Chi fa la lingua? E chi fa l’itanglese?

Davanti all’anglicizzazione della nostra lingua, il ruolo dei linguisti, la guida dell’Accademia della Crusca, le iniziative come i dizionari delle alternative e dei sinonimi agli anglicismi sono molto importanti. Costituiscono un punto di partenza fondamentale, ma non certo sufficiente, perché il fenomeno è extralinguistico: la lingua non è fatta, né può essere fatta, dai glottologi; evolve con altre dinamiche imprevedibili, nasce dal basso e dall’alto, snodandosi tra norme e uso.

Per arginare il fenomeno dell’itanglese occorre dunque una rivoluzione culturale che parta proprio dai centri di irradiazione della nostra lingua. Prima di provare a reagire, bisogna perciò comprendere quali siano.

L’evoluzione dell’italiano: dai modelli letterari all’epoca del sonoro

Storicamente furono gli scrittori e i letterati a fare l’italiano, molti secoli prima che l’Italia si costituisse politicamente. Questo italiano letterario, con le sue regole e allo stesso tempo molto variegato, non era però un patrimonio di tutti, era la lingua dei libri e della scrittura, ma non era parlato e praticato dagli italiani nella quotidianità.

Manzoni non parlava l’italiano, si esprimeva in milanese nei contesti cittadini e prevalentemente in francese in quelli più istituzionali:

Supponete dunque che ci troviamo cinque o sei milanesi in una casa dove stiam discorrendo, in milanese, del più e del meno. Capita uno, e presenta un piemontese, o un veneziano, o un bolognese, o un napoletano, o un genovese; e, come vuol la creanza, si smette di parlar milanese, e si parla italiano. Dite voi se il discorso cammina come prima; dite se ci troviamo in bocca quell’abbondanza e sicurezza di termini che avevamo un momento prima; dite se non dovremo ora servirci d’un vocabolo generico o approssimativo, dove prima s’ avrebbe avuto in pronto lo speciale, il proprio; ora aiutarci con una perifrasi, e descrivere, dove prima non s’avrebbe avuto a far altro che nominare; ora tirar a indovinare, dove prima s’era certi del vocabolo che si doveva usare, anzi non ci si pensava, veniva da sé (…) lo confesso, il non poter chiamar mio idioma, se non quello in cui io le sappia dire, cioè il milanese.

[“Della lingua italiana”, in Opere inedite e rare, pubblicate per cura di Pietro Brambilla da Ruggero Bonghi, Enrico Rechiedei e Ci editori, Milano 1891].

Questo passo è interessante per comprendere come lo scrittore abbia speso vent’anni per formare la lingua modellata sul fiorentino vivo dei Promessi sposi, che tra le polemiche, si è successivamente imposta come il modello vincente.

Passando dalla lingua scritta e letteraria al parlato, si esprimevano in piemontese e in francese anche Cavour, o Vittorio Emanuele II,  e dopo l’unificazione dell’Italia restava ancora da fare l’italiano, per parafrasare Massimo D’Azeglio.

Soltanto un secolo fa, durante la Grande Guerra, c’erano notevoli problemi di comprensione tra gli ufficiali piemontesi e le masse di braccianti del meridione, perché gli elementi comuni tra i dialetti del Nord e del Sud erano pochi e un piemontese e un pugliese, o un veneto e un siciliano non si capivano.
In seguito i dialetti cominciarono ad italianizzarsi sempre di più anche con la costituzione della leva obbligatoria, che portò al contatto fisico degli italiani di diversa provenienza, e poi l’italiano si fece strada come patrimonio comune con le riforme della scuola che estromisero i dialetti dall’insegnamento (in un primo tempo visti come un ostacolo all’unificazione linguistica), e ancora con la scolarizzazione sempre maggiore, con la diffusione dei giornali, o delle opere teatrali. Ma solo con l’epoca del sonoro, per la prima volta, si pose la questione di un italiano parlato che fosse un modello per tutti, di lessico e di pronuncia.

L’italiano di oggi nasce dunque con la radio (1924) e con l’avvento del sonoro al cinema (1927). Questi paradigmi furono molto più potenti dello scritto per l’unificazione della nostra lingua. In epoca fascista nacque a Roma una scuola di dizione che si impose come il modello della radio e del doppiaggio cinematografico, e in caso di divergenze tra la pronuncia fiorentina e quella romana fu la seconda a essere scelta come il canone del regime (Roma caput mundi). In questa nuova fase, i modelli letterari e il fiorentino pesavano sempre meno nell’evoluzione dell’italiano moderno, e con l’avvento della televisione (1954) il ruolo-guida della letteratura subì un colpo di grazia.

Gli anni Sessanta e la tecno-lingua dei centri industriali del Nord

Mentre la distanza tra la lingua dei libri e del parlato si accorciava sempre di più, negli anni Sessanta fu Pier Paolo Pasolini (“Nuove questioni linguistiche”, Rinascita, 26 dicembre 1964) a capire lucidamente che l’italiano basato sui testi letterari e sul toscano era finito. Il nuovo italiano era tecnologizzato, raccoglieva gli influssi del modo di parlare del Nord, il nuovo centro di irradiazione, un neoitaliano che si staccava da quello di Roma e Firenze, ed era sempre più policentrico: esprimeva il linguaggio della nuova classe egemone, la “borghesia capitalista”. In definitiva, dopo l’epoca degli scrittori, erano ormai gli imprenditori, gli scienziati e i giornalisti (nella loro accezione anche televisiva) coloro che avevano sempre più il potere di decidere della sorte della nostra lingua. Anche se molti linguisti di allora diedero torto a Pasolini, come osserva Claudio Marazzini:

oggi “non si può negare che lo scrittore intuì meglio di altri la tendenza alla quale si avviava la lingua nazionale, la quale iniziava davvero un processo di definitivo distacco dalla propria tradizione umanistico-letteraria”.

[L’ italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua, Rizzoli 2018, p. 132].

Il ruolo dell’industrializzazione nella nuova lingua è stato enorme. Per fare qualche esempio significativo, basta ricordare Gian Luigi Beccaria che ha notato come la grande distribuzione gastronomica abbia unificato linguisticamente molti alimenti che prima venivano detti in una miriade di varietà regionali. Oltre al caso dei crumiri di Casale Monferrato:

“Dei dolci, soltanto quelli che hanno nome commerciale, industriale (panettone, pandoro, panforte) portano denominazioni nazionali” mentre “il dolce tipico di carnevale, difficilmente commerciabile su larga scala perché andrebbe tutto in briciole” ha ancora nomi diversi a seconda dei luoghi: chiacchiere, bugie, crostoli, frappe, galani e via dicendo.

[Misticanze. Parole del gusto, linguaggi del cibo. Garzanti 2009, p. 171].

E oggi cosa sta avvenendo?

Questo fenomeno sta continuando su scala mondiale, e dopo l’era del linguaggio del Nord, la neolingua dei mercati è basata ormai sull’esportazione dell’inglese.


L’italiano anglicizzato del nuovo Millennio

La scienza parla l’inglese. La tecnologia si esprime in inglese. I giornalisti riportano, spesso virgolettando senza tradurre, le espressioni angloamericane che attingono dalle fonti internazionali, e le diffondono così nella nostra lingua prive di alternative, dalle “fake news” di Donald Trump, allo “shutdown” che circola in questi giorni su tutti i mezzi di informazione senza alcuna spiegazione né alternativa. Lo stesso accade per ogni tipo di neologia che ci porta la globalizzazione e l’espansione delle multinazionali d’oltreoceano. Purtroppo, al contrario di quanto avviene in altri Paesi come Francia e Spagna, noi non manifestiamo alcuna reattività di fronte a questo fenomeno (ci sono persino linguisti “lungimiranti” che lo negano e ci dicono che è tutta un’illusione ottica), anzi, la aiutiamo dall’interno nella nostra strategia di dire in inglese anche ciò che abbiamo storicamente sempre espresso in italiano nella convinzione di essere più moderni e internazionali. Questa follia non è altro che l’alberto-sordità di Un americano a Roma privata dell’ironia ed elevata a strategia comunicativa.

