Lo tsunami degli anglicismi: perché?

Era il 2015 quando, in un intervento al Ted di Milano che è entrato nella storia (“Dal bello al biùtiful”), Annamaria Testa si domandava:

«E uno si chiede: “Ma perché?” Ma perché, nel momento in cui se guardiamo i marchi turistici di tutte le città del mondo, non c’è nessuno che faccia la cosa insensata di storpiare il suo nome, per promuoversi. (…) Perché noi qui in Italia beviamo “wine”? Guardate qua: mangiamo “food” e beviamo “wine” a Lucca, a Cernobbio, a Catania, a Milano. E la cosa è curiosa perché a New York, se al Waldorf-Astoria devono promuovere la settimana del vino italiano, dicono “vino”. Perché i ristoranti di New York, belli ed eleganti, che vendono cibo e vino, dicono “vino”».

Già. Perché?

Se lo è chiesto 1.000 volte anche Giorgio Comaschi nelle sue divertenti pillole (per es. “Mi dovete spiegare perché”), e poi se lo è chiesto anche Mario Draghi, qualche tempo fa: “Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi…”.

E soprattutto dovremmo chiederci perché gli anglicismi che da noi sono proclamati come “necessari” o “intraducibili” in Francia, Spagna o Portogallo sono invece espressi nella propria lingua, come ha documentato in un bellissimo servizio di pochi giorni fa il bravo Davide Gemello.


Perché? Perché? Perché? Perché? Perché?

Da quando, nel 2017, ho pubblicato il mio primo libro sull’interferenza dell’inglese, con i dati tratti dai dizionari che ne pesavano e dimostravano la dimensione preoccupante, da quando ho aperto questo sito, da quando ho pubblicato il Dizionario AAA delle Alternative Agli Anglicismi, la domanda “perché?” è quella che ricorre più spesso.

A volte è un “perché” retorico, che sottintende una verità che ci fa male e che quindi cerchiamo di rimuovere: forse, semplicemente, perché siamo scemi?

Le tante spiegazioni che circolano si appellano alla (spesso presunta) sinteticità dell’inglese, alla (presunta) pigrizia nel tradurre legata alla velocità della comunicazione nel nuovo logorio della vita internettiana, alla moda, al fascino e al prestigio, o a uno strano modo di voler essere “internazionali” che presuppone di parlare inglese, invece di fare come negli altri Paesi dove la propria lingua non viene affatto abbandonata a questo modo.

Queste spiegazioni non bastano. Non sono minimamente sufficienti per spiegare la dimensione, la profondità e la frequenza di un ricorso all’inglese che assomiglia ormai a una mania compulsiva e sta trasformando la nostra lingua in “itanglese”. Queste risposte sono solo un alibi.

E allora, ho provato a rispondere a questi infiniti “perché” con un libro che inquadra il fenomeno da una prospettiva diversa da quella della semplice linguistica. E ogni perché trova finalmente la sua soluzione.

Di seguito il comunicato stampa.

Lo tsunami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica (goWare)

Cartella stampa:

Tra influencer e jobs act, smart working e fake news, l’italiano del nuovo Millennio è sempre più caratterizzato dal ricorso agli anglicismi che in alcuni ambiti lo stanno trasformando in itanglese. Lo tsunami degli anglicismi è un evento di portata mondiale che si riscontra in ogni idioma, un “effetto collaterale” della globalizzazione, di Internet, dell’espansione delle multinazionali nordamericane e del progetto di fare dell’inglese la lingua planetaria. Nel contaminarsi, molte lingue locali corrono il rischio di diventare i dialetti di un “anglomondo” che pensa e parla in inglese, e in alcuni casi persino di scomparire. La nuova “questione della lingua” travalica il nostro Paese e si trasforma nella “questione delle lingue” minacciate da un globalese che si impone a scapito delle identità locali vissute come un ostacolo alla comunicazione e ai mercati internazionali.

Questo saggio affronta i risvolti della globalizzazione linguistica, un tema trascurato nelle sterminate riflessioni su quella economica o culturale, soprattutto in Italia.
Sul tavolo ci sono questioni enormi, che riguardano la scelta dell’inglese come lingua della formazione universitaria, della scienza e dell’Unione Europea, proprio nel momento in cui il Regno Unito ne è uscito. Tutto ciò non ha solo forti implicazioni politiche e culturali, ma anche economiche. L’inglese internazionale rappresenta un giro d’affari incalcolabile per i Paesi anglofoni che se ne avvantaggiano senza dover sostenere i costi per l’apprendimento di alcuna lingua straniera.

