono con le americanate.

Ormai viviamo in un Paese culturalmente e linguisticamente occupato. L’itanglese è divenuto la nuova lingua dei giornali (nell’immagine seguente lo speciale cinema di Venezia) e dei nuovi centri di irradiazione della lingua.

Itanglese e Posteitaliane

Di Antonio Zoppetti

Irene, una lettrice che si è iscritta a questo sito, mi ha segnalato che la procedura prevede alcuni passaggi dal linguaggio pieno zeppo di anglicismi, per esempio:

“Per completare l’attivazione del tuo account, vai al seguente link e fai click sul pulsante Attiva. Il tuo account è stato attivato con successo! Ora puoi effettuare il login con l’username e la password inseriti in fase di registrazione.”

Naturalmente questi messaggi di sistema sono quelli di WordPress, e non sono affatto capace di personalizzarli, ho già fatto fatica a modificare la gabbia (chiamata il template di un blog pieno di anglo-tecnicismi come admin, pingback, plugin, widget…) sostituendo “Home” con “Pagina iniziale, “About” con “Chi sono” e via dicendo.

Questo è il linguaggio che le piattaforme sociali ci propinano quotidianamente, e che hanno fatto entrare nell’uso fino a renderlo normale. Anche chi vorrebbe evitarlo, come me, non lo può fare, con il risultato di diffonderlo e di rafforzarlo. Tutto ciò avviene grazie alla complicità di “traduttori” e “localizzatori” che non si sognano di toccare questa terminologia, anzi, spesso la preferiscono e la sbandierano come “necessaria” o “opportuna”, non di rado con una certa cialtroneria. A questi “professionisti” dell’itanglese che proclamano le parole inglesi “tecnicismi” necessari poco importa della propria lingua, al contrario dei loro colleghi francesi o spagnoli dove c’è una certa attenzione nella traduzione dei termini. Il punto è che l’anglomania degli addetti ai lavori non è un vezzo innocente, queste persone sono responsabili dello sputtanam… del depauperamento lessicale dell’italiano, perché queste mancate traduzioni diventano l’unica possibilità di esprimerci: la gente non può che ripetere queste parole e questo linguaggio.

La comunicazione è in mano ormai a questo tipo di persone, uscite da scuole di formazione che usano questo linguaggio e formano le nuove figure professionali che non sanno più parlare in italiano. E non vale solo per l’informatica.

Una rinomata traduttrice di narrativa, poesia e saggistica, Anna Ravano, mi ha inviato una foto molto significativa scattata in un’Esselunga di Milano.

“Zenzero” è stato aggiunto tra parentesi per mettere in primo piano e diffondere l’inglese, forse con la stessa logica del passaggio dalle lire all’euro: in un primo tempo si riportano entrambe le possibilità e quando la gente si è abituata si può finalmente passare alla neolingua.

È in questo modo che la nostra mente viene colonizzata e portata sulla via dell’italiano 2.0 del presente e del futuro. La pressione non è solo esterna, non arriva solo dalle piattaforme sociali delle multinazionali a stelle e strisce che esportano i loro nomi e concetti, ma anche dall’interno, dalle società del nostro Paese.

Basta analizzare il sito delle Poste per renderci conto che la lingua è ormai questa.

Poste italiane?

Luis Mostallino – un altro lettore che in passato aveva fatto un confronto tra gli anglicismi del sistema operativo di Iphone nella versione italiana, francese e spagnola – si è preso la briga di segnarsi tutti gli anglicismi che ha trovato sul sito di Posteitaliane (ma se si facesse lo stesso lavoro su quello delle Ferrovie dello Stato le cose non sarebbero molto diverse).
Di seguito li riporto in ordine alfabetico; l’unico problema è che qualche parola sarà di sicuro sfuggita, dunque non si tratta di un elenco proprio completo, abbiate pazienza.

A
account
acquiring
alert
all inclusive
app
air cargo

B
box
bug fix
business

C
call center
capital gain
card
cashback
cashless
cash international
chat
check-up
connect back
contactless
crono reverse
crono economy

D
data protection officer
deliver
delivery business express
delivery express
delivery Globe
delivery international
delivery Europe
digital
direct marketing
diversity & inclusion
download

E
e-commerce
e-procurement
e-shopper
evolution
express

F
family
fuel charge
full

G
gallery
la nostra “Governance”

H
hobby
know-how

I J K

L
leader
leadership
link
live
locker

M
merchant
MyPoste
multicurrency

N
network center
news

O
OK
online
open banking

P
packaging
password
Payment Services Directive
paperless
partner
People Care e Diversity Management
pick up
players
policy
PosteDelivey
Poste Delivery Box (versione express e standard)
PosteMobile
postenews
Postepay Sound
privacy

Q
QR code

R
rating

S
shopping
set
smart
smartphone
software firma OK
stakeholder
standard
start
surcharge

T
tablet
ticket
top
tarcking
tutorial

U
under 35
user

V
voucher

W
web
webmail
welfare

X


Y
yellow box

Z

Pensate anche voi quello che penso io?
E allora non resta che inondare il sito di Posteitaliane con la nostra protesta! È una vergogna! Passi la lettera X, notoriamente poco usata per le iniziali delle parole inglesi, ma il fatto che le lettere I, J, K e Z siano vuote è davvero imbarazzante! Possibile? Possibile che ai geni della comunicazione postale non siano venute in mente parole di uso comune come – che ne so – Image al posto di immagine, o Job, Kit, Zoom…? Sono parole ormai entrate nel dizionario di base della nostra lingua! Queste lacune sono uno sfregio per l’itanglese! Dunque non resta che scrivere e suggerire qualche inglesismo per colmare queste lacune!