E così, dopo l’epoca della denominazione nazionale dei prodotti gastronomici regionali è arrivata quella della denominazione sovranazionale del settore del “food” e della grande distribuzione planetaria: le grandi catene di fast food che servono hamburger, cheesburger e milkshake, a cui si aggiungono i nuovi prodotti mondiali come i marhmalllow, i muffin, le cheese cake, che si sposano con il cake design. Mentre le patatine diventano chips, abbiamo interiorizzato senza alternative i self service, il take away, gli all can you eat; nei discount si trovano gli energy drink e i prodotti sugar free e fat free, che si possono assaggiare nei  food corner. Ci compiacciamo di questo inglese che è allo stesso tempo merce, lingua e cultura, e in questo modo, dopo l’invenzione tutta italiana di marchi dal suono inglese come Autogrill, anche i nuovi “brand” del settore si chiamano oggi Slow food o Eataly, mentre enoteche, cantine e vinerie si trasformano in wine bar, come la metà delle insegne dei negozi delle grandi città a cominciare dai parrucchieri che sono ormai hair stylist, per non apparire antiquati come la nostra lingua.

Dopo l’epoca degli industriali del Nord e della loro lingua, individuata da Pasolini, è arrivata quella dei colossi mondiali che esportano la neolingua del nuovo Millennio. Tutto il settore delle merci si sta anglicizzando: negozi, botteghe e punti vendita cedono il posto agli shop e agli store: e-store, e-shopping, megastore, pet shop, pop up shop o temporary shop, sex shop detti sexy shop all’italiana (con i sex toys e gli strap-on), showroom, shopping center, bookshop, beauty shop (center e farm), phone center, outlet, supermarket


L’informatica e la Rete

Le merci e i loro nomi in inglese diventano un tutt’uno indivisibile, fanno parte dello stesso pacchetto nominalistico-culturale da esportare. Questo è particolarmente evidente nel caso dei colossi mondali dell’informatica e della Rete: Microsoft, Google, Facebook. Noi ripetiamo quel che leggiamo sulle scatole degli articoli che ci vendono e sulle interfacce dei loro prodotti che utilizziamo, perciò non ci resta che downloadare, googlare, whatsappare, twittare, photoshoppare, e in questa moria dell’italiano anche i semi-adattamenti italiani scompaiono davanti alle regole interiorizzate dall’inglese: non ci sono bloggatori o chattatori, ma blogger e chatter, sul modello di youtuber, follower, influencer, hater, hacker, cracker, surfer che vanno di pari passo con i designer, i rapper, i runner, i pusher, i serial shopper, gli skipper, gli speaker, gli stopper

Come è possibile non cogliere l’assimilazione di una desinenza inglese che stiamo importando senza rendercene conto in una regola istintiva e inconscia? Come è possibile non vedere che gli anglicismi costituiscono una rete sempre più fitta di radici e di parole interconnesse che si espandono nel nostro lessico?

Davanti a tutto ciò, affrontare il fenomeno della penetrazione dell’inglese attraverso categorie obsolete come quelle dei “prestiti” isolati – come molti linguisti continuano a fare – significa non comprendere la realtà, e non avere gli strumenti per reagire. Come si fa a non cogliere dietro questi fenomeni una strategia che vede come unica soluzione quella di importare le cose nuove con nomi in inglese, invece di adattare, coniare neologismi o allargare il significato delle nostre parole?

La tecnologia senza fili inventata da Marconi la reimportiamo con il nome di wireless legata al digitale, che si sposa con il cordless (less è uno degli anglicismi formanti più infestanti: dopo il topless, sono arrivati gli homeless, i genderless, i ticketless, i conctactless e moltissime altre parole “italianless”). L’informatica è la parte della nostra lingua numericamente più devastata, ma non è un caso isolato, è solo il settore più contaminato e più eclatante. Il problema è che sta accadendo lo stesso in ogni ambito.

Dai linguaggi di settore a quello delle istituzioni

Nello sport quasi tutte le nuove discipline entrano con nomi in inglese senza traduzioni: il bungee jumping e non il salto con elastico, il nordic walking e non la camminata nordica, il canyoning e non il torrentismo, e quindi si impongono senza alternative il carving, lo spinning, il twirling, lo stand up paddle, mentre le traduzioni storiche regrediscono e si parla sempre meno di pallacanestro, pallavolo e pallanuoto e sempre più di basket, volley e waterpolo anche nelle denominazioni ufficiali.

L’italiano non è più in grado di essere autosufficiente e non ha più una sua terminologia in troppi ambiti, dalle nuove professioni del lavoro alle strategie commerciali chiamate marketing, e sta regredendo nell’ambito della moda, della tecnologia, della scienza,  sempre più incapace di produrre i neologismi che servono per sopravvivere nel futuro.

I mezzi di informazione che in passato hanno unificato l’italiano oggi lo distruggono. Non c’è solo il linguaggio anglicizzato dei giornalisti, ormai i canali Rai sono in inglese: Rai movie, Rai Premium, Rai News, Rai Gulp per i bambini. Lo stesso vale per molti altri canali in chiaro (Paramount, Real time) e a pagamento (Discovey channel, Sky). I palinsesti televisivi sono sempre più affollati di anglicismi nel linguaggio (reality show, talk show, soap opera, fiction, sit-com, pay tv, telemarketing, entertainment, nomination) e anche nei nomi di alcune trasmissioni (Voyager, Tabloid, Report, X-Factor, e persino ossimori come The Voice of Italy o Italia’s Got Talent) che sempre più spesso sono rifacimenti di programmi acquistati dagli Stati Uniti. E tutto questo non può che avere forti ripercussioni anche sulla lingua degli italiani.
Anche il cinema produce sempre più anglicismi a cominciare dai titoli delle pellicole angloamericane che non sono più tradotte. E così si diffondono parole come highlander, top gun, day after, che travalicano i confini cinematografici e straripano nella lingua comune, mentre i generi drammatico o commedia diventano drama e comedy, e la terminologia delle riviste di settore si esprime con concetti culturali in inglese: i remake, i prequel, gli spin-off

Persino la pubblicità ha contribuito storicamente a fare la lingua (nel bene e nel male), creando espressioni codificate (crea un’atmosfera, il logorio della vita moderna…) e parole (brillantante, maxi-formato), ma oggi parla sempre più l’inglese dei prodotti globali, nelle offerte anglicizzate come le limited edition, e nei nomi commerciali che diventano parole di uso comune (post-it, scottex, tampax, scotch…).
In inglese si esprime gran parte della modernità nella musica, gli anglicismi colonizzano sempre più il linguaggio economico e finanziario, penetrano nel linguaggio della formazione e della scuola, e questo è gravissimo. Se agli inizi del Novecento è stata la scuola a unificare l’italiano e renderlo un patrimonio comune, insieme ai giornali e all’epoca del sonoro, oggi questi centri di irradiazione diffondono l’inglese. E come se non bastasse si anglicizza il linguaggio di aziende come le Ferrovie dello Stato, e dei competitori come Italo che introducono il train manager al posto del capotreno,  e poi quello delle città come Milano… che è il nuovo “centro di irradiazione del Nord” per tornare a Pasolini.

Se questi sono i centri di irradiazione della lingua, quelli che in passato hanno unificato l’italiano e che oggi diffondono l’inglese, su questi occorre intervenire con una rivoluzione culturale che porti a riappropriarci della nostra lingua in ogni ambito, a cominciare dagli addetti ai lavori. Ma perché questo possa avvenire occorrerebbe una politica linguistica. E invece non possiamo che constatare tragicamente che l’inglese è ormai entrato anche nel linguaggio istituzionale, dalle leggi alla politica.

Gli anglicismi sono entrati dunque nel cuore dello Stato. E questo è inaccettabile, è il segno che il limite è stato abbondantemente superato. Ed è ora di intervenire, di protestare e di fare qualcosa.

La rivoluzione culturale necessaria per arginare l’itanglese deve partire proprio dalla politica, come avviene in Francia e negli altri Paesi civili. E se i nostri politici non lo vogliono fare è necessario che i cittadini e gli italiani si costituiscano in un movimento e in un gruppo di pressione che, come elettori, potrebbe far cambiare l’atteggiamento della politica italiana che invece di tutelare la nostra lingua la sta depauperando.

Perché la lingua si fa dall’alto, ma si fa anche dal basso: la facciamo tutti noi.

