Se l’aeroporto diventa “airport”: la sentenza che in Francia ha condannato l’anglomania

Di Antonio Zoppetti

Un corrispondente dalla Francia da sempre impegnato contro l’anglomania, l’attivissimo Daniel De Poli, mi ha segnalato una notizia che voglio divulgare, visto che i mezzi di informazione difficilmente la racconteranno.

Tutto ha avuto inizio nel 2015, quando l’aeroporto di Metz-Nancy-Lorraine (la cui denominazione ufficiale francese era “aeroport de Metz-Nancy-Lorraine”) ha deciso di anglicizzare quel nome trasformandolo in “Lorraine Airport”, che oltre all’anglicismo ha introdotto anche l’inversione sintattica tipica dell’inglese. La motivazione era la solita, tutto era stato fatto in nome di una presunta “internalizzazione” che presuppone e dà per scontato – senza alcun fondamento – che la lingua internazionale sia l’inglese.

È una posizione che ben conosciamo in Italia, è la stessa logica con cui alcune università – dal Politecnico di Milano all’Università Bocconi – vogliono estromettere l’italiano e insegnare solo in inglese.

Questo disegno viene messo in opera in modo surrettizio, ma sistematico, attraverso piccoli passi apparentemente insignificanti, per esempio le carte d’identità concepite in modo bilingue (lingua nazionale + inglese) anche se l‘inglese non è affatto la lingua dell’Europa, soprattutto dopo l’uscita del Regno Unito.
In nome di questa ideologia linguicista le nostre istituzioni hanno deciso che i progetti di ricerca (dai Fondi per la scienza, i FIS, a quelli culturali, i Prin) debbano essere presentati obbligatoriamente in lingua inglese anche se si tratta di ricerche che riguardano materie italiane, con la paradossale conseguenza che per ottenere un finanziamento “italiano” di ricerca su Dante Alighieri bisogna presentarlo in inglese. Questa dittatura dell’inglese ci è stata imposta in modo ancora più pesante con la riforma Madia dei concorsi della Pubblica Amministrazione: il requisito di conoscere una “seconda lingua” è stato sostituito con la parolina magica “inglese”, che è diventato così un obbligo e un requisito indispensabile indipendentemente dai ruoli e dal fatto che la conoscenza di questa lingua sia davvero necessaria.

Naturalmente far coincidere “internazionale” e “inglese” è una voluta confusione che deriva da un progetto e da una visione politica che punta ad affermare e a imporre a tutti la lingua naturale dei popoli dominanti. In Italia siamo in prima linea nel sostenere e nel diffondere questa visione che fa dell’inglese una lingua superiore, ma in Francia le cose vanno diversamente, e davanti al cambio di nome dell’aeroporto sono divampate da subito le polemiche.

E così, l’associazione per la difesa della lingua Francophonie Avenir, dopo aver chiesto invano alla struttura di rinunciare all’inglese, ha intrapreso la via giudiziaria, visto che in Francia esistono delle ottime leggi a tutela della lingua. E dopo otto anni di battaglie, finalmente il 14 dicembre scorso è arrivata la sentenza che ha sancito la vittoria dell’Associazione: l’aeroporto è stato condannato a ripristinare il vecchio nome francofono e a riutilizzarlo nella denominazione ufficiale, su tutti i documenti, i cartelli e la segnaletica, la pubblicità, la documentazione cartacea e virtuale. Inoltre dovrà pagare le spese processuali, un risarcimento nei confronti dell’associazione e una multa simbolica di un euro per aver violato le leggi francesi (per chi è interessato, ecco il collegamento alla sintesi della vicenda dell’A.FRA.AV e il verbale della sentenza).

In Italia, invece, dove la compagnia di bandiera Alitalia è stata sostituita da ITA Airways, non esistono leggi in proposito, non esistono punti di riferimento e associazioni, e persino la Crusca – al contrario delle accademie di Francia e Spagna – ha un approccio descrittivo verso la lingua e ha rinunciato a essere prescrittiva. Dunque, come ho già denunciato in un altro articolo, di recente è accaduto che, per opera dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Meridionale, sia iniziato il processo di anglificazione dei porti pugliesi con la dicitura Port of Manfredonia, Port of Monopoli, Port of Barletta

Nella speranza che nel 2024 il vento possa cambiare anche da noi, auguro a tutti buone feste con la consueta raccomandazione di evitare, per piacere, la stucchevole consuetudine di inviare stupidi auguri di buon Natale e buon anno in inglese, con la scusa di essere internazionali.