Come dite? Non è quello che avevate pensato?

E allora siete vittime di un’illusione ottica, per citare le parole di un grande linguista. È un po’ come la temperatura percepita, che non è mica quella reale! E quando il termometro segna solo 30 gradi, se avete un collasso per il caldo percepito e per l’umidità, siete decisamente fuori luogo!

Ripenso all’elenco degli anglicismi di uno dei primi importanti studi del 1972 (Ivan Klajn, Influssi inglesi nella lingua italiana, Olschki, Firenze) e alle parole di Arrigo Castellani che nel 1987 scriveva:

“Prendiamo a titolo d’esperimento, le voci dell’elenco del Klajn che cominciano per b (non ce ne sono che cominciano per a, tranne il già raro e oggi svanito affatto all right).”

Da allora la lettera A di anglicismo si è molto arricchita, e da una voce siamo arrivati a 100, come si può vedere sul dizionario AAA che non è poi così diverso, come numero di lemmi, da quanto riportano dizionari come il Devoto Oli o lo Zingarelli. Ma nonostante gli A-nglicismi siano centuplicati, sono ancora pochi, e infatti il sito di Posteitaliane ne contiene qualcuno che non è ancora stato annoverato.
Se questo è italiano…

Concludo con qualche illusione ottica:

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

La terminologia della colonia Italia

Luis Mostallino è un lettore che mi ha scritto qualche tempo fa segnalandomi il disastro terminologico del sistema operativo dell’iPhone in “italiano”, se così si può ancora chiamare questa lingua. Dopo qualche scambio di vedute, ha deciso di segnarsi tutti gli anglicismi presenti e di inviare la sua lettera di protesta alla Apple. Poi ha fatto una cosa relativamente semplice in teoria, nella realtà un po’ più complicata perché il “device” non gli faceva aggiornare il “software” se prima non si era “loggato”, per usare il linguaggio del settore. Comunque sia, superando le difficoltà tecniche di questo tipo, è finalmente riuscito a impostare l’interfaccia in lingua francese e poi spagnola. Con tanta pazienza ha provato a segnarsi tutti gli anglicismi nelle rispettive localizzazioni, e non c’è paragone. Anche se di sicuro qualche parola gli sarà sfuggita, e dunque il risultato conterrà qualche lacuna e imprecisione, le differenze sono macroscopiche: in italiano ci sono circa un centinaio di termini inglesi, che si riducono a meno di una ventina in francese e in spagnolo.

Riporto l’elenco del glossario ordinato alfabeticamente; in grassetto ci sono le voci inglesi che sono presenti anche nelle altre lingue. Le parole in rotondo, invece, fuor dall’italiano sono tradotte.

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Ogni commento è superfluo, ma qualche riflessione è invece dovuta.

La nostra lingua è diventata inadatta a esprimersi in questo settore, e non è più autosufficiente come lo era negli anni Settanta. Non c’è solo il fatto che l’italiano è stato mutilato in ambiti come l’informatica (e tanti altri), dove circa la metà della terminologia così marcata nei dizionari è in inglese puro. Non c’è nemmeno solo l’ennesima prova della profonda differenza tra l’anglicizzazione dell’italiano e quella delle altre lingue romanze. Emerge invece tutta la differenza tra le lingue – e le società – sane e quelle che si stanno creolizzando nel lessico e nella mente.
L’espansione delle multinazionali, e della loro lingua veicolata insieme alle merci e ai prodotti culturali, da noi non è arginata da una pressione interna contraria che difende le proprie radici. Da noi non esistono accademie come quelle spagnole o quella francese che combattono gli anglicismi, creano e promuovono sostitutivi, difendono il loro patrimonio linguistico e lo fanno evolvere, invece che lasciarlo divorare da una lingua cannibale. Né ci sono banche dati terminologiche orientate alla traduzione come quella del Quebec. Da noi non esistono leggi che tutelano la nostra lingua, non esiste proprio il concetto di una “politica linguistica”, e i nostri politici ostentano gli anglicismi nella loro comunicazione e anche nel linguaggio istituzionale. I nostri intellettuali e la nostra classe dirigente collaborazionista agevolano dall’interno il ricorso all’inglese, dal linguaggio lavorativo a quello della scuola, da quello tecnico-scientifico a quello dei mezzi di informazione, dalla cultura sino agli ambiti più frivoli del costume e della società.

