La sostituzione linguistica

Di Antonio Zoppetti

Quando ero piccolo nella bella stagione scorrazzavo con i miei amici ai giardinetti, e in alcuni c’erano anche i parchi giochi con lo scivolo e l’altalena. Facevo la raccolta di adesivi e di figurine, ero un accanito lettore dell’Uomo Ragno, e mi ero fatto regalare il pupazzetto con cui giocavo. Negli anni Settanta, tra le novità per i ragazzi, erano apparsi i primi videogiochi che si trovavano nei bar, mentre al cinema spopolava Guerre stellari.

Oggi queste stesse cose si dicono in inglese. I ragazzi non sanno cosa siano gli adesivi, perché li chiamano sticker(s), hanno a che fare con Spiderman, la saga di Star Wars e il Monopoly; i bambolotti si chiamano action figure – un nome in inglese che li nobilita e permette di bramarli anche da adulti senza la vergogna di giocare con le bambole – mentre la raccolta di figurine è diventata anche card collection e i videogiochi sono quasi sempre solo videogame.

Da qualche tempo è in atto un restyling linguistico, oltre che sociale, che prevede l’anglificazione anche dei parchi giochi che si vogliono far diventare play street (talvolta scritto tutto attaccato: playstreet).

Che cos’è una play street?
Non c’è bisogno di spiegarlo, in fin dei conti, perché rispetto agli anni Settanta entrambe le radici che compongono questa espressione sono entrate nella disponibilità di tutti.

Play non è più solo il comando di avvio che leggiamo sul pulsante di certi elettrodomestici, è gioco, e ci sono la playstation, i multiplayer, il cosplay e i cosplayer, visto che un giocatore è ormai detto player in senso tecnico e figurato, e un gioco di ruolo è role play. Il regista della pallacanestro divenuta basket è un playmaker, le finali sono playoff o playout; c’è il display, il playback, la playlist, il replay… che si aggiungono ai più datati playboy e playgirl affiancati da playmate (ragazze copertina), mentre vengono riesumati i vecchi long play di vinile che sembravano destinati a tramontare.

Sul fronte stradale, se una volta c’era solo Wall Street, oggi la cucina di strada è street food, i graffitari – detti writer(s) – sono street artist e fanno street art, e si parla anche di street culture, di streetwear o streetstyle, di street show e street parade.

Gli anglicismi non sono “prestiti” isolati, né di lusso né di necessità. Sono trapianti di suoni, significati e concetti che si allargano nel nostro lessico strutturandosi in famiglie e facendo tabula rasa dell’italiano. Sono tra loro collegati e si rinforzano l’uno con l’altro. La metafora della lingua come un sistema biologico – la lingua viva e le lingue morte – è più che mai calzante. Ma mentre ci si preoccupa per la proliferazione del granchio blu che comporta devastazioni ecologiche, non si sentono analoghe preoccupazioni per il nostro idioma. Eppure il nostro ecosistema linguistico è travolto da parole che provengono da un sola lingua: l’angloamericano, la lingua dei Paesi dominanti che entra in conflitto con le lingue locali, e che nel caso dell’italiano produce uno tsunami particolarmente devastante, perché la nostra unità linguistica è recentissima, è una conquista del Novecento, ed è anche fragile.

Come se non bastasse, non solo siamo accecati da un complesso di inferiorità italofobo – una vera e propria anglomania compulsiva – che ci fa preferire le parole inglesi, ma quel che è peggio è che in Italia non esiste alcun punto di riferimento normativo della lingua, e l’Accademia della Crusca si vanta di non essere prescrittiva come lo sono invece le accademie spagnole e francese.