Il “cherry picking” linguistico

Di Antonio Zoppetti

Dal Dizionario AAA ricevo una gran quantità di domande su come tradurre gli anglicismi sempre più frequenti e astrusi. Voglio riportarne una arrivata qualche giorno fa perché mi permette di aggiungere qualche osservazione sul fenomeno in generale:

Buonasera,
recentemente mi è capitato di riflettere sull’espressione “cherry picking”. Non sono riuscita a trovare un traducente completamente adatto, sapreste darmi una soluzione?
Grazie!
Elizabeth R*

Cherry picking: significati

Cherry picking (letteralmente raccolta di ciliegie) indica una raccolta o scelta selettiva basata sulla metafora dello scegliere, tra le tante ciliegie, solo quelle migliori. In italiano circolano analoghe espressioni che si appoggiano invece alla metafora del fiore: il motto dell’Accademia della Crusca “il più bel fior ne coglie”, l’etimo della parola antologia (ánthos = fiore + loghìa che deriva dal tema légo = scelgo), il florilegio, il fior fiore di qualcosa.

Come nella proverbiale questione del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, che dipende dal punto di vista che assumiamo, mentre la metafora italiana del fiore guarda agli esempi migliori, la connotazione dell’espressione inglese evidenzia invece gli elementi trascurati, dunque indica una raccolta parziale, che confonde la parte (le ciliegie belle) con il tutto (ci sono anche le ciliegie col verme o acerbe).

A sua volta, questa raccolta di dati parziali o distorti può essere involontaria oppure voluta, e genera perciò due fenomeni diversi.

Il primo è psicologico: un individuo tende a formulare un giudizio tendenzioso senza rendersi conto della fallacia delle proprie percezioni, perciò il cherry picking ha a che fare in questo caso con una percezione distorta, una distorsione cognitiva dovuta a preconcetti, un pregiudizio cognitivo che in fin dei conti è un pregiudizio, un preconcetto, una trappola mentale, un errore di giudizio o valutazione.

L’esempio più classico di questa distorsione percettiva si ha nel meccanismo di corroborazione degli oroscopi o della previsione del futuro. Se la fattucchiera di turno prevede dieci cose, la nostra mente tende a notare – tra tutte – solo quelle due o tre che capitano davvero. Quando accade, ogni previsione avverata fa scattare la molla dell’associazione mentale: “Il veggente l’aveva detto!”, con il risultato che la profezia sembra verificarsi solo perché il nostro cervello lavora solo sugli esempi positivi e si dimentica di quelli che non si verificano affatto, e che con ogni probabilità sono più numerosi di quelli azzeccati.

Questo meccanismo è qualcosa di nuovo? No di certo, si tratta di una convalida (o conferma) soggettiva nota anche come effetto Forer o Barnum (dal nome di due studiosi che l’hanno indagato), ma nella nostra mania compulsiva di esprimere ogni cosa in inglese si può indicare anche con l’anglicismo bias (per non farci mancare nulla nella lingua di Albione, nemmeno i doppioni).

Non sempre, però, nella raccolta delle ciliegie cadiamo nelle trappole cognitive, altre volte lo stesso meccanismo è ben preordinato per costruire delle argomentazioni volutamente tendenziose, surrettizie e sornione (che sotto la maschera innocente celano l’inganno). E questo è il secondo significato retorico, o comunque impiegato per esempio nella comunicazione scientifica o medica di parte: si riferisce al tacere una parte della realtà, e in italiano si può rendere tecnicamente con la fallacia dell’incompletezza (o dell’evidenza incompleta), o in parole povere con un’argomentazione incompleta, distorta, deformata, tendenziosa, artificiosa, di parte, parziale, partigiana, faziosa, viziosa o viziata, una pseudoargomentazione o una manipolazione dei fatti (ancora una volta il concetto finisce per sovrapporsi all’anglicismo fake news, visto che stiamo riscrivendo la nostra storia e la nostra essenza con concetti inglesi).