(continua)

I limiti dei linguisti davanti all’inglese: occorre una rivoluzione culturale

Dopo aver passato in rassegna le cause della folle penetrazione dell’inglese nella nostra lingua, nei prossimi articoli voglio spendere qualche riflessione su cosa si può fare, o almeno su che cosa occorrerebbe fare, per cambiare rotta ed evitare che il futuro dell’italiano in ogni settore scivoli sempre più nell’itanglese.

La prima considerazione  è che il fenomeno non si può circoscrivere nell’ambito di una semplice presa di posizione linguistica, è un fatto extralinguistico di ben più ampia portata. È dunque necessaria una rivoluzione culturale che coinvolga tutte le componenti della società: il lavoro dei linguisti non basta, da solo.

I limiti dei linguisti e della Crusca

Quando Arrigo Castellani  proponeva alternative agli anglicismi come abbuio per blackout, guardabimbi per baby sitter o fubbia per smog, era destinato a non essere ascoltato. Le sue proposte, belle per alcuni, ridicole per altri (ma solo l’uso e l’abitudine rendono le parole belle o brutte, per citare Leopardi) sono rimaste ipotesi che nessuno ha mai utilizzato. I neologismi non possono essere stabiliti a tavolino da qualche linguista di buona volontà nella speranza che i parlanti se ne approprino. La lingua evolve in altro modo.

Diverso è l’approccio del gruppo Incipit dell’Accademia della Crusca, che nei suoi intenti di arginare il dilagare delle parole inglesi cerca di promuovere e diffondere sostitutivi esistenti e possibili, invece che creare parole nuove. È lo stesso criterio che, nel mio piccolo, ho provato a seguire nei miei lavori in Rete  e sulla carta,  ma questo criterio ha un limite, nell’arginare l’itanglese.

Che fare davanti alle nuove parole inglesi che non hanno corrispettivi?

Chi parla di prestiti “di necessità” o di parole “intraducibili” ha già la risposta, ma è una risposta ideologizzata e schierata, che spalanca le porte a ogni genere di anglicismo, visto che l’espansione delle multinazionali, della tecnologia e dei mercati della cultura produce un’infinità di cose nuove dai nomi inglesi. Queste categorie linguistiche sono vecchie e sbagliate, dietro questa classificazione si nasconde una precisa scelta, quella di non tradurre i termini di cui non esistono già corrispondenti italiani.

Davanti a una nuova parola che non c’è, i linguisti anglofili non prendono in considerazione altre soluzioni se non quella di ricorrere al prestito. Ma questo approccio è da contrastare e combattere con ogni mezzo, perché impedisce all’italiano di evolvere per descrivere il presente e soprattutto il futuro. Dire che una parola è “necessaria” o “intraducibile” è una mistificazione disonesta e vergognosa, non tiene conto del fatto che, davanti a una parola che non c’è, storicamente e logicamente, ci sono molte alternative, anche se oggi abbiamo un complesso di inferiorità verso l’inglese che ce ne fa vergognare.

La vergogna di tradurre, adattare, risemantizzare e creare parole nuove

1) tradurre

Davanti alla sciocca e ipocrita obiezione che importiamo parole inglesi per necessità, perché non ne abbiamo di nostre, bisogna gridare forte che nulla è potenzialmente intraducibile, al massimo è intradotto, cioè non lo si vuole o non lo si sa tradurre.
Nel primo caso è una precisa strategia comunicativa (dunque si preferisce dirlo in inglese, chiamiamo le cose con il loro nome!), nel secondo si tratta di una dichiarazione di impotenza linguistica (come nota Gabriele Valle) che è una rinuncia a parlare in italiano. Dire che una parola come mouse è intraducibile o necessaria, è falso: altri Paesi hanno semplicemente tradotto con il corrispettivo topo nella propria lingua.

Se il prestito crudo riguarda un piccolo numero di parole, non c’è nulla di male né di pericoloso. Quando invece diventa una strategia che conduce all’entrata di migliaia e migliaia di anglicismi, è il  sintomo di una lingua malata. Anche perché la massa di questi anglicismi è così intensa che sta portando alla nascita di una rete di parole inglesi che si ricombinano con effetto domino, e l’allargarsi di questo fenomeno ci avvicina giorno dopo giorno alla creolizzazione.

Dunque bisogna ricordare a tutti che:

“Ogni lingua possiede i mezzi per indicare nuovi oggetti o nuovi concetti senza ricorrere a parole straniere tant’è vero che se il francese ha accolto la voce tomate (di origine azteca), l’italiano per denominare lo stesso prodotto ha preferito servirsi della perifrasi pomodoro”, ha spiegato Paolo Zolli.

[Paolo Zolli (1976), Le parole straniere, seconda edizione a cura di F. Ursini, Zanichelli, Bologna, 1991, p. 3].

Se un tempo si ricorreva spesso al calco: bistecca da beefsteak o finesettimana da weekend, oggi lo si fa sempre meno, e si preferisce l’inglese anche in presenza di alternative italiane: fake news  invece di notizie false, street food invece di cibo di strada, jobs act invece di riforma del lavoro

2) adattare ai nostri suoni e alle nostre regole

L’esempio di tomate ci porta alla seconda strategia che una lingua sana dovrebbe adottare: l’adattamento al proprio sistema del forestierismo, tomate in francese, tomato in inglese, tomaat in olandese e via dicendo. Allo stesso modo i giapponesi non hanno importato la parola mouse in modo crudo, ma l’hanno adattato in mausu, così come gli albanesi nell’importare computer lo hanno adattato in kompjuter.

Davanti alla rivoluzione tecnologica del digitale, a tutti coloro che dicono che di fronte alle parole nuove inglesi come smartphone non vedono altre soluzioni che importare i prestiti, bisogna ricordare che la grande rivoluzione tecnologica a cavallo di Ottocento e Novecento ci ha portato la lampadina e la televisione, e non certo la lamp e la television!
E bisogna anche ricordare che negli altri Paesi non ci si vergogna di adattare almeno le pronunce delle parole inglesi: i francesi dicono campìng, futbòl e wi-fì, non ostentano le pronunce originali come noi, che per sentirci più americani diciamo ormai iuesèi invece di USA, che in spagnolo si dice EE.UU. (Estados Unidos) e in francese EU (États-Unis), perché i Paesi normali adattano persino le sigle alle proprie regole e ai propri suoni.

3)  coniarne nuove parole

Revolver? “Il popolo ha già formato la voce Rivoltella”, scriveva nel 1886 Giuseppe Rigutini.

[Giuseppe Rigutini, I neologismi buoni e cattivi più frequenti nell’uso odierno, Roma , Libreria editrice Carlo Verdesi. 1886, p. 321].

Le lingue sane producono neologismi, se vogliono evolvere e sopravvivere ai cambiamenti del mondo, non ricorrono come unica soluzione alla strategia dei prestiti. In tempi recenti si possono segnalare per esempio i casi della comparsa dal basso, da parte del popolo, di apericena di fronte a happy hour, o di colanzo che si sta diffondendo in molti locali al posto di brunch. Chi dice che queste parole italiane sono brutte, dovrebbe forse riflettere sull’insegnamento di Leopardi, prima di emettere banali sentenze che dipendono solo dall’uso e dall’abitudine. Ma i casi di neologismi di fronte all’inglese sono sempre meno. Dallo spoglio di Devoto Oli e Zingarelli risulta che il 50% dei neologismi del nuovo Millennio è inglese, così come il 50% delle parole marcate come termini informatici. Questo è un indice di una grave malattia: l’italiano sta perdendo la capacità di evolvere autonomamente e di poter indicare ciò che è nuovo. Il rischio è che diventi una sorta di dialetto o una lingua lessicalmente morta.