In Francia esistono delle leggi che tutelano il loro patrimonio linguistico davanti all’inglese, e l’accademia interviene, come le accademie ispaniche, per indicare quali sono le giuste parole autoctone. In quei Paesi esistono banche dati terminologiche – per esempio quella del Quebec – che ufficializzano la nomenclatura di ogni cosa nella propria lingua. In Islanda esiste la figura del neologista di Stato che crea sostitutivi agli anglicismi con radice endogene, in Israele c’è un’accademia che conia i termini nuovi con cui ha riattualizzato l’ebraico antico, una lingua che è stata rivitalizzata; persino i cattolici aggiornano il latino ecclesiastico creando neologismi come breviloquium per tweet, e simili commissioni esistono anche per attualizzare l’esperanto e mantenerlo vivo. Mentre la nostra Crusca bolla l’idea di un Consiglio Superiore della Lingua Italiana (CSLI) come una follia concettuale, analoghi organi esistono, sono normali e funzionano in tantissimi Paesi, e forse l’unica vera follia è l’appellarsi a un presunto liberalismo linguistico che si trasforma in anarchia, in mancanza di punti di riferimento, e in un “far west” dove vige la legge del più forte, l’inglese, of course. Stare a guardare tutto ciò senza intervenire non è un atteggiamento liberale, ma criminale.

Play street e scrapbooking

Le prove tecniche di sostituzione linguistica e dell’introduzione del “nuovo” concetto di play street a Milano risalgono al 2021, quando il Comune ha deciso di chiamare così un progetto intenzionato a spacciare come una novità che richiederebbe un nuovo nome: “Il Comune di Milano ha firmato dei patti di collaborazione per sperimentare la prima forma di ‘play street‘ a Milano, spazio in città dedicato al gioco.”

La comunicazione era incentrata sull’apologia del cambiamento e della trasformazione urbana, e cosa c’è di meglio del trasformare ogni cambiamento sociale anche in un cambiamento linguistico a base inglese?

“Una ‘play street’ o un ‘play ground’ è uno spazio in città dedicato al gioco, piuttosto che al traffico”, si leggeva in un articolo promozionale di allora. E subito dopo scattava la consueta precisazione “non-è-proprista” volta a dare un definizione del “nuovo” concetto: “Non sono parchi o luoghi limitati da cancelli, sono vere e proprie strade che vengono trasformate per rispondere alle esigenze delle persone e alle misure di sicurezza che la pandemia obbliga a rispettare.” Eccola la straordinaria novità sbandierata tra il suono delle unghie che stridono nel tentativo di arrampicarsi sugli specchi: i parchi giochi sono vecchiume, sono quelli di una volta, recintati e delimitati, mentre una play street (play ground per fortuna non ha attecchito, almeno finora) è un nuovo intraducibile concetto che esprime tutt’altra cosa. Perché questa presunta novità debba essere espressa in inglese non viene mai detto, e si dà per scontato, visto che la metà dei neologismi del nuovo millennio è in inglese crudo.

Una lingua viva e sana deve cambiare per stare al passo con i cambiamenti sociali, ma purtroppo l’italiano non è più in grado di farlo con le sue parole, che vengono relegate al passato, e l’unica cosa che sappiamo fare è quella di sostituirle con l’inglese, come se fosse normale.

Quando ero uno studente di liceo ero orgoglioso della mia Smemoranda, un tipo di diario scolastico alternativo che andava per la maggiore, a quei tempi. Più che usarlo come agenda dei compiti, ogni studente lo personalizzava incollando fotografie, disegni, decorandolo con glosse, schizzi, testi di canzoni, e facendolo diventare quasi un libro d’artista, al punto che sfogliare i diari dei compagni, e anche scambiarsi le personalizzazioni era una pratica comune.

Oggi a tutto ciò si vuole dare un nome, naturalmente in inglese, e la riconcettualizzazione di questa antica abitudine non si chiama libro dei ritagli o diario d’artista, non si chiama nemmeno più decoupage, tecnica che non si applica a un diario, ma solo ad altre suppelletili. La new-arte si chiama scrapbooking, e presumo che i singoli “libri” si chiamino scrapbook, così come i nuovi parchi giochi non sono né strade in giocogiocainstrada, sono solo play street, perché l’italiano ha smesso di produrre i propri neologismi.

Ogni ammodernamento di vecchi concetti è ribattezzato con il lessico inglese. L’anglomane punta a denominare in inglese ogni novità, che di solito è una novità presunta, e una riscrittura della storia. La menzogna sta nella definizione basata sul “nuovismo”. Ma sono “necessari” questi nuovi nomi?

