Lo tsunami degli anglicismi: perché?

Era il 2015 quando, in un intervento al Ted di Milano che è entrato nella storia (“Dal bello al biùtiful”), Annamaria Testa si domandava:

«E uno si chiede: “Ma perché?” Ma perché, nel momento in cui se guardiamo i marchi turistici di tutte le città del mondo, non c’è nessuno che faccia la cosa insensata di storpiare il suo nome, per promuoversi. (…) Perché noi qui in Italia beviamo “wine”? Guardate qua: mangiamo “food” e beviamo “wine” a Lucca, a Cernobbio, a Catania, a Milano. E la cosa è curiosa perché a New York, se al Waldorf-Astoria devono promuovere la settimana del vino italiano, dicono “vino”. Perché i ristoranti di New York, belli ed eleganti, che vendono cibo e vino, dicono “vino”».

Già. Perché?

Se lo è chiesto 1.000 volte anche Giorgio Comaschi nelle sue divertenti pillole (per es. “Mi dovete spiegare perché”), e poi se lo è chiesto anche Mario Draghi, qualche tempo fa: “Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi…”.

E soprattutto dovremmo chiederci perché gli anglicismi che da noi sono proclamati come “necessari” o “intraducibili” in Francia, Spagna o Portogallo sono invece espressi nella propria lingua, come ha documentato in un bellissimo servizio di pochi giorni fa il bravo Davide Gemello.


Perché? Perché? Perché? Perché? Perché?

Da quando, nel 2017, ho pubblicato il mio primo libro sull’interferenza dell’inglese, con i dati tratti dai dizionari che ne pesavano e dimostravano la dimensione preoccupante, da quando ho aperto questo sito, da quando ho pubblicato il Dizionario AAA delle Alternative Agli Anglicismi, la domanda “perché?” è quella che ricorre più spesso.

A volte è un “perché” retorico, che sottintende una verità che ci fa male e che quindi cerchiamo di rimuovere: forse, semplicemente, perché siamo scemi?

Le tante spiegazioni che circolano si appellano alla (spesso presunta) sinteticità dell’inglese, alla (presunta) pigrizia nel tradurre legata alla velocità della comunicazione nel nuovo logorio della vita internettiana, alla moda, al fascino e al prestigio, o a uno strano modo di voler essere “internazionali” che presuppone di parlare inglese, invece di fare come negli altri Paesi dove la propria lingua non viene affatto abbandonata a questo modo.

Queste spiegazioni non bastano. Non sono minimamente sufficienti per spiegare la dimensione, la profondità e la frequenza di un ricorso all’inglese che assomiglia ormai a una mania compulsiva e sta trasformando la nostra lingua in “itanglese”. Queste risposte sono solo un alibi.

E allora, ho provato a rispondere a questi infiniti “perché” con un libro che inquadra il fenomeno da una prospettiva diversa da quella della semplice linguistica. E ogni perché trova finalmente la sua soluzione.

Di seguito il comunicato stampa.

Lo tsunami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica (goWare)

Cartella stampa:

Tra influencer e jobs act, smart working e fake news, l’italiano del nuovo Millennio è sempre più caratterizzato dal ricorso agli anglicismi che in alcuni ambiti lo stanno trasformando in itanglese. Lo tsunami degli anglicismi è un evento di portata mondiale che si riscontra in ogni idioma, un “effetto collaterale” della globalizzazione, di Internet, dell’espansione delle multinazionali nordamericane e del progetto di fare dell’inglese la lingua planetaria. Nel contaminarsi, molte lingue locali corrono il rischio di diventare i dialetti di un “anglomondo” che pensa e parla in inglese, e in alcuni casi persino di scomparire. La nuova “questione della lingua” travalica il nostro Paese e si trasforma nella “questione delle lingue” minacciate da un globalese che si impone a scapito delle identità locali vissute come un ostacolo alla comunicazione e ai mercati internazionali.

Questo saggio affronta i risvolti della globalizzazione linguistica, un tema trascurato nelle sterminate riflessioni su quella economica o culturale, soprattutto in Italia.
Sul tavolo ci sono questioni enormi, che riguardano la scelta dell’inglese come lingua della formazione universitaria, della scienza e dell’Unione Europea, proprio nel momento in cui il Regno Unito ne è uscito. Tutto ciò non ha solo forti implicazioni politiche e culturali, ma anche economiche. L’inglese internazionale rappresenta un giro d’affari incalcolabile per i Paesi anglofoni che se ne avvantaggiano senza dover sostenere i costi per l’apprendimento di alcuna lingua straniera.

Con una prospettiva attenta all’ecologia linguistica e al plurilinguismo inteso come valore e ricchezza, l’autore ripercorre la storia delle relazioni pericolose tra globalese e itanglese e della nostra americanizzazione sociale, culturale e dunque linguistica. Si tratta di un processo politicamente sollecitato sin dai tempi del piano Marshall, ed è il risultato del sogno americano costruito negli ultimi settant’anni dal potere morbido del cinema, dei prodotti culturali, delle pubblicità e delle merci d’oltreoceano.

Dal confronto con quanto sta accadendo all’estero, quello che emerge è l’anomalia italiana, dove le forti pressioni internazionali esterne non sono controbilanciate da analoghe resistenze culturali e istituzionali come accade in Francia, in Spagna e in altri Paesi. Anzi, sedotti da tutto ciò che è a stelle e strisce, agevoliamo dall’interno questo processo cannibale. Dietro la nevrosi compulsiva con cui ricorriamo agli anglicismi – e ci inventiamo da soli i nostri pseudoanglicismi – c’è un cambio di paradigma sociale e una storia che non è ancora stata del tutto affrontata, forse perché non si ha il coraggio di raccontarla.