Questa casistica di comodo, militante e non obiettiva si basa su una tecnica che è stata definita anche scopa di Occam, cioè un modo di nascondere i fatti indigesti sotto il tappeto in contrapposizione al “rasoio di Occam” (per cui tra due spiegazioni la migliore è sempre quella con il minor numero di passaggi, la più semplice ed economica).

Dal significato all’uso

Chiariti i significati del cherry picking in generale e negli ambiti della psicologia e della comunicazione, e chiarito che non si tratta di nulla di nuovo e che non ci mancano di certo le parole per esprimere le stesse cose in italiano, nel nuovo millennio abbiamo ripetuto l’espressione inglese in sempre più contesti.

In figura si vedono le frequenze della parola in inglese e in italiano, e il grafico è piuttosto calzante nel mostrare come gli andamenti siano simili nei picchi e anche nei cali, nonostante nei confronti con la lingua dominante la frequenza dell’espressione sia da noi più bassa.

Andando a vedere in quali contesti questa espressione viene impiegata, oltre al caso della psicologia, della comunicazione o della retorica, l’anglicismo viene utilizzato anche in ambito economico, con una diversa sfumatura, per indicare gli investimenti a basso rischio o sicuri perché basati solo sui parametri migliori e più affidabili su lungo termine. Ma poiché l’anglomania non ha limiti, ecco che l’espressione inglese si allarga anche di tantissimi altri significati, e sul Sole 24 ore, per esempio, si trova un’ulteriore accezione per cui cherry picking può indicare anche la prassi dello “strappare il personale” alle aziende concorrenti, naturalmente solo quello più brillante e strategico (le ciliegie buone); e poiché una ciliegia tira l’altra, tra i neologismi Treccani si legge che equivale anche alla “capacità di individuare le doti migliori di una persona (Corriere della Sera – Magazine 07/09/2006).”

Riassumendo, l’espressione inglese è una metafora piuttosto generica usata come parola ombrello, e si piega poi alle tante valenze che assume in vari ambiti configurandosi come un tecnicismo. Questo allargamento in tanti settori dove cherry picking si acclimata ricavandosi un significato peculiare tende a sovrapporsi all’italiano e a sostituirlo anche se esistono espressioni equivalenti, ma contemporaneamente tende a occupare le sue nicchie imponendosi come qualcosa di nuovo.

Perché dobbiamo trapiantare un modo di dire in inglese – molto generico e vago – farlo nostro e introdurlo in sempre più ambiti invece di usare le nostre parole?

Il problema è sempre lo stesso, e la risposta sta nella nostra mente colonizzata che ha come punto di riferimento solo l’anglosfera, una mens insana che produce una lingua insana.

Il cherry picking in Francia e Spagna

Mentre le Accademie di Francia e Spagna fanno il loro lavoro di accademie, e hanno dunque un approccio prescrittivo che contempla anche la coniazione di nuove parole, la Crusca, al contrario, si vanta del suo approccio descrittivo e si guarda bene da produrre neologismi, per cui le consulenze linguistiche finiscono spesso per legittimare gli anglicismi, invece di contrastarli. E così, alla domanda di un lettore che chiede se si può dire governanza invece di governance, segue una risposta che avvalora l’anglicismo sostenendo che è “ormai divenuto italiano”, anche se sul questo bizzarro concetto di “italiano” basato sull’uso ci sarebbe da ridire, visto che è una parola che viola le regole ortografiche e fonologiche della lingua che un tempo la Crusca ha contribuito ad affermare (Arrigo Castellani si rivolterebbe nella tomba davanti a certe affermazioni che legittimano quelli che chiamava “corpi estranei” proprio perché sono fuori dall’italiano e non si amalgamano con il sistema linguistico che li ospita).

