L’italiano cede il passo all’inglese sul piano interno e anche internazionale

Di Antonio Zoppetti

Nelle ultime settimane l’itanglese dei giornali ha raggiunto dei picchi notevoli anche grazie a una serie di manifestazioni tutte italiane, tranne che nella lingua.

A Vinitaly, di cui è già pronta la campagna per la prossima edizione, gli amanti del vino sono definiti Wine Lover, c’è il Design Award, e gli appuntamenti internazionali, di cui il sito invita al save the date, sono in inglese: tutto si chiama Around the World, e oltre alle date, anche le città come Belgrado sono tradotte in inglese.

Le motivazioni di queste scelte sono legate a un voler essere “internazionali” puntando sulla lingua inglese rivolta all’esterno e all’itanglese sul piano interno. Eppure, nei ristoranti di lusso dei Paesi anglofoni, da New York a Melbourne, i menù propongono il “vino”, perché questa è la parola italiana che evoca la nostra eccellenza nel mondo, e non Wine.
È bizzarro avere a che fare con i tanti che sono pronti a spiegarci che è giusto e “necessario” introdurre in inglese ciò che arriva dagli Stati Uniti perché è normale che le culture esportino nella propria lingua i settori dove sono forti. Ma questi stessi personaggi, quando si tratta di esportare i nostri punti di forza – dal Made in Italy all’Italian Design – sono pronti a spiegarci anche tutto il contrario, e cioè che è giusto e necessario usare l’inglese, perché è la lingua internazionale. Il risultato è che non c’è che l’inglese in questo curioso import-export basato su due pesi e due misure.

Quale altro Paese storpia il proprio nome in inglese, invece che esportarlo nella propria lingua? La scelta di Vinitaly al posto per esempio di Vinitalia è come chiamare Pirandello Louis invece di Luigi, riscrivere con “Italy’s Brothers” l’inno nazionale, proclamare il Green, il White e il Red i colori della nostra bandiera, magari con la scusa di una standardizzazione internazionale dei Pantone.

Passando dal Wine al Food, che dire della manifestazione Woman in Food, abbreviata in Wif?

Mentre fortissime pressioni sociali, spesso proprio in nome del politically correct, spingono per educare tutti all’inclusione o alla femminilizzazione delle cariche, perché “ogni parola ha le sue conseguenze” e dunque è giusto e normale intervenire sull’uso per cambiare il modo cui ci siamo sempre espressi, in questi stessi ambienti riformatori che introducono la sorellanza accanto alla fratellanza, non c’è invece alcuna attenzione per l’anglicizzazione della nostra lingua, e tra Cook e food stylist, l’inglese viene ostentato come se ci fosse da andarne fieri. Su questo aspetto guai a intervenire! Guai a parlare di politica e pianificazione linguistica, sul fronte dell’itanglese, perché invece che guardare a cosa si fa oggi in Francia in Spagna, in Svizzera e nelle moderne democrazie, i nostri intellettuali sembra che sappiano guardare solo ai tempi del fascismo, quando le parole straniere vennero messe al bando e sono pronti a spiegarci che la lingua non si può di certo imporre dall’alto. Di nuovo si adottano due pesi e due misure, la pianificazione linguistica è perseguita su alcune questioni e negata per altre. E allora abbasso la discriminazione della donna, ma viva la discriminazione dell’italiano, degli italiani e delle italiane!

Mentre a Milano impazza quello che un tempo era il Salone del mobile, la parola d’ordine è una sola: rinominarlo con la Week Design, in attesa forse che anche il Fuorisalone divenga l’OutDesign. Il “renaming” è imposto dall’alto e i giornali sono i cani da guardia di questo revisionismo linguistico che hanno il compito di diffondere: Week, Week e se non basta: Weekend!

Intanto, nella nostra demenza culturale, abbiamo pensato di anglicizzare anche il logo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, per presentarci così, in inglese, a tutto il mondo, senza riflettere sull’impatto, fuori dai Paesi anglofoni, di questa scelta miope, perché siamo convinti che anche tutti gli altri siano – come noi – una provincia degli Usa. Dunque, invece di tradurre e puntare al plurilinguismo nel presentarci in Francia, Spagna, Germania e ovunque, ci presentiamo direttamente in inglese come fossimo un Paese anglofono.

In una recente pubblicità rivolta alla Francia (Histoire d’or à l’italienne) promossa dal nostro Ministero e dall’Italian Trade Agency (nome tipicamente italiota) è successo un bel pasticcio, perché le associazioni francesi si sono inviperite proprio perché il nostro inglese viola le loro leggi.

L’irriducibile Daniel De Poli, che da anni si batte contro l’anglicizzazione del francese – tempo fa mi ha segnalato il caso della condanna all’Aeroporto di Metz-Nancy-Lorraine – mi ha subito scritto facendo presente:

“Le menzioni in inglese Ministry of Foreign Affairs and International Cooperation e Italian Trade Agency sono illegali, perché contravvengono all’articolo 3 della legge del 4 agosto 1994 (legge Toubon) che recita:
Qualsiasi iscrizione o annuncio affisso o fatto sulla pubblica via, in un luogo aperto al pubblico o su un mezzo di trasporto pubblico e destinato all’informazione del pubblico deve essere formulato in francese (art. 3).
Per di più, l’uso dell’inglese negli annunci pubblicitari dovrebbe essere evitato poiché molti francesi non capiscono o fraintendono la lingua inglese. Una menzione in francese ha molto più impatto perché è immediatamente comprensibile. Penso quindi che sarebbe auspicabile attivarsi affinché le prossime menzioni siano scritte in francese in Francia, per esempio traducendo in francese, invece che in inglese: Ministère des Affaires étrangères et de la Coopération internationale e Agence italienne pour le commerce extérieur.
Infine, vorrei sottolineare che questo tipo di reato – l’uso illegale dell’inglese – dà luogo ad azioni legali da parte dell’associazione di difesa della lingua francese Francophonie Avenir, che spesso hanno portato a delle condanne. Lo stesso governo di Emmanuel Macron è stato perseguito in diversi casi (casi 3, 4, 5 e 7), e il 20 ottobre 2022 c’è stata la condanna per un uso illegale del marchio Health Data Hub.”

Naturalmente, Daniel De Poli non ha scritto solo a me, ma si è rivolto alle associazioni per la tutela del francese e anche alle nostre istituzioni diffidandole, per il futuro, di presentarsi in Francia come un Paese anglofono. E la sommessa risposta di cortesia che ha ottenuto è la seguente:

Egregio Sig. De Poli,
la ringraziamo per l’attenzione mostrata verso le attività della nostra Agenzia e per la Sua cortese segnalazione, ricca di spunti informativi.
Siamo a conoscenza dei contenuti e delle prescrizioni della Legge n. 94-665 del 4 agosto 1994, che applichiamo con attenzione nelle nostre attività promozionali volte a sostenere le aziende italiane che desiderano operare sul mercato francese. Le menzioni in inglese cui fa riferimento riguardano in effetti la versione internazionale del logo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale della Repubblica Italiana e il logo stesso dell’Agenzia ICE, oggi Italian Trade Agency.
Alla luce di quanto da lei segnalato, ci riserviamo quindi di approfondire e verificare le modalità più corrette per esporre i loghi ufficiali del Ministero e dell’Agenzia in eventuali futuri annunci destinati al pubblico francese.

Cordiali saluti…”.

Davanti all’ammissione, a mio avviso sconcertante, che la versione “internazionale” del logo non è all’insegna del plurilinguismo ma concepita solo in inglese, non ho molto da aggiungere, a parte vergognarmi e dolermi profondamente della nostra provinciale pochezza che ci sta trasformando in una “colonia” anche dal punto di vista linguistico, oltre che economico, politico, militare e culturale. Voglio però riportare un’altra segnalazione arrivata da Daniele Imperi che mi pare un’ottima conclusione per farci riflettere su dove stiamo andando.

Si tratta di una schermata presa dal profilo Instagram dei nostri Oscar Mondadori. A prima vista sembra un libro in inglese, ma invece è in “italiano”, a partire dal titolo non tradotto, sino alle indicazioni del genere (Contemporary romance), dei contenuti (What’s Inside?), e delle spiegazioni (Doppio PoV, Single mom…). Questo sarebbe il nuovo “italiano”, per certi linguisti che ci spiegano come la nostra lingua sia “vitale” e vispa, o per quelli che ci spiegano che l’anglicizzazione è tutta un’illusione ottica… La realtà è che questo è itanglese, il nuovo modello linguistico della cancel culture diffusa e imposta dall’alto a partire dalle nostre istituzioni, dai nostri mezzi di informazione, e dalla nostra classe dirigente che ha rinunciato all’italiano.

Finanziamenti pubblici ai giornali: 28 milioni di euro per aiutare l’anglicizzazione?

Di Antonio Zoppetti

Il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha da poco pubblicato il resoconto del finanziamento pubblico erogato ai giornali e l’elenco delle testate cartacee che hanno ricevuto i fondi straordinari per le copie vendute nel 2021 (un grazie a Carlo Vurachi che mi ha segnalato la notizia). Si tratta di 28 milioni di euro, a fronte delle richieste che ammontavano a 38 milioni [cfr. Andrea Falla “Dallo Stato 28 milioni ai giornali (cartacei): ecco chi ha preso i contributi per l’editoria”, Today 2/4/2024].

Non voglio entrare nel merito se questi finanziamenti siano giusti o meno, voglio porre sul tavolo un’altra questione che vado dicendo almeno dal 2017, quando scrivevo:

“Poiché i giornali ricevono un notevole contributo dallo Stato, che poi sono i soldi di noi cittadini, non sarebbe una cattiva idea quella di chiedere loro un codice di autoregolamentazione, come è avvenuto spontaneamente in Spagna, in cui si sforzino a evitare gli anglicismi inutili, per esempio, e a contribuire a tradurli. Non in modo coercitivo, certo, però si potrebbero per esempio legare i finanziamenti pubblici a un impegno a diffondere un uso corretto della lingua italiana, visto il ruolo fondamentale della stampa. L’intervento dello Stato per arginare l’entrata negli anglicismi sul fronte della lingua ufficiale avrebbe sicuramente delle ricadute anche in altri ambiti, come quello della pubblicità, dei linguaggi settoriali e dell’aziendalese. E soprattutto richiamerebbe l’attenzione sul problema, e agirebbe sulla consapevolezza dei parlanti.” (Diciamolo in italiano. Gli abusi nell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla, Hoepli Milano, p. 183).

Un rapporto di “comparazione” poco chiaro

Provo a riprendere la questione in modo più dettagliato partendo dal rapporto “Il sostegno all’editoria nei principali Paesi d’Europa. Politiche di sostegno pubblico a confronto” (a cura del Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri), nella cui Prefazione si legge:

“L’Unesco per sottolineare l’importanza, in un sistema democratico, della libera informazione, suole richiamare una icastica affermazione dell’economista statunitense Joseph Stiglitz: ‘L’informazione è un bene pubblico […] e in quanto bene pubblico ha bisogno del sostegno pubblico’. La lapidaria evidenza di questo concetto sembrerebbe non lasciare spazio a grandi dibattiti, nondimeno in Italia negli ultimi tempi si è imposta una corrente di pensiero tesa a ‘delegittimare’ le misure di sostegno pubblico al sistema dell’informazione, articolata essenzialmente su due diverse argomentazioni: da un lato, che l’afflusso di risorse pubbliche al sistema editoriale rappresenterebbe un condizionamento per chi dovrebbe essere libero di svolgere la funzione di watch dog a tutela della democrazia e del pluralismo delle opinioni; dall’altro, che la spesa volta a sostenere il pluralismo dell’informazione non potrebbe essere considerata essenziale, in quanto estranea all’ambito tipico delle attività di carattere pubblicistico.
Per verificare la bontà o meno di questa impostazione, è risultato quasi inevitabile e doveroso per il Dipartimento dell’Informazione e dell’Editoria volgere lo sguardo verso altri paesi europei in chiave comparativa, al fine di verificare se il complesso sistema italiano che supporta l’informazione, in modo diretto e indiretto, costituisse una nostra peculiarità ovvero se invece trovasse una corrispondenza in altri paesi europei di consolidata tradizione democratica.”

– La prima considerazione è che anche la lingua italiana “è un bene pubblico” e non si capisce perché in quanto bene pubblico non abbia anch’essa bisogno del “sostegno pubblico”: anche questa lapidaria sentenza non dovrebbe lasciare spazio a grandi dibattiti, “nondimeno in Italia negli ultimi tempi si è imposta una corrente di pensiero” tesa a delegittimare l’italiano e a cancellarlo per sostituirlo con l’inglese. E infatti, in un documento istituzionale come questo, la funzione del “cane da guardia” è stata sostituita dall’espressione inglese watch dog. Perché? Forse perché abbiamo un/a presidente del Consiglio che si è definito/a underdog? Forse perché (hot dog e doggy-bag a parte) è arrivato il momento di sostituire cane con dog come si fa con i dog sitter e le gare di agility dog? A chi è destinata questa comunicazione? E che scopo ha? Di certo l’espressione non è trasparente, non si rivolge alle masse, che al contrario si vogliono “educare” attraverso la sostituzione dell’italiano con l’inglese. E soprattutto non è rispettosa del nostro patrimonio linguistico.

– La seconda considerazione è che non si può ridurre chi critica questi finanziamenti a chi ne mette in risalto “l’essenzialità” o il “condizionamento” dei watch dog, ci sono critiche di ben altro carattere che riguardano i criteri di queste erogazioni.
I meccanismi sono complicati, ma per semplificare, ci sono finanziamenti indiretti (per es. riduzione di Iva e costi di spedizione) e diretti, e questi ultimi sono distribuiti con vari criteri molto discutibili. Il punto dolente riguarda le testate che sono pubblicate da cooperative o società “senza fini di lucro”, un requisito che viene aggirato, come spiegato chiaramente in un articolo de Il Post [“I giornali che ricevono i contributi pubblici (seconda rata del 2022)”]:

“I criteri per accedere ai contributi possono essere in buona parte soddisfatti attraverso la creazione di strutture formali (cooperative, soprattutto) che non cambiano la natura societaria delle aziende giornalistiche, la differenza di condizione tra alcune testate che vengono finanziate e altre che invece no è inesistente, e questo crea una discriminazione di fatto alla libera concorrenza. Prendete la vivace competizione che si sta sviluppando tra i quotidiani italiani di destra, con Libero che cerca di rincorrere i recenti successi della Verità, e un gran lavoro di entrambi nel convincere gli inserzionisti a preferire l’uno o l’altro: bene, in questa competizione lo Stato – e le persone che pagano le tasse, e il canone Rai – dà a Libero cinque milioni e mezzo di euro che la Verità non riceve.”

Tra le altre critiche che riguardano le modalità di erogazione ci sono per esempio il fatto che i finanziamenti siano previsti solo per i giornali cartacei con esclusione delle testate solo digitali (ecco un’altra discriminazione), o anche che alcuni meccanismi di rimborso si basino sulle tirature e le vendite dei giornali, con la conseguenza che sono avvantaggiate non le piccole testate indipendenti, ma quelle già affermate. Dunque criticare i meccanismi non equivale a metterne in discussione il principio.

Terza considerazione: il titolo del rapporto parla di una comparazione tra la situazione italiana e i “principali paesi europei”, ma questa comparazione è fatta solo con 8 paesi, tra cui c’è il Regno Unito che è uscito dall’Europa e poco in linea con il titolo. E non c’è una riga che spieghi come e perché sono stati inclusi nella comparazione non i paesi europei, ma alcuni paesi europei, dove per esempio colpisce che non sia stata inclusa almeno la Spagna. Qual è il criterio di questa comparazione “europea”? Scegliere come parametro di riferimento una rosa arbitraria – magari di comodo – non è un grande indizio di “scientificità”.

Fatte queste premesse, partiamo proprio dalla grande esclusa, la Spagna.

I giornali in Spagna e Francia

La Reale Accademia Spagnola collabora con le analoghe accademie presenti in una ventina di Paesi dove il castigliano è lingua ufficiale non solo per mantenere l’omogeneità della lingua a livello globale, ma anche proprio per diffondere e creare le alternative in spagnolo agli anglicismi.

E così, nel 2005, quando a Madrid è stato presentato il Dizionario panispanico dei dubbi (Diccionario panhispánico de dudas) alla presenza dei responsabili di quasi tutti i giornali più importanti di lingua spagnola, fu sottoscritto un accordo, come ha ben evidenziato Gabriele Valle, in cui si dichiarava:

“Consci della responsabilità che nell’uso della lingua ci impone il potere di influenza dei mezzi di comunicazione, ci impegniamo ad adottare come norma fondamentale di riferimento quella che è stata fissata da tutte le accademie nel Dizionario panispanico dei dubbi, e incoraggiamo altri mezzi affinché aderiscano a questa iniziativa” [“Lʼesempio della sorella minore. Sulla questione degli anglicismi: l’italiano e lo spagnolo a confronto”, p. 757].

E lo stesso autore ricorda che la Fundación del Español Urgente, un’istituzione senza fini di lucro nata da un accordo tra un’agenzia stampa e una banca, costituisce attraverso il suo sito un servizio di consulenza linguistica che è diventato un punto di riferimento per i giornalisti che si rivolgono proprio a queste risorse per trovare le traduzioni agli anglicismi.

Quanto alla Francia, sarebbe doveroso ricordare che mentre i mezzi di informazione italiani diffondono anglicismi che in Francia non esistono oppure sono deprecati, Le Figaro sforna innumerevoli pezzi che condannano l’inglese e riprendono le direttive della Commissione per l’arricchimento della lingua francese che invita a usare per esempio infox al posto di fake news. E lì ci sono delle leggi da rispettare a proposito della lingua, che è il francese – come è stato scritto nell’articolo 2 della Costituzione – e non si possono introdurre parole straniere nel linguaggio istituzionale. Le indicazioni dell’Accademia francese si intrecciano dunque con le iniziative statali e sono affiancate dalle indicazioni terminologiche regolarmente pubblicate da oltre trent’anni sul Journal officiel (la Gazzetta Ufficiale francese), mentre opere come il Grande Dizionario Terminologico del Quebec traducono gli anglicismi anche più tecnici, e rappresentano un punto di riferimento che noi non abbiamo, ma che i giornalisti francesi mediamente rispettano e tendono a seguire.

La situazione degli anglicismi sui giornali italiani, francesi, spagnoli e tedeschi (e anche quella dei forestierismi in totale sui giornali anglofoni) è stata studiata in modo esemplare da Peter Doubt sul sito Campagna per salvare l’italiano, da cui rubo una delle tante tabelle comparative con il conteggio degli anglicismi nella settimana dal 15 al 21 gennaio 2022 su 5 testate a campione.

In conclusione: i giornali francesi e spagnoli hanno un ruolo sociale importante anche dal punto di vista linguistico. Se il finanziamento pubblico ai giornali è una garanzia per il pluralismo e la democrazia e ha bisogno di un sostegno pubblico, lo stesso vale per la lingua italiana, oggi calpestata soprattutto dai mezzi di informazione, che un tempo hanno contribuito enormemente a unificare ma che dagli anni Duemila stanno trasformando in itanglese.

E allora, la mia modesta proposta è che i criteri di erogazione di questi finanziamenti dovrebbero essere legati anche al rispetto del nostro patrimonio linguistico, e si potrebbero per esempio sottrarre delle quote per ogni anglicismo introdotto al posto di un equivalente italiano, per esempio watch dog. Un algoritmo potrebbe facilmente calcolare la percentuale delle parole inglesi e detrarla dalle quote spettanti (se è il 2% ci sarà un taglio ai finanziamenti del 2%), con meccanismi correttivi moltiplicatori per cui qualora lo stesso anglicismo comparisse nel titolo varrebbe come 10 anglicismi, nell’occhiello 5 e via dicendo. I soldi trattenuti in questo modo potrebbero finire in un fondo destinato alla promozione della lingua italiana, per realizzare campagne pubblicitarie, borse di studio, iniziative su tutto il territorio. E se qualcuno pensa che questa sia una limitazione alla libertà di espressione dovrebbe tenere presente che i giornalisti hanno anche una funzione pubblica e didattica, nell’esercitare la loro libertà, e se viene meno è giusto che vengano meno anche i finanziamenti pubblici.

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Un’ultima notizia, a proposito della questione degli anglicismi:

su YouTube è appena uscito il documentario L’idioma superiore, di Matteo Marcucci, che ha intervistato e messo a confronto le posizioni del presidente della Crusca Paolo D’Achille, del giornalista e conduttore di RaiNews24 Lorenzo di Las Plassas, e anche le mie.

L’imposizione manipolatoria dell’inglese nella comunicazione pubblica

Di Antonio Zoppetti

Durante l’Occupazione, mille parole tedesche sono spuntate sui muri di Parigi e di altre città francesi. È iniziato qui il mio orrore per le lingue dominanti e l’amore per quelle che si volevano eradicare. Visto che oggi, in quegli stessi luoghi, conto più parole americane che non parole destinate ai nazisti all’epoca, cerco di difendere la lingua francese, che ormai è quella dei poveri e degli assoggettati. E constato che, di padre in figlio, i collaborazionisti di questa importazione si reclutano nella stessa classe, la cosiddetta élite.
(Michel Serres, Contro i bei tempi andati, Bollati Boringhieri, 2018).

Ogni volta che prendo un Frecciarossa vengo travolto da nuovi anglicismi imposti agli utenti in modo voluto e prepotente. I clienti, che un tempo per definizione avevano sempre ragione, si sono trasformati in utenti da manipolare; e la prima regola della comunicazione trasparente, che una volta presupponeva l’adozione di un linguaggio adatto e comprensibile per il destinatario, è stata sostituita dalle nuove prassi che impongono a tutti la lingua decisa dagli strateghi della comunicazione con il risultato che è il destinatario che deve per forza di cose assoggettarsi alla terminologia decisa dal mittente.

La lingua è potere. Attraverso le parole si può controllare il destinatario, intimidirlo, trasformare chi non è d’accordo in chi non ha capito, e soprattutto educarlo. La lingua della comunicazione pubblica, cittadina e istituzionale ci martella a suon di anglicismi in modo sistematico e ben preordinato. E la sensazione è davvero quella di vivere in un Paese occupato.

Cronaca di un viaggio nell’itanglese

Alle 9 esco di casa per raggiungere la stazione. Passo davanti all’insegna di un Italian Bakery aperto non da molto accanto all’Italian Hair Line. Si tratta banalmente di un fornaio e di un parrucchiere in un’area semiperiferica o semicentrale (dipende dai punti di vista) di Milano, in un quartiere popolare dove non ci sono turisti. Queste attività commerciali che si elevano attraverso l’inglese magari con il pretesto di voler essere internazionali hanno come clientela gli italiani che scendono nel negozio sotto casa, o se sono di passaggio sono attirati dalle pizzette nelle vetrine, ma dubito che mediamente sappiano cosa significhi “bakery”.

Alle 9 e 15 sono in metropolitana. A quell’ora l’affluenza è media, c’è persino qualche posto a sedere. Mi guardo intorno. Ci sono studenti, gente comune, e una buona fetta di “stranieri” di varia provenienza. Cinesi, ispanici, altri che parlano in qualche lingua che non identifico, e che dall’aspetto potrebbero essere arabi, rumeni, slavi… ma non vedo inglesi o americani. Eppure la comunicazione è bilingue a base inglese, nella cartellonistica e soprattutto negli annunci sonori. A ogni fermata l’inglese ti penetra come un mantra: prossima fermata Loreto, next stop Loreto
La porta della carrozza è interamente coperta da una pubblicità con scritte in inglese e, in piccolo, un motto italiano che specifica di cosa si stia parlando, ma anche la logica degli altri pannelli pubblicitari segue quasi sempre lo stesso andazzo.

Alle 9 e 30 attraverso il “gate” della stazione (a Milano non ci sono le porte, solo i gate), mi dirigo verso il mio binario e mi sento sollevato perché penso a come è bello che ci sia ancora il “binario”, anche se mi assale l’angoscia che la prossima volta a qualcuno sarà venuto in mente di chiamarlo tracks o alla peggio binary, perché binario è un po’ troppo italiano. Su Italo hanno già sostituito ufficialmente il “capotreno” con il train manager, nella comunicazione ai passeggeri e anche nei contratti di lavoro.
Intanto devo preoccuparmi di fare il “Self Check In” del mio “ticketless”, perché le Ferrovie hanno deciso che la “convalida” “del “biglietto digitale” si debba chiamare in inglese. È la globalizzazione bellezza! È la nuova terminologia imposta alla gente, e se qualcuno si perde e non capisce, il personale gli spiega tutto nella terminologia che hanno deciso gli strateghi della “comunication”. Cartellonistica e annunci sono solo in italiano e inglese. Il mantra dell’inglese sonoro, come nella metropolitana, ritorna ad anglificare la mente e il cuore dei passeggeri. Un tempo c’erano i corsi di lingua da apprendere durante il sonno, adesso lo si può fare anche nel dormiveglia in treno, il corso d’inglese è compreso nel prezzo del biglietto. Il plurilinguismo non esiste, è stato cancellato.
Guardo i nuovi schermi informativi in italiano-itanglese o inglese, e ripenso ai vecchi cartellini che invitavano a non sporgersi dai finestrini, a non gettare oggetti e a non fumare in quattro lingue: italiano, inglese, francese e tedesco. Oggi le altre lingue sono state buttate via. Che gli stranieri imparino l’inglese, e se no, si arrangino. L’inglese è la nuova lingua da imporre. Punto. Lo si fa nella sua interezza come lingua “internazionale” della comunicazione cittadina e ferroviaria, e attraverso gli anglicismi che vengono introdotti in italiano al posto delle nostre parole storiche.