Titolo Lo tsunami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica
Autore Antonio Zoppetti
Editore goWare
Prezzo libro digitale form. Kindle 9,99 € | cartaceo 18 €
Pagine: 252
In commercio da: aprile 2023

Per saperne di più.

La “sostituzione etnica” non riguarda i migranti, ma il globish

Di Antonio Zoppetti

L’argomento che nei giorni scorsi è impazzato sui mezzi di informazione è quello della “sostituzione etnica” invocata dall’onorevole Lollobrigida. Come nel caso della legge sulla lingua italiana di Rampelli il dibattito che si è visto è superficiale, avvilente e ideologizzato, più che lucido e critico.

Le uscite che ammiccano alla sostituzione etnica non sono nuove – come ha ricordato su il Manifesto Roberto Ciccarelli (19/4/23) – hanno precedenti in dichiarazioni di Salvini del 2015 e in altre del 2016 di Giorgia Meloni che accusò il governo Renzi di prove tecniche “generali di sostituzione etnica in Italia”. Questa espressione infelice si lega alla teoria del complotto di un presunto “piano Kalergi” che favorirebbe l’immigrazione in Europa dall’Africa e dall’Asia con lo scopo di rimpiazzarne la popolazione. Una teoria che è sostenuta negli ambienti più estremi nella destra e tra i negazionisti dell’olocausto, ma che Lollobrigida dice di non conoscere.

Personalmente sono convinto che una sostituzione etnica sia in atto e sia innegabile, ma questa sostituzione non ha a che fare con gli immigrati dai Paesi poveri, bensì con l’importazione dei modelli culturali e linguistici dei Paesi dominanti e cioè quelli dell’anglosfera.

Razzismo, etnicismo e linguicismo

I gruppi etnici sono caratterizzati dal possedere una cultura e una lingua comune, che non hanno a che fare né con il colore della pelle né con il concetto sempre più messo in discussione di “razza”. La parola “razza” compare nella Costituzione italiana (art. 3: “Senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) e in quasi tutte le dichiarazioni dei diritti umani introdotte da analoghi principi. Da qualche tempo, un ampio movimento di opinione vorrebbe mettere al bando questa parola, e questo modo di pensare è sostenuto anche da un gruppo di biologi riduzionisti che abbandonando le storiche distinzioni tra fenotipo e genotipo, preferiscono ricondurre tutto ai geni, e sostengono che le “razze” non esistono dal punto di vista genetico. Ma non è negando o risemantizzando la parola “razza” che si possono eliminare le diversità o il razzismo. E per quello che mi riguarda le razze (e le diversità) esistono – comunque le si voglia chiamare – ed è per questo che bisogna gridare forte che sono una ricchezza, sono tutte sullo stesso piano, che bisogna tutelare quelle discriminate e condannare chiunque pensi che alcune siano superiori o inferiori.
E lo stesso vale per le culture e le lingue, che sono fenomeni completamente slegati dalla questione dei geni o dell’aspetto fisico, ma spesso ugualmente discriminate e gerarchizzate in una visione che le pone su piani diversi.
Oggi l’espressione “Terzo mondo” è considerata politicamente scorretta e si tende a sostituirla con “Paesi in via di sviluppo”, un’espressione decisamente peggiore e totalitaria, perché lo “sviluppo” a cui li si vuole condurre è quello occidentale, dunque tutto conduce a un modo di pensare che utilizza delle categorie di stampo colonialista, dove dietro la parola “Occidente” c’è il modello culturale ed economico degli Stati Uniti e dietro il politicamente corretto c’è il politicamente americano. Questa visione etnicista è stata apertamente sostenuta in più occasioni, per esempio dalla consigliera per gli affari esteri di George W. Bush Condoleezza Rice che aveva dichiarato: “Il resto del mondo trarrà un vantaggio migliore dagli Stati Uniti che perseguono i propri interessi, poiché i valori americani sono universali” [cfr. Robert Phillipson, English-Only Europe?: Challenging Language Policy, Routledge, Londra 2003].
Ma questo atteggiamento neocolonialista non è confinabile all’interno di una visione conservatrice, appare al contrario molto più esteso, radicato e trasversale. Si ritrova anche all’epoca del democratico Bill Clinton e nelle parole di un ex funzionario della sua amministrazione, David Rothkopf: “Gli Americani non devono negare il fatto che, tra tutte le nazioni della storia del mondo, la loro è la più giusta, la più tollerante, la più desiderosa di rimettersi in discussione e di migliorarsi continuamente, il miglior modello per l’avvenire”[“In Praise of Cultural Imperialism?”, in Foreign Policy, n. 107, estate 1997, citato in Serge Latouche, Mondializzazione e decrescita. L’alternativa africana, Dedalo 2009, pp.73-74].
È la stessa concezione espressa nel 2001 da Berlusconi: ”Io credo che noi dobbiamo essere consapevoli della superiorità della nostra civiltà. Una civiltà che costituisce un sistema di valori e principi che ha dato luogo ad un largo benessere nelle popolazioni dei paesi che la praticano. Una civiltà che garantisce il rispetto dei diritti umani, religiosi e politici. Rispetto che certamente non esiste nei Paesi islamici”.