Pensiero, linguaggio e linguisti

I linguisti non sembrano i più adatti a comprendere quello che sta accadendo. I loro approcci sono astratti, utilizzano categorie di classificazione dei forestierismi vecchie e ridicole; chiamano i forestierismi “prestiti”, che non sottraggono la parola a chi ce l’avrebbe “prestata” e soprattutto che non si restituiscono affatto. Personalmente preferisco chiamarli “trapianti”. Alcuni sono trapiantati a forza, provengono dalla pressione esterna di una lingua dominante, molti altri li trapiantiamo e coltiviamo noi stessi, visto che abbiamo la mente sempre più colonizzata, e ricorriamo spesso ai trapianti geneticamente modificati di radici inglesi coniando parole il cui senso è quello di apparire in inglese senza esserlo. Accanto a questi “prestiti apparenti”, molti linguisti continuano a parlare di “prestiti di lusso” e “di necessità”, o parlano di anglicismi intraducibili o insostituibili senza accorgersi – o meglio: senza ammettere – che in questo modo giustificano il ricorso all’inglese e il circolare di ciò che è perfettamente traducibile e tradotto in Francia e Spagna, non c’è alcuna “necessità” nel farlo. Le loro dissertazioni sugli anglicismi, sulla presunta insostituibilità di parole come selfie o brainstorming, ricordano la caricatura dell’home ridicule, cioè il Visconte La Nuance di Edmondo De Amicis (L’idioma gentile, Fratelli Treves editori, Milano 1905), che ricorreva al francese perché ogni espressione aveva a suo dire una sfumatura di significato, una nuance appunto, che l’italiano non possedeva. Senza rendersi conto di essere tragicamente ridicoli, questi studiosi si perdono nella classificazione maniacale e sempre più analitica di tutti i processi teorici che coinvolgono il lessico senza vedere, fuori da questi schemini avulsi dalla realtà, cosa sta avvenendo. I più deficienti (da deficere, nel senso più etimologico e meno offensivo che possiate immaginare, per carità!) davanti all’interferenza dell’inglese credono che sia tutto normale, e continuano a ripetere che le lingue evolvono, e sono sempre evolute, anche per via esogena (= per l’interferenza di altre lingue) senza studiare, e capire, come si sta “evolvendo” l’italiano; senza cogliere le profonde differenze storiche tra ciò che accade oggi e ciò che è accaduto in passato, e senza scorgere gli elementi di novità, per esempio rispetto a quando a influenzarci era il francese. E così, mentre hanno classificato tutti i possibili modi in cui una parola può essere “produttiva” (suffissi, confissi, prefissi, alterazioni, composti…), parlano di ibridazioni (downloadare, fashionista…) senza andare a quantificarle, senza accorgersi che il fenomeno che ho chiamato degli anglicismi “prolifici”, nel caso del francese non esisteva, e che i derivati ibridi dell’inglese sono ormai centinaia e centinaia, e crescono ogni giorno formando una rete di corpi estranei che si allarga nel nostro lessico come un cancro (anche il cancro è “produttivo” del resto). Invece di studiare l’interferenza dell’inglese nella sua portata, i linguisti preferiscono limitarsi a individuare i meccanismi astratti di ibridazione. Come se un medico spiegasse a un malato che non respira che le malattie sono normali e ci sono sempre state, che è sopravvissuto alle influenze del passato e dunque sopravviverà anche a questa, come se invece di misurare quanta febbre ha il paziente gli si spiegasse che l’innalzamento della temperatura si chiama iperpiressia, mentre quello intanto muore. Ma i linguisti italiani non sono medici. Sono “descrittivisti”, seguaci di un liberismo linguistico il cui motto è che “la lingua non va difesa, ma va studiata” che è ormai sfociato nell’anarchia nella sua accezione più distruttiva. In realtà sono descrittivi solo nel caso dell’interferenza dell’inglese, non si fanno scrupoli a condannare l’uso davanti a “errori” così diffusi che rischiano di diventare la norma (dal “qual’è” con l’apostrofo al “piuttosto che” usato con il significato di “oppure”), né a cercare di cambiare l’uso nel caso del linguaggio inclusivo o della femminilizzazione delle cariche. Il loro “descrittivismo” altalenante coincide sempre più con l’americanizzazione dei loro cervelli.


Mi tornano in mente figure e approcci di ben altro spessore. Ripenso al filosofo, logico e matematico viennese Ludwig Wittgenstein che nel suo Tractatus, pubblicato 100 anni fa, scriveva: “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (5.6). Il linguaggio descrive la realtà, e non è possibile pensare e descrivere la realtà in modo indipendente dal linguaggio. Purtroppo il linguaggio e la realtà dell’informatica sono oggi in itanglese.

A proposito del rapporto tra pensiero e linguaggio, andando indietro di un altro secolo, nel 1820 il linguista tedesco Wilhelm von Humboldt (Über das vergleichende Sprachstudium, cioè “Sullo studio comparato delle lingue”; tradotto in italiano con il titolo La diversità delle lingue) comprese proprio come il linguaggio influenzi il nostro modo di pensare. Un’idea che si ritrova anche in 1984 di George Orwell (pubblicato nel 1949) dove infatti la dittatura lavora alla stesura di un dizionario della neolingua che tra le altre cose punta proprio alla riduzione e alla distruzione delle parole, funzionale al controllo del pensiero.

Ma oggi tutto ciò non c’è più, sembra svanito. E l’idea che il linguaggio possa influenzare il pensiero è chiamata l’ipotesi di Sapir e Whorf, tradotta pari pari dall’espressione Sapir-Whorf Hypothesis, perché questi due studiosi statunitensi l’hanno rispolverata e continuata, e così ce l’hanno venduta come se l’avessero concepita loro. Questo dimostra come non solo il linguaggio, ma anche i paradigmi culturali influenzano il nostro modo di pensare.

In una società sempre più americanizzata, abbiamo ormai perso la nostra cultura, il senso della storia dell’Europa e il nostro punto di vista. Tutto sembra provenire dagli Stati Uniti ed essere reinterpretato in chiave americana anche quando non lo è. Dietro l’importazione di questa nuova “cultura” si cela l’ignoranza sempre più profonda delle nostre radici, culturali e linguistiche.

