di Antonio Zoppetti
Voglio condividere una lettera che ho ricevuto qualche giorno fa:
Questa mattina, in una traversa di via Padova [a Milano], ho incrociato il furgoncino che vedi nell’immagine e non ho potuto fare a meno di domandarmi perché mai una piccola ditta di Brugherio (!) debba avere una sotto-denominazione in inglese.
Qualche mese fa mi trovavo a passeggiare dalle parti di via Agnello/via Hoepli e, appeso a uno stabile, c’era un indecifrabile cartello in inglese, lingua che mastico a un discreto livello, ma in quel caso non capivo proprio: “REAL ESTATE”. Immagino che il cartello proponesse la vendita dello stabile decisamente dismesso e che fosse rivolto a investitori stranieri. La sensazione di essere in una città sempre più estranea e aliena mi è rimasta impressa a distanza di tempo.
Tutto questo per dire che non si tratta dei giornali, che peraltro vengono letti da pochissimi, ma ormai l’uso smodato dell’inglese è ovunque.
Un caro saluto
Elisabetta.
Nell’ultimo articolo avevo pubblicato la foto dell’Italian Bakery che hanno aperto sotto casa mia proprio di fianco a un Italian Hair Line. E la sensazione di vivere in un Paese occupato è molto forte in una città come Milano. Cosa spinge a queste denominazioni? L’italian bakery è forse una catena (ma oggi si dice franchising) che punta a diffondere i prodotti da forno americani, invece che nostrani (non lo scoprirò mai perché non ci metterò mai piede), mentre l’Hair line si inserisce in una tendenza già consolidata nell’uccisione di parrucchieri e barbieri che oggi si sentono (e si presentano come) hair stylist. Come nel caso del disinfestatore di provincia che si definisce attraverso il concetto di “pest control” questa comunicazione è rivolta agli italiani, e più precisamente ai figli di Nando Mericoni, il personaggio incarnato da Alberto Sordi che nel voler fare l’americano si rendeva ridicolo, mentre i suoi discendenti hanno sostituito l’ironia con una tragica serietà.
La newcultura del Real Estate
Sotto questa mentalità che considera l’inglese una lingua superiore e più evocativa o “internazionale” (ma va bene anche lo pseudoinglese, ciò che conta non è che sia inglese, ma che suoni così) c’è solo il nostro complesso di inferiorità, il nostro servilismo provinciale e la nostra neocultura coloniale (forse meglio newcultura?). Il caso di “Real Estate” è un po’ diverso, perché questa espressione è rivolta sia agli stranieri sia agli addetti ai lavori italiani, che buttano via la nostra lingua per sfoggiare l’inglese. Per comprenderlo basta leggere la definizione di Real Estate che riporta la Treccani nella sezione “Lessico del XXI secolo”:
Espressione ingl. composta dall’aggettivo real (‘immobiliare’) e dal sostantivo estate (‘proprietà, patrimonio’), con cui si indica l’insieme degli operatori, dei prodotti e dei servizi riferiti al mercato immobiliare.”
Leggendo la voce si scopre che il settore del real estate (e non immobiliare) a sua volta comprende il real estate developement (che va dalla valutazione di fattibilità dell’investimento, all’individuazione dell’area edificabile, alla gestione dei rapporti con le amministrazioni pubbliche e con gli istituti di credito, fino alla costruzione dell’immobile); il real estate management riguarda invece la manutenzione ordinaria o straordinaria del bene, detta building management, che si distingue dal facility management che comprende la gestione dei servizi di pulizia, portineria, sicurezza interna, e in generale dei servizi funzionali alle esigenze degli utenti dell’immobile; la riscossione degli affitti e la contabilità per conto della proprietà si chiama property management, mentre la gestione del patrimonio immobiliare si chiama asset management.
Se questo è il lessico del XXI secolo si vede bene che siamo fritti. Questo modello di cultura coloniale si limita a ripetere la concettualizzazione d’oltreoceano, con parole in inglese che vengono soltanto spiegate in italiano, per il popolino, abbandonando la nostra lingua madre e riscrivendo tutto con le categorie a stelle e strisce.
La riorganizzazione della cultura
Perché siamo finiti in questa spirale?
Per comprenderlo è bene buttare via gli attuali approcci dei linguisti, che con i loro “prestiti di lusso e necessità” sono ogni giorno più ridicoli, e studiare qualcosa di meno superficiale e di più ampio, per esempio le analisi di Gramsci che, come è noto, vedeva nell’emergere della “quistione della lingua” il riflesso di qualcosa di più profondo, e cioè un ricambio – di solito conflittuale – della classe dirigente. Un ricambio prima di tutto sociale e culturale, che si porta con sé anche la lingua.