4) allargare il significato di vecchie parole (ri-semantizzare)

Navigare oggi non significa più solo “andare per mari”, ma anche “usare la Rete”. Molti di questi allargamenti di significato  sono il risultato dell’interferenza dell’inglese: basico diventa “di base” e non più solo il contrario di acido, intrigare diventa “stuzzicare” e “coinvolgere”, non più  “compiere intrighi”, e via dicendo. Questi cambiamenti si possono biasimare in nome del purismo o della violazione dei significati storici della nostra lingua, oppure salutare e accettare come un’evoluzione moderna. In entrambi i casi si tratta di cambiamenti che non violano l’identità dei nostri suoni e delle nostre regole di scrittura, dunque le risemantizzazioni di questo tipo non costituiscono un rischio di perdere la nostra identità morfosintattica. Non sono preoccupanti, anzi, davanti all’inglese “crudo” sono una soluzione auspicabile e dovrebbero essercene di più. Se il bug informatico diventa il baco informatico (è una traduzione approssimativa, basata sulla somiglianza fonetica, dell’inglese cimice), e un tweet viene detto anche cinguettio, è il segno che la lingua riesce a evolvere con le proprie risorse. Ma di questi esempi se ne possono fare sempre meno, purtroppo. Al contrario, nello scempio dell’italiano del nuovo Millennio stiamo assistendo a una risemantizzazione rovesciata: le parole italiane soccombono e vengono espresse con un allargamento di significato in inglese. La commedia (un tempo Divina) si trasforma nel genere comedy nei palinsesti televisivi e cinematografici, nel mondo del lavoro è d’obbligo dire mission, vision o competitor invece degli analoghi italiani, nella politica si dice privacy invece di privatezza, tax invece di tasse, nell’informatica computer invece di calcolatore ed elaboratore, nello sport basket e volley invece di pallacanestro e pallavolo, in economia spread invece di forchetta, forbice o scarto.

I puristi del nuovo Millennio: gli anglopuristi che scelgono l’inglese e non fanno evolvere l’italiano

Un tempo molti linguisti erano puristi, erano cioè ostili alle neologie, alle varietà regionali e ai forestierismi, e ammettevano solo le parole storiche e letterarie, ma questo atteggiamento cristallizzava la lingua italiana al suo uso passato impedendole di evolvere. Contro il purismo si schierarono coloro che, in ogni epoca, sostenevano la necessità di fare evolvere la lingua, di accogliere dall’estero e di introdurre neologismi. Tra questi ultimi si possono annoverare scrittori come Machiavelli e Leopardi, linguisti come il modenese Ludovico Antonio Muratori, intellettuali come Alessandro Verri che, per evitare che l’italiano diventasse “la lingua dei morti”, nella celebre e solenne Rinunzia alla Crusca dalle pagine del Caffè, dichiarava che avrebbe preso qualunque parola straniera se “italianizzando” fosse servita. E allora cosa accomuna le posizioni dei più accesi puristi fustigatori dei barbarismi e quelle dei più aperti e moderni sostenitori di internazionalismi di ogni epoca?

Il fatto che nessuno si sognava di fare entrare nel nostro lessico migliaia di forestierismi non adattati.

Oggi, chi denuncia l’anglicizzazione della nostra lingua con preoccupazione non è più un purista, è esattamente il suo opposto: occorre ricominciare a creare neologismi italiani invece che importare solamente dall’angloamericano. Occorre ricominciare a creare calchi e traduzioni, occorre ricominciare ad adattare, cessare di vergognarci di usare pronunce all’italiana invece che in inglese. Chi sono, oggi, coloro che vogliono ingessare l’italiano all’uso storico impendendo che evolva? Chi sono i nuovi puristi?

Sono coloro che chiamo “anglopuristi” che scelgono di dire tutto in inglese, e che sostengono per esempio che autoscatto non è un equivalente di selfie (benché l’etimo sia lo stesso) e argomentano ciò dicendo che il significato storico di autoscatto è un altro. Eppure autoscatto in un primo tempo indicava un sistema con un filo che permetteva lo scatto a distanza. Ma poi la tecnologia è evoluta, e anche la parola è evoluta, passando a indicare il sistema di scatto temporizzato. Perché con l’evoluzione delle nuove tecnologie non dovrebbe evolvere anche autoscatto allargando il suo significato storico? Perché oggi selfie dovrebbe essere più appropriato? Chi si arrampica sugli specchi per dimostrare che ogni anglicismo è necessario, utile, intraducibile, insostituibile è il nuovo purista dell’inglese del nuovo Millennio.

Quando un conduttore di una trasmissione radiofonica come Fahrenheit, Felice Cimatti, che è anche un filosofo del linguaggio, davanti alla mia constatazione che computer ha ucciso la parola calcolatore, visto che in 2001 Odissea nello spazio l’anglicismo non ricorreva nemmeno una volta, obietta che il calcolatore era quello di un tempo, ma oggi il computer designa un’altra cosa (dispositivi piccoli e portatili), cade nell’anglopurismo più spicciolo. L’etimo di computer, infatti, deriva dal latino computare, e gli inglesi non hanno certo coniato una nuova parola per distinguere gli elaboratori di ieri di oggi, così come non lo hanno fatto i francesi né gli spagnoli che continuano a parlare di ordinateur o di computador. E allora qual è la differenza? E qual è il punto nevralgico? Che solo in Italia le nostre parole diventano obsolete e regrediscono di fronte all’inglese a questo modo. L’anglopusirmo che cristallizza le nostre parole ai significati storici, non le fa evolvere per descrivere il nuovo perché preferisce esprimerlo in inglese. Oggi gli anglopuristi ostacolano l’evoluzione della nostra lingua, giustificano il ricorso all’inglese con prese di posizione ideologizzate, non con argomenti logici e storici. Chi continua a ripetere che ci mancano le parole è un nemico dell’italiano. Non ci manca la parola: calcolatore, elaboratore, autoscatto… le parole ci sono, la verità è che le abbiamo imbalsamate per relegarle al vecchiume in nome di un essere internazionali che è falso, visto che all’estero le cose vanno diversamente. Dietro questo preteso internazionalismo c’è solo la volontà di essere angloamericani e di parlare la lingua della globalizzazione, che è una cosa ben diversa.

Il fallimento del liberismo linguistico

Per concludere l’analisi dell’anglicizzazione all’interno delle discussioni linguistiche, va detto che tra gli addetti ai lavori ci sono attualmente due posizioni in campo. C’è chi nega che sia un problema o addirittura che esista, e dice che è solo un’illusione ottica, come se gli italiani fossero deficienti, senza riuscire a fornire una prova del fatto che l’illusione ottica e l’allucinazione non sia invece in chi afferma queste assurdità. Ho dimostrato con i fatti e con i numeri l’inconsistenza di queste argomentazioni. Se il negazionismo è stato il pensiero dominante dei linguisti fino agli inizi del nuovo Millennio, oggi questo paradigma scricchiola, sta perdendo terreno e sta per crollare. Persino il più importante sostenitore del negazionismo, Tullio De Mauro, negli ultimi tempi aveva ammesso lo “tsunami anglicus”. Hanno cambiato idea anche studiosi del calibro di Luca Serianni, mentre il presidente della Crusca Claudio Marazzini esprime le sue preoccupazioni nel suo ultimo libro.

Ogni lingua ha la sua resilienza, cioè la capacità di assorbire gli urti dall’esterno senza frantumarsi, ma non bisogna dimenticare che una lingua viva si può anche ammalare, può anche creolizzarsi o morire. Davanti allo stato di salute dell’italiano, perciò, cosa occorre fare? Non fare nulla, come è accaduto sino a oggi, ci sta portando all’itanglese. Dunque occorre reagire. Il “liberismo” linguistico, di fronte all’espansione dell’inglese, si è dimostrato dannoso.

Gian Carlo Oli disse una volta che la lingua non va difesa, va studiata. Il che è vero, dal punto di vista di un glottologo, ma dal punto di vista di chi ama l’italiano e non lo vuole perdere, si pone il problema civico (non più squisitamente linguistico) di fare qualcosa, di reagire e di intervenire esattamente come si interviene per proteggere ciò è in pericolo, per tutelare ciò che ci è caro.

Perché nessuno ha da eccepire se tuteliamo la nostra cultura, la nostra arte, i nostri prodotti gastronomici, tutte le nostre eccellenze, ma davanti alla tutela linguistica compaiono tante resistenze e non si fa nulla?

Il linguaggio è troppo importante per lasciare che se ne occupino solo i professori di glottologia, per citare Ferdinand de Saussure.

È arrivato il momento di tentare un rivoluzione culturale che coinvolga tutti, prima che sia troppo tardi.