Un annuncio spiega che per ogni reclamo è possibile usare il “webform” sul sito Trenitalia oppure il modulo cartaceo. “Webform” è il nuovo anglicismo introdotto, o forse sono io che non l’avevo mai sentito declamare prima, comunque sia fa parte ormai della terminologia ufficiale della colonia Italia. Mi domando perché un modulo digitale sia indicato come webform mentre se la stessa cosa è cartacea diventa “modulo”. La risposta è che tutto ciò che è nuovo o riguarda l’informatica viene riproposto in inglese: “webform” è ripetuto anche nella traduzione in inglese, e arriva da lì. Gli strateghi hanno pensato bene di introdurlo invece di tradurlo.

Due ore dopo il treno è in forte ritardo. Capisco che ho ormai perso la coincidenza che da Mestre mi dovrebbe portare a Pordenone. La gente è spazientita. Arriva l’annuncio ufficiale e rimango incredulo di fronte a quelle parole, soprattutto quando vengo informato anche attraverso un messaggino:

“A causa di un guasto … il tempo di viaggio del treno Frecciarossa XXX è superiore di circa 30 minuti rispetto al programmato … Distinti saluti, Customer care…”

Nulla è lasciato al caso. Gli strateghi della comunicazione devono aver pensato di eliminare la parola “ritardo” che probabilmente suscita “vibrazioni negative” per l’azienda (e incentivano la richiesta dei rimborsi), dunque preferiscono usare la locuzione manipolatoria “il tempo di viaggio è superiore di 30 minuti”. Nove parole contro una: ri-tar-do. In compenso non si firmano Assistenza clienti, ma Customer Care, e in questo modo la presa per il culo del passeggero è conclusa. Gli strateghi della comunicazione – gli stessi che magari sono pronti a spiegarci che il ricorso all’inglese è motivato anche al fatto che gli anglicismi sono più sintetici rispetto all’italiano – hanno le idee chiare: la sinteticità è un valore solo per giustificare gli anglicismi, ma se si deve occultare il ritardo qualunque cosa va bene.

La lingua è un fiume che va dove vuole?

Qualche ora dopo sono finalmente al mio dibattito su dove sta andando la lingua italiana. Il mio interlocutore è un convinto seguace del “liberismo” linguistico, sostiene che la lingua è un fiume che va dove vuole, non è possibile controllarla.

Chiedo: ma “la lingua è un fiume che va dove vuole chi?”. La gente e il popolo? Mi pare che vada dove vuole chi è nelle condizioni di imporla al popolino a cui non resta che ripetere self check in e gli altri 4000 anglicismi che ci arrivano prevalentemente dall’alto, dall’espansione delle multinazionali e della loro lingua, dalla nuova cultura coloniale dove sembra esserci solo l’inglese e dai collaborazionisti dell’inglese che si annidano proprio nelle élite. Il punto è che l’acqua “va dove vuole” nella natura selvaggia, altrimenti viene incanalata per farla scorrere sotto i ponti delle città, nei sistemi di irrigazione, mentre si costruiscono gli argini proprio per orientarne i flussi, e quando le acque tracimano è perché è mancata la manutenzione, sono stati trascurati o fatti male.

L’idea che orientare la lingua sia un’imposizione autoritaria è tipica italiana, perché prevale lo stereotipo che l’unico modello di politica linguistica a cui guardare sia quello del fascismo. Mi viene fatto notare che anche se da un punto di vista razionale una parola come “covid” che indica una malattia, e non un virus (il coronavirus), dovrebbe essere femminile, e nonostante inizialmente l’allora presidente della Crusca avesse consigliato di usare il genere più appropriato, nell’uso si è imposto il maschile. Questa non è però la prova dell’ingovernabilità della lingua, ma del fatto che da noi mancano delle istituzioni che la regolamentino in modo ufficiale. Infatti anche in Francia si è posta la questione, e il giorno dopo che l’Accademia francese ha spiegato la correttezza del femminile, tutti si sono adeguati e hanno scritto così, non perché l’accademia sia un organo che obbliga la gente a parlare in un certo modo, tutto il contrario: la gente – e i giornali – riconoscono questo ruolo di consulenza che accettano e seguono, contenti che esistano delle prescrizioni e delle uniformazioni su cui modellarsi. Da noi questo ruolo appartiene ai mezzi di informazione che si muovono in modo caotico, istintivo e spesso pasticciato (oltre a preferire l’inglese). C’è insomma una bella differenza tra autoritarismo e autorevolezza, tra imposizione forzata e spontaneo riconoscimento di un punto di riferimento normativo necessario per conservare l’integrità e l’identità linguistica.

E allora è più sensato seguire l’autorevolezza di un’accademia o lasciare che la lingua la facciano i giornali o le ferrovie? Se questi ultimi introducono l’inglese al posto dell’italiano non è anche questa un’imposizione?

Mentre nell’italietta provinciale pensiamo che lo tsunami anglicus sia inarginabile, all’estero gli argini si costruiscono e funzionano, magari non sempre, ma complessivamente l’anglicizzazione del francese o dello spagnolo non è certo paragonabile alla nostra. Il liberismo linguistico, che io chiamo invece anarchismo metodologico, presuppone che sulla lingua non si debba intervenire, il che è una presa di posizione politica (più che linguistica) comprensibile ma anche discutibile. Per giustificarla si dice che tanto non è possibile imporre alla gente come parlare. Ma basta prendere un Frecciarossa per constatare che non è affatto così. La verità è che la lingua è un meccanismo di imitazione per cui la gente segue i modelli che arrivano dai centri di irradiazione linguistici, e questi ci stanno presentando un ben preciso modello di newlingua che di liberale non ha proprio nulla. Vige la legge del più forte, e non voler tutelare l’italiano davanti alla glottofagia dell’inglese significa essere complici della sua distruzione, che qualcuno scambia per una “normale” evoluzione e pensa pure che arrivi dal basso, come se l’attuale “dittatura dell’inglese” fosse qualcosa di “democratico”.

A me pare invece che siamo in presenza di un cambio di paradigma conflittuale dove una minoranza di collaborazionisti che occupano i centri di irradiazione della lingua – dalle istituzioni ai mezzi di informazione – sta educando le masse e imponendo la lingua dei padroni. A questo modello dominante bisognerebbe contrapporne un altro, che purtroppo non si vede tra gli intellettuali, ma è invece presente e sentito in larghe fasce della popolazione che non ne possono più degli anglicismi e si trovano tagliate fuori.

Impara l’itanglese con i giornali e dimentica l’italiano!

Di Antonio Zoppetti

Il ruolo dei mezzi di informazione non è solo quello di offrire notizie, ma anche di diffondere le novità lessicali. È grazie alla loro funzione sociale di “centri di irradiazione della lingua” (per dirla con Gramsci e Pasolini) se ci siamo arricchiti di tante nuove parole come fake news, lockdown, green pass (sull’attestato denominato “certificazione verde”) e via dicendo.

La lettura dei quotidiani è dunque utile anche per imparare la newlingua chiamata itanglese che, al contrario della veterolingua di impostazione dantesca, ci permette di rimanere al passo con i tempi e con la modernità. I lessicografi che si occupano dei neologismi, del resto, si basano soprattutto sugli archivi dei giornali per scegliere le nuove voci da inserire.

Nell’immagine, tratta dal Corriere.it di ieri, sotto la categoria geoengineering (l’italiano geoingegneria compare dopo come sinonimo secondario) si parlava del climate change (cambiamento climatico è forse considerato provinciale), e sotto l’etichetta di gender gap (divario di genere è roba da boomer) dello smart working, in primo piano e in grande rispetto al “lavoro in remoto” scritto dopo e in piccolo. A essere pignoli quest’ultimo “anglicismo” non sarebbe un “prestito” visto che gli inglesi non lo usano (né lo capirebbero) perché dicono remote o home working, cioè lavoro da remoto, da casa o telelavoro come si dice anche in francese e in spagnolo… ma è pur sempre un prestito di due radici internazionali ricombinate all’italiana, e questo è il segno che la nostra lingua è molto vispa e creativa, come qualcuno ha osservato in modo acuto.

A proposito di “case”, nel senso di house al plurale, mi permetto solo di muovere una critica al titolo “Case green” perché di primo acchito mi è venuto da leggerlo come “chèis grin” (sul modello di case history, che nulla ha a che vedere con la storia delle edificazioni); solo procedendo nella lettura mi sono accorto che non riguardava il grave problema dei case di plastica non ecologica dei computer (un tempo detti anche custodie, casse, l’esterno, il guscio, le scatole, scocche o involucri) o delle cover degli smartphone e dei device (i telefonini e i dispositivi non avrebbero la stessa evocatività). No, si intendeva proprio il vecchio concetto di casa come abitazione (la location dove risiediamo), e forse sarebbe stato più moderno e più chiaro parlare di green building (ma nessuno è perfetto, nemmeno il Corriere). Comunque sia, l’inglese occupa la parte alta della gerarchia delle parole, per esprimere i concetti fondamentali, e l’italiano occupa il ruolo inferiore di sinonimo di rafforzo, che aiuta il popolino alla comprensione (e affermazione) dell’itanglese.

Urbex, urbexer (e prossimamente urbexing?)

Gli anglicismi servono per introdurre i concetti nuovi (non a caso la metà dei neologismi del Duemila è in inglese) come nell’articolo sugli urbexer, parola che è stata virgolettata in quanto non ancora registrata per esempio tra i neologismi della Treccani, che riporta solo la voce urbex tratta da un articolo di Repubblica D: “Sono persone normali, fanno lavori diversi – chirurghi, insegnanti di geografia, una signora con quattro figli programmatrice di computer, registi, autisti di bus, addetti ai call center – ma quando ‘staccano’, o nel weekend, si cambiano i vestiti come i supereroi e diventano ‘urbex‘: esploratori urbani”.

Quest’ultima citazione – composta da 46 parole – contiene solo 6 vocaboli inglesi, che rappresentano appena il 13% del lessico utilizzato; è bene ribadirlo per chi pensa che la presenza dell’inglese sia ormai ingombrante, sbagliandosi: l’87% delle parole rimane infatti in italiano, il che prova inequivocabilmente che l’itanglese è tutta un’illusione ottica. Ma, senza voler far polemiche, la citazione riportata dalla Treccani è poco precisa, e infatti il giornalista del Corriere si rivela ben più corretto dal punto di vista filologico e lessicale: distingue molto lucidamente il fenomeno dell’urbex, cioè dell’esplorazione urbana (contrazione di Urban Exploaration che si scrive preferibilmente con le iniziali maiuscole), da coloro che la praticano, che è molto più opportuno declinare in urbexer: così come ci sono i blogger e non i bloggatori, i runner e non i corridori come si diceva negli anni Sessanta, anche gli esploratori degli edifici abbandonati si declinano con le nuove flessioni in “er” che caratterizzano le norme dell’itanglese (per saperne di più potete consultare una Grammatichetta).

Del resto questa nuova pratica è stata inventata negli Usa, e a noi non resta che imitarla e ripeterla nella loro lingua, ci mancherebbe altro! Parlare di esploratori urbani sarebbe patetico, oltre a evocare i giovani esploratori che fa molto manuale delle giovani marmotte.

Chissà se presto non si comincerà a parlare anche di urbexing che segue la regola di baby sitterbaby sitting e delle nuove declinazioni dell’inglesorum: blog, blogger, blogging; surf, surfer, surfing; shop, shopper, shopping; work, worker, working… per il momento questa variazione non si è ancora sviluppata. Ogni cosa a suo tempo, nel frattempo è stato introdotto il neologismo copilot.

Un solo nome: copilot!” Altro che assistenti virtuali e copiloti

Copilot non è ancora stato registrato tra i neologismi Treccani né tra quelli della Crusca (e nemmeno sul dizionario AAA delle Alternative Agli Anglicismi, aggiungo con immodestia) ma sul fatto che presto si diffonderà – grazie alla fortuna dell’intelligenza artificiale – forse ci si potrebbe scommettere.

Fino a ieri era il nome commerciale di un prodotto rilasciato l’anno scorso, Microsoft 365 Copilot, ma nell’articolo la parola compie il salto che ne fa una parola “comune”, e per chi non sa cos’è basta cercare in rete per comprendere tutto in modo chiaro.

– È un “nuovo tool di AI [è sempre meglio invertire l’ordine dell’acronimo all’inglese] di aiuto per la nostra produttività”.
– “Un tool?” direbbe un povero ottentotto che parla solo l’italiano. Un “competecnico” che si esprime invece in itanglese, per essere più trasparente e arrivare anche agli idioti, potrebbe rispondere:
– “Una suite, se preferisci, che combina l’intelligenza artificiale con le funzioni di una moderna chatbot. Basta scaricarla sul tuo device” [nota: suite un tempo era francese, anche se oggi il significato informatico ci arriva dall’inglese].
– Ma non si potrebbe dire assistente virtuale o copilota?
Copilota, basta leggere sul dizionario, si riferisce a un assistente di volo, o alla peggio a chi fa da secondo nei rally. Assistente digitale è troppo generico, non è proprio come il tecnicismo inglese… Ma qual è il problema delle parole straniere? Non sai che le lingue evolvono? Sei rimasto al purismo e alla guerra ai barbarismi del ventennio?


– A dire il vero non vedo parole straniere, vedo solo parole inglesi e pseudoinglesi. Quanto al purismo… se dici che il significato di copilota è solo quello storico forse il purista sei proprio tu: stai cristallizzando l’italiano nella lingua dei morti, invece di creare neologismi. Credi che l’italiano si debba evolvere solo attraverso la sua anglicizzazione? Nemmeno copilot è presente sui dizionari, fino a prova contraria, e in inglese vuol dire appunto copilota.
– Ma cosa c’entra? Anche mouse vuol dire solo topo, se è per quello, ma da noi è un prestito di necessità, o vuoi fare come i francesi, gli spagnoli, i portoghesi, i tedeschi e tutti gli altri che lo hanno tradotto?

Comunque la pensiate, segnalo che giovedì 21 marzo interverrò a Pordenone (Biblioteca civica, ore 17,45) in un dialogo organizzato dalla Società Dante Alighieri a cui parteciperà il professor Domenico De Martino dell’università di Pavia, linguista, dantista e collaboratore della Crusca. Il titolo è: “Dove va la lingua italiana?”. E, come si evince dalla grafica, la conversazione moderata da Carlo Vurachi ruoterà proprio sul tema dell’inglese.

Per chi è interessato all’argomento segnalo anche una diretta di qualche giorno fa, disponibile su YouTube, in cui sono stato intervistato da Matteo Brandi e Ludovico Vicino del partito Pro Italia.

L’inglese globale: un giro d’affari che spazza via il plurilinguismo

Di Antonio Zoppetti

Il mese scorso è uscito un articolo di Maria Teresa Carbone (me l’ha segnalato Carla Crivello) che riferisce di come in Germania si stia assistendo a un calo dell’editoria nella lingua locale che corrisponde a un aumento delle vendite dei libri in lingua inglese. Un fenomeno che si registra anche in altri Paesi con una forte conoscenza dell’inglese. In pratica conoscere bene l’inglese permette di leggere direttamente i libri in lingua originale, il che può essere salutato come un fatto positivo (soprattutto per gli anglofoni) anche se ha delle ricadute sul mercato editoriale interno. Il fenomeno esce dall’editoria cartacea, vale anche per il mercato cinematografico, televisivo e per gli altri settori, e ha delle ricadute distruttive per le lingue locali che si vedono soprattutto in Paesi come l’Islanda.

Maria Teresa Carbone (traduttrice di Decolonizzare la mente di Ngugi wa Thiong’o, Jaca Book, Milano 2015) è molto sensibile al tema del plurilinguismo, ha ben presente anche gli effetti collaterali dell’espansione di una lingua coloniale e imperiale che punta a imporsi come lingua internazionale, e si domanda: “Se la ‘bibliodiversità’ scrive e legge (quasi solo) in inglese, è una vera diversità?”. Nella chiusa del suo pezzo mostra di cogliere bene anche la relazione che c’è tra il globalese e l’anglicizzazione delle lingue locali, che in Italia è particolarmente devastante.

Fare dell’inglese la lingua franca dell’Occidente è il contrario del plurilinguismo: le lingue locali non sono considerate una ricchezza ma un ostacolo alla comunicazione internazionale che dovrebbe avvenire nella lingua naturale dei popoli dominanti. Questo disegno è alla base della moderna diglossia che relega tutte le altre lingue a un rango inferiore.

La posta in gioco di rendere la lingua inglese come universale si porta con sé anche l’esportazione dei valori e del modo di pensare dei Paesi dominanti, e tutto ciò possiede un valore incalcolabile e difficilmente monetizzabile. Mentre da noi domina l’anglomania soprattutto nella nostra classe dirigente, e in pochi si rendono conto degli effetti devastanti del globish, gli anglofoni sanno benissimo il valore che l’imposizione della loro lingua agli altri comporta, e perseguono questo progetto in modo molto lucido e consapevole. Nel 1997, il funzionario dell’amministrazione Clinton David Rothkopf ha dichiarato:

“L’obiettivo centrale della politica estera nell’era dell’informazione deve essere, per gli Stati Uniti, il successo dei flussi dell’informazione mondiale, per esercitare il suo dominio sulle onde come la Gran Bretagna, in altri tempi, lo ha esercitato sui mari. […] Ne va dell’interesse economico e politico degli Stati Uniti vegliare affinché sia l’inglese ad essere adottato quale lingua comune del mondo; affinché siano le norme americane a imporsi nel caso si dovessero emanare norme comuni in materia di telecomunicazioni, di sicurezza e di qualità; affinché, se le varie parti del mondo sono collegate fra loro attraverso la televisione, la radio e la musica, i programmi trasmessi siano americani: e affinché, ad essere scelti come valori comuni, ci siano valori in cui gli Americani si riconoscono” (David Rothkopf, “In Praise of Cultural Imperialism?” in Foreign Policy, n. 107, 1997).

Queste parole ricordano ciò che aveva esplicitamente preconizzato Churchill in un discorso agli studenti dell’università di Harvard il 6 settembre 1943:

“Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente” (la citazione è al minuto 13:18).

Gli introiti dell’inglese internazionale

Come ho già scritto:

“Se il valore che deriva dall’utilizzo della propria lingua sul piano internazionale è difficile da valutare, il tempo e le spese per lo studio dell’inglese che i Paesi non anglofoni si devono sobbarcare sono altissimi, e includono molte voci, a cominciare dai libri di testo, che incidono molto poco percentualmente, ma sono pur sempre un indotto importante. Secondo l’economista ungherese Áron Lukács, per esempio, ogni anno si stampano 800 milioni di libri a supporto dell’insegnamento dell’inglese, mentre circa 700.000 persone si recano nel Regno Unito per imparare la lingua, un numero che si amplierebbe enormemente se si includessero gli Stati Uniti e gli altri Paesi anglofoni. Gli introiti di questi viaggi sono molto appetibili, ma anche il giro di affari di chi eroga i corsi è sterminato, senza contare l’indotto delle tantissime certificazioni come quelle di Cambridge o del TOEFEL americano. Fare dell’inglese la lingua globale significa accaparrarsi questo mercato e farlo diventare un monopolio, lasciando il mercato delle altre lingue alla nicchia che coinvolge solo chi ne studia più di una. Questi costi sarebbero distribuiti in modo diverso, e sarebbero anche soldi ben spesi, se fossero impiegati per lo studio di una ‘seconda lingua’ per motivi culturali, invece di essere convogliati solo verso l’anglosfera. Ma lo studio dell’inglese non è più inquadrabile come un fatto semplicemente culturale: in Italia e in sempre più Paesi è diventato un requisito indispensabile, e le motivazioni sono pratiche, perché sono ormai collegate alla sopravvivenza e alla possibilità di ottenere un posto di lavoro. In questo contesto l’inglese diventa la cultura obbligatoria e tutto il resto si trasforma in qualcosa di facoltativo e di serie B. E allora questi costi non sono uguali per tutti” (Lo tusnami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica, goWare, Firenze 2023, p.156).

I vantaggi degli anglofoni

Riporto un altro brano dal libro già citato (pp. 153-154):

“Mentre in Europa si insegna l’inglese sin dalle elementari, quali lingue straniere studiano gli inglesi e gli angloamericani? In pratica nessuna. Al contrario degli altri popoli, tendenzialmente apprendono solo la propria lingua. (…) Nel 2004, il governo laburista inglese ha reso l’insegnamento delle lingue straniere opzionale per i ragazzi dai 14 ai 16 anni, contribuendo al declino dell’interesse generale a imparare le lingue, e nell’agosto del 2010, il parlamentare inglese liberale Mark Oaten ha dichiarato esplicitamente a Sky News: ‘La lingua internazionale degli affari è l’inglese. Imparare il tedesco è inutile. Preferirei di gran lunga che mio figlio imparasse qualcosa di reale valore e utilità. Imparare il tedesco non gli farà ottenere un lavoro’.
In questo quadro, il numero degli studenti britannici che studiavano francese è diminuito del 6% nel solo 2010, e più in generale, nell’arco di un decennio, gli studenti di francese e di tedesco si sono dimezzati. I dati elaborati nel 2018 dal British Council sullo studio di una seconda lingua a livello del GCSE (la scuola superiore) registrano diminuzioni impressionanti nel Regno Unito. Se nel 2002 coinvolgeva il 76% degli studenti, nel 2017 si è scesi al 47%! Come ha scritto Alessandro Allocca sul sito LondraItalia.com, ‘mentre il resto del mondo investe miliardi per imparare l’inglese, sia attraverso la scuola pubblica che corsi privati, il Regno Unito è sempre meno interessato a perfezionare le proprie conoscenze verso una lingua che non sia la propria’.
E se in Europa gli atenei stanno aumentando il numero dei corsi tenuti in lingua inglese, nelle università britanniche i corsi tenuti in altre lingue praticamente non esistono.”

Se l’Ue investe miliardi di euro per formare le nuove generazioni in inglese a partire dalle scuole elementari, gli Stati Uniti e il Regno Unito, che nel frattempo è uscito dall’Europa, non si sobbarcano questi costi che possono destinare verso altri settori. Nel resto del mondo il numero delle persone che studiano l’inglese è impressionante, ed è stato notato che i cinesi che lo imparano sono di più degli stessi angloamericani, che a loro volta hanno tutto l’interesse che la propria lingua naturale non sia più considerata una “lingua straniera”, per il pianeta, bensì “un’abilità di base”.

Sarebbe ora di riflettere seriamente su queste cose, ma purtroppo raramente trovano spazio sui giornali e nella nostra intellighenzia.

L’itanglese come modello linguistico (e la “diglossia lessicale”)

Di Antonio Zoppetti

Sabato leggevo sul Corriere un articolo che parla della “competition” nel Movimento 5 stelle tra Conte e la segreteria, in cui la nuova Presidente della Sardegna diviene “neogovernatrice”, nonché “testimonial” delle intese con il Partito democratico.

Perché una competizione è diventata competition? Forse perché i concorrenti e i competitori sono diventati competitor? Forse perché la disputa – esercizio retorico molto diffuso già nella accademie italiane cinquecentesche – e il dibattito sono stati buttati via per parlare del debate venduto come una novità delle nuove strutture che si definiscono Academy invece di Accademie? Forse perché non si dice più missione, visione, tutore e persino luogo ma si dice mission, vision, tutor e location?

I linguisti con le fette di hot dog sugli occhi etichettano questa cancellazione dell’italiano sostituito dall’inglese attraverso il concetto dei “prestiti di lusso”, cioè di parole inglesi “prese in prestito” nonostante abbiano vocaboli nostrani del tutto equivalenti. Una definizione miope che non tiene conto del fatto che molte parole trapiantate in italiano inizialmente come un “lusso” (vedi computer e calcolatore) in men che non si dica si sono trasformate in una “necessità” perché le alternative italiane sentite come “vecchie” sono regredite e sono state abbandonate. Per chiamare le cose con il loro nome questi trapianti linguistici che fanno piazza pulita del nostro lessico storico sono dei cambi di significante, un fenomeno grave e deleterio se si verifica con questa intensità e con le attuali proporzioni.

La sostituzione dei significanti e le connotazioni

Una parola possiede un significato (a volte anche ben più di uno, per essere precisi) e un significante, cioè la forma e il suono della parola che designa qualcosa. Quando sostituiamo il significante italiano — che segue l’indole ortografica e di pronuncia della lingua del bel paese dove il sì suonava — con quello inglese, più che con un “prestito” abbiamo a che fare con un “trapianto”, cioè una sostituzione lessicale che segue l’indole di un’altra lingua, e non si amalgama con il nostro sistema linguistico, che va così in frantumi. Questi presunti “prestiti linguistici” non solo non si possono restituire, ma soprattutto non privano la lingua “prestante” delle parole “prestate”, dunque sono dei trapianti che esportano il lessico delle lingue egemoni all’interno di altri sistemi linguistici che vengono in questo modo colonizzati e creolizzati.