La storia la scrivono i vincitori. Il che vale soprattutto nelle dittature. E davanti alla dittatura dell’inglese abbiamo perso ogni spirito critico. Insieme al lessico inglese, abbiamo importato anche i paradigmi concettuali a stelle e strisce, e smarrito tutto ciò che c’è al di fuori di quella visione che è ormai diventata il pensiero unico.

Se Humboldt aveva capito che il linguaggio influenza il nostro modo di pensare, Freud considerava viceversa il linguaggio la spia dell’inconscio. Sono le due facce della stessa medaglia che mostrano come linguaggio e pensiero siano intrecciati. Se le parole influenzano il pensiero, contemporaneamente sono la chiave per comprendere come pensiamo.

Gli anglicismi che si moltiplicano nell’italiano sono tanti lapsus freudiani che rivelano come ormai siamo completamente colonizzati. Li ostentiamo andandone fieri, e ci vergogniamo della nostra lingua accecati dal servilismo verso una civiltà che ci appare superiore. Al tempo stesso, accettiamo senza resistenze gli anglicismi che le multinazionali dell’informatica e più in generale del lavoro ci impongono, li ripetiamo senza alternative fino a convincerci che sono “necessari”, visto che non abbiamo più gli anticorpi che esistono in Francia o in Spagna. Siamo convinti in questo modo di essere moderni e internazionali, invece che “zerbinati”. E in un circolo vizioso, tutte queste parole inglesi, a loro volta, radicano ancor di più in noi il nuovo modo di pensare, e di vivere, in itanglese.

Il disastro della terminologia informatica italiana di fronte all’inglese

Il primo uomo al mondo (di cui è possibile documentare l’attività) che ha utilizzato un calcolatore per l’analisi linguistica è stato Roberto Busa, un gesuita italiano studioso di Tommaso d’Aquino, che sin dal 1946 aveva pensato a come utilizzare il neonato calcolatore per la catalogazione e la creazione di indici sistematici del corpus tomistico. Dopo molte trattative, nel 1949, con l’appoggio di IBM, si recò così a New York e cominciò a lavorare sulle prime gigantesche macchine a schede perforate per digitalizzare tutte le opere di San Tommaso, codificando ogni parola e registrandone tutte le flessioni in modo da poterla rintracciare nel corpus. Il primo volume di questa impresa titanica uscì nel 1951, e negli anni Novanta il suo lavoro fu riversato su cd-rom e commercializzato.

 

I primati italiani dell’informatica

Seguendo la strada aperta da Busa, il linguista Carlo Tagliavini, nel 1965, applicò un analogo trattamento alla Divina Commedia, sempre con il supporto e il finanziamento di  IBM. Poiché a quel tempo i calcolatori erano macchine ingombranti che funzionavano a schede perforate, con il testo scritto in stampatello maiuscolo che non poteva essere esportato, il risultato dell’opera fu stampato su carta: un catalogo di circa 1.000 pagine in cui, oltre al testo di Dante, venivano riportate le concordanze, il lessico, il rimario, le frequenze e altri indici che consentivano di accedere al testo per parola chiave.

Nello stesso anno, il 1965, negli Stati Uniti, Ted Nelson si inventava il concetto di “ipertesto”, ma ignorava completamente che in Italia avevamo già realizzato delle opere che erano di fatto ipertesti. Nelson racconta che l’idea gli arrivò invece da un articolo di un ingegnere americano, Vannevar Bush, che nel 1945 aveva immaginato una macchina teorica (mai realizzata) fatta di scrivanie e schermi translucidi, che avrebbe dovuto essere in grado di memorizzare percorsi di lettura e associazione dei testi (il Memex). L’articolo in questione è teorico e abbastanza ingenuo, ma è interessante notare che pochi anni dopo queste riflessioni pensate prima dell’invenzione del calcolatore elettronico, Roberto Busa, invece di immaginare, si era messo all’opera per realizzare qualcosa di concreto.

La tradizione italiana nell’informatica è stata pionieristica e importante. All’università di Milano, per esempio, Silvio Ceccato fu in prima linea sui primi esperimenti di traduzione automatica, e diresse il Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche dal 1957 sino alla seconda metà degli anni ‘60 – quando gli investimenti vennero tagliati – producendo una letteratura pionieristica e di grande spessore, che oggi è rimasta sconosciuta o è stata dimenticata.

Nel 1965 vide la luce anche il primo esempio di elaboratore personale tutto italiano, l’Olivetti Programma 101 (o P101) ed è risaputo che alla fine degli anni ’70 il fondatore della Apple Steve Jobs, insieme a Steve Wozniak, vennero in Italia proprio per tentare accordi con la Olivetti e con i progettisti italiani che corteggiarono invano, per costruire calcolatori personali in serie. De Benedetti decise di non perdere tempo con quei due fricchettoni, e dunque la storia di quello che oggi si chiama personal computer si svolse senza l’apporto italiano.

 

Il linguaggio informatico fino agli anni Novanta

Negli anni ’60, quando IBM si insediò in Italia, il linguaggio informatico era costituito da termini come perforatrice, verificatrice, selezionatrice, inseritrice, tabulatrice (da cui le liste di tabulazione), c’era il calcolatore interprete, si parlava di sistemisti e di sistemi suddivisi in unità centrale e periferiche, c’era il lettore/perforatore schede, la lettura/scrittura su nastri e dischi, la stampante, e non circolavano anglicismi. Persino nel 1989, quando IBM, con la consulenza di Tullio De Mauro, realizzò un prototipo di vocabolario elettronico (il VELI = vocabolario elettronico della lingua italiana) basato sulle 10.000 parole più frequenti tratte dallo spoglio di alcuni giornali, la parola computer era assente nel volume di presentazione. E non solo il linguaggio informatico di De Mauro era ineccepibile rispetto all’uso di anglicismi, ma persino la presentazione di Ennio Presutti, l’amministratore delegato di IBM e la prefazione di Pierluigi Ridolfi, Direttore della ricerca scientifica di IBM, avevano un uso di anglicismi limitatissimo (si trova bit, hardware, software e poco altro).