Un tempo il telefono era in bachelite, rigorosamente nero, fisso e appeso al muro. Si telefonava in piedi, in un angolino di qualche corridoio casalingo come nelle vecchie cabine telefoniche. Poi sono arrivati quelli da scrivania, spesso grigi, che come gli altri avevano la rotellina per comporre il numero, che in qualche caso i genitori ostili alle lunghe – e allora costose – telefonate adolescenziali bloccavano con un lucchetto. I ragazzi più sgamati avevano imparato ad agire direttamente sul perno della rotella con una pinzetta che permetteva di far scattare il meccanismo anche se la rotella era bloccata. Poi sono arrivati i telefoni a tastiera. Impazzava il modello Sirio, in vari colori, e più avanti le forme dei telefoni si sono differenziate e sbizzarrite. Mia zia aveva un tamarrissimo telefono a forma di Topolino che reggeva in mano la cornetta, e a casa di amici avevo visto addirittura un telefono rosso a forma di bocca.

Nonostante queste trasformazioni si trattava sempre del telefono. A nessuno sarebbe venuto in mente di usare un altro nome da associare ai modelli che si trasformavano e si differenziavano in ogni modo. Almeno fino a quando non sono spuntati i primi cordeless, invece dei telefoni senza fili, e poi sono arrivati gli smartphone a creare la consueta cesura con il passato che sta trasformando l’italiano in itanglese (e anche less e smart sono radici prolifiche).

Per chi è interessato, venerdì 24, alle 18, parlerò di queste e altre cose al circolo degli esperantisti di Milano in via Marsala 10 (MM Moscova), e presenterò il libro Lo tsunami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica (goWare 2023).

Questa sera, invece, alle 20, sull’emittente di Pordenone il13 andrà in onda l’intervista che mi ha fatto la giornalista Marianna Maiorino.

Selfie, Gaza City e caring nurse: il trapianto linguistico

Di Antonio Zoppetti

Il coro dei giornalisti anglomani del copia e incolla colpisce ancora. Le vecchie macchinette per le fototessere, quelle che da decenni si trovano nelle stazioni della metropolitana, sono diventate le “antenate del selfie” che si rifanno il “look” in un “restyling” di Pininfarina.

Come al solito, la notizia viene data in una lingua che definirei itanglese più che italiano, ma quello che colpisce è che gli anglicismi in questo caso non sono introdotti per descrivere qualcosa di nuovo, ma per riscrivere la storia attraverso i nuovi concetti inglesi (la cancellazione del passato attraverso la Novalingua come in 1984 di Orwell).

Selfie, autoscatto, autoritratto e fotografia

Il trapianto di “selfie” nell’italiano è significativo per comprendere lo stato delle cose. Quando la parola si è diffusa, vari linguisti si sono preoccupati di etichettarla attraverso le categorie dei prestiti di lusso e di necessità che vivono solo nella loro testa e sono un’offesa all’intelligenza. L’inutile diatriba ruotava intorno alla corrispondenza con “autoscatto”, e i giustificazionisti anglomani hanno aperto le danze con la consueta tiritera che aveva lo scopo di dimostrare che selfie non sarebbe proprio come autoscatto.

Per la cronaca: l’origine di “autoscatto” è nello scatto “automatico” – proprio come nelle macchinette – ma poiché il prefisso “auto” indica anche qualcosa che si fa da soli (come nell’autodeterminazione) la parola si è presto acclimatata per indicare gli autoritratti fotografici, indipendentemente dal fatto che fossero automatici o meno (per esempio un autoscatto allo specchio). È esattamente come in inglese, dove “self” indica il fare da soli. I non-è-propristi che volevano bollare l’anglicismo come una novità “necessaria”, però, si sono da subito prodigati per differenziare il significato, per cui hanno cominciato a circolare le storielle più assurde, per esempio che “selfie” indicherebbe un preciso gesto innovativo (non importa che il medesimo gesto si facesse anche con la macchina fotografica a pellicola prima dei nuovi cellulari multimediali, e personalmente ho vari autoscatti di gruppo fatti a quel modo, stampati, che risalgono agli anni ’90. Il problema è che erano scatti “al buio”, non si vedeva ciò che si inquadrava, e questa è forse l’unica differenza).