Gli anglicismi sono dei cavalli di Troia che penetrando nell’italiano e lo riducono a lingua inferiore. Accanto ai significati delle parole c’è infatti un altro elemento da tenere presente: la loro connotazione, e cioè il modo di designare un oggetto o un concetto che si porta con sé ciò che evoca. Scegliere di dire “culo”, “sedere”, “lato B”, “deretano” o “fondoschiena”, per esempio, non ha a che fare con ciò che si designa (è la medesima cosa), ma la prima opzione appartiene a un registro triviale, mentre le altre suonano più accettabili a seconda dei contesti.

Quando un giornalista introduce “competition” al posto del corrispettivo italiano – per il momento ancora virgolettato, visto che non è ancora entrato in uso – sta compiendo uno strappo lessicale che dona al significante inglese una connotazione più prestigiosa dell’italiano, che finisce non solo per regredire nell’uso da un punto di vista statistico, ma soprattutto di regredire nella sua connotazione, perché l’inglese è introdotto come qualcosa di più prestigioso e di più evocativo, e i nostri termini finiscono per diventare come delle “parolacce”. Se questo uso prenderà piede, finirà che competition cesserà presto di essere un sinonimo equivalente per trasformarsi in un vocabolo di rango superiore, come è successo a “testimonial” che è ormai percepito come più consono di “testimone”, che si sarebbe detto nell’italiano storico. Queste sostituzioni di significante non sono dei “prestiti” anche perché i loro significati spesso divergono da quelli inglesi, e un “testimonial” in inglese si riferisce di solito a una persona comune che avvalora qualcosa, mentre quando la stessa funzione di “garante” e “promotore” (in italiano anche padrino/madrina, sostenitore, patrocinatore, avallante…) avviene attraverso il coinvolgimento di un volto famoso si parla di endorser. E allora cosa si “prende in prestito”? Un suono, più che un significato, o se vogliamo un significante. E in questa sostituzione finisce che l’inglese “testimonial” sbaragli tutte le nostre parole storiche che vengono abbandonate. Chi parlerebbe di avallante invece di testimonial, ormai?

La diglossia lessicale

Mentre l’inglese nella sua interezza si impone come la nuova lingua superiore della cultura, della scienza, della formazione universitaria, dell’aviazione, della marina, del lavoro, delle organizzazioni internazionali… gli anglicismi penetrano nelle lingue nazionali – ma in Italia il fenomeno ha ordini di grandezza superiori che all’estero – con analoghi meccanismi di prestigio che li rendono parole di rango superiore. La diglosssia – cioè la presenza di due lingue che non godono dello stesso status sociale – si riflette in un’analoga “diglossia lessicale” che regala agli anglicismi un maggior prestigio. Tutto ciò non può che portare alla regressione del vocabolario italiano e alla sua deriva verso l’itanglese, un fenomeno che va ormai oltre il trapianto dei “prestiti”, perché si sta configurando come una newlingua che include gli pseudonglicsmi, le parole ibride, l’effetto domino con cui prolificano le radici inglesi che si ricombinano tra loro in tutti i modi (fast food, street food, comfort food, food delivery, food designer, pet food…). Oltre a ciò aumentano anche le interferenze “invisibili” che portano a parlare di governatori (che non esistono nel nostro ordinamento), di visionario inteso come lungimirante invece di di “portatore di visioni distorte”, di cose basiche che non sono il contrario di quelle acide, ma indicano ciò che è fondamentale e via dicendo.

Se queste interferenze “invisibili” dovute ai falsi amici si possono considerare come un fenomeno “normale” nella storia dell’interferenza linguistica dell’italiano davanti per esempio al francese o allo spagnolo (sono già avvenute e comunque non generano un italiano strutturalmente diverso da quello storico), le altre sono una novità che non si era mia vista. Una novità che spezza la continuità storica dell’italiano, esce dalla norma della nostra grammatica e produce una nuova lingua con le sue nuove regole che non è più relegata solo nella sfera lessicale dei linguaggi specialistici o gergali, ma si fa strada penetrando nella lingua comune.

L’itanglese diviene perciò un modello linguistico superiore e da seguire. Una ben precisa scelta stilistica che si ricerca in modo consapevole.

L’itanglese come modello linguistico e stilistico

Torniamo al sommario da cui eravamo partiti: “La competion tra la segreteria e Conte. La neogovernatrice testimonial delle intese”.
Sono 12 parole che diventano 11 se togliamo il nome proprio “Conte”. Se poi si tolgono articoli, congiunzioni e preposizioni, rimangono 5 parole portanti: competition, segreteria, neogovernatrice, testimonial e intese, 2 in italiano, 2 in inglese e una che è un ammiccamento all’inglese, visto che Alessandra Todde tecnicamente è Presidente della Regione Sardegna e non “(neo)governatrice”. Ma ormai nella nostra ridicola sudditanza culturale vogliamo fare gli americani anche scimmiottando le denominazioni della politica d’oltreoceano, per cui anche il Presidente del Consiglio è sempre più spesso denominato informalmente “premier”.

In un altro pezzo del Corriere che avevo già citato nell’ultimo articolo, “Intelligenza artificiale e sviluppo sostenibile: la scelta degli atenei”, c’era una pubblicità della RCS Academy, che come lingua di insegnamento, più che l’italiano, ha scelto invece l’itanglese:

Appuntamento online il 14 marzo con l’Open Day di Rcs Academy, giornata di incontri con docenti ed ex-alunni per conoscere l’offerta formativa (master full time e part time, master online e corsi on demand) che copre diverse aree di specializzazione: Giornalismo Comunicazione e Marketing, Economia Sostenibilità HR e Innovazione, Arte Cultura e Turismo, Moda Lusso e Design, Food & Beverage, Sport, Healthcare & Pharma.
Indirizzati a giovani e a imprenditori in cerca di aggiornamento, anche i corsi che spaziano dal master in Luxury Tourism Management all’MBA in Business Management, Innovation e AI.

Per la cronaca: quest’ultima comunicazione pubblicitaria infilata in un pezzo che dovrebbe essere un articolo giornalistico è composta da 92 parole di cui 32 in inglese! E siccome vocaboli come “14” o “Rcs” andrebbero tolti dai conteggi (non sono né italiani né inglesi) risulta che oltre il 30% delle occorrenze di una simile comunicazione è composta da anglicismi (anche se qualcuno continua a negare che siano un fenomeno dilagante e ci racconta che è tutta un’illusione ottica, che va tutto bene e che è tutto “normale”).

Analizziamo le parole in inglese impiegate.
Online: quando l’espressione inglese è stata trapiantata, invece di “in linea” come avremmo potuto dire e come dicono i francesi, per i linguisti con problemi di vista era forse un “prestito di lusso”, ma presto si è rivelato un “prestito sterminatore” che ha ucciso l’equivalente italiano ormai sempre meno proponibile.

Open Day: scritto preferibilmente con le iniziali maiuscole, si è imposto facendo tabula rasa di “giornata aperta”, “porte aperte” o “ingresso aperto”, si è conquistato la sua specificità e oggi è considerato “necessario” perché si è ricavato la sua nicchia di tecnicismo della prassi delle nuove scuole-aziende all’americana.

Rcs Academy: scelta di una denominazione coloniale che spezza la continuità storica delle accademie italiane che sono sorte nel Cinquecento insegnando in italiano (al contrario delle università dove si insegnava in latino). Oggi l’aggancio è all’anglosfera, non alla nostra storia, e infatti la lingua di insegnamento è l’itanglese.

Master: inizialmente era un corso di specializzazione, perfezionamento o post-universitario, ma dal lusso alla necessità ci è voluto poco: oggi ci sono solo i master, ennesimo prestito sterminatore che ci ha sottratto i vocaboli nostrani.

Full time e part time: tempo pieno e orario ridotto o mezza giornata… addio! Vecchiume nella veterolingua sostituita dalla newlingua.

On demand: perché ostinarsi a dire su richiesta? L’inglese è diventato un tecnicismo insostituibile e necessario (soprattutto per le menti colonizzate).

Marketing: ormai intoccabile e necessario, nessuno lo può più mettere in discussione. Le patetiche disquisizioni sull’alternativa mercatistica, per esempio, appartengono a un passato lontano e sepolto, la questione è chiusa da un pezzo: si dice solo in inglese. Anche se in fondo sono solo tecniche di vendita, nulla di nuovo sotto il sole.

Design: come sopra, ma con un’aggravante, perché la parola deriva dal prestigiosissimo “disegno industriale” italiano, che gli anglofoni (non essendo deficienti) hanno tradotto nella loro lingua: industrial design; ma noi (che invece deficiamo parecchio) lo ripetiamo ormai solo con il restyling linguistico d’oltreoceano che è diventato uno dei più importanti plus del Made in Italy (anche plus sarebbe latino, ma ormai si sente dire solo quasi esclusivamente “plas”).

Food & Beverage, Healthcare & Pharma: le nuove categorie coloniali prevedono l’inglese anche nei settori dove l’italiano un tempo dominava, l’ambito dell’alimentazione si chiama ormai Food, e a quanto pare quello delle bevande “beverage” (nel caso dei vini meglio parlare di wine, con la stessa [il]logica). E come altro legare le nuove categorie se non con una bella “e commerciale”? Ciò vale anche per l’assistenza sanitaria & il settore farmaceutico, ovviamente.

Sport: anglicismo ottocentesco ormai insostituibile. Solo gli spagnoli parlano di “deporte”; noi avevamo “diporto”, ma l’abbiamo buttato via, invece di recuperarlo.

Luxury Tourism Management: luxury è “prestito di lusso”, ancora, come tourism; managment invece è già diventato di necessità e gestione, amministrazione o persino gerenza (parola ormai desueta) non le usa più nessuno, l’inglese è superiore, si sa.

HR, MBA, AI: le sigle seguono le nuove regole della collocazione all’americana, oltre al lessico inglese. Human Resources è meglio di risorse umane, MBA sta per Master in Business Administration e qualunque traduzione in italiano non avrebbe lo stesso prestigio. L’intelligenza artificiale IA per il momento combatte con AI in una “competition” che presto vedrà l’inglese affermarsi come la soluzione prevalente. Sulla stupidità naturale degli italiani vale la pena di scommetterci.

Queste scelte linguistiche sono ponderate e volute da chi sta imponendo l’inglese agli italiani. Questo è il modello linguistico della formazione (e della s-formazione dell’italiano) ricercata dai nuovi centri di irradiazione della lingua che guardano solo all’anglosfera, tutto il resto sembra non esistere.

Le conseguenze di questa strategia sono sotto gli occhi di tutti. Solo che quasi tutti si voltano dall’altra parte e fingono di non vederle.

Università in inglese: aggiornamenti e riflessioni sul caso Rimini

Di Antonio Zoppetti

Ringrazio i circa 400 cittadini che hanno sottoscritto la protesta organizzata da Italofonia.info contro l’abolizione del corso di Economia del turismo all’università di Rimini sostituito da quello erogato solo in inglese. E torno sul tema con qualche aggiornamento e riflessione.

Anche la Crusca ha preso posizione

L’accademia della Crusca, in copia agli appelli, ha appoggiato il nostro grido, ha inserito la questione nel Consiglio direttivo del 22 febbraio 2024, e ha formalizzato una lettera aperta (che si può leggere sul loro sito) indirizzata al rettore dell’università di Bologna, Giovanni Molari, e alla ministra dell’università e della ricerca, Anna Maria Bernini.

Il documento segnala che, stando alla legge, i corsi triennali (come quello del caso riminese) devono avere come obiettivo il pieno possesso dell’italiano, e questo obiettivo non può essere garantito da un corso erogato solo in inglese. Inoltre ricorda la sentenza della corte Costituzionale che ha sancito la “primazia” dell’italiano nell’offerta formativa, e domanda come sia possibile non rispettarla. Nella conclusione afferma che:

“La progressiva eliminazione dell’italiano dall’insegnamento universitario (come pure dalla ricerca) in vista di un futuro monolinguismo inglese costituisce, come ha osservato anche la European Federation of National Institutions for Language (EFNIL), un grave rischio per la sopravvivenza dell’italiano come lingua di cultura, anzitutto, ma anche come lingua tout court, una volta privata di settori fondamentali come i linguaggi tecnici e settoriali.”

La lettera firmata dal presidente Paolo D’Achille non chiede esplicitamente il ripristino del corso in italiano, perché come precisato nella premessa l’accademia non ha alcun titolo ufficiale per intervenire sulle decisioni del Ministero – da cui dipende – né su quelle dell’ateneo in questione, libero di agire in piena autonomia, anche se le decisioni devono essere approvate dal Ministero. Ma pone delle domande e delle pungenti questioni su cui si spera che l’università Alma Mater e la ministra diano almeno una risposta.

L’eco mediatica: sprazzo o cambiamento?

L’intervento dell’accademia, da ieri sera, è stato riportato dalle agenzie e dai giornali, e la speranza è che generi un dibattito serio sulla questione, perché dietro decisioni come quella di Rimini si consuma la cancellazione del diritto allo studio nella nostra lingua madre con una logica che si è già vista nel caso delle scuole coloniali africane, le cui conseguenze sono state ben denunciate da un autore come Ngugi wa Thiong’o in Decolonizzare la mente (Jaca Book, Milano 2015).

Proprio ieri, sulla prima pagina del Corriere.it (che per il momento non riporta la notizia), c’era un pezzo sull’impoverimento culturale dell’università (“Università: studiare senza libri, con l’ok dei prof”); l’Italia, si legge, è in fondo alle classifiche dei giovani laureati: sono il 28% contro l’obiettivo europeo fissato al 40% (solo la Romania è indietro rispetto a noi); il 25% degli iscritti abbandona senza raggiungere la laurea; nei prossimi vent’anni in Italia è previsto un calo di 400mila iscritti; e l’impoverimento culturale dei corsi a distanza rischia di creare un forte indebolimento delle future classe dirigenti. Ma nulla si dice nel pezzo sulla tendenza a insegnare in inglese, che come è emerso nel caso di Rimini rappresenta un ostacolo per gli studenti e un disincentivo a frequentare i corsi erogati. Insegnare in italiano non aiuterebbe? Gli autori del pezzo si sono guardati bene dal tirare fuori simili questioni, ma forse dopo la presa di posizione della Crusca qualcuno farà 2+2.

Nell’articolo a fianco, “Intelligenza artificiale e sviluppo sostenibile: le scelte degli atenei”, si pubblicizzava invece una gran quantità di corsi in inglese che stanno per essere inaugurati, senza che la giornalista spendesse una riflessione su cosa significhi e comporti. Nessun accenno alla “sostenibilità” dell’inglese, insomma, solo propaganda ai corsi in quella lingua: all’università di Trieste c’è la magistrale in “Materials and Chemical Engineering for Nano, Bio, and Sustainable Technologies (in inglese), mentre sono in fase di accreditamento ministeriale anche le lauree magistrali in “Engineering for the energy transition” e “European policies for digital, ecological and social transitions”. All’università di Torino il nuovo corso erogato in inglese si chiama invece “Economics of innovation for sustainable development”, mentre all’università di Parma da settembre 2024 partirà il corso di laurea magistrale in “Global Food Law: Sustainability Challenges and Innovation” (biennale, in inglese).

Questa prassi si aggiunge alle scelte anglomani del Politecnico di Milano, della Bocconi e di sempre più atenei, mentre spuntano i primi segnali per cui la stessa tendenza rischia di allargarsi anche alle scuole secondarie, come nel caso del liceo Avogadro di Torino.
Siamo al punto di non ritorno. O l’anglificazione dell’università si ferma adesso o ne saremo travolti, e poi sarà un po’ tardi per porre rimedio. Bisogna fare in modo che la presa di posizione della Crusca non sia destinata a essere uno sprazzo, ma inneschi una discussione politica seria.

L’economista Michele Gazzola – uno dei sottoscrittori più autorevoli delle lettere di protesta di Italofonia.info – ha ben spiegato ciò che sta avvenendo nelle università al convegno “LaLinguaMadre – La lingua che conviene” (svoltosi il 21 febbraio 2024 nella Sala Capitolare del Senato della Repubblica, a Roma).

La lingua madre: la lingua che conviene

Il problema principale riguarda le famigerate classifiche internazionali che assegnano a ogni ateneo dei punteggi dove uno degli indicatori più importanti è proprio la capacità di attirare gli studenti e i docenti stranieri. Per salire rapidamente nelle classifiche, gli atenei erogano perciò i corsi in inglese fregandosene delle competenze linguistiche o delle esigenze degli studenti italiani; impongono questa lingua, anche se gli italofoni calano, tanto con l’entrata degli stranieri complessivamente aumentano gli iscritti. Questo “turismo universitario”, però, favorisce gli studenti di passaggio che arrivano dall’estero, e ottenuta la laurea tornano a casa loro o vanno altrove (anche perché non parlano italiano), con conseguenze devastanti per il territorio, come lamentano gli albergatori di Rimini. Come se non bastasse, anche gli studenti italiani che studiano in inglese sono incentivati a trasferirsi all’estero, e così la “fuga dei cervelli” – secondo i dati di Gazzola – si incrementa dell’11%.
Per noi tutto ciò rappresenta un costo colossale. Le rette universitarie, infatti, non coprono interamente le ingenti spese dell’università, e lo stato deve intervenire in modo pesante per compensarle. Dunque i soldi delle nostre tasse finiscono per formare in lingua inglese gli studenti che poi andranno all’estero, con la conseguenza che altri Paesi si godranno i frutti della loro formazione fatta a nostre spese.

Questi sono i bei risultati di una classe dirigente miope che lavora per la distruzione dell’italiano e della cultura. A parte le questioni economiche, se si analizza l’aspetto qualitativo e didattico, Gazzola ha citato dei dati molto interessanti per capire il disastro di questo modello. La Libera Università di Bolzano, dove si insegna in italiano, tedesco e inglese, ha condotto delle ricerche da cui emerge che uno studente che studia in una lingua diversa da quella madre ottiene in media un voto inferiore dell’8% rispetto a chi studia nella propria lingua. Dunque apprende meno e peggio.

Ma simili dati arrivano da tutto il mondo. Sul sito Campagna per salvare l’italiano sono stati riportati quelli provenienti dalla Spagna.

Altre statistiche citate da Gazzola che arrivano dalla Svezia mostrano come gli studenti che studiano in islandese, nei questionari danno risposte corrette nel 73% dei casi, ma che questa percentuale precipita drasticamente nel caso di quelli che studiano in inglese.

Mentre in Italia si dà per scontato che l’inglese debba essere la lingua su cui puntare per la formazione – in una voluta confusione tra ciò che è internazionale e ciò che anglofono – basta vedere cosa sta avvenendo nei Paesi scandinavi per rendersi conto di come stiano davvero le cose. Lì hanno sperimentato l’insegnamento in inglese da tempo, ma stanno facendo retromarcia, perché si sono accorti che l’inglese si trasforma in un processo sottrattivo, non aggiuntivo: insegnare in inglese porta alla regressione delle lingue e della terminologia locali, all’impoverimento dell’istruzione, e alla semplificazione degli argomenti. Lo stesso problema denunciato in Olanda alla Bbc dalla professoressa di linguistica all’Università di Amsterdam Annette de Groot:

“Se usi l’inglese nell’istruzione superiore, l’olandese chiaramente peggiorerà. Si tratta di usarlo o perderlo. L’olandese si deteriorerà e la vitalità della lingua scomparirà. Si chiama bilinguismo squilibrato. Aggiungi un po’ di inglese e perdi un po’ di olandese”.

Se questo vale per i Paesi dove l’inglese è inteso dal 90% della popolazione, in Italia, dove è conosciuto da una minoranza degli italiani, l’impatto è ancora più devastante. E scelte di questo tipo creano barriere sociali, escludono e discriminano chi è italofono, imponendo a tutti la dittatura dell’inglese.

Vedremo se l’intervento della Crusca otterrà una risposta, dai destinatari ma anche dall’intellighenzia del Paese. Gli atenei seguono il proprio profitto, non gli interessi collettivi, né quelli etici di garantire il diritto di studio in italiano. Passano sopra persino a una sentenza della Corte costituzionale e dopo averla aggirata con l’introduzione di qualche sporadico corso in italiano (di solito di importanza marginale, ma che fa numero) sembra che adesso riescano addirittura a calpestarla impunemente. La questione è allora politica.

L’unica speranza è che il Ministero dell’Università e Ricerca intervenga, invece che essere complice della morte dell’italiano. E che si facciano sentire altre le altre voci autorevoli, oltre a quelle della Crusca.

La partita per estromettere l’italiano dall’università e la protesta che parte da Rimini

Tra pochi giorni sarà formalizzata la decisione dell’università di Bologna che ha deciso di sopprimere il corso di Economia del Turismo in italiano che si svolge a Rimini. Dal prossimo anno diventerà “Economics of Tourism and Cities” e si terrà solo in lingua inglese.

Qual è la novità? Il corso in inglese era già stato introdotto e già esisteva: la novità è che viene abolito quello in italiano per insegnare solo in inglese.

Questa decisione ha suscitato le proteste sia dei cittadini, che vogliono studiare nella propria lingua madre visto che è un loro diritto e che pagano le tasse, sia dalle associazioni degli albergatori che spiegano come quell’indirizzo di studi avesse da sempre un fortissimo legame con il territorio. In pratica gli studenti che uscivano da quel corso trovavano subito lavoro nelle realtà alberghiere locali. E l’offerta formativa di quella facoltà richiamava a Rimini moltissimi studenti giovani provenienti da ogni regione d’Italia. La sua cancellazione per passare all’inglese punta soprattutto agli studenti stranieri, che però una volta formati non lavoreranno a Rimini ma torneranno nei propri Paesi, anche perché se non parlano in italiano cosa li può trattenere?

Visto che nessuno o quasi dà voce al malcontento, l’associazione/portale Italofonia ha mobilitato tutti gli Attivisti dell’italiano predisponendo un modulo per inviare una protesta digitale indirizzata all’Università e in copia al Ministero dell’Università e Ricerca, all’accademia della Crusca, e ai giornali locali.

In pochi giorni sono partite centinaia e centinaia di proteste, tanto che il Resto del Carlino ha titolato: “Pioggia di mail all’Università: Salvate il corso in italiano”.

Intanto, la pioggia si fa sempre più fitta, e l’ateneo – spiazzato – ha dovuto rispondere attraverso una dichiarazione che lo stesso giornale ha riassunto in nuovo pezzo: “Corso di laurea in inglese: Una scelta condivisa“.

La risposta non ascolta né tiene conto dei pareri contrari e dei cittadini, annuncia di continuare nella strada intrapresa, e rivolta la frittata sostenendo che si tratterebbe di una “scelta condivisa” (da chi? dai vertici della scuola-azienda che non racconta di come l’associazione Promozione Alberghiera si sia invece espressa in senso contrario, secondo le testimonianze raccolte) appellandosi alle solite tiritere:

Le scelte che riguardano i progetti didattici sono il risultato di un percorso ben definito, lungo e con diversi passaggi. Un corso di laurea ha una gestazione pluriennale. Si tratta di scelte meditate, non certo di decisioni prese dall’oggi al domani. L’inglese è una lingua che apre al mondo. Per il territorio è un’opportunità (…) Dopo un’attenta e ponderata valutazione, abbiamo optato per l’inglese come lingua ufficiale del corso, scelta in linea con l’elevato livello di internazionalizzazione che caratterizza tradizionalmente il campus di Rimini.”

Queste scelte “meditate” seguono gli interessi dell’ateneo, che non coincidono con quello dei cittadini e degli italiani. Attraverso la manipolazione delle parole, la cancellazione dell’italiano e le difficoltà degli studenti si trasformano in un’imprecisata “opportunità per il territorio”. Il concetto di “internalizzazione” cela invece l’insegnamento in inglese e solo in inglese – non nelle lingue straniere e all’insegna del plurilinguismo – e forse si potrebbe meglio parlare di colonizzazione linguistica e di dittatura dell’inglese, visto che questa strana “internalizzazione” a senso unico implica l’anglificazione della formazione dei Paesi non anglofoni. Come se tutti i turisti tedeschi, spagnoli, francesi e gli altri che giungono in Italia si esprimessero normalmente in inglese (altra bufala che non risponde alla realtà).

Dietro questa visione c’è in gioco il diritto di studio nella nostra lingua madre, una partita vitale per l’italiano.

Italofonia ha intervistato un’albergatrice nonché mamma di uno studente che ha spiegato disperata:

Mio figlio e gli altri ragazzini della sua classe non possono più scegliere. Vede, noi siamo a Rimini, qui c’è il cuore del turismo, noi viviamo di turismo, e questa facoltà era molto ambita dai ragazzi di zona.  Ed era già in due lingue, ma separate: un percorso di Economia del Turismo, in italiano, pensato per le esigenze del territorio, e Turismo Internazionale, in inglese. Ora questa scelta è stata tolta. E questo li metterà in difficoltà.