(continua)

Le cause dell’inglese: anglicismi e anglicizzazione

0Sui motivi per cui l’inglese si espande nell’italiano con tanto successo sono state spese molte riflessioni che provo a sintetizzare. Ognuna non basta, da sola, per spiegare il fenomeno. Ma nemmeno la loro somma mi pare sufficiente. Voglio perciò concludere con qualche nuova considerazione ormai imprescindibile, nel nuovo Millennio.

1) La sinteticità dell’inglese

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Gian Luigi Beccaria, nel 1988, osservava giustamente: “L’anglismo ha oggi a suo favore alcuni elementi strutturali rilevanti: l’economicità sintattica e una certa ‘comodità’ lessicale” che spesso si riduce a semplici e comodi monosillabi: boom, fan, gay, scoop, staff, stress, star, shop, show

[Gian Luigi Beccaria, Italiano. Antico e nuovo, Garzanti, Milano 1988, pp. 226-7].

Questa considerazione è verissima, ma va detto che:
a) spesso questa potente sinteticità è il frutto di un uso all’italiana che non appartiene all’inglese: parliamo di basket, ma in inglese è solo cesto (si dice basketball) così come parliamo di social che è a tutti gli effetti uno pseudoanglicismo, senza specificare network, web, media e simili contestualizzazioni. Lo stesso accade per golf al posto di maglione (in inglese è solo uno sport), e per molte decurtazioni come reality (cioè realtà) al posto di reality show, per non parlare di invenzioni di parole assenti nell’inglese come slip, pile o beauty case (decurtato in beauty che vuole dire solo bellezza).
b) Inoltre, se ricorressimo all’inglese per semplice economicità perché dovremmo dire misunderstanding, lungo e impronunciabile, al posto di un più semplice equivoco? Capo è più breve di leader, sinonimo vissuto come più evocativo. Nomina è più corto di nomination, ma a noi piacciono i suoni in escion, come nella Svalutation di Celentano. E le ragioni della diffusione di mission, vision o competitor in ambito lavorativo al posto di missione, visione o competitore (ancora più corto: rivale) non sono certo nel risparmiare una e finale.
Dunque questa spiegazione piuttosto diffusa non basta e non coglie le vere cause.

 

2) La pigrizia, davanti alla velocità di propagazione della nuova terminologia, impedisce le traduzioni

2Ricorrere alle espressioni originali inglesi può essere una precisa scelta stilistica, un vezzo o anche una comodità per ripetere senza tradurre in modo pigro e facile, si dice. Spesso gli anglicismi entrano così rapidamente che non c’è il tempo di adattarli, perché si attestano nell’uso immediatamente così come vengono riportati. Lo ha sottolineato molto bene Antonio Taglialatela rifacendosi a quanto osservato anche da Reinhard Rudolf Karl Hartmann (The English Language in Europe, Intellect Books, Berlin 1996). Ed ecco allora che entrano parole come brexit o spread, e in poco tempo diventano le uniche espressioni utilizzate, e la loro velocità di attecchimento si rafforza anche con il fatto che suonano nuove, e che sono vendute come tecnicismi dal significato univoco.

[cfr. Antonio Taglialatela, “Le interferenze dell’inglese nella lingua italiana tra protezionismo e descrittivismo linguistico: il caso del lessico della crisi”, in Linguæ &, Rivista di lingue e culture moderne, Vol. 10, Num. 2, p. 69].

Ma anche questo ragionamento non è sempre del tutto vero. Spread significa solo divario, scarto, e gli analoghi tecnicismi utilizzati per esempio in statistica che si sentono anche in televisione durante le maratone elettorali sono forchetta e forbice. Nel suo processo di acclimatamento in italiano, cioè nell’uso sui giornali, successivamente spread si è caricato di un’univocità che non appartiene alla parola, ma all’uso che i mezzi di informazione ne hanno fatto, e cioè la differenza di rendimento (scarto) tra i titoli di Stato italiani e tedeschi. Lo stesso si potrebbe dire di fake news, introdotto nella nostra lingua come una novità dai giornali che hanno preferito virgolettare in inglese e ripetere a pappagallo l’espressione originale di Donald Trump, al posto di notizie false, falsi, contraffazioni, bufale. E allora questi esempi non si spiegano solo con la mancanza di tempo o con la pigrizia di non coniare un neologismo per brexit e per altre centinaia di espressioni in inglese.
C’è qualcosa d’altro e di ben più profondo.

3) L’esterofilia storica degli italiani

3“Nel pronunziare o nel sentir pronunziare una lingua straniera, ci piacciono più di tutto quei suoni che non sono propri della nostra”, notava Leopardi.

[Giacomo Leopardi, Zibaldone, 17. Ott. 1821, p. 1938].

Anche Ivan Klajn – autore di un importantissimo studio sull’interferenza dell’inglese che risale al 1972 (Influssi inglesi nella lingua italiana, Olschki, Firenze) – insisteva sul forte richiamo di ciò che è straniero, soprattutto nelle attività commerciali.

A questo proposito posso aggiungere che, sfogliando le pubblicità dei giornali di fine Ottocento, mi sono divertito a leggere i tanti nomi di prodotti che terminano in consonante, come il “Forman contro la corizza” (e cioè il raffreddore), il ricostituente Proton, il sapone Sapol, il depilatorio Apelon, l’Appetitolin e simili (solo per citare la categoria parafarmacistica), perché “più una parola contiene h, k, w, y più fa colpo” (per dirla con Ioan Gutia, Contatti interlinguistici e mass media, La Goliardica, Roma 1981, p. 15). Un tempo questi nomi erano di fantasia, oppure attingevano al fascino del francese, ma oggi questa esigenza trova un nuovo modello di “modernità evocatrice” nell’inglese.

Le differenze tra l’esterofilia all’epoca del francese e quella di oggi

Arrigo Castellani, nel suo “Morbus anglicus” (in Studi linguistici italiani, n. 13, Salerno Editrice, Roma, pp. 137-153), aveva già evidenziato la grande differenza tra quanto accadde sino ai primi del Novecento con l’attingere dal francese e quanto accadeva nel Novecento con l’inglese:
a) per prima cosa il francese è una lingua neolatina affine alla nostra, e dunque la maggior parte dei prestiti sono stati adattati e assimilati attraverso l’italianizzazione senza troppi problemi, mentre oggi dall’inglese non si adatta quasi nulla.
b) In secondo luogo i francesismi riguardavano soprattutto la lingua dell’élite, mentre l’inglese è un fenomeno di massa e di ben altra portata.
c) Vorrei anche aggiungere che l’attingere alle due lingue non è comunque paragonabile neanche lontanamente nei numeri: nessun dizionario storico ha mai registrato migliaia e migliaia di parole francesi crude come avviene oggi. Un’opera come il famigerato Barbaro Dominio di Monelli di epoca fascista annoverava 500 esotismi nella prima edizione, arrivando a raccoglierne in tutto 1.500 nell’ultima, che comprendevano soprattutto il francese, ma anche l’inglese e altre lingue.

Davanti alle proposte di Arrigo Castellani di adattare o tradurre certe espressioni, Anna Laura e Giulio Lepschy osservavano che era proprio per il loro suono e fascino esotico se gli anglicismi erano preferiti.

[Anna e Giulio Lepschy, “L’italiano visto dall’estero”, in Lettera dall’Italia, anno V, n. 20, ott-dic 1990, 53-54].


4) Fascino, moda e prestigio

4Tra i tanti motivi del ricorso all’inglese, allora, c’è di sicuro il fatto che sia di moda e, con un certo snobismo, molti sono convinti che costituisca una tendenza innovativa, cui ricorrere per non sentirsi esclusi. Nell’usare gli anglicismi, scrive Gloria Italiano, non c’è in gioco solo un fattore linguistico, ma anche sociologico e psicologico: i termini si caricano di “un potere socio-psico-linguistico che va al di là del significato nudo e crudo”.

[Gloria Italiano, Parole a buon rendere, ovvero: l’invasione dei termini anglo-americani, Cadmo, Fiesole 1999, p. 33].

Gian Luigi Beccaria osservava che manager porta con sé l’efficienza e il prestigio americano, rispetto a dirigente o responsabile, mentre jet set è più cool di società.

[Gian Luigi Beccaria, Italiano. Antico e nuovo, Garzanti, Milano 1988, p. 242-243].