Una delle più imbarazzanti presunte differenze in cui mi è capitato di imbattermi era la baggianata per cui il selfie indicherebbe una foto allo stesso tempo fatta con lo “smartphone” e condivisa sui “social”, una definizione fantasiosa che implicherebbe dunque che un autoscatto non condiviso in Rete rimanga una semplice foto, senza assurgere allo stato di “selfie”, a quanto pare. Queste arrampicate sugli specchi nulla avevano a che fare con l’etimo della parola inglese, perché l’obiettivo era di costruire un nuovo significato e di affermarlo, con un ragionamento circolare che invece di “dimostrare” una diversa accezione la presupponeva. Mentre c’era chi si indignava contro il Devoto Oli che registrava la perfetta corrispondenza con autoscatto, sui giornali selfie era tranquillamente usato come sinonimia non solo di autoscatto e di autoritratto ma spesso anche di semplice “fotografia”. E così Mussolini si faceva i selfie tra la folla proprio come i politici attuali (in una cancellazione del passato e riscrittura della storia con termini anglofoni), e in un articolo recente si può vedere un “selfie” di Zaia che è una semplice foto di gruppo (con cavallo). E il fatto che oggi le macchinette delle fotografie diventino le antenate dei selfie la dice lunga sulle panzane del gesto intraducibile o di altri presunti requisiti.

Che cosa si “presta” in un caso come questo? Un bel niente dal punto di vista del significato, questi prestiti sono solo il trapianto del significante, più che del significato, cioè del suono e della forma grafica basata sull’inglese che soppianta non solo le nostre parole, ma anche le nostre regole.

Gaza City, Albania First, caring nurse: che razza di prestiti sarebbero?

In questi terribili giorni di guerre, sui giornali rimbalza sempre più spesso l’espressione inglese Gaza City (con inversione sintattica) al posto di città di Gaza, un fenomeno in atto già da tempo, come mostra il grafico di Google che però è fermo al 2019.

Mi piacerebbe sapere che razza di prestito sia, secondo i linguisti accecati dai loro schemini ottocenteschi. Gaza City non è un “prestito”, i palestinesi non chiamano così quel che resta della città, e l’espressione è solo il risultato dell’anglicizzazione del mondo attraverso la nomenclatura della toponomastica americana, la stessa follia per cui la Cisgiordania diventa West Bank.

La settimana scorsa, mentre divampavano le polemiche sui centri di accoglienza da esternalizzare in Albania, vari giornali hanno riportato la notizia delle proteste locali attraverso il motto “Albania first”, e ho pensato che anche in quel Paese dilagasse l’anglomania. Invece, l’espressione inglese era una bufala, gli albanesi hanno protestato nella propria lingua, al contrario di noi che abbiamo tradotto tutto in itanglese, al posto dell’italiano. Casi come questi mostrano bene come l’interferenza dell’inglese non sia affatto esplicabile con la teoria dei “prestiti”. “Albania first” non è un prestito lessicale, è l’espressione di una lingua ibrida che si stacca sia dall’italiano sia dall’inglese e si afferma come qualcosa di nuovo.

Lo stesso si può dire del caring nurse che sta circolando sui giornali e nasce dalla nomenclatura dell’ospedale milanese di Niguarda. Davanti alla sanità che il nostro governo sta mandando in malora (anche questi tagli, insieme alle privatizzazioni, seguono il modello americano) il malcontento e la disperazione negli ospedali producono spesso liti e persino aggressioni al personale medico che non è più in grado di gestire le emergenze, oltre agli interventi programmati. La soluzione del “caring nurse”, però, non mi pare appartenga all’inglese, e mi sembra più una ricostruzione italiana a partire da radici inglesi che segue gli stessi meccanismi dello “smart working” che non è affatto in uso tra gli anglofoni. Ma allora che prestito è? Cosa si prende in prestito, in casi come questi, se non lo spirito di Nando Mericoni-Alberto Sordi di Un americano a Roma?

Da giovane ho lavorato per dieci anni come volontario in ambulanza, e il problema dell’accoglienza infermieristica era all’epoca connessa ai diritti del malato, e a nessuno era mai venuto in mente di chiamarla in inglese, negli anni Novanta. Oggi, invece, i nuovi medici che si formano nelle università dove si vorrebbe insegnare direttamente in inglese pensano in inglese e la loro terminologia è quella. Dunque si appoggiano alle radici inglesi anche quando si sforzano di coniare nuove parole che però non sono più italiane.