E allora la vera “sostituzione etnica” che si vuole realizzare non è affatto un complotto, ma esiste, anche se non ha nulla a che fare con il piano Kalergi, ma con un piano di stampo neocolonialista che punta a esportare i valori “occidentali” in tutto il mondo. E passando dalle razze e dalle etnie alle lingue, voler fare dell’inglese la lingua planetaria è un pezzo importante di questo disegno. Ma per citare le parole della finlandese Tove Skutnabb-Kangas, tutto ciò si può riassumere con la parola “linguicismo”. Come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo è la discriminazione in base alla lingua madre, che porta a giudizi sulla competenza o non competenza nelle lingue ufficiali o internazionali. Questo riduzionismo monolinguistico, secondo la studiosa, non è solo ingiusto, ma è un “cancro” a cui va contrapposto il riconoscimento dei diritti linguistici. L’autrice si scaglia soprattutto contro le associazioni che proclamano i diritti fondamentali dell’uomo, dove i diritti della lingua sono assenti o poco considerati (a parte le belle dichiarazioni d’intenti), in particolare quello di ricevere un’istruzione nella propria lingua madre. Mentre i Paesi occidentali si presentano come paladini dei diritti umani e delle minoranze e hanno creato il mito per cui loro stessi li rispettano, “in relazione ai diritti all’istruzione linguistica, questo è semplicemente falso, l’Occidente e responsabile del genocidio linguistico e culturale nel mondo” [“I diritti umani e le ingiustizie linguistiche. Un futuro per la diversita? Teorie, esperienze e strumenti”, in Come si e ristretto il mondo, a cura di Francesco Susi, Amando Editore, Roma 1999 (pp. 85-114), p. 99].

La sostituzione delle lingue etniche con l’inglese, la lingua madre dei popoli dominanti, porta alla morte delle lingue minori, come è avvenuto e avviene in Africa e come ha denunciato lo scrittore Ngũgĩ wa Thiongo raccontando la storia dell’imposizione dell’inglese nelle scuole coloniali africane [Decolonizzare la mente, Jaka Book, Milano 2015]. Nel 1992 l’Unesco aveva stimato che il 90% delle quasi 6.000 lingue parlate nel mondo erano a rischio estinzione nell’arco di un paio di generazioni [Cfr. Joe Lo Bianco, “Language, Place and Learning”, pascal International Observatory 2007], e come ha scritto il tunisino Claude Hagège, in questo “olocausto che fluisce senza sosta, apparentemente nell’indifferenza generale” la principale minaccia è proprio l’inglese, che “svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle lingue”[Morte e rinascita delle lingue. Diversita linguistica come patrimonio dell’umanita, Feltrinelli, Milano 2002, p. 7]. Ma mentre le lingue minori rischiano l’estinzione, anche quelle più forti regrediscono. La strada aperta dal Politecnico di Milano di insegnare in inglese e di estromettere la lingua italiana dalla formazione universitaria – una via perseguita anche da altri atenei – va in questa direzione. Come il disegno che striscia in modo silenzioso e surrettizio di fare dell’inglese la lingua dell’Ue, invece di promuovere il plurilinguismo che vive solo sulla carta, ma non nella prassi. L’imposizione del globalese che si fa strada nel lavoro, nella scienza e in sempre più realtà entra però in conflitto con le lingue etniche locali, e gli anglicismi che esplodono in ogni idioma, e che in Italia raggiungono l’apoteosi, sono gli effetti collaterali di questa sostituzione che non è più solo lessicale, ma culturale: dunque è questa la vera sostituzione “etnica” in atto.

La sostituzione linguistica

Tra le ultime voci aggiunte sul Dizionario AAA (Alternative Agli Anglicismi) ci sono lemmi come service learning, overconfidence o jumpscare. L’approccio pedagogico alla formazione civile, che potemmo chiamare educazione civica, esaltato persino dalle scuole cattoliche è chiamato in inglese, service learning, mentre l’eccessiva sicurezza di sé (la sicumera che porta a giudizi e comportamenti improvvidi) è l’overconfidence, e la tecnica cinematografica dello spaventare all’improvviso è il jumpascare. Queste parole astruse diventano la terminologia preferita e diffusa dagli addetti ai lavori e dai giornali. E di esempi di questo tipo se ne possono fare a bizzeffe.

L’altro giorno leggevo che il fenomeno di dormire con il proprio animale è detto co-sleeping, una riconcettualizzazione che ripete le categorie in inglese, dove l’unica cosa che mi ha stupito è che non sia stata usata la parola “pet”, visto che dilaga (a quando il prestito di “necessità” con inversione sintattica del pet co-sleeping?). Invece di parlare di “prestiti linguistici”, sarebbe ora di chiamare le cose con il loro nome. Questi non sono “prestiti” sono trapianti lessicali che spesso si affermano e fanno piazza pulita dell’italiano.

Non è questa una sostituzione lessicale – e prima ancora concettuale – che spazza via le nostre parole etniche per rimpiazzarle con le parole-concetti in inglese? Possibile che la nostra classe dirigente non se ne renda conto e anzi non faccia altro che favorire questi fenomeni ogni giorno più diffusi? Possibile che non veda che è questa l’unica sostituzione “etnica” in atto?

Vivo a Milano, in una strada al confine tra la zona densamente popolata di musulmani di via Padova e un altro quartiere a forte presenza ispanica, non distante dalle vie dietro Porta Venezia, dove si sono concentrati molti immigrati africani. Avevo un ufficio nella Chinatown meneghina, come è soprannominato il quartiere intorno a via Paolo Sarpi, e mi sposto prevalentemente con i mezzi pubblici dove, soprattutto la sera, la percentuale di stranieri è molto alta. Spesso si sentono parlate arabe, orientali, e poi altre di difficile collocazione, andando a orecchio, ma a occhio sembrerebbero di albanesi, rumeni, turchi e altri ancora. Penso alla babele delle lingue che si ascoltano in metropolitana e per la città, e mi domando quale impatto abbia sull’italiano tutto questo pullulare di stranieri. Nessuno. Gli italiani non conoscono una parola di arabo o di cinese. L’unico terreno di scambio linguistico è quello gastronomico. Wanton fritti, kebap, sushi e sashimi, falafel, lo zighinì degli eritrei. Cose così, c’è poco altro. L’italiano è impermeabile alle lingue degli immigrati, risente invece dei modelli culturali ed economici statunitensi (ugualmente extracomunitari), che non sono presenti sul territorio a questo modo, ci arrivano in altre forme.