VELI vocabolario elettronico dell alingua italiana di IBM e De Mauro
Il VELI, vocabolario elettronico della lingua italiana, diretto da Tullio De Mauro, realizzato da IBM, con la presentazione dell’amministratore delegato Presutti.

Questa attenzione e questo rispetto per la lingua italiana nell’informatica stavano però per finire.

Qual è oggi il linguaggio degli amministratori delegati delle multinazionali?

Dopo l’epoca di IBM, con l’avvento di Microsoft, Apple, e poi con l’esplosione della nuova economia, chiamata “new economy”, e con l’arrivo di Google, Facebook e gli altri interlcutori, proprio nel momento in cui l’informatica ha cessato di essere un linguaggio per addetti ai lavori ed è diventato un fenomeno di massa, il linguaggio elegante e rispettoso di IBM è un ricordo sbiadito. I nuovi protagonisti hanno conquistato il mondo imponendo la propria nomenclatura anglicizzata. Se in alcuni Paesi come la Francia e la Spagna, grazie a una differente cultura e alla presenza di accademie e politiche linguistiche serie, il problema è stato in parte arginato, in Italia siamo passati definitivamente all’itanglese.

 

Lo sfacelo della terminologia informatica italiana

Cosa è cambiato oggi, rispetto a 30 anni fa?

Tutto. A cominciare dai nomi che leggiamo sulle scatole e che ripetiamo invece di tradurre, per cui multigiocatore si dice multiplayer, un decodificatore lo chiamiamo set-top-box, e un tappetino per il mouse è ancora più figo se si dice mousepad. La custodia o il contenitore di un apparecchio elettronico, detto hardware, diventa il case, o la cover se è un cellulare, i dispositivi sono device, e i cellulari mobile device, il calcolatore principale si dice host, l’ospitalità di un sito l’hosting, una scheda di memoria è una memory card, un microcircuito integrato un microchip, la memoria temporanea è buffer, la memoria nascosta è la cache.

yahoo
L’interfaccia della posta elettronica di Yahoo! La posta è mail, la posta indesiderata è spam, la pagina principale è home, e gli anglicismi assurdi sono davvero tanti: non c’è alcuna attenzione e rispetto per la lingua italiana.

I programmi un tempo erano prevalentemente in inglese e dunque abbiamo cominciato ripetere i termini che leggevamo senza tradurli. Con l’avvento delle interfacce “localizzate” (come è di moda dire adesso invece di “tradotte”), le cose sono migliorate solo parzialmente, perché lasciare le scelte terminologiche alle multinazionali significa rinunciare a parlare l’italiano e importare la nomenclatura dei produttori.

E infatti, invece di trasferimento o scaricamento dei dati c’è il download che ha generato downloadare, invece di pagina principale si è diffuso senza alternative home page, l’aiuto è un help, i caratteri sono font e quelli senza grazie sono sans serif, la tavolozza dei colori è chiamata palette, un programma di elaborazione o scrittura è un editor, la gabbia grafica è il layout, i programmi in Rete hanno un back end e un front end, e non un’interfaccia di amministrazione un’interfaccia utente. La posta elettronica è email, la casella di posta mail box, a tutto schermo si dice full screen, e la ricerca libera il full test. Facciamo il login e il logout e non l’autenticazione o la disconnessione, i moduli sono form, e spesso gli strumenti tool, la barra degli strumenti toolbar, i fotogrammi frame, l’inoltro è il forward, le gallerie gallery, l’aggiornamento l’update o l’upgrade, l’effetto metamorfosi è il morphing, una parola d’accesso password, il navigatore è browser, un marcatore è flag

Il problema non riguarda solo le scelte terminologiche, naturalmente, è più ampio. Spesso gli anglicismi sono usati più frequentemente dei corrispettivi italiani, sono preferiti, suonano più moderni, precisi… al punto che ormai alcune parole ci sembrano intraducibili, ma invece non sappiamo più dirle in italiano, perché nessuno lo fa più.
Tra gli esperimenti con i miei studenti ho constatato l’incapacità media dei ventenni diplomati di trovare alternative italiane a espressioni come startup, di default o touch screen. Venivano indicate come tecnicismi intraducibili, perché nessuno è più capace di dire nuova impresa (o impresa nascente), opzione di sistema (anziché di default) o schermo tattile (al posto di touch screen).

E allora la sicurezza informatica è la cybersecurity , ci sono gli spyware e non i programmi spia, il phishing e non l’adescamento e la frode informatica, e un trojan (decurtazione di  trojan horse = cavallo di Troia) guai a chiamarlo troiano! Gli anglopuristi tecnologizzati subito si scagliano contro questo uso barbaro e antistorico dell’aggettivo troiano, che “non vuol dire niente”, al contrario di trojan che evidentemente vuol dire tutto.  I tecnicismi si esprimono con parole come freeware e non programma libero, shareware e non programma di prova o versione gratuita.