Passando dal punto di vista dei cittadini a quello di un esperto come Michele Gazzola [1], economista dell’Università dell’Ulster che ci ha risposto appoggiando il nostro appello, le motivazioni di queste scelte che portano all’anglificazione della formazione universitaria nascono da un preciso interesse economico.

La parola chiave per comprendere ciò che è in atto da tempo e che nei prossimi vent’anni potrebbe esplodere in modo ancora più profondo è “razionalizzazione”, ci ha scritto Gazzola, che ha così sintetizzato la questione:

Le università hanno prima aperto corsi paralleli in italiano e in inglese, e adesso stanno chiudendo quelli in italiano perché costa troppo averne due uguali, e perché tanto sanno che con un corso in inglese possono coprire sia il mercato nazionale (sempre più piccolo a causa della denatalità) sia quello internazionale. Tanto lo studente italofono non ha scampo, può studiare in italiano solo in Italia (e in pochissimi altri posti all’estero), quindi se lo si priva del corso in italiano non andrà via.

L’ateneo di Bologna, insomma, pensa solo ai propri interessi e a reclutare gli studenti stranieri per fare numero e batter cassa – è il bel modello delle nuove scuole-aziende che hanno come “mission” il profitto — ed è poco interessato al diritto allo studio in italiano. Dietro le motivazioni ufficiali c’è proprio il fatto che il numero degli iscritti non è poi così interessante per l’Università che si vuole allargare a scapito della qualità della didattica e delle esigenze reali degli studenti del nostro Paese.

Il progetto di cancellazione dell’italiano dalla scuola alta

Tutto è iniziato al Politecnico di Torino che nell’anno accademico 2007-2008 ha avviato i primi corsi in inglese rendendoli gratuiti, al contrario di quelli in italiano, per fare in modo che partissero con un buon numero di iscritti. Ma così facendo discriminava il pubblico pagante che voleva studiare in italiano.

Il secondo episodio, ancora più grave perché ha costituito il precedente che ha fatto saltare il sistema, è avvenuto nel 2012, quando il Politecnico di Milano ha deciso di estromettere l’italiano dalla formazione di ingegneri e architetti che avrebbero potuto studiare solo in inglese. Maria Agostina Cabiddu [2], docente di Istituzioni di diritto pubblico, ha raccolto le proteste di un agguerrito gruppo di insegnanti che, dopo un appello al presidente della Repubblica Mattarella, si sono rivolti al Tar della Lombardia che ha dato loro ragione.

Ma l’ateneo e il Miur – cioè il Ministero dell’istruzione italiano che pare lavorare in favore dell’inglese – non hanno accettato il verdetto e si sono opposti. Dopo lunghi e complicati corsi e ricorsi in cui è intervenuta anche la Corte Costituzionale, è finita con una sentenza (a mio avviso “cerchiobottista”) che da una parte sanciva la “primazia” della lingua italiana nell’università, ma ammetteva i corsi in inglese con una logica di buon senso e proporzionalità che però non era definita, ma lasciata alla discrezione delle parti. E nell’atto finale della vicenda è andata a finire che il Politecnico se ne è infischiato della “primazia” sancita solo sulla carta, e ha continuato a erogare corsi quasi esclusivamente in inglese con una concezione della proporzionalità diciamo così “discutibile”. In sostanza lo spirito della legge viene aggirato con il semplice inserimento di qualche sporadico corso in italiano, magari delle materie più marginali.

Tutto ciò non era affatto destinato a rappresentare un caso isolato, fa parte di un preciso progetto – imposto dall’alto in modo surrettizio e senza interpellare gli italiani – che negli anni successivi si è diffuso in modo sempre più preoccupante. Gli altri atenei-aziende aspettavano solo la via spianata per seguire la stessa strategia per loro più remunerativa. E infatti, Maria Agostina Cabiddu, un’altra importantissima voce che ha raccolto il nostro appello, ha commentato:

Ci eravamo mossi a suo tempo proprio perché avevamo capito che si trattava di un progetto pilota.

Quello che è avvenuto negli anni successivi e quello che sta avvenendo in questi giorni è l’allargamento di questo modello, che dopo tanti altri casi è da poco stato perseguito anche dalla Bocconi di Milano, ma soprattutto rischia di estendersi anche alle scuole secondarie, come ho già denunciato a proposito del liceo Avogadro di Torino.

La novità delle proteste di Rimini è che a mettere in discussione questo progetto “italianicida” e “linguicista” [3] non ci sono solo associazioni come Italofonia e comunità virtuali come quella degli Attivisti dell’italiano, ma anche gli stessi imprenditori, le associazioni degli albergatori, e i cittadini che lottano – mi sembra impossibile doverlo raccontare – per il diritto alla studio nella propria lingua madre!

Tutto ciò è inaccettabile. Ed è inaccettabile che la cancellazione dell’italiano dalle scuole avvenga nel silenzio mediatico – a parte un giornale locale come il Resto del Carlino – e nel vuoto di prese di posizioni di intellettuali e politici.

La speranza è che le nostre proteste possano almeno riaprire un dibattito. La decisione dell’Università di Bologna sembra ormai presa, anche se formalmente sarà ufficializzata entro il 29 febbraio. Ma è importante far arrivare più voci possibili di dissenso per cercare di fare in modo che altri atenei, prima di scegliere di andare in questa direzione, debbano tenere conto anche delle resistenze dei cittadini oltre ai numerini del proprio “businness plan”.

Chi vuole aiutare i riminesi, gli albergatori, Italofonia e soprattutto il diritto allo studio in italiano e la lingua italiana si faccia sentire, e si unisca al nostro appello.

In meno di 30 secondi puoi aderire alla protesta sottoscrivendo e inviando un messaggio precompilato, ma è possibile personalizzarlo a piacere, attraverso il modulo a fine di questo articolo.

Grazie.

Antonio Zoppetti

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Note
[1] Per approfondire la questione: Michele Gazzola, “La ‘anglificazione’ dell’università in Europa è evitabile?Analisi e proposte per una università plurilingue” (2023).
[2] Maria Agostina Cabiddu ha curato: L’italiano alla prova dell’internalizzazione (goWare ed Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA, 2017).
[3] Il linguicismo è concetto introdotto dalla finlandese Tove Skutnabb-Kangas: come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo è la discriminazione in base alla lingua madre, che porta a giudizi sulla competenza o non competenza nelle lingue ufficiali o internazionali.

Marco Biffi, la diglossia e la lingua di Marinella

Di Antonio Zoppetti

Voglio riprendere un articolo dell’accademico della Crusca Marco Biffi uscito qualche tempo fa sul Corriere fiorentino intitolato “Se l’italiano diventa la lingua «bassa» a causa di scelte miopi”.

L’autorevole linguista ci ricorda che la lingua italiana è diventata un patrimonio di tutti solo negli anni Settanta del secolo scorso, visto che per centinaia e centinaia di anni è stata solo una lingua letteraria che viveva nelle pagine dei libri, mentre la gente si esprimeva fondamentalmente nel proprio dialetto.

La nostra storia linguistica è sempre stata caratterizzata da un bilinguismo squilibrato, cioè dalla presenza di due lingue che non avevano un uguale status, ma possedevano una precisa gerarchia. Il toscano, che si è affermato nella letteratura per motivi di prestigio e che dal Cinquecento in poi è diventato il canone imposto dalle grammatiche e dai vocabolari, era la lingua colta, mentre le altre varietà dei volgari, regrediti allo stato di “dialetti” (lingue “inferiori”) erano la lingua del popolo.

Questo “toscano” fatto coincidere con l’italiano, per i puristi avrebbe dovuto seguire i modelli aurei delle tre corone fiorentine trecentesche – Dante, Petrarca e Boccaccio –, per altri era invece il fiorentino vivo delle classi colte, come nella soluzione manzoniana del sciacquare i panni in Arno. Prima ancora del toscano, nel Medioevo, era il latino a essere la lingua della cultura e della scrittura con cui l’italiano-toscano ha dovuto scontrarsi nella sua affermazione, e ancora una volta, nella diglossia medievale, il popolo perlopiù analfabeta si esprimeva in volgare e non aveva accesso alla lingua “alta”.

In questo modo solo una parte della popolazione era bilingue, mentre la maggior parte era soltanto dialettofona, e la lingua italiana standard era confinata solo in alcuni contesti. (…) Ci sono voluti secoli per arrivare con fatica a una lingua per tutti gli italiani”.

E dopo questa difficilissima e tortuosa conquista, oggi cosa sta accadendo?

Il prestigio dell’inglese e soprattutto le “scelte miopi” della nostra classe dirigente stanno lavorando per riportarci a quella che il linguista tedesco Jürgen Trabant chiama la diglossia neo-medievale a base inglese. Questa è la nuova lingua della scienza, delle tecnica, del lavoro e dei piani alti. Ma la conoscenza dell’inglese riguarda solo una minoranza della popolazione italiana, europea e mondiale, e di nuovo il popolino ne è escluso. Dunque nel giro di meno di mezzo secolo dall’unificazione linguistica

“il nostro tessuto politico, economico e (ahimè) culturale, promuovendo l’uso dell’inglese a discapito dell’italiano (…) si ingegna per costruire, stavolta a tavolino, un bilinguismo con diglossia inglese/italiano, in cui l’italiano è la varietà «bassa». Politiche riconducibili a tutto l’arco costituzionale stanno da anni spingendo in questa direzione, all’inseguimento di un internazionalismo vuoto e miope che non ha rispetto del valore identitario di un bene culturale prezioso come la lingua. Come un ragazzo segue un aquilone. E così la lingua di tutti gli italiani, come Marinella, finirà per scivolare nel fiume a primavera. «E come tutte le più belle cose», sarà vissuta 40 anni, «come le rose».”

Finalmente qualcuno denuncia in modo lucido e senza esitazioni ciò che sta accadendo – come cerco di fare da anni anch’io – e soprattutto cosa accadrà tra non molto, se non si interviene.

La regressione dell’italiano

Facciamo il punto sulla situazione.
La regressione dell’italiano davanti all’inglese parte dalla scuola. Se un tempo l’italiano era una materia primaria e centrale, oggi questo ruolo è scemato, ed è l’inglese che è divenuto il perno della nuova cultura che si vuole istituzionalizzare. Tutto ciò è iniziato ai tempi delle tre “i” di Berlusconi-Moratti (Internet, Inglese, Impresa) su cui la scuola doveva puntare. L’insegnamento dell’inglese è stato introdotto sin dalle elementari per creare le nuove generazioni bilingui progettate a tavolino, e se un tempo si studiava una lingua straniera, oggi l’inglese è obbligatorio e ha cancellato la formazione basata sul plurilinguismo. In questa “dittatura dell’inglese” i progetti nati per favorire il plurilinguismo dall’Erasmus al Clil (che prevede l’insegnamento di una materia in lingua straniera) si sono di fatto declinati nell’insegnamento e nella diffusione del solo inglese (alla faccia delle altre lingue). La riforma Madia ha cancellato il requisito di conoscere “una lingua straniera” per accedere ai concorsi della pubblica amministrazione, e l’ha sostituito con l’obbligo del solo inglese. Intanto sempre più università vogliono estromettere l’italiano dalla formazione e insegnare direttamente in inglese, un modello che adesso si sta diffondendo anche in alcune scuole secondarie. Lo Stato italiano prevede che i progetti di ricerca o scientifici (Prin e Fis) si debbano presentare in inglese! Non in italiano!

La ricerca scientifica si svolge soprattutto in inglese, perché se qualcuno non segue questa prassi finisce che il suo studio non sarà letto, né citato, né godrà del prestigio di quelli stilati nella “lingua dei padroni”. L’Unione europea, nata all’insegna del plurilinguismo, di fatto sta imponendo l’inglese nella comunicazione istituzionale (grazie alla politica scellerata di Ursula Von der Layen) e sempre più usa quasi esclusivamente l’inglese come lingua di lavoro. E poi c’è l’inglese che ci arriva dall’espansione delle multinazionali, dalle pubblicità alla lingua delle interfacce informatiche che non è più fatta dagli italofoni nativi ma utilizzata senza traduzioni, mentre persino i titoli dei film non si traducono più.

La nostra intera intellighenzia sa solo ripetere il pensiero che arriva d’oltreoceano e lo fa con la terminologia, i concetti e le parole d’oltreoceano, che scimmiotta e ostenta abbandonando l’italiano, di cui fondamentalmente si vergogna. E così le nuove generazioni allevate in questo contesto culturale e figlie dell’esposizione all’inglese di cinema, tv, videogiochi, internet… vedono nell’inglese la lingua del futuro, della modernità e del mondo. E i mezzi di informazione che un tempo hanno contribuito all’unificazione dell’italiano ora diffondono l’itanglese, dai giornali alle tv.

Tutti i centri di irradiazione della lingua hanno sostituito il modello dell’italiano con quello dell’itanglese, che caratterizza il piano scuola, il linguaggio istituzionale, del lavoro, delle leggi (divenute act, mentre le tasse sono tax).

L’itanglese è l’effetto collaterale di questa espansione dell’inglese internazionale che si vuole ufficializzare.

Davanti a questo crollo, siamo in presenza di un cambio di paradigma che ci rende una colonia culturale – e linguistica – di un luogo che non c’è, chiamato Occidente, che non è altro che il nuovo impero americano, ed è la prosecuzione di ciò che un tempo si chiamava colonialismo e poi imperialismo, ma che oggi viene esaltato come l’unico modello possibile di lingua e cultura proprio dagli intellettuali che un tempo avevano un atteggiamento critico, ma oggi si sono trasformati nella principale voce del padrone che legittima il nuovo ordine costituito.

Ed è proprio questo il punto più disarmante. La questione della lingua è nata con Dante ancor prima che la lingua italiana fosse “fondata” e ha suscitato in ogni secolo accesissimi dibattiti e polemiche. Oggi tutto tace, siamo oramai lobotomizzati, rassegnati, diamo per scontato la cancellazione dell’italiano che finirà per diventare un dialetto di un anglomondo che pensa e parla inglese. E non solo manca la resistenza, quel che è peggio è che regna il compiacimento, nel perseguire la strategia degli Etruschi che si sono sottomessi da soli alla romanità fino a esserne inglobati e a scomparire.

Meno male che c’è qualche voce fuori dal coro, che ogni tanto trova persino qualche sprazzo sui giornali, come nel caso di Marco Biffi, di qualche comunicato Incipit, o di Michele Gazzola che denuncia i costi spropositati – oltre ai problemi etici di equità – dell’inglese dell’Unione Europea.

Psicopatologie dell’inglese quotidiano

Di Antonio Zoppetti

Qualche giorno fa, scanalando tra i programmi televisivi mi sono imbattuto in una trasmissione in cui un amabile e colto esperto di antiquariato stava stimando un oggetto di porcellana di una signora intenzionata a venderlo. Il nome del programma – anzi format – come sempre era in inglese, Cash or Trash, solo affiancato da un’esplicazione in italiano (Chi offre di più?) con la stessa logica commerciale dei titoli di film che non vengono più tradotti. Nel caso serva un rafforzo in italiano di solito viene inserito in seconda posizione, dopo l’inglese, una scelta non casuale e ben ponderata che serve a imporre questa lingua, e allo stesso tempo a stabilire una ben precisa gerarchia. L’inglese ha la precedenza perché è lingua di prestigio e superiore.

Tornando ai fatti, l’autorevole esperto ha cominciato a esaminare l’oggetto per valutarne l’epoca, la fattura e tutto il resto, e a proposito dell’integrità si è accorto che il valore era sminuito dal particolare che la base era lievemente scheggiata, in altre parole presentava delle sbeccature o sbrecciature (ma si può dire anche sbocconcellature). Indicando quel difetto ha detto più o meno:

“Vede qui? Queste si chiamano chips, e sono una sorta di sbeccature, potremmo dire.”

Proviamo ad analizzare quest’ultima frase in profondità per sviscerare, come faceva Freud, il substrato psichico che produce questo tipo di linguaggio.

PUNTO 1 – Il contesto comunicativo “verticale”

Partiamo dal ruolo dell’esperto, che mette in scena la sacralità di colui che sa, e dunque spiega a chi non sa. La comunicazione con la venditrice non è sullo stesso piano (diciamo orizzontale), la donna si trova nella condizione inferiore tipica del discente. Il suo stato psicologico è quello di chi riceve e pende dalle labbra del maestro. Tutto quello che ha in mente è probabilmente solo sapere il prezzo della sua mercanzia, l’obiettivo primario, ma nell’essere edotta allo stesso tempo scopre che ciò che inficia il valore del suo manufatto si chiama “chips”, parola che di sicuro non conosce, o meglio avrà già sentito ma con altro significato, quello di patatine.

Un po’ di tempo fa in un locale ho ordinato una birra e ho chiesto di avere anche due patatine. Il ragazzo mi ha chiesto: “Chips?”.
“Patatine”, gli ho risposto. “Sì, ma chips?” Ha insistito. A quel punto ho capito il suo dilemma. Non sapeva se volessi un piatto di patatine fritte calde e fumanti, a pagamento, o se intendessi una ciotola con le patatine confezionate che come le noccioline accompagnano gli aperitivi e sono in omaggio. “Patatine normali, quelle del sacchetto” ho specificato. “Ah, perfetto, le chips!” Ha concluso.

Qualcosa di simile mi è accaduto in un’altra occasione in una specie di profumeria quando cercavo un regalo natalizio. Il negozio era grande – e veniva presentato dunque come uno store, mica come un semplice negozio – e abbastanza affollato. Curiosavo tra gli scaffali con in mano il prodotto scelto, e mi si è avvicinato un commesso chiedendomi se avevo bisogno di una bag. Credevo mi volesse vendere un sacchetto da regalo, e gli ho domandato quanto costasse. “No, una bag”, ha risposto indicandomi delle borse per i clienti che servivano per contenere i prodotti da presentare alla cassa, come i carrelli della spesa.

In tutti e tre gli esempi abbiamo a che fare con un meccanismo piuttosto simile. L’addetto ai lavori – detentore del linguaggio – impone una terminologia in inglese al cliente, invece di usare l’italiano. Lo fa in modo inconsapevole, con spirito educativo e in questo modo insegna la newlingua all’interlocutore, che la impara ed è ora pronto a ripeterla.

PUNTO 2 – Differenziazione dei significati e cancellazione dell’italiano

…Si chiamano chips, e sono una sorta di sbeccature, potremmo dire.
In una frase manipolatoria come questa, l’introduzione dell’inglese si porta con sé una giustificazione che nasce dalla volontà di farlo apparire più preciso o prestigioso (dunque ai vertici della gerarchia e della diglossia). Ho chiamato questo meccanismo “non-è-proprismo” perché consiste nel fare credere che la parola inglese abbia una sua necessità, e dunque si differenzierebbe dall’analoga parola che abbiamo sempre usato nella nostra lingua madre. De Amicis, nell’Idioma gentile, aveva caricaturato questo atteggiamento con la macchietta del visconte La Nuance, sempre pronto a dimostrare che ogni francesismo possedesse una presunta differente sfumatura di significato, una nuance appunto, che l’italiano non avrebbe. Oggi avviene lo stesso con l’inglese che nell’entrare ridefinisce tutta l’area semantica delle parole già esistenti, e nel farlo sottrae loro un ambito e le fa regredire (se si impone chips che fine faranno sbeccatura, sbrecciatura o sbocconcellatura già oggi poco conosciute, benché tecnicamente perfette per descrivere i fatti?). Ed ecco che l’esperto, nell’introdurre “chips” spiega che è una “sorta di sbeccatura”. In questo modo lascia intendere che non è proprio come una semplice sbeccatura, è di più: e infatti gli addetti ai lavori dicono così. Probabilmente anche il commesso della profumeria sarebbe stato pronto a spiegare che una bag non è proprio una borsa, un sacchetto o una sportina, e il barista mi avrebbe spiegato che le chips sono le patatine confezionate, al contrario di un piatto di patatine. Il fatto che tutto ciò sia semplicemente falso, e che in inglese — prima ancora che in italiano — non esista affatto questa differenza, sembra non avere alcuna importanza. Anzi sembra non possedere nemmeno una sua realtà.

PUNTO 3 – L’alienazione linguistica

In Psicopatologia della vita quotidiana Sigmund Freud indagava sulle disfunzioni della memoria e interpretava i lapsus, la dimenticanza dei nomi o delle parole straniere non come dei fatti casuali, ma come dei meccanismi inconsci di rimozione che si impongono sulla nostra coscienza. E scriveva:

“I vocaboli di uso corrente della lingua madre non possono, nei limiti del normale funzionamento delle nostre facoltà, cadere nella dimenticanza. Ovviamente, per quanto riguarda i vocaboli di una lingua straniera, le cose stanno diversamente. In questo caso, la tendenza a dimenticarli esiste…”.

Questa convinzione ritorna spesso nel saggio, anche a proposito dei lapsus linguae:

“Mentre il materiale usato nei discorsi fatti nella lingua materna non sembra soggetto a dimenticanza” sono invece frequenti i lapsus.

Freud è ormai stato abbandonato e superato, ma è interessante notare quanto questa visione sia inapplicabile all’odierna realtà dell’italiano, e degli italiani, che sembrano invece dimenticare la lingua madre per sostituirla con quella inglese in un processo che lo psicanalista avrebbe di sicuro ricondotto alla “rimozione” e che potremmo meglio definire attraverso il concetto di “alienazione linguistica”.
In una trasmissione come Cash or Trash ogni oggetto datato, d’epoca, della nonna, o “retrò” (alla francese) è denominato vintage, mentre non c’è l’oggettistica di “lusso” bensì il luxury, pronunciato sempre rigorosamente in inglese, nonostante sia un termine ben più lungo dell’italiano, a proposito di chi blatera che il ricorso all’inglese dipenderebbe dal fatto che è più sintetico e maneggevole.

La verità è un’altra, e la solita: il passaggio dall’italiano all’inglese nasce invece da un processo di alienazione dovuto al considerare quella lingua superiore e più prestigiosa, e dunque è dovuto a un complesso di inferiorità nei confronti della propria lingua madre. Questo è il vero motore, a volte inconsapevole, istintivo o inconscio (per dirla con Freud) che emerge attraverso processi di giustificazione come quelli indicati al punto 2) e attraverso meccanismi come quelli del punto 1) che – come i lapsus – sono inconsci, ma allo stesso tempo se sono analizzati in profondità rivelano una forma mentis che deriva dal pensare in inglese invece che in italiano.

E a questo punto bisogna abbandonare l’approccio psicologico del singolo parlante e passare dalla “psicolinguistica” alla “sociolinguistica”, perché affermare che le “sbeccature si chiamano chips” non ha a che fare con un disturbo mentale di un singolo individuo, ma con una mania compulsiva, che appartiene alla nostra società, dove ogni singolo individuo tende a comportarsi e a replicare una tendenza collettiva.

PUNTO 4 – I centri di irradiazione sociali della lingua

Gramsci è stato uno dei primi a porsi la questione della lingua come fatto sociale, e più che alle grammatiche dei linguisti guardava a quella “grammatica” che “opera spontaneamente in ogni società”, quella che si segue “senza saperlo” e che tende a unificarsi in un territorio da sola e senza essere normata (Antonio Gramsci, Quaderno 29 [XXI], § 2.), in altre parole: al linguaggio popolare.
Questa grammatica “immanente nel linguaggio stesso” nasce da una serie complessa di fattori che si intrecciano, e una lingua nazionale unitaria prende forma attraverso questi processi complessi quando esiste una necessità. La lingua che prende forma nel popolo è perciò l’imitazione (e il ripetere) dei modelli linguistici che arrivano dall’alto, cioè dalla classe dirigente, e il processo di “conformismo linguistico” – cioè il propagarsi di una lingua che tende a codificarsi in un certo modo condiviso e riconosciuto da tutti – avviene attraverso i “focolai di irradiazione” della lingua che negli anni Trenta aveva individuato nella scuola, nei giornali, negli scrittori sia d’arte sia popolari, nel teatro, nelle riunioni civili di ogni tipo (da quelle politiche a quelle religiose), nel cinema e nella radio. La lingua, come prodotto sociale, nasce in questi luoghi e da queste interazioni.
Trent’anni dopo Pasolini si era accorto che i nuovi centri di irradiazione della lingua erano ormai i centri industriali del nord, e che la nuova lingua tecnica e industrializzata arrivava da lì, e se tutti da Palermo a Milano parlavano di “frigorifero” era perché quella parola nasceva ed era diffusa dall’industrializzazione.