L’inglese e ormai usato per marcare il territorio milanese, dove in questi giorni si svolge la design week, e sul Corriere, sotto l’etichetta “Style”, si può leggere degli “eventi Audi alla design week per capire cos’è la circular economy”, della “concept car Groundsphere”, del “full electric”, e dell’”automotive” che cambia pelle. Ma a cambiare la pelle è la nostra lingua.

L’itanglese è una realtà che si assorbe attraverso la comunicazione cittadina fatta dei gate delle stazioni, del biglietto contactless dei mezzi pubblici, del bike sharing, degli open day delle scuole prima del back to school… Queste sostituzioni lessicali sono diffuse dai giornali, dalla pubblicità, dal mondo del lavoro, della scienza e della tecnica… e si riverberano inevitabilmente nelle bocche della gente negli uffici, in metropolitana, nei locali. Sulle insegne dei negozi sempre più raramente si leggono denominazioni come barbiere o parrucchiere, come se ci si vergognasse dell’italiano, e ormai tutti scrivono Hair Style. La messa in piega e qualcosa da vecchie signore cotonate, per essere moderni i nuovi parrucchieri che si sentono Hair Style Artist la chiamano brushing; il trucco è make-up, le truccatrici make up artist e chi fa le unghie nail artist.


Se vogliano fare un parallelo tra l’immigrazione delle persone e quello delle parole (ma è un accostamento pericoloso e poco calzante) dovremmo tenere a mente una cosa molto importante, che la nostra intellighenzia di collaborazionisti dell’inglese dalla mente colonizzata non sembra in grado di capire.

Nessuna parola o persona è “straniera” per la sua origine o provenienza, ma per non essere integrata. Dal punto di vista lessicale le parole straniere sono quelle non adattate, che non si amalgamano con il tessuto linguistico del nostro idioma, con i nostri suoni e il nostro modo di scrivere, e dunque rimangono dei “corpi estranei” per dirla con Arrigo Castellani. Ben venga l’interferenza di ogni lingua, se passa per l’adattamento e ci arricchisce. Ma quando il numero degli anglicismi crudi – e solo quelli – diventa abnorme per numero, frequenza d’uso e profondità, anche la nostra lingua va in frantumi. Allo stesso modo ben vengano gli emigrati di ogni Paese, etnia e colore. Sono una ricchezza e una risorsa che ci arricchisce, proprio perché si integrano, imparano l’italiano e dunque sono italiani, al contrario di troppi intellettuali colonizzati che sono nativi, come provenienza, ma hanno in testa solo l’angloamericano e preferiscono trasformare la nostra lingua in qualcosa d’altro, attraverso una sostituzione lessicale che fa dell’anglosfera l’etnia superiore.

Sarebbe ora di riflettere su queste cose e di cominciare a raccontare una storia che non è ancora stata raccontata, forse perché non si ha il coraggio di affrontarla. E visto che nessuno lo fa, ho provato a farlo in un lavoro uscito oggi (Lo tsunami degli anglicismi, edizioni goWare disponibile in formato digitale e cartaceo).

L’anglicizzazione della nostra classe dirigente ha a che fare con l’ignoranza

di Antonio Zoppetti

La questione degli anglicismi e di una legge sull’italiano ha avuto un grande spazio sui giornali e nei dibattiti televisivi anche la scorsa settimana. Il livello delle discussioni a cui abbiamo assistito è però davvero avvilente, perché a prevalere sono i luoghi comuni, la disinformazione e soprattutto l’incapacità di uscire dalle prese di posizione ideologizzate che sono rimaste ferme a un secolo fa e interpretano tutto come una riedizione delle politiche del fascismo e della guerra ai barbarismi.

La proposta di legge di Fabio Rampelli è stata attaccata e spesso mistificata attraverso pregiudizi del passato, invece che essere analizzata o criticata con gli occhi del presente. Ma la nostra classe dirigente sembra ragionare ancora con gli schemi del purismo, incapace di cogliere la realtà e di andare avanti, visto che rispetto agli Venti del secolo scorso il mondo è cambiato e la globalizzazione, l’avvento di Internet, il crollo del muro di Berlino, la fine della Guerra fredda… hanno posto la questione della lingua su un terreno completamente differente rispetto al Novecento.

Gli interventi di ospiti e giornalisti importanti in trasmissioni televisive di primo piano mostrano chiaramente l’impreparazione e l’ignoranza dell’intellighenzia nostrana sul tema della lingua. Questa bassissima competenza è l’altra faccia della medaglia dell’anglicizzazione, e si può combattere solo con una battaglia culturale di svecchiamento dei pregiudizi.

Pregiudizio numero 1: la negazione e la banalizzazione

Alla nostra classe dirigente non è chiaro che il problema dell’interferenza dell’inglese non è una questione di principio né di battaglie per l’autarchia e il sovranismo linguistico, è un problema di ecologia linguistica. Il problema non sono i “forestierismi” da bandire per motivi di principio, il problema sono gli anglicismi – e solo quelli – perché il loro numero sproporzionato è tale che stanno cambiando i connotati della nostra lingua trasformandola in itanglese. Il nostro ecosistema linguistico è schiacciato da questo eccesso, e la necessità di leggi per tutelare il nostro patrimonio linguistico è una risposta a una minaccia reale: lo “tsunami anglicus” ci travolge perché l’inglese planetario entra in conflitto con le lingue locali. Ma i nostri intellettuali non lo sanno, e dunque negano tutto ciò. Davanti alla questione dell’abuso dell’inglese sorridono, fanno spallucce e sfoderano i soliti stereotipi per cui tutto ciò sarebbe un falso problema. Ad Accordi e disaccordi di venerdì scorso (su La7) l’opinionista Andrea Scanzi ha raggiunto l’apoteosi di queste pochezze, e con il suo solito tono saccente e perentorio ho sciolinato i peggiori stereotipi banalizzando la questione e riducendo tutto al fatto che qualcuno vorrebbe impedirci di dire “brioche” o “rock”, mostrando di non avere la più pallida idea della questione. Tra l’altro “brioche” è uno pseudo- francesismo nel significato che gli attribuiamo noi di cornetto, ma il punto non è il forestierismo in sé, bensì il peso dell’interferenza dell’inglese nella sua totalità e complessità, che sta portando al collasso del dominio in molti settori: l’italiano non è più in grado di esprimere l’informatica, il lavoro, la scienza, la tecnologia…. senza la stampella dell’inglese. A Piazza Pulita di Corrado Formigli le cose non erano tanto diverse, e mentre De Benedetti liquidava la faccenda degli anglicismi come una questione inesistente e di nessuna rilevanza, invitando a concentrarsi sui problemi seri del nostro Paese, il conduttore mostrava una grafica in cui faceva passare una serie di forestierismi, ormai comuni e naturali, inglesi, francesi, spagnoli o tedeschi, senza accorgersi che il numero degli anglicismi indicati superava la somma di tutti gli altri forestierismi recuperati con un certo sforzo, nel caso di germanismi e ispanismi.