Poco importa se questi tecnicismi in inglese molte volte non lo siano affatto! Tablet, per esempio, vuole dire tavoletta, eppure da noi viene spacciato per prestito di necessità, perché evidentemente la metafora della tavoletta in inglese si può usare, ma in italiano no!

Persino i tasti e i comandi si preferiscono spesso dire all’inglese, shift e non il tasto di maiuscolo (o minuscolo) che ha generato shiftare e poi slash invece di barra, e ancora escape, undo, print screen e screenshot (e non uscita, annulla, stampa e schermata).

Il delirio dell’inglese continua nel linguaggio della Rete, dove i social network sembra siano preferibili a un banale reti sociali, i seguaci sono follower, gli odiatori hater, gli influenti influencer, e si dice blogger e non bloggatori o blogghisti, spammer e non spammatori, per coerenza con gli youtuber e tutti gli altri termini che si comportano come parole inglesi invece che con le desinenze italiane, a meno che non sia indispensabile, come nei casi di googlare, whatsappare, downloadare, shiftare, switchare, twittare, upgradare, uploadare, backuppare, chattare, computerizzare, crashare, debuggare, embeddare, hackerare

Nel mondo del lavoro, per essere allineati con il gergo informatico in itanglese, è bene usare un linguaggio appropriato all’angloamericano degli addetti ai lavori: l’inserimento dati è il data entry, l’elaborazione dei dati il data processing, un fondatore è founder o startupper

Forse questo elenco sta diventando  noioso, oltre che avvilente. Eppure è poca roba, perché il dizionario degli anglicismi della terminologia informatica è molto, molto più esteso. Ho fatto solo alcune citazioni di termini che ammettono anche le traduzioni in italiano, ma purtroppo non sempre è così. Computer è ormai “necessario”, da quando calcolatore o elaboratore sono diventate parole obsolete; mouse non l’abbiamo tradotto (al contrario di quanto è avvenuto in Francia, Spagna, Germania, Portogallo…) e per moltissimi termini tecnici mancano ormai le parole per dirlo in italiano.

La nostra lingua, nel nuovo Millennio, è diventata incapace di esprimere l’informatica senza ricorrere all’inglese, è stata mutilata!

Il problema è che sta avvenendo lo stesso in molti altri ambiti, come la moda, il lavoro, la scienza… e che siamo circondati dai “teorici dell’itanglese di necessità” che invece di preoccuparsi dell’importanza delle traduzioni, continuano a ripetere che va tutto bene e non sta succedendo niente.

 

L’informatica e l’itanglese

Sono tanti i linguaggi di settore in cui l’itanglese è ormai una realtà.

Oltre al linguaggio della moda, uno dei più contaminati è quello dell’informatica.

La manutenzione del computer (fino agli anni Novanta si diceva calcolatore o elaboratore, ma oggi è sempre meno possibile) o qualche problema con virus e antivirus, è qualcosa che riguarda tutti. Cercando informazioni in Rete, si finisce in siti che spiegano le cose perlopiù in questi termini:

“Oggigiorno, purtroppo, oltre ai cosiddetti virus, esistono numerose altre varianti di infezioni che possono creare problemi ad un qualsiasi computer collegato ad Internet: spyware, adware, dialer, rootkit, trojan, worm, keylogger, hijacker, e chi più ne ha più ne metta.”

Fonte: https://www.informaticapertutti.com/i-10-migliori-anti-malware-free

Quello che mi colpisce maggiormente, negli articoli di settore come questo (che però volenti o nolenti riguardano tutti, non solo gli addetti ai lavori), è l’elenco di nomi dei programmi maligni: 8 anglicismi seguiti da un “chi più ne ha più ne metta”, ma purché siano in inglese, si potrebbe aggiungere (non ce ne è uno in italiano).

La rinuncia a parlare in italiano e a ripetere a pappagallo tutto ciò che viene da oltreoceano con le stesse parole è evidente. Virus è una parola latina, anche se nel significato informatico ci arriva dall’inglese, e tralasciandola, ci sono 10 anglicismi su 38 parole (il 26,3%).

Ma questo modo di calcolare le percentuali è poco indicativo, come si può capire meglio con qualche altro esempio: se eslcudiamo dai conteggi le parole ripetute, le congiunzioni o le preposizioni (per non “salvare” la nostra lingua conteggiando le “e” o i “di”), le prcentuali salgono.

Qual è la percentuale di anglicismi in un articolo di informatica?

Cercando cosa sia uno spyware – che per la cronaca in italiano è semplicemente un programma spia –, frugando in Rete si nota subito che fornire l’alternativa italiana è qualcosa che non viene nemmeno in mente agli autori della maggior parte degli articoli. Al massimo si spiega la pronuncia in inglese, ma quasi mai si fanno circolare le alternative. Un esempio concreto:

“Che cos’è lo spyware?
Lo spyware (si pronuncia spàiuer) non è un virus ma più che altro una particolare tipologia di software malevolo, cioè di malware, progettata con il solo scopo di raccogliere senza il tuo consenso il maggior numero di informazioni possibili quando navighi su Internet, tipo siti web visitati, indirizzi email, password, dati di home banking, numeri di carte di credito, e così via dicendo. Questo con il solo scopo di inviare successivamente tali preziose informazioni a qualcuno che le userà per trarne profitto in qualche modo.