Se un tempo con “nurse” si indicava una baby sitter (tata o governante), oggi la parola si usa anche per indicare un infermiere, visto che ci sono le nursery (reparti neonatali), e chissà, forse presto anche gli infermieri diventeranno ufficialmente nursing operator. Quanto a “care”, anche se non è registrata come voce autonoma nei nostri dizionari, ha già prodotto una miriade di locuzioni che forse si potrebbero definire “care based”, per essere moderni, a partire dal caregiver (ennesima italianata che non corrisponde al significato inglese), per proseguire con lo skincare (dermocosmesi o cura della pelle), i care leaver (apparsi nella legge di bilancio 2017 per indicare i giovani fuori famiglia), e poi il customer care (assistenza clienti), l’home care (assistenza domiciliare), i day care (centri di assistenza diurni) e via dicendo. Dal care al caring il passo è breve… e davanti a tutto ciò sarebbe ora di buttare via i ridicoli schemini astratti dei prestiti, come se fossero entità isolate, per ragionare in modo un po’ più serio sull’interferenza dell’inglese.

L’insensatezza del “prestito” di fronte all’interferenza dell’inglese

I prestiti non si restituiscono, purtroppo, e la lingua che li presta non si priva di queste parole (come aveva osservato Gian Luigi Beccaria). Non si capisce nemmeno se siamo noi che prendiamo in prestito dall’inglese per nostra volontà o se sono le multinazionali americane che ci prestano a forza i loro termini imposti attraverso i titoli dei film non tradotti, le interfacce informatiche tradotte male e parzialmente, i termini intoccabili della giurisprudenza americana, i nomi dei prodotti che ci vendono…

La verità è che l’espansione dell’inglese globale inonda il mondo di parole inglesi con un procedimento che segue lo schema della “panspermia”. Migliaia e migliaia di anglicismi sono esportati di continuo sia per le pressioni esterne del globalese, sia per quelle interne degli anglomani emulatori. La maggior parte di queste parole sono usa e getta, rappresentano occorrenze uniche o sporadiche, ma alcune attecchiscono e piantano le loro radici. Anche tra queste c’è un’alta “mortalità”, e la maggior parte di questi germogli finisce per estinguersi, dopo un breve periodo, mentre una piccola parte – piccola in confronto al fenomeno della panseprmia, ma enorme dal punto di vista del vocabolario – si stabilizza in un trapianto che in molti casi produce intere famiglie di anglicismi che si ramificano, si allargano nel nostro lessico e si ricombinano tra loro, come accade con le radici prolifiche “care”, “smart”, “baby”, “over”, “day”, “act”…