Pregiudizio numero 2: i peggiori sovranisti sono proprio i giornalisti

In tutto il mondo si riflette e si interviene sull’invadenza dell’inglese, nei Paesi ispanici esistono numerose istituzioni pubbliche e private che traducono anglo-tecnicismi e coniano neologismi che invece noi importiamo e accumuliamo in inglese senza nemmeno porci il problema. E lo stesso avviene in Francia che ha varato anche delle leggi severe per la tutela e l’integrità del francese; in Islanda esiste la figura ufficiale del neologista che crea alternative autoctone alla terminologia inglese; in Svizzera sono state emanate linee guida per evitare le parole inglesi nella pubblica amministrazione in nome della trasparenza, e la lingua italiana è ben più tutelata e promossa che da da noi. Ma il giornalista medio sembra ignorare tutto ciò, e davanti al problema dell’anglicizzazione non si aggancia al dibattito internazionale, ma subito si blocca come un mulo e non sa far altro che collegare la questione alla guerra ai barbarismi del ventennio. Ma ignorare il dibattito internazionale di oggi e guardare solo al nostro passato interno significa guardarsi l’ombelico e indossare i paraocchi svincolandosi dalle più attuali questioni planetarie, è un isolarsi dal mondo che si può leggere come il peggiore sovranismo culturale che si possa immaginare. E per far finta di uscire da questo provinciale modo di porre la questione si ricorre a un altro luogo comune da sfatare: questi signori sono convinti che parole come mouse o computer siano moderni “internazionalismi”, non sanno che non è così e più in generale confondono “internazionalismo” con ciò che avviene nell’anglosfera, che è il loro unico parametro di riferimento, perché sono colonizzati nella mente e non hanno altri modelli se non quelli dell’angloamericano.

Pregiudizio numero 3: la mistificazione e la ridicolizzazione dell’avversario

In questo quadro, la notizia della legge di Rampelli è stata riassunta e presentata enfatizzando solo la questione delle multe da 5.000 a 100.000 euro che ben si presta alle analogie con le leggi fasciste iniziate con una tassa sulle insegne commerciali che contenevano parole straniere. L’iniziativa non era affatto una novità del fascismo, era già stata proposta ben prima, per rimpinguare le casse dello Stato, anche se il fascismo l’ha rilanciata con un intento patriottico più che finanziario.

L’articolo delle sanzioni, in effetti, avrebbe potuto essere scritto in modo diverso e meno vago, perché così come impostato sembra quasi ammiccare provocatoriamente al passato, e istigare i facili accostamenti. Quanto alle altre “ingenuità” o punti deboli e critici presenti nel testo di legge, nessuno li ha nemmeno visti e forse recepiti.

Rampelli è dunque intervenuto un po’ ovunque per spiegare che le multe riguarderebbero le amministrazioni e non i privati cittadini, e che il suo intento era quello di riprendere le leggi francesi dove nei contratti e nella documentazione di lavoro è obbligatorio usare il francese e le multinazionali – come la Danone o la GEMS – che hanno violato le regole sono state pesantemente multate. Ancora una volta, un “sovranista” come Rampelli si è rivelato più “internazionale” dei suoi avversari che non sono consapevoli di ciò che avviene all’estero perché per loro l’estero è solo l’anglosfera, e non sanno che la legge Toubon è ben più radicale di quella “rampelliana”.

Una campagna di sensibilizzazione per l’italiano

E allora, per fare chiarezza e sgomberare i pregiudizi è necessario fare informazione e creare una nuova cultura. Per questo sto cercando di far circolare il “Rapporto sull’anglicizzazione” con i dati e i numeri tratti dallo spoglio dei dizionari, che purtroppo i giornalisti e gli intellettuali non conoscono. Per questo il rapporto è stato inviato in Parlamento – insieme alla nostra proposta di legge per l’italiano e alle 2.200 firme di chi la sostiene – sia ai rappresentanti del Governo sia alle forze di opposizione. La stessa istanza che abbiamo rivolto un paio di anni fa al presidente della Repubblica Sergio Mattarella con una petizione firmata da oltre 4.000 cittadini.

Purtroppo nessuna risposta ci è pervenuta.

Tuttavia, ieri sono riuscito a perorare molto brevemente davanti a Rampelli quello che a mio avviso è il punto chiave: la necessità di agire con strumenti culturali per ricostruire un tessuto sociale che spezzi il nostro complesso di inferiorità verso l’inglese e per fare in modo che la nostra lingua, così amata nel mondo, torni a essere qualcosa di cui andare fieri, invece che vergognarcene e buttarla via davanti agli anglicismi.