In una raccolta di pensieri (tratti dai Quaderni del carcere) intitolata Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (Einaudi 1949), l’autore mostrava che ogni nuovo gruppo sociale emergente si crea i propri ceti intellettuali “specializzati” che li legittimano, per cui ogni imprenditore si circonda di tecnici o scienziati portatori di una nuova cultura o di un nuovo diritto. Naturalmente la definizione degli “intellettuali” non ha a che fare con il pensare – tutti gli uomini pensano – ma con la loro funzione sociale. Dunque la creazione di un nuovo ceto intellettuale ha bisogno di giornalisti, filosofi, artisti e tecnici che danno vita a categorie specializzate che sono però connesse non solo con i gruppi sociali dominanti, ma con tutti i gruppi sociali, anche quelli più popolari. La lingua italiana, insomma, non nasce dal basso – Gramsci considerava questa affermazione un “errore madornale, per superficialità” – ma si delinea solo perché esiste un modello incarnato da una classe dirigente che viene seguito e imitato. Il volgare di Dante irrompe, non a caso, quando si afferma l’epoca dei comuni che si impone sul latino medievale dove i vecchi intellettuali erano i chierici, mentre, secoli dopo, dietro la polemica tra classicisti e romantici o tra manzoniani e antimanzionani c’erano in gioco analoghe affermazioni – e battaglie – per la conquista dell’egemonia sociale, culturale e dunque linguistica.
L’inglese e la nuova questione della lingua
Oggi la nuova questione della lingua riguarda il rapporto con l’inglese. Da una parte c’è il progetto di fare dell’inglese la lingua internazionale, un progetto classista ed elitario che spaccia questa lingua come di “tutti”, mentre è soltanto la lingua dei Paesi dominanti, incomprensibile per l’80% dell’umanità, e praticata semmai dai ceti intellettuali più colti che la vorrebbero ufficializzare e imporre come la lingua dell’Europa (lo hanno già fatto in ambito militare), delle relazioni di lavoro, degli studi scientifici, e persino dell’insegnamento universitario in inglese, invece che nelle lingue nazionali. Dall’altra parte, questa “dittatura dell’inglese” calata dall’alto – e perseguita dai programmi scolastici che hanno reso l’inglese obbligatorio per tutti e che puntano a creare generazioni bilingui a base inglese ovunque – produce come effetto collaterale lo “tsunami anglicus” che anglicizza le lingue di tutto il globo, e in particolare l’italiano, al primo posto in questa sorta di creolizzazione. Se negli anni Sessanta Pasolini si era accorto che il nuovo italiano era tecnologico e che arrivava dai centri industriali del Nord, e non più dalla tradizione letteraria toscana, anche Gramsci si era accorto che la cultura tecnico-scientifica stava prendendo il sopravvento su quella umanistica, e che l’interesse per la scienza era tale che i giovani delle classi colte e aristocratiche consideravano gli studi classici sempre più come un inutile perditempo. Questa nuova cultura arrivava soprattutto dagli Usa, e “minacciava” la cultura Europea e dello stesso Regno Unito.
Da allora tutto si è enormemente amplificato. I centri industriali del Nord oggi parlano in itanglese e diffondono una lingua industriale che non è più fatta dai nativi italiani, ma importata direttamente degli Stati Uniti. La cultura d’oltreoceano è diventata il nuovo modello che viene preso come punto di riferimento persino nelle nuove realtà scolastiche, in un abbandono della nostra cultura, dei nostri approcci storico-critici tradizionali, in nome del pragmatismo spicciolo del problem solving. Mentre lo storytelling ha preso il posto della retorica, oggi i tecnici hanno preso il sopravvento sulla cultura umanistica, ma la tecnica arriva dagli Usa e si porta con sé non solo la lingua di provenienza, ma anche la riconcettualizzazione del mondo attraverso le categorie del modo di pensare (prima che di parlare) americano. L’esercito degli intellettuali che diffondono l’itanglese e l’inglese per conquistare anche gli intellettuali tradizionali – come direbbe Gramsci – è imponente e si sta affermando in modo incontrastato. In prima fila ci sono i giornalisti e i mezzi di informazione, che un tempo hanno unificato l’italiano e oggi impongono l’itanglese a cui ci educano. Lo stesso schema è seguito da tutti gli altri intellettuali specializzati, dagli scienziati ai tecnici, dagli economisti ai politici, dai formatori sino agli “influencer”, che con gli intellettuali hanno poco o niente in comune, ma che con la loro visibilità sono comunque in grado di influenzare e orientare anche la lingua. Le parole e le categorie d’oltreoceano invadono ogni aspetto della nostra società, trainate dall’espansione delle multinazionali, dalla lingua del lavoro, dalla comunicazione pubblicitaria, dal marketing, dal cinema, dalla televisione e da ogni altro aspetto della nuova cultura americanizzata.
E così l’itanglese è divenuto il nuovo modello di tutti i nuovi intellettuali, specializzati e generalisti, e questo modello dai centri di irradiazione della lingua si espande sino al disinfestatore di Brugherio o al parrucchiere del centro o della periferia. Alla faccia dei linguisti che ci dicono che va tutto bene, o che è normale che le lingue si evolvano, senza rendersi conto che l’attuale “evoluzione” sta portando all’abbandono e alla morte dell’italiano, e non al suo rinnovamento. Ma anche la morte in fondo è un fenomeno “normale”.