L’itanglese è lo stilema dei nuovi centri di irradiazione della lingua

Di Antonio Zoppetti

L’italiano contemporaneo è sempre più caratterizzato dalla presenza di anglicismi. Il loro numero abnorme e la loro frequenza esagerata sono tali da determinare un fenomeno che non si può più spiegare con le bislacche categorie dei “prestiti linguistici”. Il numero degli pseudoanglicismi – vocaboli che suonano inglesi ma che in inglese non esistono o hanno altri significati – è sempre più ampio, e in questi casi a essere “presi in prestito” non sono le parole e i concetti, siamo in presenza dei trapianti di suoni o di radici inglesi che vengono poi ricombinate in modo maccheronico. In questa caotica ristrutturazione lessicale sta emergendo qualcosa che non ha precedenti nella storia dell’italiano: l’ibridazione di centinaia e centinaia di parole miste che non sono più né italiane né inglesi perché escono dalle regole dell’ortografia e della pronuncia di entrambe le lingue, come chattare o computerizzare, shampista, scooterino o leaderismo, babycalciatore, cybercriminale o over quaranta… Sono sempre più numerose anche le combinazioni di radici inglesi (e pseudoinglesi) con inversione sintattica (smart working, social media manager) che mandano in frantumi la collocazione dei nostri vocaboli e il loro ordine. Tutto ciò ha ormai un nome: “itanglese”, anche se molti linguisti si rifiutano persino di pronunciare questa parola, visto che spesso negano il fenomeno o non lo ritengono preoccupante.

Ma cos’è l’itanglese?
È una lingua?
È una sorta di gergo che si sta consolidando in alcuni ambiti come quello del lavoro o dell’informatica?
O è una specie di nuovo registro linguistico elitario che gode di un elevato prestigio culturale, per cui dire che il business dei prodotti italian sounding nel settore food è superiore a quello dei brand del made in Italy suona più solenne e tecnico rispetto al giro di affari dei prodotti dal nome italofono nel settore gastronomico è superiore a quello del prodotto italiano?

L’itanglese è ancora di più di questi tre casi. È un nuovo stilema espressivo divenuto il modello linguistico della nostra classe dirigente, che lo diffonde e lo impone.

La lingua popolare e l’imitazione degli stilemi della classe dirigente

Antonio Gramsci, negli anni ’30, è stato tra i primi a riflettere sull’italiano popolare. Nei Quaderni del carcere notava che la lingua italiana aveva un’origine letteraria che la rendeva “aulica”. Non era l’espressione della nascente borghesia, che non era riuscita a creare una lingua unitaria, ma neanche delle masse, che si esprimevano nei dialetti ed erano così escluse dalla storia. La grammatica normativa, cioè le regole grammaticali scritte, si è così spontaneamente unificata nella storia sia come processo culturale sia perché esisteva un ceto dirigente che veniva riconosciuto come modello linguistico da imitare e seguire. Accanto alla grammatica normativa esiste infatti una grammatica popolare e istintiva che spinge a parlare in un certo modo senza esserne consapevoli, e in questo spontaneo e caotico processo di unificazione linguistica che tende al “conformismo grammaticale” delle varietà geografiche e culturali accade che il contadino che si “inurba” tende ad assorbire il linguaggio cittadino e abbandonare quello della campagna, così come la parlata delle classi dominanti diviene un modello per le classi subalterne e meno colte. Dunque l’unificazione linguistica è un fatto politico e ogni volta che emerge la questione della lingua sotto c’è sempre qualcosa di più profondo, e cioè una riorganizzazione dell’egemonia culturale delle classi dirigenti (Quaderni del carcere, 29, § 3), per cui nella polemica tra “manzoniani” e “classicisti” in gioco c’era un modello linguistico da far prevalere. “La grammatica normativa scritta è quindi sempre una ‘scelta’, un indirizzo culturale, è cioè sempre un atto di politica culturale nazionale.” In un paragrafetto intitolato “Focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse nazionali” Gramsci passava in rassegna i centri di irradiazione e di unificazione della lingua, che erano per lui rappresentati dalla scuola, dai giornali, dagli scrittori, dal teatro, dalla radio e dal cinematografo, oltre che dagli scambi e dalle conversazioni di qualunque natura, politica o religiosa, tra ceti colti e meno colti.