Oggi i nuovi centri di irradiazione della lingua non sono più nell’asse Milano-Torino come negli anni Sessanta, provengono direttamente dall’anglosfera, e la lingua che importiamo in modo diretto da fuori d’Italia entra in modo crudo e senza essere mediata da alcun processo di adattamento, traduzione o creazione di parole nostre. Queste parole spesso non coincidono con “cose” nuove, tutt’altro: sostituiscono le parole della nostra lingua materna che il povero Freud considerava impossibili da dimenticare, ma che invece dimentichiamo e gettiamo via, come è accaduto al calcolatore abbandonato per il computer, e come nel caso di una sbeccatura che diviene chip. Ma anche come nel caso di chi parla di reputation invece di reputazione, di vision invece di visione, di underdog invece di sfavorito, di cashback invece di rimborso e via dicendo. In questi ultimi casi la lingua materna resiste, ma finisce per diventare meno prestigiosa rispetto ai suoni in inglese, dunque possiede uno status sociale inferiore, che ne mette a rischio la sopravvivenza e il futuro.
In altre parole, nella riorganizzazione culturale e linguistica dei nostri tempi al centro della newlingua che non arriva affatto dal basso, come in molti vorrebbero far credere, c’è il costruire l’esigenza e la necessità – per dirla con Gramsci – dell’inglese. Il commesso che ti offre la bag, il barista che ti parla di chips… stanno creando la “necessità” di queste nuove parole in inglese.

Intanto, rispetto all’epoca di Freud, Gramsci e Pasolini, i nuovi centri di irradiazione della lingua si sono arricchiti non solo della televisione, ma anche del mondo digitale, pensato in inglese ed espresso in inglese. E dopo l’epoca delle riunioni religiose o politiche i nuovi fari che ci illuminano di inglese sono rappresentati dalla lingua dell’informatica che non viene tradotta, così come accade nel lavoro, nella scienza, nelle pubblicità… dove gli anglicismi sono predominanti.
La forma mentis di chi ti insegna che le sbeccature si chiamano chips è quella di chi è stato plasmato a ragionare nella lingua superiore, e la diffonde in modo inconsapevole come un colonizzatore, per il semplice fatto che la sua mente è ormai stata colonizzata. Esattamente come è colonizzata quella dei linguisti che ci spiegano che esistono i prestiti di necessità, una concettualizzazione che apparentemente descrive questa necessità, ma che nella realtà la presuppone, introduce e impone, facendo finta di dimostrarla con pseudo-argomentazioni imbarazzanti.

Lo strappo nella metamorfosi della lingua italiana

Di Antonio Zoppetti

Tutto cambia e si trasforma. E questo eterno “panta rei” proclamato sin dai tempi di Eraclito vale anche per le lingue. Ma fino a che punto qualcosa può cambiare rimanendo se stessa e senza diventare qualcosa d’altro? La crisalide che si trasforma in farfalla, il girino che diviene rana sono in fondo lo stesso individuo, anche se nella metamorfosi gli animali adulti non hanno più niente a che vedere con l’aspetto – e la fisiologia – che possedevano inizialmente.

Lo sfaldamento del latino

Lo sfaldamento del latino che ha portato alla nascita dei volgari antenati delle odierne lingue romanze è stato un processo molto lungo e tortuoso in cui la lingua di partenza, già piuttosto eterogenea, generazione dopo generazione a un certo punto ha perso la continuità con la lingua di partenza, fino a quando il volgare e il latino sono diventate due lingue tra loro incomprensibili. Lo strappo è avvenuto proprio in questo passaggio. Da quel momento il latino si è cristallizzato come lingua della scrittura, della Chiesa e dei dotti, che non era più una lingua naturale parlata da nessuno, mentre le lingue vive, i volgari, hanno preso la loro strada che li portava altrove. I primi segnali riguardavano il lessico che si era riempito di parole che non erano più latine, ma venivano ricostruite alla latina, per cui invece di dire equus si è cominciato a parlare di caballus, voce tarda che ha assunto la desinenza alla latina. In seguito anche il sonus del latino è stato abbandonato per il vocalismo romanzo che ha portato al passaggio da amicus all’odierno ami del francese, amigo dello spagnolo e amico dell’italiano. In questo processo si è determinata la perdita delle declinazioni, in un primo tempo ridotte a una sola (per cui ogni parola era declinata allo stesso modo semplificato), e poi si sono fissate in un unico caso invaribaile, affiancate dalla nascita delle proposizioni e degli articoli che le hanno rimpiazzate.

Il modello vincente del toscano

Ai tempi di Dante i volgari italici si erano ormai caratterizzati nella lingua del sì, ed erano tra loro diversi ma percepiti come qualcosa che possedeva una sua unità, e anche comprensibilità. E si cominciavano a impiegare anche per scrivere, invece del latino. San Francesco usava la varietà umbra, il siciliano fu la lingua che Federico II tentò di diffondere in tutta la penisola, mentre spuntavano componimenti nelle antiche parlate lombarde, e negli stessi anni un po’ ovunque nacquero compositori nel proprio volgare. Ma il prestigio del fiorentino di Dante, Petrarca e Boccaccio si impose come il modello linguistico di maggior successo. Tra le infinite diatribe sulla questione della lingua – e cioè quale italiano? – avrebbe finito per orientare la lingua di tutti. L’italiano si è perciò toscanizzato, mentre le altre parlate divenivano dei dialetti, cioè delle varietà di rango inferiore di una lingua nazionale, o meglio: proclamata nazionale da una parte degli italiani, non senza controversie e resistenze. Il toscano ha così sottratto il ruolo di prestigio del latino, la lingua superiore della cultura di portata internazionale, e divenne il modello dell’italiano odierno. Se un tempo i neologismi come caballus si uniformavano all’indole del latino (la desinenza in us in questo caso), chi non era toscano cominciò a toscaneggiare almeno nello scrivere, e a trasformare can e pan delle parlate settentrionali in cane e pane che seguivano il vocalismo di Firenze.
Se oggi possiamo ancora leggere Dante e gli scrittori antichi con una buona comprensibilità è perché il modello toscano è stato quello vincente. A orientare questa direzione non c’è stata alcuna politica linguistica, visto che l’Italia non ha mai avuto un’unità politica. L’epoca dei Comuni ha costituito un’anomalia in Europa dove regnavano le grandi monarchie. Il nostro sistema di governo che ricorda quello delle polis greche si è poi allargato all’epoca delle Signorie, e poi a quello dei tanti Stati che spesso erano sotto il controllo degli invasori spagnoli, francesi, austriaci che ci hanno a lungo dominati. Il tedesco ci ha influenzati poco, anche perché l’occupazione ha sempre riguardato le aree del nord che erano fuori dai giochi della lingua, e questi volgari si sono toscanizzati con il tempo senza a loro volta influenzare troppo il toscano. Il confronto con lo spagnolo e il francese, invece, ha cambiato molto la nostra lingua, ma le migliaia e migliaia di voci che abbiamo importato da queste lingue sono state adattate all’indole linguistica dell’italiano basato sul toscano. L’italiano ne è uscito arricchito ma non snaturato.

Il nuovo modello linguistico angloamericano

Quello che accade oggi davanti all’interferenza dell’inglese è un fenomeno profondamente diverso. In principio sono arrivati i primi “prestiti”, come li chiamano i linguisti. Tutto ha avuto inizio timidamente nel primo Ottocento per ampliarsi nella seconda metà del secolo. Ma queste parole in inglese crudo, e non adattato, erano poche centinaia. Nel secondo dopoguerra la nostra americanizzazione è cominciata in modo pesante. Il piano Marshall ci ha inglobati nell’area politica, economica, sociale e culturale degli Stati Uniti. Nell’american dream degli anni Cinquanta il cinema era soprattutto un modello americano che esportava visioni e valori americani. La musica era un fenomeno che si esprimeva soprattutto in inglese. Poi sono arrivate le tv commerciali che hanno costruito un mondo parallelo fatto più che altri di prodotti americani, e con internet e la globalizzazione questo mondo esportato dagli Usa è stato da noi importato in modo gioioso e acritico.

Tutto ciò ha le sue conseguenze linguistiche. E così il numero degli anglicismi è lievitato con una velocità e profondità mai vista prima nella storia dell’italiano. I duecento anglicismi di fine Ottocento, alla fine del Novecento erano circa 1.600 e oggi sui dizionari se ne contano circa 4.000. I francesismi invece erano e sono meno di un migliaio, contro un centinaio di ispanismi e altrettanti germanismi. Le parole di altre lingue sono invece poco significative e la loro presenza è del tutto trascurabile.

Davanti a questo scenario i linguisti sono poco preoccupati. Una delle ragioni con cui motivano la loro incosciente tranquillità è che l’inglese coinvolgerebbe il lessico, cioè il vocabolario, ma non intacca la sintassi, cioè la struttura della nostra lingua. Questo atteggiamento mi pare davvero insulso.

Per prima cosa perché non sono affatto convinto che i cambiamenti sintattici siano un “pericolo” così grave per la lingua. I cambiamenti sintattici e dello stile dell’italiano appartengono alla nostra storia, e non hanno determinato alcuna metamorfosi dalla crisalide alla farfalla. Lo stile di Boccaccio che ricalcava i costrutti latini con il suo periodare con il verbo alla fine (es. Chichibio, il quale, come riuovo bergolo era così pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollecitudine a cuocerla cominciò) nell’italiano moderno ha lasciato il posto a costrutti considerati più lineari (in realtà semplicemente diversi). Eppure si tratta dello stesso italiano, questo cambiamento non ha dato vita a una lingua “altra”. E se in futuro, per interferenza dell’inglese, si diffondessero costrutti come “passami il rosso maglione” invece del “maglione rosso”, io credo che sarebbe ancora italiano, comprensibile, e il pericolo per la nostra lingua non è certo in questo tipo di cambiamenti. Ben più pericoloso è invece dire un pullover, golf o cardigan rosso. Perché poco importa della collocazione quando le parole inglesi sostituiscono le nostre. Cardigan è più compatibile con can e pan di certe parlate non toscane che non con l’italiano storico, ma ancora una volta si può soprassedere anche sulle parole che terminano in consonante come bar, film e sport. Pazienza. Non è nemmeno questo il punto, e in poesia si trova il “cammin” di nostra vita, che è italiano come lo sono le preposizioni “per” o “ad”, che terminano appunto in consonante.

L’indole della lingua

Il punto sta nel fatto che la maggior parte degli anglicismi sono fuori dall’italiano perché le loro regole di scrittura e di pronuncia appartengono a un sistema diverso dal nostro. Costituiscono una rottura della nostra identità linguistica, quella che Leopardi chiamava l’indole della lingua, e che nel Settecento si chiamava anche “genio della lingua”. Banalizzando, tutto ciò non è altro che la sonorità della lingua del sì che porta uno straniero a riconoscere una parlata in italiano anche quando non capisce questa lingua dalla snorità che nel mondo è però amata senza uguali. Così come noi riconosciamo chi parla spagnolo, francese, tedesco o inglese anche se non comprendiamo cosa dica. Quando il numero di parole inglesi che impieghiamo diventa preponderante, la lingua raggiunge il punto di rottura. Nella sua metamorfosi è diventata altro dalla lingua di partenza. Si è consumato lo strappo.

Negli anni Duemila questo strappo si è allargato in uno squarcio ormai difficile da rammendare. Il numero, la frequenza e la profondità delle parole inglesi in alcuni ambiti, come il lavoro o l’informatica, hanno comportato la perdita del lessico per esprimerci in italiano senza la stampella dell’inglese, e ci mancano ormai i vocaboli. E anche quando ci sono, il bilinguismo è squilibrato, e le parole italiane non hanno lo stesso prestigio di quelle inglesi.

La diglossia gerarchizzata

Nella nuova diglossia che sta prendendo piede, la presenza di due lingue non è sullo stesso piano, ma è ben gerarchizzata. L’inglese è la lingua superiore da ostentare dicendo mission, vision o competitor invece di missione, visione e competitore. Nel mondo del lavoro usare l’italiano significa non ricorrere alla lingua di prestigio con cui gli addetti si identificano, e dunque rischia di farci percepire come “estranei” che non aderiscono alla lingua che il settore richiede e allo stesso tempo impone. In altre parole l’itanglese è diventato un ben preciso modello linguistico, la newlingua contrapposta alla veterolingua di cui fondamentalmente ci vergogniamo.

E allora accade quello che accadeva ai tempi del prestigio del latino, quando i titoli dei libri erano in latino anche quando erano scritti in volgare, a cominciare dal Canzoniere di Petrarca che in realtà si intitolava Rerum vulgarium fragmenta. Nella gerarchia linguistica gli anglicismi occupano ormai questo ruolo, dai titoli dei film non più tradotti ai nomi delle manifestazioni rigorosamente in inglese, dalle insegne dei negozi alle pubblicità, dai settori merceologici come quello del food o dell’automotive alle categorie concettuali con cui si riscrivono le cose. Nei palinsesti televisivi la comedy soppianta la commedia, il controllo genitoriale è parent control, il presidente del consiglio premier, i negozi store, i videogiochi videogame

Dai “prestiti” alla newlingua

Il numero degli anglicismi è tale che è sempre più difficile distinguere una parola inglese importata da un ben più ampio riversamento dell’inglese che non entra nei dizionari, ma che si riscontra per esempio quando un politico parla della destination invece della destinazione, che non è un anglicismo ma un virgolettato temporaneo che sostituisce il significante della parola italiana con quella inglese, assolutamente identico ma più prestigioso. È in questo passaggio che si consuma lo strappo.

Nella stessa dichiarazione ricorre anche brand reputation, invece della reputazione di un marchio, e in espressioni come questa c’è anche la tanto temuta inversione sintattica, ma non è questo il problema. Il vero problema – trascurato dai linguisti – è lessicale. Il “prestito sintattico” come qualcuno lo chiama, non è più pericoloso dei prestiti crudi di un solo elemento, è semplicemente la naturale evoluzione del fenomeno, dello strappo che si allarga. E le infinite ibridazioni che nascono (chattare, scoutismo, libro-game, scooterino…) sono una newlingua che non è più né italiano né inglese, ed escono dalle grammatiche di entrambi i sistemi. Lo strappo è in questi processi. E la newlingua itanglese che sta nascendo si basa ormai sul modello dell’inglese, e non più su quello del toscano, che prima ancora era costituito dal modello latino.

Quando la Crusca tira le orecchie alla comunicazione della scuola, ormai così zeppa di anglicismi che la stessa Accademia rinuncia a proporre come rendere in italiano, suggerendo invece di “tradurre” l’intero testo in una seconda versione per non addetti ai lavori, significa che – anche se non lo ammette esplicitamente – di fatto sta riconoscendo l’esistenza di questa newlingua parallela.

E con questo siamo arrivati al punto dei punti: non ha più senso prendersela con i singoli anglicismi per sostituirli con l’italiano. Questa operazione è importantissima perché aiuta a far circolare le alternative che altrimenti rischiano di essere schiacciate dall’inglese, di non essere più utilizzate e dunque di regredire fino a perdersi. Ma non bisogna confondere gli effetti con le cause: il problema non è banalmente nell’eccesso degli anglicismi e nelle ibridazioni, il problema è che l’tanglese è il nuovo modello linguistico di prestigio. Tutto il resto ne è la conseguenza.

La fine della continuità storica dell’italiano

Se in passato abbiamo assistito a sterminati scontri sulla questione della lingua, per stabilirne appunto il modello, oggi il modello vincente non è più il toscano, né quello di Dante trecentesco né quello degli epigoni e dei puristi, non è quello di Manzoni e nemmeno quello polimorfo di Gadda. Il nuovo modello è l’inglese, la lingua superiore che si vuole far diventare quella dell’insegnamento al posto dell’italiano, la lingua che vogliono ufficializzare in Europa anche se il Regno Unito ne è fuori, la lingua che usano gli scienziati nel voler essere “internazionali”. Ciò che bisogna respingere e combattere è questo modello che invece di considerare il plurilinguismo una ricchezza lo cancella con il globalese, la lingua naturale dei popoli dominanti che si vuole ufficializzare come la lingua dell’Occidente e del mondo intero, ma è solo una dittatura dell’inglese imposta dall’alto a tutti. L’itanglese è l’effetto collaterale di questo disegno. E per riappropriarci della nostra lingua dovremmo agire e combattere non i singoli anglicismi, ma il progetto linguicista che si sta realizzando e che ne è la causa.

Nella metamorfosi, non importa se la crisalide diventa una “bellissima” farfalla o in un’inquietante e orribile falena-favella, ogni giudizio estetico è puramente soggettivo e sottoposto alla legge dell’abitudine enunciata da Leopardi: solo l’uso rende “bella” o “brutta” una parola, che alla fine diventa semplicemente “normale”. Quello a cui assistiamo è un’altra cosa: il venir meno e lo spezzarsi della continuità linguistica che ha reso l’italiano di Dante un unicum con quello novecentesco. E questo fenomeno non è affatto “normale”. L’italiano del Duemila, come il volgare nato dallo sfaldamento del latino, si è avviato verso una precisa direzione che se ne allontana e diviene una newlingua che non è più italiano. Tutto ciò non ha niente a che vedere con l’interferenza storica del francese o dello spagnolo che abbiamo invece assimilato e inglobato all’interno della nostra indole linguistica che siamo riusciti a conservare evolvendoci. Questa volta è l’indole dell’inglese che sta stravolgendo ineluttabilmente la nostra. E mentre in passato la questione della lingua ha acceso interminabili e appassionati dibattiti che hanno coinvolto scrittori, linguisti, filosofi, insegnanti, patrioti, editori, librettisti e uomini di cultura, ciò che più preoccupa è che invece oggi, tutti zitti (o quasi), stiamo abbandonando il modello linguistico che ci ha unificato per passare a quello nuovo basato sulla lingua delle multinazionali con serafico compiacimento. In modo incosciente, e senza alcuna consapevolezza, stiamo buttando via uno dei nostri più importanti patrimoni storici.

Le scuole coloniali prendono piede in Italia

Di Antonio Zoppetti

La notizia che mi ha segnalato ieri l’attivista dell’italiano Marco Zomer riguarda la “svolta” di una scuola secondaria di Torino, l’Istituto Avogadro, che ha deciso di introdurre nella sua offerta formativa i corsi in lingua inglese invece che in italiano. I percorsi di studio sono due: il liceo scientifico dove la biologia, la chimica, la fisica e l’informatica verranno insegnate in inglese; e l’indirizzo tecnico dove l’inglese sarà la lingua di apprendimento “solo” di informatica e fisica. Come se non bastasse, l’insegnamento dell’inglese già previsto e obbligatorio verrà aumentato di due ore.

Il modo in cui l’articolo della Stampa riporta la notizia è il solito, si esaltano queste decisioni in modo acritico per propagandarle, invece di analizzarle, con la volontà di giustificare e diffondere la visione anglomane che la nostra intellighenzia ha fatto sua. E così leggiamo che la scuola “guarda al futuro” (cioè il futuro coloniale dell’Italia), perché dal prossimo anno includerà “i programmi Cambridge”. A dire il vero questi programmi servono per imparare l’inglese, non per insegnare le materie scientifiche, e andrebbe almeno specificato. Ma il pezzo, il cui incipit è un solenne “Torino chiama Cambridge” punta a mostrare che in questo modo la scuola torinese si eleva al prestigio di quella inglese, e sottolinea la grande innovazione per l’indirizzo tecnico, perché avrebbe solo quattro precedenti in tutta Italia, mentre al liceo scientifico è forse una prassi meno rara.

Le argomentazioni didattiche o pedagogiche sottostanti hanno lo spessore di una televendita di cinture dimagranti eccezionali perché vengono dall’America, a partire dai virgolettati della professoressa Elena Vietti che spiega come la “metodologia Cambridge” favorisca lo sviluppo delle tecniche di problem solving “oltre ovviamente un potenziamento della lingua stessa”. E qui infila la prima evidente castroneria, perché se vogliamo imitare il modello di formazione anglosassone dobbiamo appunto capire una cosa molto semplice: lì potenziano la propria lingua, non quella degli altri. Se Torino chiama Cambridge, va detto che Cambridge non chiama né Torino, né Parigi, né Madrid, né Berlino né alcun altro. A Cambridge non si studiano le materie in francese, tedesco o italiano – forse alla prof sfugge questo piccolo trascurabile particolare – e nei sistemi scolastici angloamericani le lingue straniere non sono contemplate, o comunque non sono obbligatorie, e quando sono previste hanno un ruolo marginale. Ma nel processo di alienazione linguistica in atto – l’abbandono dell’italiano per passare all’inglese – non si racconta che mentre tutta l’Europa spende una fortuna per insegnare l’inglese (lingua di fatto extracomunitaria) e formare le nuove generazioni bilingui a base inglese sin dalle elementari, gli inglesi e gli americani non hanno questi costi, visto che preferiscono che tutto il mondo impari e usi la loro lingua naturale.

Ora, per chiamare le cose con il loro nome, tutto ciò avviene all’insegna del colonialismo linguistico. Non stupisce che gli anglofoni, maestri del colonialismo e anche di quello che un tempo si chiamava imperialismo, spingano in questa direzione che comporta interessi economici e strategici per loro spropositati. Quello che stupisce è che in Italia non lo si capisca o si faccia finta di non capirlo. Colpisce il servilismo con cui ci zerbiniamo davanti alla “lingua dei padroni” e alla dittatura dell’inglese in un’alienazione culturale che distrugge la nostra lingua e cultura.

Dal punto di vista didattico, la citata professoressa spiega l’intento di voler conciliare l’approccio all’istruzione anglosassone di taglio molto pragmatico con la tradizione italiana più “teorica”, ma bisogna specificare che dietro la nostra “teoria” c’è – o forse c’era – un ben diverso criterio che tende a considerare le cose da un punto di vista storico e anche critico, che è molto distante da quello per esempio tipicamente americano che in nome di questo scellerato “problem solving”, già introdotto a forza nelle scuole come criterio di valutazione degli studenti, si limita il più delle volte a fornire nozioni non sottoposte ad analisi critiche né storicizzate. E in questo passaggio a un sistema “misto” (dove però c’è solo la lingua inglese) l’inglese farà da “link” alle materie: collegamento è parola della veterolingua che si vuole cancellare, ma si potrebbe dire forse anche hub, invece di snodo o raccordo (l’itanglese nella sua ricchezza ci sta fornendo sempre più sinonimi). Come se senza questo link, le materie fossero percepire come disgiunte, e come se questo collegamento non si possa fare nella nostra lingua nativa!

Il livello di queste dichiarazioni è sconcertante, e ancora più sconcertante è come i giornali lo ripetano facendolo passare come normale. Questo conciliare i due metodi in modo appunto astratto e teorico ricorda certe caricature con cui si dice di voler essere ecologici ma senza rinunciare al suv, o di volere incentivare prodotti locali a chilometro zero ma anche la Coca Cola. Nella realtà, dietro le proposte di anglificazione della scuola l’obiettivo è solo uno: l’imposizione dell’inglese che diventa LA materia più importante e il cardine attorno al quale si vuol far ruotare l’istruzione. Lo si vede dal bocconcino più goloso dell’operazione che include appunto l’ottenere la certificazione Igcse, la ciliegina che è il vero obiettivo dell’offerta.

Ma l’italiano dov’è? Che ruolo e che peso ha in questo percorso? Come mai le nuove scuole-aziende americanizzate o cambridgizzate e il nuovo sistema scolastico che viene smantellato sfornano studenti con sempre più problemi di analfabetismo di ritorno o funzionale?

Sembra che sul piatto della formazione la pietanza forte sia solo l’inglese, come se tutto il resto forse un contorno di cui si può fare anche a meno. E colpisce l’affermazione di un’altra professoressa che con orgoglio spiega che la nuova offerta anglomane non ha richiesto nuovi docenti, perché quelli in carica sono già patentati del livello C1 e C2 di inglese. Dietro questo fiorellino da mettere all’occhiello non si mette in luce la preparazione, la competenza o la bravura dell’organico, ma solo la sua conoscenza della lingua superiore. Come se fosse questo il requisito da propagandare negli immancabili “Open day” che servono a reclutare gli studenti.

Il numero di Avogadro

La dirigente scolastica dell’Istituto, nello spiegare che si tratta di una sperimentazione solo avviata, anticipa che per il momento ci si aspetta un numero di studenti e classi contenuto, e dalle adesioni dipenderà il futuro allargamento della proposta ad altri indirizzi e classi. La mia speranza è che iniziative di questo tipo falliscano miseramente, e che non si raggiunga il “numero di Avogadro” necessario per continuarli. Più realisticamente so bene che non andrà a questo modo, perché l’anglificazione della scuola nel nuovo millennio si sta allargando in maniera preoccupante.