Come hai fatto a prenderlo? 
Esistono principalmente due modalità attraverso le quali puoi averlo contratto:
– la prima, avviene quando, navigando su particolari siti web, o accetti volutamente di installare determinati plugin e/o estensioni per il tuo browser preferito, oppure perché, più semplicemente, vengono sfruttate delle vulnerabilità già presenti nel tuo browser non aggiornato;
– la seconda, invece, avviene inconsapevolmente quando installi programmi e/o giochi gratuiti, di tipo freeware o shareware, scaricati da determinati siti Internet, ma anche da altre fonti quali, ad esempio, software di P2P.”

Fonte: https://www.informaticapertutti.com/come-eliminare-spyware-e-malware-dal-pc/

Questo breve testo è formato da 176 parole, di cui 18 anglicismi (considerando home banking come una sola parola), cioè il 10,2% delle occorrenze.

Detto così sembra una percentuale preoccupante, ma le cose stanno molto peggio, perché non è questo il modo migliore di stabilire le percentuali: per un calcolo sensato, non basta contare le occorrenze a questo modo, bisogna invece lemmatizzare, cioè andare a vedere quanti sono i lemmi, cioè le “parole madre”. Per es. la parola “siti” ricorre 3 volte ed è riconducibile al lemma “sito” (dunque si tratta di una sola parola madre, o lemma, che ha 3 occorrenze). Se non si compiono questi passaggi le cose si annacquano, perché la presenza di un solo anglicismo (invariabile) non va confrontata con le tutte occorrenze delle parole flesse, ma con le parole lemmatizzate (per es.: è, era, sarà vanno tutte ricondotte al lemma essere). Inoltre, ha poco senso anche includere nei conteggi la presenza di innumerevoli preposizioni come di (che ricorre 11 volte, ma si tratta di una parola sola). E allora le percentuali aumentano…

C’è un’altra cosa che sarebbe utile considerare per comprendere come stanno esattamente le cose: fare delle comparazioni grammaticali.

Come ho già detto, l’inglese sta colonizzando il nostro lessico non in ogni sua parte, sta intaccando soprattutto i sostantivi e, in maniera minore gli aggettivi, mentre i verbi o le altre parti del discorso non sono in pericolo.

In sintesi se, nell’articolo citato, si prova a calcolare la frequenza dei sostantivi in inglese rispetto a quelli italiani, si può avere un’idea della reale penetrazione degli anglicismi. Se si estraggono solo i nomi (dunque non si conteggiano parole come freeware o shareware usate in funzione di aggettivo) si ottiene una lista di 40 occorrenze (ho eliminato la parola latina virus, né italiana né inglese) di cui 16 sono parole inglesi (il 40%), mentre se le parole vengono lemmatizzate si ottiene una lista di 29 lemmi di cui 11 sono anglicismi (il 37,9%). In ordine alfabetico:

browser, browser
carte
consenso
credito
dati
email
estensioni
indirizzi
informazioni,  informazioni
Internet, Internet
fonti
giochi
home banking
malware

modalità
numero, numeri
P2P
password
plugin
profitto
programmi
pronuncia
scopo, scopo
siti, siti, siti
software
, software
spyware,
spyware
tipologia
vulnerabilità
web, web

Queste sono le percentuali: più di un terzo dei sostantivi di questo articolo campione è in inglese.  Questo è l’itanglese. Questa è la realtà.

Anglicismi: il ruolo dei traduttori e l’importanza delle traduzioni

Sabato 30 settembre 2017 ricorre la giornata mondiale della traduzione, un tema cruciale per la questione dell’itanglese.

Riflettevo sul fatto che si è ormai consolidata l’espressione “mandare una foto in allegato”, e non “mandare un attachment”, mentre quando si tratta di scaricarla o di trasferirla si usa prevalentemente il termine inglese “download”. Il motivo è che nel parlare non facciamo che ripetere inconsapevolmente quello che leggiamo nei programmi che usiamo. In un primo tempo si presentavano con interfacce in inglese, e solo successivamente sono state tradotte.

Oggi, nei programmi di posta elettronica c’è ormai il bottone allegato, invece di attachment che compariva in passato, e questa traduzione ha “salvato” l’equivalente nella nostra lingua. Ciò non è avvenuto per il termine download, che nei programmi è rimasto in inglese quando è usato come sostantivo, e solo quando indica un verbo è stato tradotto con “scarica”.

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Lo stesso si può dire di file, che il più delle volte è riportato senza traduzione e solo di recente, in alcuni programmi di videoscrittura, è sempre più sostituito da documento. Ma file si è ormai acclimatato ed è entrato nell’uso come fosse una parola insostituibile. Come desktop invece di scrivania e tanti altri termini informatici.

download 3

Questi esempi devono fare riflettere sull’importanza delle traduzioni e sulla loro circolazione, non solo nell’informatica, ma anche negli altri ambiti.

I mezzi di informazione, le pubblicità, le aziende, gli enti, i politici e tutti gli apparati o le persone che con il loro linguaggio si rivolgono a un vasto pubblico hanno un’enorme responsabilità nella diffusione (e nell’imposizione) della lingua, e se continuano a fare circolare gli anglicismi non tradotti, è inevitabile che poi i parlanti li ripeteranno e perderanno la capacità di ricorrere agli equivalenti italiani che non si usano, si perdono, e non vengono in mente in modo immediato (privacy/riservatezza, trend/tendenza, feedback/riscontro, customer care/assistenza clienti…).

E invece la Rai sta in questi giorni pubblicizzando il Back to fact (Milano, 28 settembre – 1 ottobre 2017) dove si trovano interventi come Fact checking: un’arma fondamentale contro le fake news, le Ferrovie dello Stato si vantano di aprire nuovi help center invece di punti di informazione, e gli apparati mediatici non fanno che martellarci di anglicismi soprattutto nei titoli (in grande e urlati).