La risposta di Rampelli

Ieri sono intervenuto su Radio Radio nella trasmissione Punto e accapo condotta da Francesco Borgonovo e ho cercato di spiegare come stanno le cose e di divulgare il vero problema dell’anglicizzazione che è un fenomeno da pesare e misurare, non da liquidare come una questione di purismo o di principio. Nella seconda parte della trasmissione Borgonovo ha intervistato anche Rampelli che ha ribadito che le multe previste dalla sua proposta di legge non riguardano i cittadini che proferiscono forestierismi, ma le istituzioni che dovrebbero rivolgesi ai cittadini in italiano. Ha anche osservato che il tema della lingua, teoricamente, dovrebbe appartenere alla sinistra, non solo alla destra, anche se a sinistra sembra che nessuno lo capisca. E ha fatto presente che, davanti alla sua proposta, mentre la gogna mediatica italiana ha rispolverato il fascismo, nessuno in Francia ha mai tacciato di fascismo Macron, Mitterand né le commissioni istituzionali per l’arricchimento del francese davanti agli anglicismi.

Sono riuscito a intervenire per precisare ciò che, a mio avviso, manca nella proposta di legge di Rampelli, e cioè una campagna di sensibilizzazione a favore dell’italiano. Perché le lingue si orientano con altri mezzi rispetto alle multe (che ben vengano se sanzionano le multinazionali d’oltreoceano o le amministrazioni che introducono anglicismi demenziali al posto dell’italiano). Per stigmatizzare gli anglicismi bisogna perciò fare cultura, emanare linee guide e raccomandazioni, perché la battaglia contro l’anglicizzazione va condotta sul terreno della “connotazione”, per fare in modo che le parole inglesi non siano vissute come preferibili. L’abuso dell’inglese si può arginare solo con le stesse modalità con cui si diffondono le parole considerate “politicamente corrette” e non discriminatorie, e nello stesso modo con cui si sta operando nel caso di parole come sindaca o ministra e per le altre femminilizzazioni delle cariche.

Borgonovo è un giornalista ben informato, da sempre sensibile al tema della lingua, ha dunque colto benissimo il nodo della questione, e l’ha girata a Rampelli chiedendogli in modo molto diretto: “Ha sentito? Che ne pensa? Farete una campagna?”
La risposta è stata: “Sì, è perfettamente in linea con i nostri scopi politici.”

Vedremo come andranno le cose e che accadrà, ammesso che la nuova proposta di legge sia finalmente perlomeno discussa, al contrario delle precedenti.

Intanto continuo, come posso, nella mia opera di divulgazione, informazione e convincimento.

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PS
Sabato sarò a Crema (Biblioteca comunale Gallini, ore 10) e divulgherò i numeri e i dati dell’anglicizzazione dell’italiano in un incontro promosso dagli esperantisti per ricordare Daniele Marignoni, autore della prima grammatica di esperanto italiana.

L’esperanto non è una lingua “etnica”, non entra in conflitto con le lingue locali e rappresenterebbe la soluzione più etica, pacifica, razionale ed economica per la comunicazione internazionale, ma forse proprio per questo è osteggiato da chi ha tutto l’interesse a privilegiare l’inglese e a difendere il potere del globalese, di cui gli anglicismi sono solo un “effetto collaterale”.

Interverrà anche il professor Michele Gazzola, che parlerà dell’approccio al multilinguismo nella politica di comunicazione dell’Unione europea, visto che l’inglese non è la lingua ufficiale dell’Ue, e dovremmo ricordarcene più spesso.

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Aggiornamento del 17/4/023: per chi è interessato è disponibile la registrazione dell’evento:

Se la politica linguistica è solo di “destra”…

Di Antonio Zoppetti

Il 31 marzo è stata assegnata alla Camera la proposta di legge sull’italiano presentata dall’onorevole Rampelli il 23 dicembre 2022, e la cosa sta suscitando un putiferio mediatico. Eppure la “notizia” non sta nella legge, il cui testo era noto già da mesi, ma nella sua assegnazione, cioè nella sua ufficializzazione che potrebbe portare a una discussione in Parlamento, se non farà la fine di tutte le altre proposte cadute nel nulla.

Questo teatrino del giornalismo e della politica è però avvilente. Appare un guazzabuglio di stereotipi ideologizzati dove la mia impressione è che a nessuno importi davvero dell’italiano. Né ai giornalisti né, forse, ai legislatori che hanno formulato una proposta di legge con una modalità che pare volutamente pensata per scatenare le polemiche, più che per intervenire in modo serio.

Le multe non sono affatto una novità

I giornalisti hanno abboccato volentieri alla provocazione, come era prevedibile, e si scagliano stupiti contro la questione delle sanzioni previste dai 5.000 ai 100.000 euro per chi violerebbe la legge. Ma di che cosa si stupiscono questi signori? La proposta di queste sanzioni (qui la legge 734 presentata a dicembre 2022 ) non è affatto una novità, ripete parola per parola ciò che Rampelli aveva già proposto nel 2018 (qui il testo della legge 678), e la nuova proposta di legge ricalca con qualche ampliamento, le solite proposte avanzate anche in passato, basta confrontare i testi di legge per constatare che non c’è niente di nuovo sotto il sole.

Nel 2018 avevo scritto un pezzo polemico e sarcastico rivolto a Giorgia Meloni, che era tra i firmatari della scorsa proposta di legge di Rampelli, perché in quell’atto presentato in Parlamento c’erano degli evidenti copia e incolla tratti da quanto scritto in questo sito.