Uno dei primi segnali è partito proprio da Torino, quando il Politecnico ha deciso di incentivare i corsi in inglese nell’anno accademico 2007-2008 attraverso l’iscrizione gratuita per il primo anno, discriminando di fatto i corsi in italiano che invece si pagavano. Pochi anni dopo, nel 2012, il Politecnico di Milano si è spinto ben oltre decidendo di estromettere la nostra lingua dalla formazione universitaria per erogare corsi solo in inglese. Anche in questo caso ci sono state vicende giudiziarie infinite, ma benché sulla carta sia stata riconosciuta una teorica “primazia dell’italiano”, di fatto l’ateneo continua a erogare corsi quasi solo in inglese. E così mentre questo modello si allarga, e recentemente anche la Bocconi di Milano ha preso la medesima direzione, oggi si abbassa l’asticella includendo anche le scuole secondarie, che sono il prossimo terreno di conquista. Nei Paesi scandinavi, dove l’anglificazione è stata da tempo introdotta e sperimentata, si assiste a una marcia indietro perché si è visto che insegnare in inglese si trasforma in un processo sottrattivo, non aggiuntivo. Insegnare in un’altra lingua comporta la perdita e la riduzione della terminologia nella lingua nativa, induce alla semplificazione dei concetti e dei ragionamenti perché si esprimono con più difficoltà, spinge a pensare in inglese, che invece di aggiungersi alla lingua di partenza finisce per fagocitarla. Noi, al contrario stiamo andando in questa direzione suicida in modo becero, acritico e coloniale. Le nefaste conseguenze di questi approcci sono state denunciate da autori africani come Ngugi wa Thiong’o che le hanno subite: lì, le scuole coloniali in lingua inglese hanno non solo contribuito all’abbandono delle lingue indigene, ma hanno soprattutto creato barriere culturali: chi non sapeva l’inglese non poteva accedere alle scuole che imponevano quella lingua e in quella lingua insegnavano. L’inglese ha creato una diglossia tra lingua della cultura e lingua del popolo che da noi apparteneva al Medioevo, quando il latino era la lingua appunto della scuola e della scrittura e il volgare delle massi analfabete. E noi, oggi, in nome di un supposto “internazionalismo” che viene fatto coincidere in modo surrettizio con il parlare in inglese, stiamo costruendoci da soli analoghe scuole coloniali per formare le future generazioni. Così, mentre l’itanglese diviene la lingua modello del linguaggio della scuola e del Ministero dell’Istruzione, l’inglese puro diviene la lingua della nuova cultura, in una svolta linguicista che discrimina la nostra storia e cultura.

Ma a raccontare queste cose, o per lo meno a mostrare l’altra faccia della medaglia dell’anglificazione, affinché ognuno possa fare le sue scelte in modo consapevole, non sono i giornali, né i politici, né gli intellettuali (a parte sparute eccezioni di qualche “dissidente”), sono più spesso i lettori. E Marco Zomer, agguerrito attivista dell’italiano, è riuscito a fare arrivare la sua voce al giornale, seppur in un trafiletto in cui le sue riflessioni sono state riassunte e semplificate.

L’anglificazione della scuola è il nuovo terreno di conquista che nei prossimi anni emergerà e si allargherà, ma invece di produrre riflessioni serie e dibattiti, viene dato per scontato come “il futuro” ineluttabile, un futuro dove l’italiano finirà per diventare un dialetto.

La rinuncia dell’accademia della Crusca

Dopo mesi e mesi di silenzio, la settimana scorsa è apparso il comunicato numero 22 del gruppo Incipit dell’accademia della Crusca contro il linguaggio anglicizzato del Piano scuola 4.0, seguito poco fa dal numero 23 che denuncia il passaggio dallo spid al sistema IT Wallet invece che al portafoglio digitale, come avevo già denunciato nel mio ultimo articolo.

Visto che in pochi conoscono il gruppo Incipt, ancora meno ne leggono i contenuti, e quasi nessuno, non dico segue, ma nemmeno prende in considerazione le indicazioni proposte, sarà utile ricordare di cosa si sta parlando.
È stato costituito nel 2015 dopo una fortunata petizione rivolta alla Crusca della pubblicitaria Annamaria Testa che ha raccolto 70.000 firme contro l’abuso dell’inglese. Nel recepire questo grido collettivo di protesta, l’accademia ha deciso di avviare una sorta di commissione composta da alcuni accademici, oltre che dalla pubblicitaria, per “monitorare i neologismi e forestierismi incipienti, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana e prima che prendano piede”, perché si dà per scontato che, una volta acclimatate e radicate, le nuove parole poi non siano più arginabili.

Questa premessa, invece di parlare esplicitamente di “anglicismi” parla di “neologismi” e “forestierismi”, ma per chiamare le cose con il loro nome, tutti i comunicati hanno a che fare con l’inglese perché l’afflusso di parole straniere di altra provenienza è poco significativo, fuori dalle prese di posizione di principio che affondano le loro radici nel purismo. Il problema non sono i forestierismi ma gli anglicismi. E venendo ai neologismi, dallo spoglio dei dizionari – vorrei gridarlo forte a chi fa finta di non capirlo – circa la metà delle parole nuove del Duemila è in inglese crudo. Magari la nostra lingua fosse ancora viva e in grado di produrre le proprie parole senza importarle direttamente dall’inglese, e senza inventare pseudoanglicismi come smart working o caregiver, per fare riferimento proprio a due espressioni biasimate da Incipit.

Il principio per cui sia possibile intervenire solo nella fase incipiente di circolazione delle parole, va detto, non è una legge naturale davanti alla quale non si può fare nulla. È il risultato di un’anomalia tipicamente italiana che proprio l’impostazione della Crusca favorisce, visto che all’estero le politiche linguistiche di Paesi come la Francia o la Spagna sono state in grado di arginare molti anglicismi che sono regrediti anche dopo una prima fase di alta circolazione.

Nel caso del francese e dello spagnolo la differenza principale rispetto alla situazione nostrana è che le accademie fanno le accademie, e hanno perciò una missione prescrittiva, mentre la Crusca si vanta di essere descrittiva, e cioè di non voler intervenire sulla lingua che si limita a studiare, invece che orientare. A ciò si aggiunge il diverso contesto storico-sociale: in Francia e Spagna le accademie operano in un contesto dove esistono leggi per la tutela della lingua, banche terminologiche istituzionali che traducono ogni cosa in modo ufficiale, e in più in generale una società dove non c’è alcun senso di inferiorità verso l’inglese né alcuna vergogna di tradurre, adattare o pronunciare gli anglicismi nella propria lingua.

In questo contesto, la creazione del gruppo Incipit è stata una ventata di novità che appariva come un prezioso cambio di rotta, anche se si è rivelato un progetto fatto di buoni propositi le cui modalità non sono in grado di incidere sulla realtà.

Tullio De Mauro ne contestò da subito l’impostazione entrando nel merito della fase incipiente che andrebbe maggiormente precisata. Una parola come benchmark – notava – è entrata come tecnicismo del linguaggio economico-finanziario vent’anni prima che il suo significato si estendesse al linguaggio comune come alternativa più prestigiosa di punto di riferimento o pietra di paragone. Dunque, come ho scritto in Diciamolo in italiano molti anni fa, poiché gli anglicismi spesso penetrano nei linguaggi specialistici e poi, a distanza di molti anni, raggiungono anche quello dei giornali perdendo la loro specificità di settore, ci vorrebbe un doppio argine: il primo terminologico, per tradurre da subito le parole di settore come avviene in Francia e in Spagna, e il secondo per affermare le alternative quando si verifica il salto dal tecnicismo alla lingua.

Il progetto Incipit ha funzionato?

Accanto ai limiti concettuali di Incipit, quello che mi pare emerga dopo nove anni dalla sua costituzione è soprattutto la sua inutilità pratica. Il gruppo sin dal suo esordio si è caratterizzato nell’intervenire non nella lingua di tutti, dove vige il principio per cui ognuno parla come vuole (un principio che dovrebbe essere precisato con qualche paletto se si vuole evitare che la “libertà” di espressione non si trasformi nella distruzione delle regole dell’italiano e nella sua trasformazione per esempio in itanglese) ma di vigilare il linguaggio istituzionale, dove il ricorso all’inglese pone problemi di trasparenza, oltre che di ufficialità della comunicazione.

Che cosa ha prodotto questo pacato interventismo fatto di buoni consigli attraverso questa modalità? Nulla.

Tra gli anglicismi messi in discussione, nel comunicato numero 3 del 2016, si raccomandava “lavoro agile” al posto di “smart working” che all’epoca era un tecnicismo di settore e di bassa frequenza. Con l’esplodere del covid e del lavoro a distanza o da casa (come si dice in Francia e in Spagna) il telelavoro o il lavoro da remoto che gli inglesi chiamano home o remote working e non “smart, sono stati accantonati dai giornali e dalle istituzioni e oggi c’è solo l’inglese, a quanto pare.

A proposito di covid, quando questa parola è apparsa, la Crusca era intervenuta per indicare che sarebbe più corretto parlare della covid, al femminile visto che è una malattia e non un virus, una posizione ignorata e talvolta sbeffeggiata dai mezzi di informazione che hanno continuato a usare immotivatamente il maschile a orecchio. In Francia, al contrario, davanti allo stesso problema l’Académie française è intervenuta con le stesse osservazioni, ma i giornalisti e la società dei parlanti – avendo un punto di riferimento normativo che non è un’imposizione dall’alto sulla loro libertà espressiva, ma è una consulenza utile per capire come parlare e scrivere in modo corretto – oggi usano normalmente il femminile. Invece da noi l’autorità dell’accademia non c’è, c’è quella del singor Uso, che però non è come si vuol far credere qualcosa di “democratico” che viene dal basso e dal popolo, è il signor Uso imposto al popolo dai giornalisti, dagli addetti ai lavori e in sintesi da una classe dirigente anglomane che sa solo ripetere e importare ciò che pesca dall’anglosfera.

La domanda da porci è allora semplice: poiché dei punti di riferimento per la coesione della lingua ci vogliono – o perlomeno ci vorrebbero – ha più senso che esista un ente riconosciuto da tutti e preposto a questa funzione o lasciare ogni decisione in balia dell’uso imposto da chi si trova nelle posizioni dirigenziali del potere e spesso nell’ignoranza dell’italiano? E se la politica investisse ufficialmente la Crusca di questo compito, le cose non potrebbero cambiare in meglio?

Il ruolo della Crusca

L’accademia della Crusca è seduta su una storia secolare in cui si poneva come prescrittiva, e nell’abbandonare questo presupposto ha posto le basi per il proprio suicidio. A cosa ci serve? Per studiare la lingua senza intervenire ci sono già le università, e ci sono anche altre istituzioni private di acclarata fama come la Treccani o la società Dante Alighieri che promuove la nostra lingua. La Crusca si inserisce tra queste senza essere né carne né pesce, perché la sua funzione non è quelle della accademie francesi e spagnole che fanno il loro lavoro di accademie normative. Soprattutto, l’intento dichiarato di rimanere sul piano descrittivo viene sbandierato nel caso degli anglicismi, nonostante Incipit vada in altra direzione, ma in altri ambiti i cruscanti e più in generale i linguisti non si fanno alcuno scrupolo a intervenire.

Un esempio tra i più bizzarri riguarda proprio la parola “anglicismo” comparsa per la prima volta nel Settecento nella rivista la Frusta letteraria di Baretti, che scherzosamente ipotizzava che si sarebbero presto visti anche gli anglicismi oltre ai dilaganti francesismi dell’epoca. In tempi recenti, Tullio De Mauro – credo per prendere in giro proprio i principali critici dell’anglicizzazione che per lungo tempo non considerava un problema – cominciò a far circolare la tesi che si dovesse invece dire “anglismo” e che “anglicismo” fosse a sua volta un’interferenza dell’inglese. Questa posizione non mi ha mai convinto, visto che il signor Uso tanto mitizzato ci aveva già consegnato una parola non solo stabilizzata, ma anche in linea con le analoghe voci dello spagnolo (anglicismo) e del francese (anglicisme). Eppure, anche se nel “Morbus Anglicus” Castellani si scagliava contro gli anglicismi, successivamente è accaduto che tutti insieme o quasi, gli accademici e i linguisti da un giorno all’altro si siano messi a parlare solo di anglismi, come se fosse un termine più preciso e tecnico. In realtà è semplicemente preferito, come un tratto socio-distintivo degli addetti ai lavori, mentre gli “anglicismi” sono diventati una sorta di voce popolare che ha una frequenza maggiore ma non viene mediamente impiegata dagli “esperti”. In questa innovazione nata contro il signor Uso, oltretutto, mentre i cruscanti parlano di “anglismi” continuano però a parlare di “anglicizzazione” invece che di “anglizzazione”, anche se per coerenza dovrebbero forse andare fino in fondo nel loro “revisionismo neologico” per incasinare ulteriormente le cose.

Un altro intervento di certi linguisti per cambiare l’uso, nato mi pare dalle posizioni soprattutto di Luca Serianni, è stato quello di mettere in discussione la “regola” di scrivere “sé stesso” con l’accento invece di “se stesso” che si era affermato nella scuola e nell’editoria del Novecento, una regola che – a torto o ragione – esisteva, ed era seguita da tutti gli editori come l’Einaudi (che continua a seguirla) e da tutti gli autori, come Calvino. Oggi la regola si è riscritta, e ancora una volta il cambiamento non arriva né dalle esigenze del popolo né dal basso, ma dalle riflessioni dall’alto di grammatici che quando vogliono non rinunciano affatto a voler essere prescrittivi. Questi esempi mostrano bene come si intervenga sul lessico anche nelle fasi consolidate più che incipienti, e mentre in nome del politicamente corretto – non a caso di matrice angloamericana – si è intervenuti sull’uso mettendo al bando parole come “negro”, mentre calcolatore è stato sostituito da computer, i negozi diventano store, il settore dell’alimentazione food… proprio la Crusca è intervenuta per regolamentare la femminilizzazione delle cariche nel modo più corretto, il che non è un male, è un bene, solo che lo si dovrebbe fare con le stesse modalità anche davanti all’inglese, invece di usare due pesi e due misure.

La polemica sul linguaggio anglicizzato della scuola

Chiarite queste premesse, torniamo ai nuovi comunicati di Incipit. Sull’insensatezza del passaggio dell’identità digitale dello spid a IT Wallet, invece che parlare di portafoglio digitale, mi sono già espresso. Quanto alla polemica con il linguaggio anglicizzato del piano scuola 4.0, non è la prima volta che Incipit interviene. Lo aveva fatto con il comunicato numero 6 del 2016 (“Termini aziendali nelle università”), e poi nel 2019 con la condanna della lingua del sillabo del Miur. Qualche giorno dopo partecipai a una trasmissione in radio sulla questione, insieme all’allora presidente Marazzini, all’accademico Sgroi e alla portavoce dell’allora ministra Fedeli. Davanti al minuetto in cui quest’ultima fingeva di prendere atto delle critiche, di non voler mettere in discussione l’italiano e di far credere che si trattasse di un episodio isolato, riuscii a farla stizzire, con le mie considerazioni, e dissi – ma lo ribadisco anche oggi – che l’itanglese delle scuole-aziende era una ben ponderata scelta che prepara volutamente al linguaggio del lavoro che è ormai l’itanglese.

Insomma, la battaglia della Crusca che rimane ferma ai singoli anglicismi è una battaglia persa, perché il problema non sta nelle singole parole – oggi il piano è strutturato in “step” chiamati Background, Framework o Roadmap – ma nella rinuncia all’italiano che sta a monte di ogni singolo caso. Il conflitto è qui, nello scontro tra due modelli linguistici che sono — come ogni volta che riaffiora la questione della lingua — l’epifenomeno di un cambio della classe dirigente che impone una nuova lingua (come Gramsci ci ha insegnato). E allora bisogna combattere questo porgetto di newlingua, l’itanglese, più che gli anglicismi, anche perché il numero di questi ultimi è tale che Incipit, per la seconda volta, ha rinunciato “a proporre sostituzioni di singoli termini, cosa impossibile in un comunicato come questo” e preferisce proporre di mettere “in circolazione una versione del Piano ‘tradotta’ per gli utenti comuni non specialisti, o, più semplicemente, si unisca al documento un glossario interpretativo autentico, in cui si fornisca una spiegazione univoca degli anglismi utilizzati, non solo per verificarne la necessità, l’uso appropriato e la coerenza, ma anche per renderne chiaro a tutti, operatori della scuola e cittadini, il reale contenuto del programma.”

Certe volte dal non detto emergono cose più interessanti che in ciò che viene esplicitato. E questa “rinuncia” mi pare che contenga elementi importanti proprio negli anfratti del silenzio. La parola “itanglese” non compare nemmeno una volta nel sito della Crusca, che nei suoi criteri rimasti alla distinzione dei prestiti di lusso e di necessità, sembra non accorgersi che l’interferenza dell’inglese esce dal concetto di “prestito” che si ostina a non abbandonare. L’itanglese, lo denuncio da anni, è invece una newlingua che nel suo scardinare le regole ortografiche e morfologiche dell’italiano storico ne spezza la continuità e la comprensibilità e si allarga nel nostro lessico con porzioni di inglese sempre più ampie, dai prestiti sintattici con inversione della collocazione (covid hospital, social media manager), agli pseudoanglicismi che mi pare riduttivo interpretare come “prestiti apparenti”, e si allarga attraverso la coniazione di parole ed espressioni ibride che non sono più né italiane né inglesi.

Invece di chiedersi: “Saranno davvero ‘prestiti di necessità’ tutti quelli introdotti nel Piano?” il gruppo Incipit dovrebbe prendere atto dell’inadeguatezza di questo approccio e affrontare le cose con un altro spirito. Già la domanda, seppur retorica, contiene la distruzione del criterio che pone. Se la distinzione tra prestito di necessità e di lusso possedesse un senso, una razionalità o un barlume di scientificità esisterebbero dei criteri non soggettivi per rispondersi da soli. O vogliamo entrare nelle diatribe sul sesso degli angeli per stabilre la presunta necessità di ogni anglicismo che nasce solo dalla volontà di abbandonare l’italiano?

E la rinuncia a “tradurre” un documento scritto in una newlingua fumosa a base inglese, che ricorda la neolingua di Orwell in cui si cancella il passato e si riscrive la storia, implica proprio che non abbiamo più a che fare con l’introduzione di qualche parola inglese, ma con una sorta di lingua creola che, come i volgari sorti ai tempi dello sfaldamento del latino, comincia a porre dei problemi di comprensibilità con la lingua madre. Al punto che è necessario tradurla o affiancarla dalla veterolingua per il popolino. Ma le nuove generazioni che si formano in questa newlingua non sono il popolino, sono la futura classe dirigente che parlerà la lingua che si insegna loro, la metterà in pratica e la trasmetterà.

Invece del gruppo Incipit, sarebbe ora di agire in modo sistematico e con ben altre prospettive. Qui serve un gruppo Explicit per la restituzione dei “prestiti”, per la disanglicizzazione dell’italiano e per la riappropriazione della nostra lingua schiacciata dall’inglese. Serve una rifondazione cruschista che restituisca questo ente allo spirito con cui è stato fondato, che gli dia lo stesso ruolo delle accademie francesi e spagnole, e che lo inserisca all’interno di una pianificazione linguistica che dovrebbe appartenere alla politica e coinvolgere la nostra intera società. Altrimenti l’italiano è spacciato.

L’imposizione (orwelliana) della newlingua e il mito della lingua che arriva dal basso

Di Antonio Zoppetti


Domenico mi scrive:
“Ho scoperto che c’è un nuovo mezzo di trasporto: il people mover, che io – nella mia ingenuità e nella mia arretratezza culturale e linguistica – ancora mi ostinavo a chiamare banalmente navetta, trenino, metropolitana leggera e che a Perugia, dove evidentemente sono obsoleti e ancora sono rimasti all’uso ‘volgare’ dell’italiano, chiamano minimetrò. E invece no: people mover hanno deciso altrove e people mover deve essere anche da noi, silenziosi e lobotomizzati pecoroni. Oramai lo chiamano così pure Wikipedia e, se non erro, il Dizionario Treccani; lo chiamano così gli aeroporti e i comuni di Venezia, di Bologna, di Pisa; lo chiamano così RFI e Trenitalia (vedi immagine), lo chiamano così i quotidiani locali… e dunque così sia.”

Intanto lo spid (Sistema Pubblico di Identità Digitale) sarà sostituito dal sistema It Wallet, in un passaggio dall’identità e dal portofoglio digitale agli stessi concetti espressi in inglese, proprio mentre a Milano il 2024 sarà l’anno del senso civico espresso attraverso un’iniziativa dal grande valore civico, così grande che si può esprimere solo nella lingua dei padroni: la Milano Civil Week che “farà parte delle Week milanesi”.

Mentre le settimane diventano week, il cibo food, i negozi store, l’economia economy, l‘ecologia green… (ad libitum sfumando) la nostra classe dirigente colonizzata si schiera dalla parte di questa newlingua orwelliana, che sembra concepita per distruggere l’italiano in una cancellazione del passato e in una riscrittura della storia.

Dalla novalingua di Orwell alla newlingua chiamata itanglese

In 1984 Orwell aveva immaginato l’imposizione della novalingua sulla veterolingua che seguiva esattamente questi schemi. E come gli adepti del Grande Fratello, i nuovi intellettuali decervellati della colonia Italia abbracciano e giustificano questo annientamento culturale. Invece di denunciare la glottofagia dell’inglese c’è chi la nega e ci spiega che l’anglicizzazione è tutta un’illusione ottica passeggera, mentre acutissimi linguisti e cruscanti accecati dall’idiozia dei prestiti di “lusso” e “necessità” ci raccontano che certi anglicismi sarebbero “necessari”, con un ragionamento che attraverso l’arte della manipolazione delle parole crea un apparato teorico per legittimarli.

Mentre c’è chi sostiene che la lingua non si possa controllare e nasca dal basso e può venire persino da un bambino, un’idea balzana che Gramsci aveva bollato come un “errore madornale, per superficialità”, basta analizzare gli anglicismi introdotti dalla politica degli ultimi trent’anni per rendersi conto di come stiano le cose.

Renzi ci ha regalato il jobs act, invece della riforma del lavoro (e dell’abolizione dell’articolo 18) che ha aperto la strada a chiamare le leggi act, e intanto le tasse – dopo che il drenaggio fiscale era già divenuto fiscal drag – diventano tax (flat tax, carbon tax, web tax, exit tax…). Di Maio ci ha regalato il navigator, Meloni ha diffuso underdog (che si affianca al sinonimo outsider), i leghisti hanno affermato la devolution e la deregulation, la destra il family day, e il movimento per la vita è diventato pro life. Tra progetti abominevoli per promuovere la nostra cultura che hanno sperperato i soldi pubblici — a sinistra e a destra — con costosissmi e controproducenti progetti chiamati volta in volta Very Bello, ITsART (grazie Franceschini!) o Open to meraviglia (grazie Santanché!), che si coincilano con la straordinaria idea dell ministero e del liceo del Made in Italy (grazie Meloni!), il presidente del consiglio è diventato premier, i segretari di partito sono leader che esercitano la loro leadership e premiership per mantenere l’establishment; l’austerità e l’autorità sono austerity e authority, in parlamento c’è il question time, ci sono solo la privacy e il welfare senza quasi alternative, si parla di moral suasion, il tetto di spesa è price cap, la lottizzazione è diventata spoils system, sono state introdotte e istituzionalizzate mostruosità come i caregiver, la voluntary disclosure, il whistleblowing, e i servizi segreti e di spionaggio sono oramai intelligence.

L’esempio più eclatante di questa newlingua che arriverebbe “dal basso” è lockdown, che nasce il 17 marzo 2020 dopo che il covid era arrivato in Italia e Conte aveva proclamato le zone rosse. Ma zona rossa evidentemente non è un “prestito di necessità”, almeno per gli anglofoni, e infatti i giornali angloamericani hanno raccontato il fenomeno con le loro parole – visto che non sono deficienti – e hanno dunque riferito del modello dell’italian lokdown. Il giorno dopo l’intero apparato informativo del nostro Paese — sulla cui deficienza non ci sono dubbi — ha buttato via le parole con cui aveva aperto le prime pagine sino a quel momento (tutto chiuso, città blindate, quarantena, blocco, coprifuoco, serrate…) per esprimersi in inglese: la parola è diventato IL tecnicismo unico: “Basterà una sola parola – si legge in 1984 – un solo significato rigidamente circoscritto (…), tutti i significati sussidiari saranno stati cancellati e dimenticati” perché in fondo la novalingua “non mira ad altro che a ridurre la gamma del pensiero” e la lingua unica è funzionale al pensiero unico.

Fuori dalla politica, anche tutti gli altri organi del Grande Fratello remano nella stessa direzione, dalle poste italiane che ci impongono i delivery alle Ferrovie dello Stato con i loro gate, ticketeless con obbligo di self check in per le tratte regionali, le aree kiss&ride, le tariffe premium e business… tutte parole che arrivano dal basso, evidentemente, come accade nel linguaggio del lavoro o dell’informatica.

I mezzi di informazione: il braccio armato del Grande fratello

E poi c’è la lingua dei giornali che ci educa all’inglese, e per vedere come stanno le cose basta analizzare come battezzano ciò che è nuovo e come rinominano la veterolingua: nell’immagine una serie di articoli che spiegano (dall’alto) cosa siano la Christmas Fatigue, lo smishing, il South working, lo Scrapbooking, la prova dello stub (ex guanto di paraffina), il contratto di work for equity, la Power Station, lo snowie, il phubbing (ma si potrebbe continuare all’infinito).

La lingua nasce dal basso? C’è un limite alle cazzate che si possono sparare, e molti linguisti l’hanno abbondantemente superato.
In un articolo delirante su Open che mi ha segnalato Paolo vengono introdotti e spiegati alcuni anglicismi presentati come fossero parole normali (Rizz, Almond mom, Vibes, Slay, Pick-me girl e Pick-me boy) e siccome chi non si aggiorna è un “boomer” l’autore del pezzo sostiene che sarebbero “entrate di diritto nel nostro vocabolario, e sono ormai universalmente comprensibili (pensiamo a «swag», per indicare ammirazione per lo stile di qualcuno).” Ma certo! Chi non usa swag, oggi come oggi? Chi non lo capisce? E infatti l’universale comprensibilità di queste idiozie richiede proprio la guida di Open “per non sentirsi persi in una piazza straniera.”