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Il problema dei giornali e dei mezzi di informazione non è solo quello di preferire l’inglese (per il maggiore impatto o la pretesa sinteticità). Sempre più spesso attingono tutti dalle stesse fonti (prevalentemente angoloamericane) e riportano gli stessi termini in originale, lasciando ad altri il problema delle traduzioni. E così in un batter d’occhio si propagano parole come spread, brexit o gig economy che circolano senza alternative e diventano il monolinguaggio mediatico stereotipato che si impone nell’uso di tutti. In questo modo, nell’era del tempo reale e della globalizzazione, gli anglicismi entrano così rapidamente che non c’è il tempo di tradurli o di sostituirli: si attestano nell’uso come vengono riportati, prima che i traduttori professionali possano intervenire. E una volta affermati, poi è tardi per sostituirli.

E allora le traduzioni sono davvero cruciali. Il problema è che mancano i traduttori professionali, almeno nell’informazione che si rivolge al largo pubblico. E soprattutto è in atto una battaglia culturale dove le traduzioni sono spesso volutamente trascurate. Venendo ai linguaggi settoriali e degli addetti ai lavori, come quello tecnico e scientifico, la battaglia per dirlo in italiano è quasi persa. Gli scienziati scrivono e pubblicano in inglese per rivolgersi alla comunità mondiale, e una scienziata come Maria Luisa Villa si dimostra davvero preoccupata per la comprensione pubblica della scienza:

“Nel giro di pochi lustri la lingua italiana potrebbe essere mutilata e inadatta alla trasmissione del sapere scientifico.”

[Maria Luisa Villa, L’inglese non basta. Una lingua per la società, Bruno Mondadori-Pearson, Milano 2013, p. 95]

Barbara Cappuzzo nota invece che esistono “organismi internazionali multilingui (Ue, Fao, Onu) impegnati nella costruzione di corrispondenze terminologiche tra le diverse lingue, e sono nate vere e proprie banche dati terminologiche.” Tra i progetti più interessanti nostrani c’è quello di Ass.I.Term (Associazione
Italiana per la Terminologia), il cui principale obiettivo è quello di promuovere l’arricchimento del lessico scientifico e tecnico in lingua italiana.
Attività di questo tipo si scontrano però con la volontà di una comunità internazionale di ingegneri, tecnici e ricercatori che si battono per l’omologazione terminologica anglofona nel discorso tecnico-scientifico.

[Barbara Cappuzzo “Il linguaggio informatico inglese e italiano: considerazioni su alcuni aspetti lessicali dal confronto tra le due lingue”, in MPW, Mots Palabras Words, 6/2005, p. 68]

Questo è il vero problema, che denuncia anche Claude Hagège quando scrive che la predominanza dell’angloamericano spinge verso una mentalità monolingue che è tutta a beneficio dell’inglese e all’imposizione della lingua dominante da parte di tutti.

Le competenze plurilinguistiche non sono considerate una ricchezza e il “monolinguismo a vantaggio dell’inglese è vissuto come garanzia (…) della modernità e del progresso, mentre il plurilinguismo è associato al sottosviluppo e all’arretratezza economica, sociale e politica, oppure è considerato una fase, negativa e breve, sulla via che deve condurre al solo inglese.

[Claude Hagege, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 100]

Dirlo in inglese o in italiano è perciò in questo momento una battaglia culturale e politica tra due diverse visioni del mondo e del nostro futuro: il monolinguaggio basato sull’inglese che vuole essere internazionale e moderno, e la difesa della lingua e della cultura locale che rischia di soccombere davanti alla globalizzazione. Se l’italiano non si saprà rinnovare con la creazione di adattamenti, neologismi e traduzioni, il suo futuro sarà l’itanglese. I traduttori professionali sono più che mai fondamentali per evitare questo scenario, anche se spesso non c’è il tempo di proporre alternative in grado di affermarsi, perché le traduzioni possibili possono essere tante, e faticano ad affermarsi contro la tendenza alla stereotipia diffusa dai mezzi di informazione (una parola con un solo significato come piace ai traduttori automatici).

Le conseguenze di questa mancanza di traduzioni, sia nell’ambito mediatico e più popolare, sia in quello tecnico e scientifico sono devastanti per il nostro lessico e la nostra lingua.

Una lingua che rinunciasse a esprimersi in aree culturalmente centrali, come la scienza e la tecnologia, sarebbe destinata a diventare nell’arco di pochi anni un rispettabilissimo dialetto: adatto alla comunicazione quotidiana e alla poesia, ma inadeguato a cimentarsi con la complessità del presente e con l’astrazione propria dei processi intellettuali.”

[Luca Serianni, “Conclusioni e prospettive per una neologia consapevole”, Società Dante Alighieri, Firenze, durante il convegno del 25 febbraio 2015]

Se puntiamo su una lingua diversa dalla materna come lingua delle tecnoscienze, assisteremo a un nostro rapido declino come società colta. L’italiano, decapitato di una sua grossa parte, decadrà sempre più a lingua familiare, affettiva, dialettale, straordinariamente adatta magari per scrivere poesia ma incapace di parlare ai non specialisti di economia o di architettura o di medicina.

[Gian Luigi Beccaria, Andrea Graziosi, Lingua madre. Italiano e inglese nel mondo
globale, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 116]