Allo stesso modo, davanti alla domanda se è possibile tradurre know how la Crusca chiarisce: “La risposta è no (…) il referto della radiografia di know how sancisce una prognosi infausta per qualsiasi ipotesi di traduzione italiana.”

Davanti a questo atteggiamento viene da chiedersi a cosa ci serva una simile accademia, visto che per studiare la lingua senza intervenire ci sono già le università. Naturalmente (come ho già scritto in un altro articolo) l’atteggiamento dell’Academie Française e della Real Academia Española è ben diverso, visto che al posto di un “intraducibile” know how indicano senza esitare rispettivamente i traducenti savoir faire e conocimiento fundamental, ma è risaputo che quelli che in Italia sono spacciati come “prestiti di necessità” quasi sempre sono “necessari” solo da noi. Mi domando se questo atteggiamento dei linguisti italiani non si possa configurare come un caso di cherry picking linguistico: si fa credere che le parole inglesi siano come le ciliegie buone, mentre quelle italiane si oscurano e si nascondono sotto al tappeto, come se non esistessero, per procedere solo attraverso le espressioni inglesi facendole apparire intraducibili. In questa follia, in gioco c’è la lotta per l’imposizione dei nuovi concetti in inglese (anche se non sono affatto nuovi).

E forse, chissà, anche il motto della Crusca “il più bel fior ne coglie” si potrebbe modernizzare prima con “la più bella ciliegia ne colga” per poi passare gradualmente a dirlo nella lingua internazionale: cherry picking e basta.

Comunque sia, cercando cherry picking sul sito della Crusca non appare alcun risultato, invece, su un cinguettio di X (ex Twitter) della Reale Accademia Spagnola si legge: “In alcuni contesti l’anglicismo «cherry-picking» equivale a «espigueo» [= spigolatura NdA ], quando assume il significato dell’azione e dell’effetto di cercare in diversi scritti o fonti i dati per qualche lavoro.”

Nel mondo ispanico le alternative sono dunque promosse, invece che negate, e se si cerca l’espressione inglese sulla Wikipedia in spagnolo si atterra su una pagina in spagnolo: “Falacia de evidenza incompleta”, la stessa soluzione indicata in vari altri contesti, mentre su un dizionario dedicato alle alternative ai forestierismi si parla di “(sofisma de la) prueba incompleta, supresión de pruebas”.

Nel vocabolario di arricchimento del francese si divulga invece la parola “picorage”, che fa riferimento allo “spiluccare” degli uccelli, il “becchettare” selettivo che riprende la metafora dello scegliere le ciliegie buone, la stessa soluzione riportata dalla Wikipedia (“Nel sistema giudiziario, quando una persona è incaricata di difendere una particolare posizione, “picorage” può essere appropriato. Un avvocato è libero di presentare solo le prove che sostengono l’innocenza del suo cliente”).

Da noi, invece, ci sono dei linguisti che ci vogliono far credere che l’arricchimento dell’italiano avvenga proprio mediante gli anglicismi, visti non come una regressione, ma come un arricchimento… un punto di vista piuttosto strampalato.

Il fatto è che senza istituzioni serie in grado di intervenire nel codificare delle soluzioni condivise che possano diventare dei punti di riferimento ufficiali, in Italia siamo in balia di una classe dirigente anglomane che sa solo importare e legittimare l’inglese, a cominciare proprio dai linguisti.

E in questo modo gli anglicismi non possono che avere la meglio, perché non si può lasciare le alternative alla creatività e alle traduzioni soggettive dei singoli parlanti, tecnici, traduttori o giornalisti. Ammesso e non concesso che qualcuno si sforzi di dirlo in italiano, tra le tantissime soluzioni che si possono individuare a seconda dei contesti, ciò che viene a mancare è proprio l’uniformità che caratterizza l’equivalente inglese, che finisce per scalzare le traduzioni proprio perché varie, personali e non standardizzate in una soluzione condivisa.

Anche per questi motivi, in mancanza di punti di riferimento istituzionali, ricevo decine e decine di domande e di richieste di traduzioni come questa che ho voluto divulgare.