Negli anni ’60 Pasolini salutava con enfasi il fatto che l’italiano era ormai divenuto una lingua nazionale, dopo l’epoca dell’italiano letterario “aulico” e dei dialetti con cui si esprimevano le masse. E fu il primo ad accorgersi che l’italiano letterario basato sul toscano era finito, e che il nuovo italiano era sempre meno espressivo e sempre più tecnologico, perché i centri di irradiazione della lingua erano diventati i poli industriali del nord.
Negli anni ’80 linguisti come Sabatini o Berruto hanno rispettivamente classificato il nuovo italiano effettivamente parlato dalle masse come “medio” o “neostandard”, e cioè una lingua che era sempre meno aulica e sempre più “appiattita” su costrutti comuni estesi e radicati, anche se talvolta distanti dalle norme grammaticali, come l’uso di lui soggetto al posto di egli, i periodi ipotetici con il doppio imperfetto (se lo sapevo non venivo) e altri simili tratti che però erano impiegati anche da molti scrittori, oltre che sui giornali.

E nel nuovo Millennio cosa sta accadendo?

L’italiano newstandard ha come modello l’inglese

L’avvento di Internet ha cambiato completamente gli scenari dell’italiano medio e neostandard. Proprio quando qualcuno temeva per la morte del libro e della scrittura, e qualche sociologo teorizzava un ritorno all’oralità della civiltà elettrica caratterizzata dall’audiovisivo, il Web ha cambiato le carte in tavola, e nel giro di un decennio si è riempito prevaletemene di pagine scritte. L’italiano unitario di massa non è più dunque solo oralità e parlato, ha popolato milioni e milioni di pagine scritte dalla gente comune facendo nascere uno sterminato archivio di una letteratura popolare che non aveva precedenti per dimensioni. Gli scritti di massa non erano più filtrati dagli editori, erano lo specchio di come la gente scriveva. Spesso gli stilemi erano quelli giornalistici e televisivi che gli scriventi prendevano come modello, ma presto anche i professionisti e i giornalisti hanno cominciato a ispirarsi allo stile internettiano, in un gioco di reciproca fusione dei registri.
Intanto però, i focolai di irradiazione della lingua erano completamente cambiati, rispetto a quelli individuati da Gramsci e da Pasolini. L’attuale mondo virtuale è stato concepito, pensato e realizzato oltreoceano, con una terminologia e una riconcettualizzazione delle cose angloamericana. Se negli anni ’60 i poli industriali del Nord Italia diffondevano una neolingua tecnologica più che espressiva e letteraria, oggi il mondo del lavoro e della tecnologia parla, richiede e impone l’itanglese, e i nuovi centri di irradiazione della lingua si sono spostati fuori dall’Italia, e veicolano sempre più parole in inglese che non sono più create da nativi italiani, questi ultimi si limitano a trapiantare e giustificare anglicismi a tutto spiano. I mezzi di comunicazione di massa sono al centro della diffusione di neologismi sempre più in inglese, e i nuovi onomaturghi sono pubblicitari, doppiatori, giornalisti, tecnici, scienziati… che privilegiano l’inglese. Quelli che un tempo erano i modelli di diffusione e unificazione dell’italiano oggi diffondono l’itanglese.

L’itanglese è il modello dei politici, degli imprenditori, degli esperti, degli “infuencer” (visto che nessuno usa “influenti”), delle persone “colte”, e persino di linguisti che certificano la “necessità” degli anglicismi che inseguono, invece di deprecare. Come ho scritto in un commento allo scorso articolo, l’itanglese è la lingua dei comunicatori, dei formatori, delle pubblicità, dello sport, dei titoli delle manifestazioni culturali… in altre parole è diventato uno stilema.
Tutti i “centri di irradiazione della lingua” si stanno anglicizzando e ciò è l’effetto collaterale del progetto di rendere l’inglese la lingua della comunicazione internazionale, la lingua di serie A che è diventata obbligatoria a scuola, che sta pendendo piede come lingua dell’Europa, della scienza, della formazione universitaria, dei mercati globalizzati…
La nuova classe dirigente sta imponendo questa nuova lingua che è allo stesso tempo il modello di quella delle masse. E questo modello è caratterizzato dalla ricerca e dalla preferenza per i suoni inglesi e dall’abbandono di quelli italiani.

L’itanglese si può arginare solo spezzando il servilismo e il complesso di inferiorità alberto-sordiano del voler far gli americani; solo così le parole inglesi si dissolverebbero e perderebbero senso. Se non la smettiamo di percepire gli anglicismi come qualcosa di superiore rispetto all’italiano non ne usciamo. La battaglia non è contro i singoli anglicismi, ma contro l’assurda e deleteria percezione per cui l’inglese è una lingua superiore, più tecnica ed evocativa.
E questo cambiamento è un fatto sociopolitico che non può partire dalle masse, che lo subiscono, ma dall’alto.