E anche Laura Pinnavaia scrive:

“Al prestito inglese non si ricorre più solo per ‘tappare un buco’ lessicale e semantico, ma proprio per creare un nuovo tipo di testo, che è poco impegnativo a livello superficiale, ma a livello comunicativo è invece più denso di significato.

[Laura Pinnavaia, “I prestiti inglesi nella stampa italiana: una riflessione semantico-testuale” in MPW. Mots Palabras Words, Studi Linguisti a cura di Elisabetta Lonati, Edizioni Universitarie di Lettere, Economia, Diritto del dipartimento di Scienze del linguaggio e letterature straniere comparate, Università degli studi di Milano, n. 6/2005, p. 54].

 

5) Il nostro complesso di inferiorità

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Gabriele Valle aggiunge che “c’è una spiegazione che non è incompatibile con le precedenti e che forse ne ingloba più di una: un complesso d’inferiorità, che è segno di autostima povera verso la propria cultura”, come nota anche Maurizio Dardano per cui in queste preferenze gioca il suo ruolo un certo senso di inferiorità nei riguardi dell’inglese, “dimostrato da vari aneddoti riguardanti la pretesa ‘incapacità’ della nostra lingua di rendere taluni significati, che l’inglese esprimerebbe con disinvolta naturalezza”.

[Gabriele Valle, “Lʼesempio della sorella minore. Sulla questione degli anglicismi: lʼitaliano e lo spagnolo a confronto”, in Studium. Saperi e pratiche della speranza tra teologia e filosofia, a cura di Vincenzo Rosito, Anno 109°, settembre/ottobre 2013, n. 5, p. 24].

Ho più volte ripreso questo tema del complesso di inferiorità che, ancora una volta, non è solo linguistico (il linguaggio è una spia dell’inconscio per parafrase Freud) ma più generale. Basta pensare alla politica e all’avvento della cosiddetta seconda Repubblica che ha cercato, fallendo, di importare il modello del bipartitismo tipico degli schieramenti americani in un realtà fatta di una miriade di partiti e di pluralismo di posizioni. Un modello che si è inevitabilmente frantumato perché la nostra cultura e storia è diversa, e non si può americanizzare a tavolino. O ancora, basta pensare ai modelli di formazione tipicamente americani basati sul pragmatismo spicciolo e sul “problem solving” superficiale, che sempre più importiamo infaustamente in una tradizione culturale europea che ha decisamente una profondità superiore, perché è basata sul pensiero critico e l’analisi storica. Un approccio che, purtroppo, sta venendo sempre meno.

 

6) L’univocità dei significati e la stereotipia del monolinguismo che portano al depauperamento semantico

6Tornando dalla cultura all’italiano, questo pragmatismo dell’inglese si sposa perfettamente con una concezione della lingua basata sull’univocità dei significati, una parola per ogni concetto, come piace ai traduttori e ai correttori automatici che diffondono una lingua stereotipata. Gli anglicismi si inseriscono benissimo in questo depauperamento lessicale ricco di frasi fatte, che esiste anche in italiano ovviamente (cauto ottimismo, tragica fatalità, gesto inconsulto, il giusto mix…), ma che trova negli anglicismi una formulazione percepita a torto come moderna o internazionale. Un esempio tra mille? Ormai rifacimento, riammodernamento o ristrutturazione non si dicono più, c’è solo il restyling, nella stereotipia imperante. In questo terreno, perciò, non bisogna trascurare la scarsa cultura. Come ha evidenziato Claudio Marazzini:

“Molti italiani parlano un italiano fragile, che impedisce loro di capire che cosa significhi il possesso vero di una lingua”.


Il lessico dell’univocità contro quello della varietà e dei sinonimi

La questione dell’univocità lessicale è antica. Si ritrova per esempio nell’approccio manzoniano che, nel preoccuparsi di unificare l’italiano sul modello del fiorentino vivo, davanti al proliferare dei dialetti puntava all’eliminazione delle parole e delle forme che creavano varietà e doppioni (gli allotropi). Una concezione cui si contrapponeva negli stessi anni Niccolò Tommaseo che invece dava vita al Dizionario dei sinonimi (1830) e che si ritrova nel Novecento in Emilio Gadda:

“I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni”. Infatti il plurilinguismo, come scrive Massimo Arcangeli, “è patrimonio costitutivo stesso della storia della nostra penisola; nel doppio senso, indicato da Tullio De Mauro, di una «pluralità di norme, […] come variabilità interna a ciascuna lingua», e di una «diversità e pluralità di diverse lingue».

Passando dalle varietà locali interne alla pluralità delle lingue nel mondo, il monolinguismo stereotipato basato sull’inglese che vende molti anglicismi come necessari o intraducibili (invece che intradotti) è un fenomeno internazionale: è la globalizzazione che uccide le lingue locali, le impoverisce con termini univoci e privi di ambiguità, ma anche sempre più privi di sinonimi e traduzioni. Con riferimento a 1984 di Orwell, Diego Fusaro chiama questo fenomeno la “neolingua anglofila dei mercati” e del pensiero unico, che non è certo quella di Shakespeare, rivendicando con orgoglio da dissidente di praticare una “veterolingua” che però è italiana e fondata sulla nostra storia, sulle nostre radici e sulla nostra identità.

7) La non-reattività degli italiani davanti alla globalizzazione e all’espansione delle multinazionali

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Dopo aver passato in rassegna le tante concause che aprono la strada a un italiano del presente, e del futuro, che sempre più si sta configurando come itanglese, bisogna spendere qualche parola in più sulla globalizzazione.

 

Dalla “lingua dell’okay” all’inglese imposto dall’alto

Gli anglicismi hanno cominciato a penetrare nell’italiano in maniera consistente a partire dal secondo Dopoguerra, quando la Liberazione dal fascismo si è portata con sé anche la liberazione dalle restrizioni linguistiche di una guerra ai barbarismi forzata e sbagliata. In un primo tempo questa apertura a quella che è stata chiamata “la lingua dell’okay” ha riguardato le masse, si trattava di un’anglicizzazione “dal basso”, nell’era del jazz e dei jeans, dei jukebox e del rock, quando la gente comune vedeva nei modelli culturali angloamericani (l’american dream) la libertà. Sugli abusi dell’inglese si poteva solo scherzare attraverso le macchiette di “Tu vuò fa l’ americano” di Renato Carosone e di “Un americano a Roma” con Alberto Sordi. C’era poco da preoccuparsi, in fondo. Ma con il tempo il fenomeno si è accentuato in modo esponenziale, e oggi non è più un vezzo innocente.

L’espansione delle multinazionali impone a livello globale le merci che esporta con la propria nomenclatura in inglese, dai fast food con gli hamburger, i cheesburger o i milkshake ai titoli dei film che non vengono più tradotti. Oggi l’inglese non arriva più dal basso, ma viene imposto dall’alto (spesso non viene nemmeno compreso), ed è ben più grave. Nel mondo aziendale non è più possibile essere italiani, dalle mansioni riportate sui biglietti da visita agli annunci di lavoro. L’itanglese è il linguaggio del nuovo aziendalese. Nel mondo del digitale e della Rete il 50% dei termini marcati come informatici nel Devoto Oli è in inglese crudo. L’inglese avanza nei nomi degli sport, nel linguaggio della moda (un tempo appannaggio del francese), nella pubblicità, in televisione, sta colonizzando i linguaggi di settore uno dopo l’altro per straripare sempre più inevitabilmente nel linguaggio comune e persino in quello istituzionale, delle leggi, della politica, nel cuore dello Stato, a scapito della comprensibilità, oltre che del rispetto che sarebbe dovuto agli italiani e all’italiano.

E qui arriviamo al punto cruciale: un’anomalia tutta italiana.

L’alberto-sordità degli italiani che aiutano l’espansione dell’inglese dall’interno

L’espansione dell’inglese planetario dell’economia, delle merci, della tecno-scienza coinvolge tutto il pianeta, e non è certo facilmente arginabile. Questa forte pressione esterna su cui non è possibile intervenire, però, non è contrastata da alcuna spinta interna contraria, come avviene all’estero. Non solo non mostriamo alcuna reattività di fronte a questa colonizzazione linguistica e culturale, ma anzi ci prostriamo e facciamo di tutto per amplificarla ed emularla con entusiasmo.