PS
Il 15 dicembre, alle ore 17, interverrò a Pistoia presso l’Archivio Roberto Marini (Galleria Nazionale, 9) al convegno “Gli americani ci fregano con la lingua” (citazione da un gustoso monologo di Francesco Guccini) insieme a Debora Pellegrinotti, Giampaolo Francesconi e Giuseppe Fasulo. Parlerò dei meccanismi con cui gli anglicismi penetrano nell’italiano e del rapporto tra lingua e potere.

Cervinia deve restare in italiano: è una questione di “brand reputation” per la “destination”

Di Antonio Zoppetti

Al contrario della questione dell’anglicizzazione e dell’itanglese — che non suscita troppe resistenze e riflessioni (salvo in qualche superficiale articolo di folclore) — la decisione di cambiare il nome ufficiale di Cervinia con Le Breuil ha scatenato un vasto teatrino politico-mediatico. La nuova nomenclatura decisa dalla Regione pone problemi pratici rilevanti, che non riguardano solo il cambio di nome sulle mappe, ma anche i documenti anagrafici o la cartellonistica stradale.

Un po’ di storia

Contrariamente a quanto capita di leggere e di sentire, il caso ha poco a che vedere con l’imposizione della toponomastica italiana da parte del fascismo, come era avvenuto per Sauze d’Oulx ribattezzata Salice d’Ulzio (oggi anche Salce d’Ulzio) o La Thuile Porta Littoria e Courmayeur Cormaiore; nel dopoguerra queste località hanno ripreso il vecchio nome francese. Cervinia, invece, è sorta negli anni Trenta del secolo scorso perché un gruppo di imprenditori ha edificato una serie di alberghi e di strutture di lusso sul Cervino e ha costruito una funivia nella conca del Breuil per dare vita al centro turistico. La questione del nome risale proprio a quel periodo, come si può leggere in un articolo di 87 anni fa:

Un gruppo di persone di buona volontà e di notevole intuito turistico, arrischiando capitali propri, indubbiamente ingenti, si era proposto di far sorgere nella conca del Breuil, ai piedi del Cervino, un villaggio turistico dotato di tutte le moderne comodità (alberghi, negozi, autorimesse ecc.): dal quale doveva aver capo una teleferica pel trasporto dei turisti e degli alpinisti (…). Poste le prime pietre del nuovo villaggio, sorse con esse l’idea del battesimo e, quindi, della scelta del nome da imporre al nuovo agglomerato turistico, nato in seno alla conca del Breuil. Si pensò e si decise per «Cervinia».

Il pezzo su Stampa Sera dell’11 agosto 1936 riassumeva le polemiche sul nome che erano divampate già allora, perché “si pensò che i fondatori di Cervinia volessero «allungare la mano» su tutta la conca del Breuil per ribattezzarla col nome del nuovo villaggio turistico”. E la chiusa, in parte profetica e in parte no, concludeva:

Una polemica non dovrà più sorgere ai piedi del Cervino (ce ne sono già state troppe) ma una serena soluzione ci pare evidente: il villaggio turistico si chiami pure «Cervinia», come si chiaman Avouil, Maberge, Museroche, Bardoney, Cretaz, ecc. gli altri gruppi di case nel Plano del Breuil; ma accanto a questo nuovo toponimo si aggiunga sempre «al Breuil». Stian pur certi, organìzzatori. partigiani ultradinamici e padrini di battesimo, che il nuovo rampollo si addosserà un carico di gloria, carico che, fino a prova contraria, non ha mai offuscata la figura del fortunato portatore.

Chiarito che la questione del nome in italiano o francese è vecchia quanto la località, andrebbe precisato che nel dopoguerra una simile questione era sorta, ed è stata regolamentata, per la toponomastica altoatesina. La soluzione attualmente vigente è basata proprio sul bilinguismo e nel lasciare il doppio nome in modo ufficiale, non solo per le località, ma persino nell’indicazione delle vie e delle strade. Lo stesso criterio — che era inserito in un ben più ampio progetto attento al bilinguismo locale e storico — non è stato applicato nel caso della Val d’Aosta, e oggi rispuntano le polemiche che affondano le loro radici proprio in una mancata regolamentazione di un’antica controversia tra le tradizioni dialetto-francofone e quelle italofone.