Con una prospettiva attenta all’ecologia linguistica e al plurilinguismo inteso come valore e ricchezza, l’autore ripercorre la storia delle relazioni pericolose tra globalese e itanglese e della nostra americanizzazione sociale, culturale e dunque linguistica. Si tratta di un processo politicamente sollecitato sin dai tempi del piano Marshall, ed è il risultato del sogno americano costruito negli ultimi settant’anni dal potere morbido del cinema, dei prodotti culturali, delle pubblicità e delle merci d’oltreoceano.

Dal confronto con quanto sta accadendo all’estero, quello che emerge è l’anomalia italiana, dove le forti pressioni internazionali esterne non sono controbilanciate da analoghe resistenze culturali e istituzionali come accade in Francia, in Spagna e in altri Paesi. Anzi, sedotti da tutto ciò che è a stelle e strisce, agevoliamo dall’interno questo processo cannibale. Dietro la nevrosi compulsiva con cui ricorriamo agli anglicismi – e ci inventiamo da soli i nostri pseudoanglicismi – c’è un cambio di paradigma sociale e una storia che non è ancora stata del tutto affrontata, forse perché non si ha il coraggio di raccontarla.

Titolo Lo tsunami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica
Autore Antonio Zoppetti
Editore goWare
Prezzo libro digitale form. Kindle 9,99 € | cartaceo 18 €
Pagine: 252
In commercio da: aprile 2023

Per saperne di più.

18 pensieri su “Lo tsunami degli anglicismi: perché?

  1. Aggiungo anche Dario Fabbri, che ha passato molti anni in America eppure nei suoi interventi spesso si chiede come mai da noi si usino anglicismi, citando per esempio “green” invece di “verde” quando si parla di ecologia.
    Seguo dei blogger che raccontano in italiano contenuti che trovano su siti in lingua inglese, ed è divertente vedere la faticaccia che fanno a parlare in italiano, una lingua difficile che ormai non appartiene più al loro retaggio, e molto spesso neanche ci provano, snocciolando espressioni “ammaricane” del tutto gratuite, solo perché la traduzione nella loro lingua madre è troppo faticosa.
    Il tuo libro ormai è da considerarsi “servizio pubblico”. dovresti prendere fondi governativi 😀

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      • Salve Antonio, come mai dici che l’argomento e’ tabu’? Perche’ pensi che sia cosi’? Altra domanda: io in parte credo che succeda come in Sardegna col sardo, che dopo un 20-30 anni di devastazione ci si renda conto della cazzata pazzesca fatta e si cerchi di recuperarlo. Se cosi’ fosse, rispetto al sardo l’italiano pero’ avrebbe probabilita’ molto migliori di essere recuperato (il sardo e’ molti sardi, non si insegna a scuola, non ci sono dizionari o letteratura come per l’italiano ecc.), tu che pensi?

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        • L’aspetto, tutto interno, che ci spinge a preferire l’inglese, e produce devastazione, forse può portare a una saturazione e anche a un recupero dell’italiano. Per questo insisto sulla necessità di una campagna culturale che spezzi l’attuale anglomania, e sull’importanza delle politiche linguistiche.

          I fattori esterni che determinano lo tsunami degli anglicismi, invece, sono collegati alla globalizzazione, all’espansione delle multinazionali e del globalese, a un mondo USocentrico di cui non si vede, al momento, alcuna possibilità di freno.
          Il milanese, al contrario del sardo, è oggi scomparso e non praticato, almeno a Milano, spazzato via dall’unificazione dell’italiano che è avvenuta a spese di molti dialetti, non tutti per fortuna. Il rischio che le lingue nazionali facciano la fine dei dialetti, di fronte al globalese (appunto insegnato nelle scuole e diventato un obbligo, non più una scelta, basta pensare al mondo del lavoro, della scienza, dell’informatica…) dipende da queste pressioni esterne, in larga misura. Per cui non sono troppo ottimista.

          Raccontare queste cose davanti a un’intellighenzia anglomane è un tabù per questi motivi: la nostra classe dirigente sostiene il progetto dell’inglese internazionale di cui gli anglicismi sono l’effetto collaterale. Basta vedere il livello del dibattito innescato dalle polemiche sulla legge Rampelli, basta leggere certe considerazioni di alcuni linguisti che non sono preoccupati dell’anglicizzazione, sempre che non la neghino. Perché non si pubblicano altri libri come il mio ultimo? Perché è difficile proporre simili temi che si scontrano con una mentalità dilagante a senso unico, soprattutto in Italia.