Per la prima volta mi ero reso conto che la battaglia che da anni conduco da queste pagine era arrivata all’attenzione della politica, e da allora ho provato in tutti i modi a rivolgermi direttamente ai politici per perorare la mia causa. In quel pezzo mi sono sgolato a gridare che la tutela della lingua italiana appartiene a tutti, non è né di destra né di sinistra, e che era auspicabile cercare di superare le posizioni ideologizzate, lasciare alle spalle il modello della politica linguistica del fascismo, e guardare alle politiche attuali di Francia, Spagna, Svizzera e le altre democrazie. E avevo soprattutto provato ad argomentare che la tutela, promozione e valorizzazione dell’italiano non passa attraverso la repressione e le multe, ma attraverso una campagna di sensibilizzazione e di educazione all’italiano, per spezzare l’assurda e servile mentalità dilagante che fa dell’inglese una lingua superiore e degli anglicismi qualcosa di più evocativo degli equivalenti italiani. Ma a destra non sembra che lo abbiano compreso.

Quale alternativa alla politica linguistica di Rampelli?

Per questo, nel 2020, ho lanciato una petizione rivolta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella con la richiesta di “una campagna mediatica per difendere e favorire l’italiano”. La petizione ha raccolto più di 4.000 firme, ma nessuna risposta è mai pervenuta.
L’anno successivo, visto che non demordo, insieme ad altri cittadini ho perciò presentato anche una petizione di legge di iniziativa popolare più articolata (assegnata alla Camera e al Senato), e di nuovo le richieste erano incentrate sulla necessità di una campagna mediatica e nelle scuole, ma anche sull’emanazione di linee guida e raccomandazioni per evitare l’abuso dell’inglese nel linguaggio istituzionale. Questa proposta è rimasta isolata, non è stata ripresa dai giornali italiani (anche se è stata riportata all’estero, in Francia, in Germania e in Svizzera), non è stata appoggiata dalla Crusca, e non è stata presa in considerazione dalla politica, nonostante sia stata sottoscritta da oltre 2.200 cittadini che l’hanno sostenuta con le loro firme.
Ho passato più di un anno a scrivere ai parlamentari, a volte sfruttando contatti che sapevo avrebbero portato a destinazione le mie lettere, ma tutti si sono voltati dall’altra parte, in particolare i responsabili della cultura di Camera e Senato del Pd della scorsa legislatura, ai quali ho rammentato invano che non potevano disinteressarsi della faccenda e lasciare la difesa della lingua italiana solo alla destra.

Quello che si vede oggi è il risultato di questo disinteresse.

Di che cosa ci si scandalizza, dunque? Ciò che sta avvenendo in questi giorni è la riedizione di ciò che si è già visto nel 2018, e a ritroso, nelle prime proposte di legge legate all’istituzione di un Consiglio Superiore della lingua italiana che risalgono al 2001. Ogni volta il dibattito si trasforma in una sterile polemica che riduce tutto a prese di posizioni nostalgiche ferme al fascismo e all’antifascismo, riviste alla luce dei concetti di sovranismo e anglomania spacciata per internazionalismo. E ogni volta, infatti, non succede un bel niente.

Le proposte del 2023

La “novità” è che nel frattempo è stata presentata la proposta di inserire l’italiano in Costituzione da parte del senatore di Fratelli d’Italia Roberto Menia (il disegno di legge n. 337 del novembre 2022). Ma ancora una volta si tratta di una non-novità, visto che questo tormentone era stato avanzato almeno due volte dalla Crusca, in passato, che è stato riproposto più volte da politici di Fratelli d’Italia, Forza Italia e, in tempi recenti, da altri, non solo da me, per esempio da un’iniziativa del professor Giuseppe Limone.

Come ho ribadito più volte, e come hanno osservato in molti a partire dal presidente della Crusca Claudio Marazzini, inserire nella Costituzione che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica non basta, e avrebbe solo un valore simbolico senza una politica linguistica da affiancare che preveda un’attuazione di cose concrete.

La nuova proposta di Rampelli va letta in questa chiave, ma appare deludente e sterile perché ripropone le solite vecchie tiritere rimaneggiate appena appena e in modo maldestro. La volontà di intervenire su questioni cruciali c’è, ma le modalità di intervento non convincono e sono inadeguate e irrealizzabili. Il richiamo a evitare gli anglicismi nei contratti di lavoro (copiato dall’approccio francese) e anche il sancire l’italiano come lingua della formazione sono condivisibili, in linea teorica, ma non è con i divieti, la repressione e le multe che si possono perseguire questi obiettivi. Manca inoltre una definizione di che cosa sia “l’italiano” e quali siano i criteri di “divieto”. Che fare davanti a parole come “computer” che italiano non è, dal punto di vista morfosintattico, ma è radicato nell’uso al punto da essere diventato insostituibile? E che dire degli altri 4.000 anglicismi crudi contenuti nei dizionari? Sono italiani, visto che i vocabolari li registrano, o sono stranieri? Sotto le parole del ministro c’è la solita ridicola distinzione dei prestiti di lusso e di necessità, una distinzione imbarazzante che non conduce a nulla. Chi dovrebbe decidere quali sono i prestiti di lusso e necessità, visto che tutto non ha alcun fondamento oggettivo e logico?
Una commissione che dovrebbe coinvolgere Crusca, Treccani, Rai e altre istituzioni, secondo quanto scritto nella legge, ma tutto ciò rischia di riportarci agli elenchi dei sostitutivi ai barbarismi pubblicati dalla Reale Accademia Italiani di epoca fascista, invece che ricalcare i modelli della politica linguistica francese basati sull’arricchimento della loro lingua e sugli equivalenti promossi dall’Accademia francese o dalle banche dati terminologiche ufficiali, esattamente come accade anche nei Paesi di lingua spagnola.