Difendere l’italianità in inglese, un paradosso tutto italiano

Rispetto alle polemiche degli anni Trenta, oggi Cervinia è una località dalla risonanza internazionale, ma il signor Uso, tanto invocato (spesso a vanvera) come il giudice supremo di ogni questione linguistica, viene messo sotto il tappeto per passare a un lessico del nuovismo che però sprofonda in questioni antiche e mai risolte. Un nuovismo un po’ purista che si caratterizza come ripristinatore del presunto nome vero e originale.

Quello che stupisce, nelle polemiche odierne, è l’incapacità di possedere un quadro d’insieme del problema, in una visione storica, ma anche di politica linguistica. E così le dichiarazioni di Daniela Santachè, ministro (o ministra?) del Turismo, suonano come una barzelletta. Dopo aver riassunto la vicenda del cambiamento del nome da Cervinia in non si sa bene cosa, visto che la politica sostiene di non ricordarsi nei dettagli fonologici quale sia il nome alternativo (ignorando anche la storia della vicenda), le sue parole sono state:

“Ma siete matti? Sapete quanto tempo ci vuole a costruire una destination, una brand reputation?”

Mentre (la) Santanchè – proprio da una piattaforma che ha buttato via la costruzione del marchio Twitter per passare a una X – disapprova il renaming della location, c’è da domandarsi quale sia la sua vision – per parlare nella sua lingua – dell’italiano. Chissà se è consapevole di quanti secoli ci sono voluti all’italiano per acquisire l’attuale nomea, ammirazione, risonanza, suggestività, persino evocatività (= brand reputation) che vanta in tutto il mondo. E quando una destinazione, una meta, un posto, un luogo diventano destination, per indicare una tappa turistica di prestigio, non siamo altrettanto “matti” (se non di più)? Non siamo matti a buttar via l’italiano per sfoggiare l’inglese? Non siamo matti a varare il ministero del Made in Italy invece di quello del prodotto italiano? Non siamo matti a definire le contraffazioni gastronomiche dal nome pseudoitaliano come il parmesan prodotti italian sounding? Non siamo deficienti a imporci in tutto il mondo con l’italian design – inglesizzazione del rinomato disegno industriale italiano? E a gettare via i soldi pubblici per realizzare dei portali che dovrebbero promuovere l’italianità con motti come “open to meraviglia”, voluto proprio da(lla) Santaché che non ragiona in modo diverso da Franceschini con il suo famigerato Verybello seguito da un altrettanto fallimentare e costoso ITsART?

Mi duole tantissimo trovarmi d’accordo con (la) Santachè sull’opportunità (o se preferisce l’opportunity) di oscurare un toponimo simbolo come quello di Cervinia, ma il modo di esprimere – in inglese – questa sensata presa di posizione è un rimedio peggiore del male. E fino a quando questa classe dirigente di colonizzati (allo stesso tempo colonizzanti) non sarà spazzata via – quella della Santanché ma anche di tutti gli anglomani collocati in modo trasversale tra sinistra, pentastellati e ogni altro partito-persona in circolazione – la lingua italiana sarà sempre più calpestata, abbandonata e mandata in malora. Peccato che il problema non stia in parole come Breuil o Cervinia, ma negli attuali 4.000 anglicismi registrati dai dizionari, nel loro fare piazza pulita dell’italiano, nel loro penetrare sempre più nella profondità nel nostro lessico, nelle loro frequenze che stravolgono la lingua di giornali e politici, nel loro ibridarsi generando una newlingua che si chiama itanglese. Mentre l’italiano non è più lingua di lavoro dell’Ue, viene estromesso come lingua di insegnamento di alcune università che insegnano direttamente in inglese, perde ambiti strategici della modernità come la scienza o il lavoro, viene sostituito dall’inglese persino nella presentazione dei progetti di ricerca italiani (Prin) o di quelli per i finanziamenti scientifici (Fis)… e regredisce, la nostra classe dirigente non sa guardare oltre il caso del cambiamento del nome di Cervinia.