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  2. Ho visto da poco l’ultima pellicola di Nanni Moretti. Che piaccia o meno questo autore, vale la pena guardare il film anche solo per la faccia che fa Moretti quando gli cassano il film parlando in itanglese!

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  3. Appena sentito in tv “hospice”, è assurdo che quasi ogni giorno si senta una nuova parola inglese che ne sostituisce una italiana. C’è un progetto da parte di politici e giornalisti di anglicizzazione forzata del lessico italiano, “Eh ma è una normale evoluzione della lingua” cit. anglomane medio.

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    • È uno stillicidio quotidiano in cui il ricorso all’inglese segue sempre le stesse modalità: “hospice” non è proprio come “ospizio”, “casa ospedale”, “cronicario”… è di più, è nuovo, è “insostituibile”… E così l’italiano, invece di evolversi e allargare il significato delle proprie parole, regredisce in una riconcettualizzazione in cui tutto si riscrive in inglese, in un processo che ci spinge a pensare in inglese.

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  4. Nei tuoi prossimi articoli quando parlerai ancora di toponomastica ovvero di esonimi italiani caduti in disuso sostituiti oggigiorno dagli endonimi stranieri puoi citare oltre al caso di “Nuova York” o italianamente puro “Nuova Iorca” (entrambi New York) anche quello di “Maurizio” (Mauritius) e “Seicelle” (Seychelles) dato che sono anch’esso importanti secondo me grazie.

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  5. Quanto tempo ci vuole ancora che la lingua italiana venga inserita definitivamente nella costituzione in modo che cominceremo a dire più spesso ad esempio “guardavia” (o anche “sicurvia”, “guardastrada” o con l’elvetismo “guidovia”) in luogo dell’inutile anglismo “guardrail” secondo te Zoppetti?

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  6. Inoltre nei tuoi prossimi articoli quando citerai ancora gli esempi degli anglicismi più noti con traducenti disusati puoi citare oltre a quello di “elaboratore”, “calcolatore” o come si dice nell’italiano svizzero “ordinatore” (computer) e “topo” (mouse) anche quello di “guardavia”, “sicurvia”, “guardastrada” o come si dice nell’italiano svizzero “guidovia” (guardrail) dato che è anch’esso importante secondo me grazie.

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  7. Riguardo alla proposta di legge del Deputato Rampelli e la proposta di inserimento dell’Italiano in costituzione i Cruscardi hanno aperto un tema per discuterne(https://accademiadellacrusca.it/it/tema-del-mese). Ho aperto per leggere e mi ritrovo il commento della terminologa più anglofila d’Italia, pronta a sminuire tutto. Anche l’atteggiamento della Crusca pare essere ondivago, secondo me perché non vuole esporsi troppo. Mi ha scioccato anche l’ultima intervista del Prof. Sabatini, in cui aver cambiato idea all’improvviso, quando invece si è schierato sempre per un uso più consapevole dei termini inglesi. Si hanno novità su questa legge tanto discussa ?

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    • La mia impressione è che a leggi Rampelli — replica di leggi già presentate in passato, l’ultima nel 2018 — rimarrà una proposta, anche se rispetto alle precedenti istanze la novità è che adesso FdI è al governo. Quanto alla Crusca, mi fa piacere che si apra il dibattito, però non è un gruppo coeso con una posizione unitaria, mi pare più un gruppo di studiosi di alto livello ognuno con le proprie posizioni. Marazzini ha sempre mostrato un certo interesse per la questione dell”inglese, attraverso esposizioni pubbliche di condanna significative sul piano simbolico. La speranza è che ora che non è più il presidente queste posizioni non rischino di finire in secondo piano.

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        • Da qualche parte ho letto qualcuno commentare, e concordo, che la Crusca e’ per l’italiano e l’itanglese quello che il governo di Vichy era per la Francia libera e il nazismo. Dante li condannerebbe al girone degli ignavi. A questo punto penso che la Crusca sia piu’ un danno che un bene per l’italiano. Non capisco a cosa serva se il loro solo compito sia quello di semplicemente prender nota di quel che succede all’ italiano. Per la serie inventiamoci un lavoro inutile. Bo. Che rabbia e tristezza.

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