Nel ricombinarsi, spesso travalicano l’ambito dell’inglese – dunque non sono prestiti, ma trapianti che assumono nuove accezioni e nuovi significati – e in questo radicarsi che fa saltare le regole ortografiche, fonologiche e morfologiche dell’italiano (e anche sintattiche, vista l’inversione di espressioni come Gaza City) spuntano le parole ibride, che non sono più né italiane né inglesi, ma sono appunto il fulcro di una newlingua che si può chiamare itanglese. La quantità delle parole ibride è enorme, e la dimensione di questo fenomeno è senza precedenti nella storia dell’interferenza delle altre lingue. Gli ibridi con il francese, per esempio, si contano sulle dita di una mano (foularino, moquettista o voyeurismo), mentre sono praticamente assenti gli ibridi a base spagnola, tedesca, giapponese e di ogni altra lingua. I collaborazionisti della dittatura dell’inglese che si operano per per giustificarne l’opportunità, invece di comprendere che le ibridazioni rappresentano lo sfaldamento dell’italiano storico le salutano ipocritamente come “un esempio di vitalità della lingua, che in questo modo mostra reattività e capacità di integrare elementi estranei nel proprio sistema”. Al contrario, è il nostro sistema privo di reattività che viene schiacciato e frantumato da quello inglese, e infatti la newlingua che ne risulta non è “italiano”, visto che è fuori dalla nostra grammatica. I linguisti “descrittivisti” che considerano “italiano” ciò che non lo è affatto dovrebbero spiegare cosa sia l’italiano, per loro. Perché se l’italiano è il risultato dei trapianti linguistici in uso, si può fare a meno di questi linguisti che non si distinguono da un programma di intelligenza artificiale; sarebbe molto più proficuo sostituirli con un algoritmo che, basandosi solo sulla frequenza, decreta come “italiane” anche le parole non lo sono affatto, dal punto di vista strutturale. Il nucleo di ogni controversia sta in questo passaggio che vuole ridefinire l’italiano: non è più la lingua dove il sì suona, non è più la sonorità che ha reso la nostra lingua una delle più ammirate del mondo. Semplificando la questione, la parola premierato (derivata dall’inglese premier con cui sostituiamo il presidente del consiglio) è italiana – perché non viola la nostra identità linguistica – ma lo stesso non vale per premiership, che mantiene la sua struttura inglese. Lo stesso vale per care, che non è non è più il femminile plurale di caro, ma è cura, da pronunciare all’inglese. E se parole come “chattare”, “computer”, “mouse” sono improvvisamente dichiarate “italiane”, per coerenza si dovrebbero riscrivere tutti i libri di grammatica. Eppure, questi “linguisti” che hanno buttato nel cesso la definizione di “italiano” fanno finta di non capirlo, e danno persino del “purista” a chi fa loro notare l’abissale differenza tra italiano, inglese e itanglese. Invece di mistificare e confondere volutamente le cose, gli anglomani dovrebbero studiare un po’ di più la storia: il purismo non c’entra nulla. I puristi non accettavano le parole di origine straniera anche se italianizzate, e le respingevano insieme alle voci dialettali, ai tecnicismi e ai neologismi non usati dagli autori classici. Proprio gli avversari storici del purismo come Machiavelli, Muratori, Verri, Cesarotti o Leopardi – quest’ultimo spesso citato a vanvera, in modo volutamente parziale e ingannevole – avevano capito una cosa molto semplice: l’accoglimento delle parole straniere è sano e normale, ma se non passa per l’italianizzazione e l’integrazione con il tessuto linguistico che le ospita non produce un’evoluzione, ma un’involuzione che corrompe e distrugge le lingue. E questo non era affatto “purismo”, era buon senso. Tutto il resto è fuffa.

Infowar: la guerra dell’informazione e della lingua

Di Antonio Zoppetti

Era il 1274 a.C. quando, sulle rive del fiume Oronte che scorre tra Siria e Libano, si consumò la grande battaglia di Kadesh, che rappresentò il culmine di una lunga guerra tra due superpotenze del Medio Oriente di allora, gli Ittiti e gli Egizi.

Chi vinse?
Non è chiaro, perché entrambi i contendenti dichiararono gli antagonisti come sconfitti, e anche se un poema che celebrava quello scontro come la schiacciante vittoria di Ramses II fu scolpito in ogni parte del Regno al punto da oscurare ogni altra versione, è più probabile che furono gli Ittiti ad avere la meglio.

Guerra, propaganda e informazione sono da sempre intrecciate in maniera inscindibile, e persino nel fratricidio può accadere che la guerra della comunicazione porti a giudizi antitetici, per cui l’uccisione di Abele da parte di Caino è diventata il simbolo del male, mentre quella di Remo da parte di Romolo è stata presentata come un atto di “giustizia” alla base del mito della fondazione di Roma.

Oggi, mentre non lontano dall’antica Kadesh si sta consumando un genocidio spaventoso, l’informazione, la propaganda, il giustificazionismo di chi si schiera da una parte o dall’altra viene chiamato infowar, l’ennesimo anglicismo spacciato per una novità che serve per riconcettualizzare l’acqua calda nella lingua inglese.

E pensare che la nascita della lingua italiana è strettamente connessa proprio alla guerra di propaganda e comunicazione, visto che la lirica siciliana, in volgare, è nata alla corte di Federico II per motivi politici, in un contesto di guerre.