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La nostra classe dirigente, dai giornalisti agli imprenditori, dagli scienziati ai politici, ricorre autonomamente all’inglese a costo di inventarlo (da jobs act a navigator). All’estero l’inglese si argina con le politiche linguistiche, la traduzione, l’adattamento in qualche caso almeno fonetico, noi abbiamo spalancato le porte e aiutiamo a diffonderlo anche dall’interno con una strategia suicida. La strategia degli Etruschi che si sono sottomessi alla romanità, che evidentemente consideravano una cultura superiore, fino ad esserne assimilati.

Nel mio saggio sull’argomento e in tanti articoli ho provato a comparare l’anglicizzazione dell’italiano con quella di spagnolo, francese e tedesco mostrando le abissali differenze.
italiano meraviglioso claudio marazzini cruscaSono le stesse conclusioni che denuncia anche il presidente della Crusca Claudio Marazzini nel suo ultimo libro L’italiano è meraviglioso. Come è perché dobbiamo salvare la nostra lingua (Rizzoli 2018) che spiega come in Francia e in Spagna “i cedimenti sono minori”, non solo per il “consenso di gran parte della popolazione attorno ai valori di cui la lingua nazionale è portatrice”, ma anche per la sensibilità della politica. È significativa in proposito la citazione della polemica tra Marine Le Pen ed Emmanuel Macron proprio nello scontro finale per la campagna elettorale alla presidenza: si sono scontrati sulle accuse di non voler proteggere il francese, qualcosa di inaudito in Italia (per saperne di più rimando alla recensione).

Qualche esempio su cui riflettere

Davanti alla nostra accettazione entusiastica di dire le cose in inglese, ormai anche le multinazionali della Rete che si chiamano Google, Facebook o YouTube impongono i propri nomi alle cose che esportano senza porsi il problema di “localizzare” in italiano, e con fare da colonizzatori ci impongono l’inglese che noi accettiamo con gioia, invece di pensare con la nostra testa. Un esempio, tra i tantissimi, che mi pare la cartina di tornasole della vergognosa sudditanza dell’italiano si può vedere sul sito di Airbnb. Come si chiama chi offre la propria casa nel loro circuito? In inglese è host. Mi segnala Gabriele Valle che sul sito spagnolo è tradotto con anfitrión, su quello catalano è amfitrió, in portoghese anfitrião, in tedesco Gastgeber, in francese hôte, in greco οικοδεσπότης… E in italiano? Chi non indovina può controllare: https://www.airbnb.it/host/homes.
Forse host è destinato a diventare un “prestito sterminatore” che ucciderà definitivamente una parola come locatore, che presto farà la fine di calcolatore o elaboratore davanti a computer, di svizzera o medaglione davanti ad hamburger, di (pluri)omicida seriale davanti a serial killer e di altre migliaia di parole che abbiamo perso o stiamo per perdere perché non le usiamo più accecati dall’anglofilia. Tra queste c’è capotreno, visto che un’azienda come Italo, alla faccia del nome italofono (o italian sounding?), lo chiama train manager, negli annunci ai passeggeri e nella denominazione ufficiale dei contratti collettivi di lavoro! Non che le Ferrovie dello Stato utlizzino un linguaggio migliore, ma quest’ultimo esempio è particolarmente illuminante: in Francia la legge Toubon impone che i documenti istituzionali siano in francese e sanziona pesantemente le multinazionali che non traducono il software, anzi il logiciel (come dicono) e i contratti di lavoro. Noi invece stiamo aiutando dall’interno la pressione esterna della globalizzazione affinché ci colonizzi prima, più intensamente e più facilmente. Sarebbe ora di reagire. Io ci sto provando.

PS
Per i milanesi interessati: con la giornalista Valeria Palumbo, parlerò di anglicismi, alternative italiane ed Etichettario martedì 15 gennaio, alle 18,30, nella biblioteca Valvassori Peroni.

Per chi volesse ascoltare la mia recente discussione con Felice Cimatti del 2 gennaio su Radio3 Fahrenheit segnalo l’archiviazione digitale (o podcast, visto che l’italiano è lingua obsoleta).

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Tullio De Mauro e gli anglicismi, anzi gli anglismi (a due anni dalla sua scomparsa)

Il 5 gennaio di due anni fa ci ha lasciato uno dei più importanti linguisti italiani.
Lo voglio ricordare ricostruendo le sue posizioni sugli anglicismi, anzi sugli anglismi.


Per Tullio De Mauro si dice anglismi e non anglicismi

Tullio tullio de mauroDe Mauro si è sempre battuto per chiamarli anglismi, perché è la derivazione corretta dalla radice anglo: l’inserimento di ci è una forma che sarebbe a sua volta un inglesismo (da anglicism).
Questa argomentazione non teneva conto del fatto che non c’è nulla di male a prendere dall’inglese, quando lo si adatta, e non teneva conto dell’affermazione storica della parola “anglicismo”, attestata sin dal Settecento persino da un purista come Giuseppe Baretti che con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue si scagliava contro le maleparole dalle pagine della sua rivista la Frusta letteraria. Comunque la pensiate, va detto che nonostante la maggiore frequenza storica di anglicismi, in seguito alle considerazioni di De Mauro, negli ultimi anni la variante anglismi si sta diffondendo sempre più soprattutto tra i linguisti, come variante “colta”.

De Mauro, il falsificatore del “Morbus anglicus” di Arrigo Castellani

Tullio De Mauro è sempre stato un noto “negazionista”, per quasi tutta la vita non ha mai creduto che l’interferenza dell’inglese rappresentasse un problema per la lingua italiana, ed è celebre in proposito la sua polemica con il neopurista Arrigo Castellani. Quest’ultimo, in un articolo del 1987 che sarebbe passato alla storia, il “Morbus anglicus” (in Studi linguistici italiani, n. 13, Salerno Editrice, Roma, pp. 137-153), aveva denunciato l’invasione sempre più consistente delle parole inglesi che come un virus stavano intaccando la nostra lingua italiana. A suo vedere, bisognava in qualche modo intervenire per curare lo stato di salute dell’italiano, altrimenti il rischio sarebbe stato che i tessuti vitali ne venissero intaccati.
Tullio De Mauro si oppose a questo allarmismo, che confutò statistiche alla mano. La sua posizione si rivelò perciò vincente, tra i linguisti, e divenne quella del pensiero dominante che solo di recente si è incrinata e sta andando ormai in frantumi.
Tutto ebbe forse inizio nel 1980…

1980: il Vocabolario di base della lingua italiana senza anglicismi

De Mauro compì vari studi statistici senza precedenti nell’italiano. Nel 1980 pubblicò il primo Vocabolario di base della nostra lingua, che includeva le circa 7.000 parole che si usano più di frequente.
Queste, a loro volta si possono distinguere in 2.000 parole fondamentali, quelle che da sole costituiscono il 90% dei discorsi e dei testi (e, di, perché, essere, avere…), altre 2.300 definite ad alta disponibilità, che tutti conoscono (per cui sono disponibili nella nostra testa), ma che si usano poco, per esempio forchetta, che non compare spesso nei libri né nei discorsi, anche se è di base. E poi altre 2.750 ad alto uso, e cioè che si usano moltissimo, ma non come le prime, e che comunque sono molto più frequenti delle ulteriori 40.000 parole che formano il linguaggio comune, cioè quelle che tutti conoscono, anche se non è detto che le usino attivamente.
Da questa classificazione è emerso perciò un modello e una mappatura della lingua italiana “a strati” molto interessante: al centro ci sono le parole più frequenti, attorniate da quelle comuni, e attorno a queste sono rappresentate tutte le altre che appartengono a linguaggi tecnici e settoriali, e non sono comprensibili a tutti: l’avvocato conosce i suoi tecnicismi ma non quelli del medico, che a sua volte non condivide quelli dell’avvocato e così via.

vocabolario di base
Una rappresentazione del modello “a strati” del lessico della lingua secondo De Mauro.