Ma ci rendiamo conto del livello di pezzi come questi? Io mi sento in una piazza straniera perché sono in una piazza straniera, vivo all’interno di una cultura coloniale che sta americanizzando ogni cosa, da un punto di vista sociale, politico, economico… e dunque linguistico. E mi vogliono raccontare che la lingua nasce dal basso?

Questo è esattamente il progetto del dizionario della novalinga di Orwell che punta a imporre (dall’alto) la newlingua coloniale. E gli attori (se non si deve ormai dire i player) che introducono, diffondono e giustificano gli anglicismi facendo contemporaneamente credere che la lingua nasca dal basso sono gli stessi che da decenni cambiano, sempre dall’alto, il naturale modo di parlare della gente in nome di una ventata riformista che proviene sempre dall’agloamericano. Con furore fondamentalista, in nome del politicamente corretto si sono messe al bando parole che oggi sono ormai impronunciabili. Da un giorno all’altro ci hanno spiegato che non si poteva più dire “negro” o “mongoloide” perché erano improvvisamente diventate espressioni razziste e bisognava sostituirle con “nero” e “down”, tra spazzini che diventavano operatori ecologici, disabili trasformati in diversamente abili, omosessuali che lasciavano il passo ai gay e via dicendo. L’ultima frontiera del revisionismo linguistico è che si deve convincere tutti a dire sindaca, ministra e la presidente, e guai a chi non si adegua: se “la” Meloni preferisce definirsi “il presidente”, se gli avvocati o notai donna preferiscono denominarsi attraverso il maschile generico vengono attaccate, e non rispettate, perché dietro l’imposizione della lingua dall’alto non c’è nulla di democratico e dal basso, ci sono le pressioni sociali di un nuovo sistema di potere che si vuole imporre a tutti. La nuova religione dell’inclusività non ammette dissidenti, tutti devono essere inclusi nel pensiero unico. E chi non è d’accordo viene tacciato di volta in volta di essere patriarcale (ultimamente pare che maschilismo perda terreno davanti alla nuova accezione di patriarcale), oppure di purismo o di fascismo nel caso di chi osa protestare contro l’anglicizzazione. Ma, al contrario, chi si oppone alla dittatura dell’inglese sta tentando di fare la resistenza, dal basso, anche se oggi una parola come “resistenza” si sostituisce con “resilienza”, a proposito di lingua imposta dall’alto.

Per la cronaca: non ho alcune intenzione di difendere né parole come “negro” o “mongoloide” né il maschile inclusivo. A dire il vero non me ne frega niente perché ritengo che non sia certo un’ipocrita riverniciatura lessicale a risolvere i ben altri concreti problemi della questione femminile, dell’emancipazione della donna o delle fasce sociali problematiche. Questa bislacca interpretazione che confonde cause ed effetti andrebbe semmai rovesciata, e se la parità dei sessi fosse realizzata, invece che postulata solo sulla carta, anche la questione linguistica perderebbe senso e si risolverebbe da sola.

Il punto è che l’attuale sistema di potere impone dall’alto la newlingua del politicamente corretto, dell’inclusività, dello scevà… e allo stesso tempo l’inglese. Davanti agli anglicismi si sostiene che non è possibile intervenire sulla lingua (naturalmente ciò vale solo per l’italietta, visto che in Francia Spagna e in molti altri Paesi non è affatto così), mentre sulle questioni legate all’inclusione o al politicamente corretto si entra a gamba tesa per spiegare agli italiani come devono parlare blaterando a vanvera che sono esigenze che nascono dal basso. E in questa schizofrenia intellettuale si adottano due pesi e due misure: introdurre e legittimare l’inglese sotto la bandiera del non interventismo linguistico, e praticare invece l’interventismo negli altri casi senza alcuna remora.

Se l’aeroporto diventa “airport”: la sentenza che in Francia ha condannato l’anglomania

Di Antonio Zoppetti

Un corrispondente dalla Francia da sempre impegnato contro l’anglomania, l’attivissimo Daniel De Poli, mi ha segnalato una notizia che voglio divulgare, visto che i mezzi di informazione difficilmente la racconteranno.

Tutto ha avuto inizio nel 2015, quando l’aeroporto di Metz-Nancy-Lorraine (la cui denominazione ufficiale francese era “aeroport de Metz-Nancy-Lorraine”) ha deciso di anglicizzare quel nome trasformandolo in “Lorraine Airport”, che oltre all’anglicismo ha introdotto anche l’inversione sintattica tipica dell’inglese. La motivazione era la solita, tutto era stato fatto in nome di una presunta “internalizzazione” che presuppone e dà per scontato – senza alcun fondamento – che la lingua internazionale sia l’inglese.

È una posizione che ben conosciamo in Italia, è la stessa logica con cui alcune università – dal Politecnico di Milano all’Università Bocconi – vogliono estromettere l’italiano e insegnare solo in inglese.

Questo disegno viene messo in opera in modo surrettizio, ma sistematico, attraverso piccoli passi apparentemente insignificanti, per esempio le carte d’identità concepite in modo bilingue (lingua nazionale + inglese) anche se l‘inglese non è affatto la lingua dell’Europa, soprattutto dopo l’uscita del Regno Unito.
In nome di questa ideologia linguicista le nostre istituzioni hanno deciso che i progetti di ricerca (dai Fondi per la scienza, i FIS, a quelli culturali, i Prin) debbano essere presentati obbligatoriamente in lingua inglese anche se si tratta di ricerche che riguardano materie italiane, con la paradossale conseguenza che per ottenere un finanziamento “italiano” di ricerca su Dante Alighieri bisogna presentarlo in inglese. Questa dittatura dell’inglese ci è stata imposta in modo ancora più pesante con la riforma Madia dei concorsi della Pubblica Amministrazione: il requisito di conoscere una “seconda lingua” è stato sostituito con la parolina magica “inglese”, che è diventato così un obbligo e un requisito indispensabile indipendentemente dai ruoli e dal fatto che la conoscenza di questa lingua sia davvero necessaria.

Naturalmente far coincidere “internazionale” e “inglese” è una voluta confusione che deriva da un progetto e da una visione politica che punta ad affermare e a imporre a tutti la lingua naturale dei popoli dominanti. In Italia siamo in prima linea nel sostenere e nel diffondere questa visione che fa dell’inglese una lingua superiore, ma in Francia le cose vanno diversamente, e davanti al cambio di nome dell’aeroporto sono divampate da subito le polemiche.

E così, l’associazione per la difesa della lingua Francophonie Avenir, dopo aver chiesto invano alla struttura di rinunciare all’inglese, ha intrapreso la via giudiziaria, visto che in Francia esistono delle ottime leggi a tutela della lingua. E dopo otto anni di battaglie, finalmente il 14 dicembre scorso è arrivata la sentenza che ha sancito la vittoria dell’Associazione: l’aeroporto è stato condannato a ripristinare il vecchio nome francofono e a riutilizzarlo nella denominazione ufficiale, su tutti i documenti, i cartelli e la segnaletica, la pubblicità, la documentazione cartacea e virtuale. Inoltre dovrà pagare le spese processuali, un risarcimento nei confronti dell’associazione e una multa simbolica di un euro per aver violato le leggi francesi (per chi è interessato, ecco il collegamento alla sintesi della vicenda dell’A.FRA.AV e il verbale della sentenza).

In Italia, invece, dove la compagnia di bandiera Alitalia è stata sostituita da ITA Airways, non esistono leggi in proposito, non esistono punti di riferimento e associazioni, e persino la Crusca – al contrario delle accademie di Francia e Spagna – ha un approccio descrittivo verso la lingua e ha rinunciato a essere prescrittiva. Dunque, come ho già denunciato in un altro articolo, di recente è accaduto che, per opera dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Meridionale, sia iniziato il processo di anglificazione dei porti pugliesi con la dicitura Port of Manfredonia, Port of Monopoli, Port of Barletta

Nella speranza che nel 2024 il vento possa cambiare anche da noi, auguro a tutti buone feste con la consueta raccomandazione di evitare, per piacere, la stucchevole consuetudine di inviare stupidi auguri di buon Natale e buon anno in inglese, con la scusa di essere internazionali.

Selfie, Gaza City e caring nurse: il trapianto linguistico

Di Antonio Zoppetti

Il coro dei giornalisti anglomani del copia e incolla colpisce ancora. Le vecchie macchinette per le fototessere, quelle che da decenni si trovano nelle stazioni della metropolitana, sono diventate le “antenate del selfie” che si rifanno il “look” in un “restyling” di Pininfarina.

Come al solito, la notizia viene data in una lingua che definirei itanglese più che italiano, ma quello che colpisce è che gli anglicismi in questo caso non sono introdotti per descrivere qualcosa di nuovo, ma per riscrivere la storia attraverso i nuovi concetti inglesi (la cancellazione del passato attraverso la Novalingua come in 1984 di Orwell).

Selfie, autoscatto, autoritratto e fotografia

Il trapianto di “selfie” nell’italiano è significativo per comprendere lo stato delle cose. Quando la parola si è diffusa, vari linguisti si sono preoccupati di etichettarla attraverso le categorie dei prestiti di lusso e di necessità che vivono solo nella loro testa e sono un’offesa all’intelligenza. L’inutile diatriba ruotava intorno alla corrispondenza con “autoscatto”, e i giustificazionisti anglomani hanno aperto le danze con la consueta tiritera che aveva lo scopo di dimostrare che selfie non sarebbe proprio come autoscatto.

Per la cronaca: l’origine di “autoscatto” è nello scatto “automatico” – proprio come nelle macchinette – ma poiché il prefisso “auto” indica anche qualcosa che si fa da soli (come nell’autodeterminazione) la parola si è presto acclimatata per indicare gli autoritratti fotografici, indipendentemente dal fatto che fossero automatici o meno (per esempio un autoscatto allo specchio). È esattamente come in inglese, dove “self” indica il fare da soli. I non-è-propristi che volevano bollare l’anglicismo come una novità “necessaria”, però, si sono da subito prodigati per differenziare il significato, per cui hanno cominciato a circolare le storielle più assurde, per esempio che “selfie” indicherebbe un preciso gesto innovativo (non importa che il medesimo gesto si facesse anche con la macchina fotografica a pellicola prima dei nuovi cellulari multimediali, e personalmente ho vari autoscatti di gruppo fatti a quel modo, stampati, che risalgono agli anni ’90. Il problema è che erano scatti “al buio”, non si vedeva ciò che si inquadrava, e questa è forse l’unica differenza).

Una delle più imbarazzanti presunte differenze in cui mi è capitato di imbattermi era la baggianata per cui il selfie indicherebbe una foto allo stesso tempo fatta con lo “smartphone” e condivisa sui “social”, una definizione fantasiosa che implicherebbe dunque che un autoscatto non condiviso in Rete rimanga una semplice foto, senza assurgere allo stato di “selfie”, a quanto pare. Queste arrampicate sugli specchi nulla avevano a che fare con l’etimo della parola inglese, perché l’obiettivo era di costruire un nuovo significato e di affermarlo, con un ragionamento circolare che invece di “dimostrare” una diversa accezione la presupponeva. Mentre c’era chi si indignava contro il Devoto Oli che registrava la perfetta corrispondenza con autoscatto, sui giornali selfie era tranquillamente usato come sinonimia non solo di autoscatto e di autoritratto ma spesso anche di semplice “fotografia”. E così Mussolini si faceva i selfie tra la folla proprio come i politici attuali (in una cancellazione del passato e riscrittura della storia con termini anglofoni), e in un articolo recente si può vedere un “selfie” di Zaia che è una semplice foto di gruppo (con cavallo). E il fatto che oggi le macchinette delle fotografie diventino le antenate dei selfie la dice lunga sulle panzane del gesto intraducibile o di altri presunti requisiti.

Che cosa si “presta” in un caso come questo? Un bel niente dal punto di vista del significato, questi prestiti sono solo il trapianto del significante, più che del significato, cioè del suono e della forma grafica basata sull’inglese che soppianta non solo le nostre parole, ma anche le nostre regole.

Gaza City, Albania First, caring nurse: che razza di prestiti sarebbero?

In questi terribili giorni di guerre, sui giornali rimbalza sempre più spesso l’espressione inglese Gaza City (con inversione sintattica) al posto di città di Gaza, un fenomeno in atto già da tempo, come mostra il grafico di Google che però è fermo al 2019.

Mi piacerebbe sapere che razza di prestito sia, secondo i linguisti accecati dai loro schemini ottocenteschi. Gaza City non è un “prestito”, i palestinesi non chiamano così quel che resta della città, e l’espressione è solo il risultato dell’anglicizzazione del mondo attraverso la nomenclatura della toponomastica americana, la stessa follia per cui la Cisgiordania diventa West Bank.

La settimana scorsa, mentre divampavano le polemiche sui centri di accoglienza da esternalizzare in Albania, vari giornali hanno riportato la notizia delle proteste locali attraverso il motto “Albania first”, e ho pensato che anche in quel Paese dilagasse l’anglomania. Invece, l’espressione inglese era una bufala, gli albanesi hanno protestato nella propria lingua, al contrario di noi che abbiamo tradotto tutto in itanglese, al posto dell’italiano. Casi come questi mostrano bene come l’interferenza dell’inglese non sia affatto esplicabile con la teoria dei “prestiti”. “Albania first” non è un prestito lessicale, è l’espressione di una lingua ibrida che si stacca sia dall’italiano sia dall’inglese e si afferma come qualcosa di nuovo.

Lo stesso si può dire del caring nurse che sta circolando sui giornali e nasce dalla nomenclatura dell’ospedale milanese di Niguarda. Davanti alla sanità che il nostro governo sta mandando in malora (anche questi tagli, insieme alle privatizzazioni, seguono il modello americano) il malcontento e la disperazione negli ospedali producono spesso liti e persino aggressioni al personale medico che non è più in grado di gestire le emergenze, oltre agli interventi programmati. La soluzione del “caring nurse”, però, non mi pare appartenga all’inglese, e mi sembra più una ricostruzione italiana a partire da radici inglesi che segue gli stessi meccanismi dello “smart working” che non è affatto in uso tra gli anglofoni. Ma allora che prestito è? Cosa si prende in prestito, in casi come questi, se non lo spirito di Nando Mericoni-Alberto Sordi di Un americano a Roma?

Da giovane ho lavorato per dieci anni come volontario in ambulanza, e il problema dell’accoglienza infermieristica era all’epoca connessa ai diritti del malato, e a nessuno era mai venuto in mente di chiamarla in inglese, negli anni Novanta. Oggi, invece, i nuovi medici che si formano nelle università dove si vorrebbe insegnare direttamente in inglese pensano in inglese e la loro terminologia è quella. Dunque si appoggiano alle radici inglesi anche quando si sforzano di coniare nuove parole che però non sono più italiane.

Se un tempo con “nurse” si indicava una baby sitter (tata o governante), oggi la parola si usa anche per indicare un infermiere, visto che ci sono le nursery (reparti neonatali), e chissà, forse presto anche gli infermieri diventeranno ufficialmente nursing operator. Quanto a “care”, anche se non è registrata come voce autonoma nei nostri dizionari, ha già prodotto una miriade di locuzioni che forse si potrebbero definire “care based”, per essere moderni, a partire dal caregiver (ennesima italianata che non corrisponde al significato inglese), per proseguire con lo skincare (dermocosmesi o cura della pelle), i care leaver (apparsi nella legge di bilancio 2017 per indicare i giovani fuori famiglia), e poi il customer care (assistenza clienti), l’home care (assistenza domiciliare), i day care (centri di assistenza diurni) e via dicendo. Dal care al caring il passo è breve… e davanti a tutto ciò sarebbe ora di buttare via i ridicoli schemini astratti dei prestiti, come se fossero entità isolate, per ragionare in modo un po’ più serio sull’interferenza dell’inglese.

L’insensatezza del “prestito” di fronte all’interferenza dell’inglese

I prestiti non si restituiscono, purtroppo, e la lingua che li presta non si priva di queste parole (come aveva osservato Gian Luigi Beccaria). Non si capisce nemmeno se siamo noi che prendiamo in prestito dall’inglese per nostra volontà o se sono le multinazionali americane che ci prestano a forza i loro termini imposti attraverso i titoli dei film non tradotti, le interfacce informatiche tradotte male e parzialmente, i termini intoccabili della giurisprudenza americana, i nomi dei prodotti che ci vendono…

La verità è che l’espansione dell’inglese globale inonda il mondo di parole inglesi con un procedimento che segue lo schema della “panspermia”. Migliaia e migliaia di anglicismi sono esportati di continuo sia per le pressioni esterne del globalese, sia per quelle interne degli anglomani emulatori. La maggior parte di queste parole sono usa e getta, rappresentano occorrenze uniche o sporadiche, ma alcune attecchiscono e piantano le loro radici. Anche tra queste c’è un’alta “mortalità”, e la maggior parte di questi germogli finisce per estinguersi, dopo un breve periodo, mentre una piccola parte – piccola in confronto al fenomeno della panseprmia, ma enorme dal punto di vista del vocabolario – si stabilizza in un trapianto che in molti casi produce intere famiglie di anglicismi che si ramificano, si allargano nel nostro lessico e si ricombinano tra loro, come accade con le radici prolifiche “care”, “smart”, “baby”, “over”, “day”, “act”…

Nel ricombinarsi, spesso travalicano l’ambito dell’inglese – dunque non sono prestiti, ma trapianti che assumono nuove accezioni e nuovi significati – e in questo radicarsi che fa saltare le regole ortografiche, fonologiche e morfologiche dell’italiano (e anche sintattiche, vista l’inversione di espressioni come Gaza City) spuntano le parole ibride, che non sono più né italiane né inglesi, ma sono appunto il fulcro di una newlingua che si può chiamare itanglese. La quantità delle parole ibride è enorme, e la dimensione di questo fenomeno è senza precedenti nella storia dell’interferenza delle altre lingue. Gli ibridi con il francese, per esempio, si contano sulle dita di una mano (foularino, moquettista o voyeurismo), mentre sono praticamente assenti gli ibridi a base spagnola, tedesca, giapponese e di ogni altra lingua. I collaborazionisti della dittatura dell’inglese che si operano per per giustificarne l’opportunità, invece di comprendere che le ibridazioni rappresentano lo sfaldamento dell’italiano storico le salutano ipocritamente come “un esempio di vitalità della lingua, che in questo modo mostra reattività e capacità di integrare elementi estranei nel proprio sistema”. Al contrario, è il nostro sistema privo di reattività che viene schiacciato e frantumato da quello inglese, e infatti la newlingua che ne risulta non è “italiano”, visto che è fuori dalla nostra grammatica. I linguisti “descrittivisti” che considerano “italiano” ciò che non lo è affatto dovrebbero spiegare cosa sia l’italiano, per loro. Perché se l’italiano è il risultato dei trapianti linguistici in uso, si può fare a meno di questi linguisti che non si distinguono da un programma di intelligenza artificiale; sarebbe molto più proficuo sostituirli con un algoritmo che, basandosi solo sulla frequenza, decreta come “italiane” anche le parole non lo sono affatto, dal punto di vista strutturale. Il nucleo di ogni controversia sta in questo passaggio che vuole ridefinire l’italiano: non è più la lingua dove il sì suona, non è più la sonorità che ha reso la nostra lingua una delle più ammirate del mondo. Semplificando la questione, la parola premierato (derivata dall’inglese premier con cui sostituiamo il presidente del consiglio) è italiana – perché non viola la nostra identità linguistica – ma lo stesso non vale per premiership, che mantiene la sua struttura inglese. Lo stesso vale per care, che non è non è più il femminile plurale di caro, ma è cura, da pronunciare all’inglese. E se parole come “chattare”, “computer”, “mouse” sono improvvisamente dichiarate “italiane”, per coerenza si dovrebbero riscrivere tutti i libri di grammatica. Eppure, questi “linguisti” che hanno buttato nel cesso la definizione di “italiano” fanno finta di non capirlo, e danno persino del “purista” a chi fa loro notare l’abissale differenza tra italiano, inglese e itanglese. Invece di mistificare e confondere volutamente le cose, gli anglomani dovrebbero studiare un po’ di più la storia: il purismo non c’entra nulla. I puristi non accettavano le parole di origine straniera anche se italianizzate, e le respingevano insieme alle voci dialettali, ai tecnicismi e ai neologismi non usati dagli autori classici. Proprio gli avversari storici del purismo come Machiavelli, Muratori, Verri, Cesarotti o Leopardi – quest’ultimo spesso citato a vanvera, in modo volutamente parziale e ingannevole – avevano capito una cosa molto semplice: l’accoglimento delle parole straniere è sano e normale, ma se non passa per l’italianizzazione e l’integrazione con il tessuto linguistico che le ospita non produce un’evoluzione, ma un’involuzione che corrompe e distrugge le lingue. E questo non era affatto “purismo”, era buon senso. Tutto il resto è fuffa.

Infowar: la guerra dell’informazione e della lingua

Di Antonio Zoppetti

Era il 1274 a.C. quando, sulle rive del fiume Oronte che scorre tra Siria e Libano, si consumò la grande battaglia di Kadesh, che rappresentò il culmine di una lunga guerra tra due superpotenze del Medio Oriente di allora, gli Ittiti e gli Egizi.

Chi vinse?
Non è chiaro, perché entrambi i contendenti dichiararono gli antagonisti come sconfitti, e anche se un poema che celebrava quello scontro come la schiacciante vittoria di Ramses II fu scolpito in ogni parte del Regno al punto da oscurare ogni altra versione, è più probabile che furono gli Ittiti ad avere la meglio.

Guerra, propaganda e informazione sono da sempre intrecciate in maniera inscindibile, e persino nel fratricidio può accadere che la guerra della comunicazione porti a giudizi antitetici, per cui l’uccisione di Abele da parte di Caino è diventata il simbolo del male, mentre quella di Remo da parte di Romolo è stata presentata come un atto di “giustizia” alla base del mito della fondazione di Roma.

Oggi, mentre non lontano dall’antica Kadesh si sta consumando un genocidio spaventoso, l’informazione, la propaganda, il giustificazionismo di chi si schiera da una parte o dall’altra viene chiamato infowar, l’ennesimo anglicismo spacciato per una novità che serve per riconcettualizzare l’acqua calda nella lingua inglese.

E pensare che la nascita della lingua italiana è strettamente connessa proprio alla guerra di propaganda e comunicazione, visto che la lirica siciliana, in volgare, è nata alla corte di Federico II per motivi politici, in un contesto di guerre.

Esistono anche altri precedenti letterari, piuttosto frammentari, di composizioni in volgare, ma non ebbero lo stesso successo e la stessa diffusione, a partire dal Cantico di San Francesco, che passò inosservato; era forse considerato un canto religioso e una preghiera, fu ignorato da Dante e da tutti i poeti successivi e persino nella Storia della letteratura ottocentesca di Francesco de Sanctis non era menzionato. La scuola poetica siciliana, al contrario, divenne un genere di successo e si può considerare il primo atto di una politica linguistica che promuoveva il volgare, insieme ai temi poetici. Qualche tempo fa ho ricostruito questa storia in un articolo, per chi fosse interessato ad approfondire, ma la sintesi è che Federico II, divenuto imperatore del Sacro Romano Impero, tentò una restaurazione illuminata del sistema feudale contro i Comuni che se ne volevano slegare, e allo stesso tempo prese le distanze anche dalla Chiesa. La poesia siciliana in un proto-italiano locale, ma allo stesso tempo “illustre”, e cioè in grado di arrivare a tutti gli italiani, non era una scelta “innocente” né casuale. Dietro quelle liriche c’era la volontà di affermare una nuova lingua che rompeva sia con il latino ecclesiastico sia con la poesia provenzale in voga nei comuni del Nord. Questi a loro volta si costituirono in una seconda Lega lombarda, dopo la prima contro il Barbarossa, in guerra contro Federico II. Le poesie in provenzale e siciliano non trattavano solo di temi amorosi, ma anche di vicende politiche, e l’affermazione della lirica siciliana si può leggere proprio come un atto di propaganda che, dietro le canzoni, pubblicizzava lo splendore del progetto federiciano. Fu questa scuola che fu poi imitata da i primi prosatori emiliani e toscani e poi da Dante, che la continuarono nei rispettivi volgari.

Oggi, i nuovi intellettuali e giornalisti con le fette di salame sugli occhi si svegliano all’improvviso e credono che la guerra di informazione sia qualcosa di moderno o di nuovo, e in questa miopia culturale e cerebrale si affannano a spiegare questo fenomeno attraverso la parola infowar. Questo “nuovo” e strabiliante concetto è emerso negli anni Novanta, ai tempi dei conflitti in Bosnia ed Erzegovina, e poi durante la guerra in Iraq, e rispunta sui giornali a ogni conflitto, dall’Ucraina a Gaza.