Esistono anche altri precedenti letterari, piuttosto frammentari, di composizioni in volgare, ma non ebbero lo stesso successo e la stessa diffusione, a partire dal Cantico di San Francesco, che passò inosservato; era forse considerato un canto religioso e una preghiera, fu ignorato da Dante e da tutti i poeti successivi e persino nella Storia della letteratura ottocentesca di Francesco de Sanctis non era menzionato. La scuola poetica siciliana, al contrario, divenne un genere di successo e si può considerare il primo atto di una politica linguistica che promuoveva il volgare, insieme ai temi poetici. Qualche tempo fa ho ricostruito questa storia in un articolo, per chi fosse interessato ad approfondire, ma la sintesi è che Federico II, divenuto imperatore del Sacro Romano Impero, tentò una restaurazione illuminata del sistema feudale contro i Comuni che se ne volevano slegare, e allo stesso tempo prese le distanze anche dalla Chiesa. La poesia siciliana in un proto-italiano locale, ma allo stesso tempo “illustre”, e cioè in grado di arrivare a tutti gli italiani, non era una scelta “innocente” né casuale. Dietro quelle liriche c’era la volontà di affermare una nuova lingua che rompeva sia con il latino ecclesiastico sia con la poesia provenzale in voga nei comuni del Nord. Questi a loro volta si costituirono in una seconda Lega lombarda, dopo la prima contro il Barbarossa, in guerra contro Federico II. Le poesie in provenzale e siciliano non trattavano solo di temi amorosi, ma anche di vicende politiche, e l’affermazione della lirica siciliana si può leggere proprio come un atto di propaganda che, dietro le canzoni, pubblicizzava lo splendore del progetto federiciano. Fu questa scuola che fu poi imitata da i primi prosatori emiliani e toscani e poi da Dante, che la continuarono nei rispettivi volgari.

Oggi, i nuovi intellettuali e giornalisti con le fette di salame sugli occhi si svegliano all’improvviso e credono che la guerra di informazione sia qualcosa di moderno o di nuovo, e in questa miopia culturale e cerebrale si affannano a spiegare questo fenomeno attraverso la parola infowar. Questo “nuovo” e strabiliante concetto è emerso negli anni Novanta, ai tempi dei conflitti in Bosnia ed Erzegovina, e poi durante la guerra in Iraq, e rispunta sui giornali a ogni conflitto, dall’Ucraina a Gaza.

Intanto, mentre il concetto di infowar è di solito attribuito al “nemico” e ai “cattivi”, i nostri giornalisti e analisti credono invece di essere i portatori dell’”oggettività” dei valori occidentali, visto che sono schierati preventivamente dalla parte degli “americani” e utilizzano le loro categorie concettuali e la loro lingua in modo acritico. E infatti nella guerra dell’informazione abbiamo visto come sono stati raccontati gli eventi in Iraq, un Paese distrutto dopo aver sbandierato prove false secondo le quali Saddam Hussein sarebbe stato in possesso di inesistenti armi di distruzione di massa. In tv si vedevano più che altro le immagini dei bombardamenti “chirurgici”, non si vedevano le mamme irachene piangere i bambini morti e le case distrutte come nel caso della guerra in Ucraina, in modo da non mettere in risalto che quella guerra ha comportato la morte di circa 200.000 civili.

Sullo sfondo di queste tragedie umanitarie, nell’informazione di guerra e nella guerra dell’informazione in cui siamo parte in causa, ognuno racconta e mistifica come ai tempi di Egizi e Ittiti.

La novità sta semmai nello sterminio lessicale, che rimane un crimine intellettuale, anche se paragonarlo allo sterminio dei civili è a dir poco irrispettoso.

Comunque, mentre la propaganda di guerra è infowar, le mistificazioni sono diventate fake news (visto che le notizie sono diventate news), i carri armati sono diventati tank, la Cisgiordania è ormai affiancata dal nome inglese di West Bank, la città di Gaza è Gaza City – come fosse una tipica espressione della lingua palestinese – i bombardamenti e le incursioni sono raid… e accanto alla guerra vera si consuma quella per l’imposizione della lingua inglese che si vuole far diventare la lingua internazionale dell’umanità, ma che – come ai tempi di Federico II – non è una scelta innocente, è una ben precisa scelta politica dagli effetti collaterali devastanti: giorno dopo giorno le parole italiane sono affiancate e sempre più spesso sostituite da quelle inglesi, in sempre più ambiti, con una frequenza sempre maggiore.