Il vuoto a sinistra e delle altre forze politiche

Se non ci fosse ancora il tabù tutto italiano della politica linguistica, se fossimo un Paese normale, assisteremmo a un dibattito e a un confronto tra le politiche di destra, di sinistra o di centro. Ma se le uniche forze politiche che si interessano alla lingua sono quelle di destra, è perfettamente inutile scandalizzarsi, lamentarsi e gridare al fascismo. Qual è l’alternativa? Che cosa propongono la sinistra o il movimento 5 stelle?
Nulla! Dalle altre parti c’è il vuoto. Questo non schierarsi non significa essere neutrali, significa fare gli ignavi, come avrebbe detto Dante, ed essere complici della regressione dell’italiano davanti all’inglese che entra in conflitto con le lingue locali e le minaccia.

La nuova questione della lingua non ha nulla a che vedere con il purismo e l’autarchia linguistica, ha a che fare con una globalizzazione che vuole rendere l’inglese la lingua planetaria. Gli effetti collaterali di questa politica – che viene data per scontata sia a destra sia a sinistra – sul piano internazionale portano alla regressione dell’italiano, al suo abbandono nell’Ue (visto che non è più lingua di lavoro), nella scienza o in alcune università che preferiscono formare in lingua inglese. E sul piano interno questi effetti collaterali portano allo “tsunami anglicus” mondiale che in Italia è particolarmente devastante visto che non abbiamo politiche linguistiche serie ed è la nostra classe dirigente a favorire l’uso degli anglicismi, invece di contrastarli e usare l’italiano.

Se la sinistra e le altre forze politiche non sono interessate, né capaci, di proporre un modello alternativo, le loro opposizioni alle politiche di destra sono inutili, becere e ipocrite.
Il tema della promozione dell’italiano diventa perciò un pretesto per uno scontro politico divisivo, ideologizzato e strumentale dove al centro non c’è affatto l’interesse per la lingua. Mi piacerebbe vedere un dibattito serio in cui si confrontino visioni del mondo e soluzioni diverse. Ma si vedono solo proposte superficiali che non stanno in piedi, da una parte, mentre sul fronte opposto si erge il consueto bla bla bla che critica ma non propone, perché non ha una diversa visione della politica linguistica. Semplicemente non ha intenzione di fare nulla.
Il risultato non può che portare all’ennesimo scontro divisivo che rischia di esaurirsi nell’ennesimo nulla di fatto. La politica degli struzzi che si vede a sinistra è deprecabile e scriteriata almeno quanto quella repressiva che viene presentata a destra con modalità che sembrano volere evocare di proposito le leggi del fascismo, invece di lasciarle alle spalle.

La battaglia contro gli anglicismi deve avvenire sul terreno della connotazione

Certo, se passasse una legge per bandire l’inglese nel linguaggio istituzionale e contrattuale, inevitabilmente anche le sanzioni per chi non la applica avrebbero un loro senso. Il che non significa multare chi dice “computer”, ma per esempio sanzionare le multinazionali, da Amazon a McDonald’s, che introducono le figure lavorative in inglese, e quelle realtà che ormai fanno firmare contratti direttamente in inglese, o che obbligano i propri dipendenti a usare l’inglese. In Francia colossi come la Danone o la GEMS sono infatti stati sanzionati, ma in Italia sarebbe possibile? Prima di tutto si dovrebbero multare le Ferrovie dello Stato, le Poste italiane e – perché no? – lo stesso Stato italiano che ha imposto l’obbligo di presentare in inglese i Progetti di ricerca (Prin) e quelli per la scienza (Fis) estromettendo la lingua italiana. Ma la battaglia contro gli anglicismi e contro l’inglese che minaccia l’italiano e le altre lingue del mondo andrebbe combattuta in tutt’altro modo e sul terreno della connotazione.
La terza via, mentre politici e giornalisti si scannano in vecchie e inutili polemiche che guardano al passato e sembrano incapaci di comprendere il presente e avere una prospettiva seria per il futuro, è quella della nostra proposta di legge. Il purismo è morto e sepolto, così come la guerra ai barbarismi e l’autarchia linguistica. La nuova questione della lingua è un problema di ecologia linguistica, non si può assistere senza fare nulla all’anglicizzazione selvaggia e miope dell’italiano che si trasforma in itanglese schiacciato dagli anglicismi che snaturano i suoni e le regole morfosintattiche dell’italiano storico. La nuova questione della lingua è un problema internazionale che diventa la questione “delle lingue” davanti al progetto politico del globalese che cancella il plurilinguismo e rende le lingue locali i dialetti di un mondo che si vuol far pensare e parlare nel solo inglese.

La tutela dell’italiano non può essere fatta con le multe, le purghe o i manganelli, ma con la ragione e il convincimento. Invece che riproporre schemi che si riallacciano al fascismo, e finiscono per essere controproducenti per chi ha a cuore l’italiano, basta applicare al problema degli anglicismi lo stesso criterio che da anni si sta impiegando in modo efficace per modificare l’uso di parole legate alla femminilizzazione delle cariche o per bandire le espressioni considerate politicamente scorrette.

Se le linee guida e le pressioni sociali sono in grado di incidere sulla lingua dei giornali che parlano ormai di sindaca e ministra, parole che allo stesso tempo vengono introdotte nei dizionari e sono raccomandate nel linguaggio amministrativo… se si predica il linguaggio inclusivo, se parole come “negro” sono state messe al bando… tutto ciò non è avvenuto con le multe, ma con le pressioni sociali. E allora basta pagliacciate, basta con la retorica dei due pesi e delle due misure. Che si metta in ridicolo e si condanni chi si eleva dicendo booster invece di terza dose, delivery invece di servizi a domicilio, smartworking invece di lavoro a distanza, caregiver invece di assistente familiare… ma anche chi si definisce underdog invece di sfavorito e plaude al family day o alla flat tax, invece di parlare del giorno della famiglia e dell’aliquota unica o alla peggio di una tassa piatta.

Chi fa finta di non capirlo, a destra e a sinistra, è in malafede e non vuole salvaguardare l’italiano, ha ben altri interessi ideologizzati e strumentali. Sarebbe ora di gridarlo forte e a tutti.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]