Intanto, mentre il concetto di infowar è di solito attribuito al “nemico” e ai “cattivi”, i nostri giornalisti e analisti credono invece di essere i portatori dell’”oggettività” dei valori occidentali, visto che sono schierati preventivamente dalla parte degli “americani” e utilizzano le loro categorie concettuali e la loro lingua in modo acritico. E infatti nella guerra dell’informazione abbiamo visto come sono stati raccontati gli eventi in Iraq, un Paese distrutto dopo aver sbandierato prove false secondo le quali Saddam Hussein sarebbe stato in possesso di inesistenti armi di distruzione di massa. In tv si vedevano più che altro le immagini dei bombardamenti “chirurgici”, non si vedevano le mamme irachene piangere i bambini morti e le case distrutte come nel caso della guerra in Ucraina, in modo da non mettere in risalto che quella guerra ha comportato la morte di circa 200.000 civili.

Sullo sfondo di queste tragedie umanitarie, nell’informazione di guerra e nella guerra dell’informazione in cui siamo parte in causa, ognuno racconta e mistifica come ai tempi di Egizi e Ittiti.

La novità sta semmai nello sterminio lessicale, che rimane un crimine intellettuale, anche se paragonarlo allo sterminio dei civili è a dir poco irrispettoso.

Comunque, mentre la propaganda di guerra è infowar, le mistificazioni sono diventate fake news (visto che le notizie sono diventate news), i carri armati sono diventati tank, la Cisgiordania è ormai affiancata dal nome inglese di West Bank, la città di Gaza è Gaza City – come fosse una tipica espressione della lingua palestinese – i bombardamenti e le incursioni sono raid… e accanto alla guerra vera si consuma quella per l’imposizione della lingua inglese che si vuole far diventare la lingua internazionale dell’umanità, ma che – come ai tempi di Federico II – non è una scelta innocente, è una ben precisa scelta politica dagli effetti collaterali devastanti: giorno dopo giorno le parole italiane sono affiancate e sempre più spesso sostituite da quelle inglesi, in sempre più ambiti, con una frequenza sempre maggiore.

La formazione in inglese e itanglese della nuova cultura coloniale

Di Antonio Zoppetti

La settimana scorsa l’università (privata) Bocconi di Milano ha inaugurato il nuovo anno accademico con una cerimonia iniziata con il benvenuto in italiano e proseguita con gli interventi in inglese (qui il video). La novità annunciata dal rettore Francesco Billari è che “dalle 32 classi in inglese sulle 53 totali il prossimo anno accademico passeremo ad averne 40 su 54”, e dal 2026 – poiché il nostro “sistema scolastico è troppo vecchio e ancorato a un mondo che non esiste più” – su dieci corsi erogati solo 3 saranno in italiano, mentre gli altri saranno in lingua inglese, una scelta “didattica” che rappresenta il 73% del totale dei corsi.

Con un’imbarazzante propaganda mistificatoria, questa decisione è stata associata al fatto che in Italia i giovani laureati sono meno del 30%, mentre in Francia e Spagna la percentuale è del 50%, arriva al 70% nel caso della Corea del Sud, e noi siamo nel fanalino di coda insieme a Paesi “inferiori” come il Messico e il Costarica.

Cosa c’entrano queste percentuali con la didattica in inglese?
Nulla, ovviamente. Giorgio Cantoni, in un pezzo su Italofonia.info è andato a vedere queste realtà universitarie straniere virtuose e ha constato che i corsi sono sostanzialmente ognuno nella propria lingua madre, e solo talvolta affiancati anche da quelli in inglese, che però si contano sulle dita di una mano.

Mentre il rettore bocconiano le spara a ruota libera e mette in correlazione i disoccupati che hanno smesso di studiare e di cercare lavoro (definiti Neet) con una situazione “figlia di una scuola ancien régime” che ha bisogno di un cambio di rotta prima che sia troppo tardi, questo rinnovamento basato sull’anglificazioen rischia al contrario di allontanare gli studenti. Ma l’obiettivo di simili decisioni è quello di creare una scuola elitaria e di serie A – nella lingua superiore di serie A – relegando l’italiano alla cultura popolare. E nonostante le citazioni dell’ancien régime bollato come retrogrado dalla Rivoluzione francese, il passaggio al new regime in lingua inglese non è affatto un processo rivoluzionario, appartiene invece alla logica delle scuole coloniali imposte in Africa che ha denunciato Ngugi wa Thiong’o, è il ripristino della diglossia neomedievale denunciato dal linguista tedesco Jurgen Trabant, quando la lingua dei dotti era il latino e il volgare apparteneva al popolino o al massimo alla poesia; con la differenza che il latino medievale non era la lingua madre di nessuno, era un lingua di cultura che metteva tutti sullo stesso livello, mentre l’inglese è la lingua naturale dei popoli dominanti che la impongono a tutti in modo coloniale sguazzando negli incalcolabili vantaggi che questo comporta. E da bravi collaborazionisti, in Italia, lavoriamo per la cancellazione della nostra lingua. Mentre i Paesi che hanno da tempo operato queste soluzioni, dalla Svezia all’Olanda, stanno facendo marcia indietro perché si sono accorti che l’inglese universitario si trasforma in un processo sottrattivo, e non aggiuntivo, che porta alla perdita della terminologia locale e alla semplificazione concettuale-argomentativa in un condizionamento che conduce a pensare in inglese, da noi questa follia è invece presentata come moderna e internazionale. Nessuno sembra porsi il problema delle conseguenze e del fatto che l’inglese non è un modo equo di risolvere i problemi della comunicazione, ma un pericoloso sistema di evangelizzazione. Dopo i primi segnali che ormai molti anni fa hanno riguardato l’università pubblica (dal politecnico di Torino a quello di Milano), e anche dopo anni di battaglie legali, sulla carta è stata riconosciuta la “primazia” della formazione universitaria in italiano, secondo un principio di proporzionalità che però non è stato definito, ma lasciato alla discrezione dei giudici, con il risultato che decisioni come quella della Bocconi e di altri atenei pubblici hanno il via libera nella cancellazione dell’italiano. Una strategia che non viene chiamata cultura della cancellazione, come si dovrebbe chiamare, ma viene al contrario venduta come vincente, moderna e ineluttabile.

Sinergy Grant e Academy di alta specializzazione tecnologica

Il 27 ottobre, sul sito dell’Università di Napoli Federico II, si leggeva che l’ateneo ha vinto il Primo Sinergy Grant con queste parole: “È il primo Synergy Grant per l’Università degli Studi di Napoli Federico II quello assegnato da l’European Research Council per EndoTheranostics – Multi-sensor Eversion Robot Towards Intelligent Endoscopic Diagnosis and Therapy a Bruno Siciliano, ordinario di automatica e robotica al Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione, coordinatore del PRISMA Lab, e già assegnatario di un Advanced Grant nel 2013, in collaborazione con il Consorzio CREATE.”

Questo testo in itanglese ben fotografa l’attuale situazione dell’italiano dell’università e della ricerca. Andando a spulciare il bando per partecipare ai “sinergy grant” dell’Unione Europea – disponibile in lingua inglese, of course – si legge che “la domanda può essere presentata in qualsiasi lingua ufficiale dell’UE. Tuttavia, per ragioni di efficienza, l’uso dell’inglese o la traduzione in inglese è fortemente consigliato”, al punto che in un’altra clausola si legge che l’ente si riserva il diritto di effettuare “traduzioni automatiche delle domande presentate in lingue diverse dall’inglese ai fini della valutazione.”

Certo, è sempre meglio dell’obbligo di presentare le domande solo in lingua inglese, come nel caso dei Progetti di ricerca di rilevanza nazionale e dei fondi italiani della scienza (i Prin e il Fis) sanciti dalle istituzioni italiane, ma ancora una volta emerge tutta l’ipocrisia del plurilingusimo sulla carta: chi mai presenterà in un’altra lingua un progetto che deve essere giudicato da chi consiglia fortemente l’inglese e in caso contrario minaccia di avvalersi di traduzione automatiche?

Mentre l’inglese diventa così un obbligo, talvolta dichiarato apertamente, talvolta mascherato da una prassi che di fatto esclude ogni altra lingua, l’istituzionalizzazione dell’inglese è affiancata da un altro preoccupante fenomeno: anche quando si ricorre all’italiano, di fatto è un ibrido a base inglese che non si può che definire “itanglese”, la newlingua che nasce dagli effetti collaterali dell’anglificazione della scuola, del lavoro e di sempre più ambiti.

La formazione, insomma, se non viene effettuata direttamente in inglese si può avvalere dell’itanglese. Tra gli infiniti esempi che si possono fare, ma sono davvero troppi, riporto un caso (che mi ha segnalato Domenico) di un istituto tecnico superiore della regione Puglia – dove “Gli Istituti Tecnici Superiori (ITS) sono Academy di alta specializzazione tecnologica istituite dal Ministero dell’Istruzione” – che eroga i seguenti corsi in “italiano”:

“Sales management & marketing nella crocieristica” (Taranto)
“Sustainable and Experiential Wine tourism management” (Brindisi)
“International Hospitality and Tourism Management 4.0” (Bari)
“Food management e sostenibilità nella ristorazione 4.0” (Lecce)
“Management della comunicazione digitale per il turismo e la cultura” (Lecce)
“Hospitality Management Innovation” (Lecce)
“Deep & Digital Tourism Innovation” (Gravina in Puglia)
“Food and Beverage Management” (Trani)
“Adventure and Green Tourism Hospitality Management” (Ugento)
“Sustainable Management for luxury tourism experience” (Fasano)
“Outdoor Tourism and Sport Event Management” (Bari)
“Management e Organizzazione dei Servizi Turistici” (Manduria)
“Management dell’alta ristorazione” (Conversano)
“Yachting and Tourism Services Management”  (Brindisi)

ad libitum sfumando.


Parola d’ordine: educare all’inglese e cancellare l’italiano

Ne è passata di water sotto i bridge da quando, dopo l’avvenuta unificazione dell’Italia il governo varò la prima riforma della scuola unitaria (la legge Coppino del 1877) che istituiva l’obbligo scolastico per i bambini e l’insegnamento dell’italiano. L’unificazione linguistica è avvenuta in seguito proprio grazie alla scuola, oltre alla stampa, alla radio, alla televisione… ma oggi questi stessi centri di irradiazione della lingua educano e impongono l’inglese e l’itanglese.

E così la RCS Academy per formare i “comunicatori del cibo” lancia, insieme alla rivista Cook, un master full time per il Food&Wine basato sui nuovi strumenti di comunicazione di marketing, social e digital.

E quale sarà mai la lingua dei comunicatori che si formano a questo modo se non l’itanglese? La stessa della manifestazione milanese dedicata al vino che però si chiama Milano Wine Week.

La stessa a cui ci educano sia le istituzioni sia le realtà private. Sabato sono andato in un grande magazzino, l’Upim (acronimo di Unico Prezzo Italiano Milano), ma forse oggi non si dice più così e bisogna dire store, visto che la cartellonistica promuoveva in inglese gli sconti di fine stagione diventati Mid Season Sale. Sembra di vivere in Paese occupato e colonizzato, dove per rivolgersi ai cittadini ci sono principalmente l’inglese e l’itanglese.

Alla stazione centrale di Milano non ci sono gli ingressi e le porte, ma ci sono solo i Gate, mentre le insegne dei negozi che vendono il prodotto italiano (arcaismo per Made in Italy) si chiamano di volta in volta italian bakery, italian hair style e via dicendo. E grazie forse agli studenti formati dalla RCS Academy, tra Ice Wine e Wine Bar, la cosa più “italiana” dell’immagine qui a fianco è un divieto di sosta, che forse sarebbe ora di rinominare in no parking, nel passaggio dall’ancien régime al new regime, cioè alla dittatura dell’inglese che piace tanto al rettore della Bocconi.

L’itanglese e la conoscenza di italiano e inglese

Di Antonio Zoppetti

Circola con un certo successo l’idea per cui ad abusare degli anglicismi siano soprattutto coloro che l’inglese non lo sanno, mentre chi lo conosce bene non avrebbe bisogno di ostentarlo e non mescolerebbe le due lingue a sproposito. Questa percezione che sembra descrivere la macchietta di Alberto Sordi in Un americano a Roma, però, non ha un gran fondamento, fuori dalle caricature, ed è anche molto funzionale alla visione che punta a istituzionalizzare l’inglese come la lingua internazionale e dell’Europa, facendolo diventare un requisito di base per tutti e dunque un obbligo, invece di una scelta. La conseguenza strisciante di questo presupposto è che lo studio dell’inglese salverebbe addirittura l’italiano, ma in realtà le cose non vanno affatto a questo modo.

L’angloamericano è una lingua che nel suo espandersi entra in conflitto con le lingue locali e sul piano internazionale rende le altre lingue di serie B, con il rischio di farle divenire i dialetti di un mondo che parla inglese; sul piano interno, invece, produce uno “tsunami anglicus” globale che in molti casi anglicizza gli altri idiomi sino a snaturarli. La rottura degli ecosistemi linguistici locali dà vita a ibridazioni chiamate di volta in volta itanglese, franglais, Denglisch e così via.

Naturalmente questo effetto glottofago e vampiresco non è connaturato all’essenza dell’inglese, è la conseguenza dell’imperialismo linguistico che vuole imporre a tutto il globo la lingua naturale dei popoli dominanti.

Per rendersi conto che l’itanglese non è affatto inversamente proporzionale alla conoscenza dell’inglese basta sentire in televisione i corrispondenti d’oltreoceano che introducono anglicismi ostentati con pronuncia marcatamente americana, aggiungendo magari un bel “come si dice in inglese” e sottintendendo che non è proprio come l’equivalente italiano che sono costretti ad affiancare per farsi intendere dal popolino. Basta ascoltare certi scienziati che riportano anglicismi-tecnicismi che sono per loro più naturali dell’italiano, visto che ormai studiano e pensano in inglese e allo stesso tempo perdono la terminologia nostrana che non viene loro più istintiva, sempre che ci sia, perché se non c’è la introducono direttamente in inglese e ci spiegano anche che è “necessario”. Lo abbiamo visto con la pandemia e con le cronache di guerra, o con le interfacce informatiche tradotte parzialmente da chi ben conosce l’inglese e lo ama al punto che preferisce lasciarlo crudo e intoccabile.

Non è l’ignoranza dell’inglese a produrre i lockdown e i covid hospital, i Qr code e i compound, i download e l’ecommerce, le vision e la cancel culture… Questi sono al contrario i detriti del globish.

E allora la verità è molto più semplice. L’itanglese è la lingua di chi non conosce o non ha a cuore l’italiano. Non mi pare che ci voglia tanto per comprendere una simile rivoluzionaria banalità.

E quello che posso constatare è l’oggettivo calo della conoscenza dell’italiano di chi esce dalla scuola secondaria superiore. La mia impressione è che le nuove generazioni conoscano sempre meglio l’inglese proprio a scapito dell’italiano.

Da anni tengo corsi sull’italiano corretto o le norme editoriali rivolti soprattutto a chi studia per imparare a scrivere professionalmente. In una scuola di scrittura creativa e “storytelling” destinata a una platea di ventenni diplomati, confrontando i risultati di uno stesso corso di 8 anni fa con quelli dell’anno scorso ho riscontrato un notevole abbassamento delle competenze di partenza, peggiorate in modo sensibile anno dopo anno. Tra i nuovi esempi reali che testimoniano un semianalfabetismo di ritorno, a parte gli immancabili “qual’è” con l’apostrofo, mi sono imbattuto per esempio in: “Io ti dissi… E allora tu mi dissi…”, al posto di dicesti, ripetuto però più volte in uno stesso dialogo, quindi non interpretabile come un refuso. In un racconto di un’altra persona ricorreva invece due volte “io capì” al posto di capii. E lo stesso errore l’ho riscontrato in un’occorrenza anche in un altro componimento di un’altra classe, dunque sembrerebbe un problema diffuso, come mostra anche un ricerca su google.

Una decina di anni fa queste cose non accadevano con la stessa frequenza e mi paiono lacune che testimoniano un cambiamento della scuola denunciato da più parti. Negli ultimi decenni l’italiano ha perso importanza, non è più centrale come un tempo; si dà per scontato che un madrelingua tanto in qualche modo lo sappia, e quello che invece sembra contare è la conoscenza dell’inglese. I ventenni a cui insegno lo conoscono abbastanza bene di solito. Eppure il loro linguaggio è molto anglicizzato, e la conoscenza dell’inglese non migliora affatto il loro italiano, che è al contrario mediamente peggiorato. Il loro lessico è molto limitato, e l’inglese stereotipato tende a colmare l’evidente incapacità di ricorrere a sinonimi. Se ripetono sempre e solo “target” come insegnano nelle scuole di marketing e ormai ovunque, non avviene solo perché preferiscono questa parola che appare loro più prestigiosa e suadente delle alternative italiane. Avviene soprattutto perché hanno molte difficoltà o sono addirittura incapaci di sostituirla a seconda dei contesti per esempio con platea, pubblico o destinatario. Gli anglicismi sono spesso parole-ombrello in cui rifugiarsi davanti all’incapacità di “possedere” l’italiano, e dunque finiscono per costituire un impoverimento espressivo, invece di un arricchimento. Un processo sottrattivo, anziché aggiuntivo.

Dubbi grammaticali

L’altro giorno è uscito un mio nuovo libro che raccoglie i più diffusi Dubbi grammaticali (Mind edizioni). È il secondo titolo di una collana in cui a ottobre avevo pubblicato una guida al congiuntivo rivolta a un pubblico di fascia più bassa e soprattutto agli stranieri, visto che — al contrario di quel che si dice — il congiuntivo non è affatto morto, sopravvive benissimo e chi lo sbaglia rischia di compromettere la propria reputazione in modo fantozziano. Comunque sia, nell’impegnarmi a divulgare l’italiano oltre a combattere l’itanglese, tempo fa avevo provocatoriamente sollecitato i cruscanti e i linguisti che sostengono che parole come chat o computer sono “italiane” a riscrivere le regole della grammatica, visto che escono dalle nostre norme orto-fonologiche. Nella speranza che la mia buttata non sia destinata in futuro a diventare una profezia, intanto in quest’ultimo lavoro ho dovuto registrare una prima interferenza dell’inglese che ha modificato le nostre regole e ha creato un’eccezione che esce dal semplice trapianto lessicale per coinvolgere l’uso dell’articolo da associare a certe parole. Ne avevo già accennato anche in un vecchio articolo su questo sito, ma di seguito riporto il passo in questione per intero.

Buona lettura.

Tratto da: Antonio Zoppetti, Dubbi grammaticali. La guida per evitare gli errori più diffusi, Mind edizioni, Milano 2023, pp. 71-72.

Dal codice a barre (in italiano) al QR code (in inglese)

Di Antonio Zoppetti

La notizia di questi giorni (in italiano e rivolta a tutti) è che dal 2027 sarà adottato un nuovo protocollo che prevede la sostituzione dei codici a barre con i codici QR nel settore delle vendite, del largo consumo e della grande distribuzione. In itanglese si può – ormai forse meglio – sintetizzare tutto ciò parlando del nuovo standard dei QR code per il retail.

Il codice a barre e il codebar

L’idea dei codici a barre nasce negli Stati Uniti intorno agli anni Cinquanta, ma dopo un lungo periodo di esperimenti e insuccessi il sistema viene perfezionato nel 1973, mentre l’anno successivo trova le prime applicazioni pratiche e, intorno al 1977, il protocollo sbarca anche in Europa per diffondersi sempre maggiormente.

Se confrontiamo questa storia con le frequenze di “codice a barre” nell’archivio di Google libri, vediamo infatti che l’espressione spunta dal rumore di fondo nel 1972, e nel 1977 la sua frequenza comincia a salire fino al 1994. Dopo qualche anno di stallo le occorrenze continuano a salire a partire dal 1998, e non è un caso che in quegli anni i codici a barre ISBN siano diventati obbligatori anche per i prodotti editoriali come i libri o i cd. Non si tratta di un obbligo vero e proprio, per essere precisi, ma di un requisito imposto dalla grande distribuzione per cui, senza il codice, questi prodotti non possono più finire nei circuiti di vendita ufficiali.

In inglese tutto ciò si chiama barcode, ma se aggiungiamo su Ngram Viewer anche questa parola, vediamo che l’inglese spunta solo successivamente, e la sua frequenza è bassissima. Si tratta probabilmente del riversamento in italiano dell’inglese internazionale non tradotto, e fuori dalla comunicazione in inglese – o dalla sua ostentazione da parte di qualche anglomane che preferisce infighettare i concetti con una connotazione alberto-sordiana – l’italiano resiste e non cede.

Il QR code e il codice QR

Il codice Qr è bidimensionale e contiene molte più informazione di quello a barre. La sigla QR sta per Quick Response (code), il sistema risale al 1994, ed è stato sviluppato in Giappone dalla Denso Wave. Per un decennio è stato un sistema che si imposto solo lì, e per diffonderlo, nel 1999, l’azienda ha deciso di renderlo distribuibile liberamente. In questo modo, in seguito è stato utilizzato anche negli Usa e in Europa, e se visualizziamo questa storia su Ngram Viewer vediamo che l’espressione “QR code” compare nel 2005, nello stesso anno in cui negli Stati Uniti è stato lanciato un progetto che permetteva di leggere il codice attraverso i nuovi telefoni intelligenti denominati smartphone, per collegare i luoghi fisici per esempio alle relative voci della Wikipedia. Da allora il fenomeno è esploso.

La differenza rispetto alla storia dei codici a barre è evidente: l’espressione è stata esportata direttamente in inglese e senza traduzione, nonostante l’origine nipponica della tecnologia. In linea di massima, visto il diverso sistema di scrittura rispetto all’alfabeto latino, nel Paese del Sol Levante le multinazionali che puntano alla conquista del mondo tendono a impiegare l’inglese in modo ancora più marcato delle altre, tanto che anche il walkman era un marchio registrato della giapponesissima Sony. Comunque sia, invece di tradurre l’espressione come era avvenuto nel caso dei “barcode”, è avvenuto tutto il contrario: abbiamo cominciato a ripetere a pappagallo “Qr code”, e cioè l’espressione che le interfacce dei telefonini esportavano nella propria lingua, come è avvenuto per downolad, e-mail, directory, password, account

L’equivalente italiano codice QR (pazienza se l’acronimo nasconde una sigla in inglese, non è questo un gran problema, in fin dei conti) è apparso come soluzione secondaria e non è mai decollato, dunque in italiano si tende a utilizzare l’inglese, nella scrittura e nella pronuncia.

Morale della favola

Se nel 1972 l’italiano era ancora una lingua sana e la traduzione della tecnologia d’oltreoceano era un fenomeno naturale e spontaneo, 30 anni dopo (in una sola generazione) tutto era cambiato. La nuova lungimirante “strategia” dei terminologi colonizzati è stata la rinuncia alla traduzione in favore dell’importazione degli anglicismi crudi (che spesso certi addetti ai lavori certificano con una sorta di “bollino blu” che ne sancisce la “necessità”, l’“insostibuitilità” e altre simili sciocchezze che valgono solo per l’Italia); e così la terminologia informatica priva di anglicismi degli anni Settanta (quando c’erano terminali, periferiche, stampanti a margherita, schede perforate, calcolatori…) ha portato all’attuale deriva del linguaggio di settore dove è avvenuto un “collasso di ambito”: l’italiano non è più in grado di esprimere la modernità senza ricorrere alla stampella dell’inglese, e il settore si esprime oggi in itanglese.

Se nei prossimi anni il codice a barre sarà sostituito dal QR code, e non dal codice QR, avremo un anglicismo in più e una parola italiana in meno.

Naturalmente – lo ribadisco per i mistificatori che rivoltano le frittate delle mie riflessioni – la cosa grave non è che si dica QR code: si tratta di un singolo anglicismo che preso da solo non significa niente. La cosa grave è la somma di questi fenomeni che giorno dopo giorno si trasformano in “prestiti sterminatori” che fanno piazza pulita dell’italiano, e che negli anni Duemila non sappiamo far altro che ripetere in inglese invece di tradurre, adattare o inventare parole nuove. Le conseguenze di questa strategia sono sotto gli occhi di tutti. Se la rivoluzione industriale di fine Ottocento e del Novecento ci hanno portato la lampadina e la televisione, e non la lamp e la television, quella del nuovo millennio ci ha colonizzato con i computer, i mouse, il wireless e così via.

E per i negazionisti che fanno finta di non vederlo e di non capirlo, basta leggere come questo giornale riporta la notizia che all’inizio del mio articolo ho tradotto in italiano:

Per la cronaca: dai conteggi automatici (che considerano “QR code” due stringhe distinte) il testo riportato è composto da 141 parole in tutto, di cui 19 in inglese. Ma se si eliminano le date scritte in cifre e i nomi propri di persone o aziende (che non vanno conteggiate né come parole italiane né come parole inglesi) il rapporto è di 122 a 19, una percentuale che supera il 15% e che rende questo esempio un caso di lingua ibrida a base inglese, e non di una lingua sana che si appoggia sporadicamente a qualche “prestito” (considerando “QR code” come una parola sola, la percentuale scenderebbe a poco più del 9%, che non è comunque una bazzecola).