In questo schema interpretativo, che sin dal suo apparire registrò anche pesanti critiche e perplessità, De Mauro mostrò come, negli anni Ottanta, gli anglicismi fossero confinati nella parte esterna, e non intaccassero affatto il nucleo centrale dell’italiano. Inoltre, dalle statistiche basate sui lemmi dei dizionari, allora i vocaboli inglesi costituivano ancora percentuali bassissime, intorno all’1% delle parole e anche meno. Dunque l’allarmismo di Castellani appariva ingiustificato, e non era il caso di preoccuparsi…

1989: gli anglicismi sono il 2% del Vocabolario elettronico della lingua italiana (Veli)

Nel 1989 vide la luce il Veli, il Vocabolario elettronico della lingua italiana, un lavoro immenso basato sulla statistica e sull’uso del calcolatore – De Mauro all’epoca non usava la parola computer – che lo studioso curò in collaborazione con IBM partendo dallo spoglio di alcuni testi giornalistici (ANSA, Il Mondo, Europeo e Domenica del corriere) pubblicati tra il 1985 e il 1987. Per quell’epoca in cui i testi non erano disponibili in digitale fu una rivoluzione; il lavoro analizzò circa 26 milioni di parole, che vennero lemmatizzate, cioè ricondotte dalle loro flessioni al lemma (per esempio vanno era ricondotto ad andare) con sistemi automatici poi raffinati manualmente. Successivamente furono scelti i 10.000 lemmi più frequenti e significativi e ne nacque un prototipo di dizionario pubblicato su due dischetti (all’epoca erano i cosiddetti floppy disc rigidi).

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Il Veli, curato da De Mauro, consisteva in un volume introduttivo che riportava anche gli indici lessicali e due dischetti con il primo prototipo di dizionario elettronico basato sulle 10.000 parole più frequenti.

Tra queste 10.000 parole più utilizzate nella stampa, gli anglicismi costituivano circa il 2%, una percentuale decisamente più alta di quella dei dizionari, che era invece della metà, e anche di quella che veniva attribuita all’uso degli anglicismi nell’italiano in generale.

In altre parole, passando dai dizionari allo studio delle frequenze giornalistiche le cose cambiavano sensibilmente. De Mauro, ancora una volta non se ne preoccupò: il 2% era ancora una percentuale fisiologicamente sopportabile, che non rappresentava di certo un pericolo per la nostra lingua. Ma negli anni Novanta le cose erano destinate a cambiare…

1999-2007: il Gradit e l’aumento degli anglicismi

Curato da De Mauro, nel 1999 uscì il Gradit, cioè il Grande dizionario italiano dell’uso in 6 volumi, che raccoglie circa 260.000 parole (più del doppio di quelle dei vocabolari monovolume), classificate attraverso i criteri di frequenza già adottati nel Vocabolario di base del 1980 (parole di base, comuni e settoriali) e da altre marche che ne identificavano i settori (economia, informatica…). Gli anglicismi non adattati erano 4.300, quindi rappresentavano solo l’1,6% dei lemmi. Stavano aumentando, certo, ma ancora una volta niente di troppo preoccupante, in fin dei conti.

Nel 2007, la nuova edizione del Gradit, però, ne registrava ben 6.000 e la loro percentuale saltava al 2,3% (un incremento del 39,5%, 1.700 in più in soli 8 anni).

patole straniere nella lingua italiana de mauro manciniLa cosa si stava facendo imbarazzante e preoccupante, per il più importante sostenitore delle tesi negazioniste. Ma, a onor del vero, l’aumento così eccessivo non dipendeva tanto da una reale entrata di nuovi anglicismi in questo breve lasso di tempo, bensì da una ristrutturazione interna del dizionario. Nella nuova edizione erano infatti confluiti i risultati di un lavoro specialistico sui forestierismi: Parole straniere nella lingua italiana (Tullio De Mauro e Marco Mancini, Garzanti, Milano 2001, e seconda edizione ampliata del 2003) che aveva raccolto oltre 10.000 parole da più di 60 lingue (dall’albanese al vietnamita, passando per il russo, il giapponese, il tedesco fino al francese e all’inglese). E queste sono poi state immesse nella nuova edizione del Gradit 2007, che è passato così da 7.000 a 10.000 forestierismi, e si è arricchito soprattutto da questo punto di vista.

Tuttavia, qualcosa si stava incrinando nelle tesi negazioniste: mentre l’incremento dei francesismi era contenuto, da 4.982 (sommando quelli adattati e quelli “crudi” come abat-jour) si passava a 5.345 (372 in più e un incremento del 7,4%), gli anglicismi erano “impazziti”:  sommando quelli adattati e non adattati sono passati da circa 6.300 a circa 8.400 (un incremento del 33,3%, 2.100 in più, cioè una media di circa 262 all’anno). Scorporando i dati, quelli non adattati sono passati da 4.300 a 6.000 (un incremento del 39,5%, 1.700 in più) e quelli adattati da 2.000 a 2.400 (incremento del 20%, 400 in più). Ho provato a ricostruire questo aumento con un grafico.

aumento anglicismi nel gradit
Fonte: Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 88.

La cosa più preoccupante, per De Mauro, fu che complessivamente nel nuovo Millennio l’interferenza dell’inglese sulla nostra lingua aveva, in pochissimo tempo, superato il ruolo dei substrati plurisecolari del francese. Ciononostante, intorno al 2010 lo studioso era ancora serafico e poco preoccupato, perché nonostante l’aumento del numero delle parole inglesi nei dizionari, la loro frequenza era ancora poco diffusa, secondo le sue marche. In un’intervista che in Rete è diventata una sorta di manifesto del negazionismo, “Gli anglicismi? No problem my dear”, ribadiva perciò le sue posizione storiche.

Ma pochi anni dopo la situazione mutò…

2015: il vento è cambiato

storia lingusitica de mauroNel 2014, a p. 136 della Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni (Laterza, Bari 2014), De Mauro sembra assumere una posizione diversa e più preoccupata sulla questione dell’inglese, quando scrive:

“Il confronto con i dati registrati nella prima edizione del Gradit mostra che negli ultimi anni gli anglismi hanno scalzato il tradizionale primato dei francesismi e continuano a crescere con intensità, insediandosi, come più oltre vedremo, anche nel vocabolario fondamentale”.

Lo studioso, dunque, non solo stava elaborando l’aumento degli anglicismi del Gradit, ma stava anche lavorando sulle marche delle parole, in via di revisione e di aggiornamento. Gli anglicismi, anticipava in questo passo, sono sempre meno tecnicismi o di bassa frequenza e stanno penetrando nel nucleo della nostra lingua. Davanti a questi nuovi fatti, sembra proprio che De Mauro in questo periodo stesse abbandonando la sua storica indifferenza verso gli anglicismi.

Intanto, anche il panorama del pensiero dominante cominciava a cambiare.
Il 2015 fu un anno cruciale. Uscì una pubblicazione frutto di un convegno presso l’Accademia della Crusca con la collaborazione dell’associazione Coscienza Svizzera e della Società Dante Alighieri (La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi) in cui molti linguisti cominciarono a esprimere le proprie preoccupazioni, da Claudio Marazzini a Claudio Giovanardi (già autore nel 2003 insieme ad Alessandra Coco e Riccardo Gualdo di un preoccupato Inglese-italiano 1 a 1: tradurre o non tradurre le parole inglesi? Ediz. Manni).
Il linguista Luca Serianni, che nel “Morbus anglicus” era citato da Arrigo Castellani tra i “negazionisti” non preoccupati, aveva cambiato idea sul proliferare degli anglicismi.
Quello stesso anno, la petizione di Annamaria Testa “Dillo in italiano” aveva creato un caso mediatico e l’accademia della Crusca aveva dato vita al Gruppo Incipit per monitorare i forestierismi incipienti e arginarli con sostituivi italiani, almeno negli intenti.
Insomma, qualcosa nell’aria stava cambiando. E anche Tullio De Mauro stava rivedendo le sue posizioni.

2016: la svolta di De Mauro e l’ammissione dello “tsunami anglicus”

La svolta, del tutto inaspettata, arrivò nel 2016, quando lo studioso scrisse la prefazione a Italiano Urgente di Gabriele Valle (Reverdito editore, 2016), una raccolta di 500 anglicismi che venivano spiegati e affiancati da possibili sostituzioni basate sul modello della lingua spagnola. L’opera si apriva con una citazione tratta proprio dal “Morbus anglicus” di Arrigo Castellani e De Mauro sembrava essersi reso conto della profonda differenza tra l’anglicizzazione arginata dello spagnolo e quella abissale dell’italiano che definiva esplicitamente come uno tsunami:

“è indubbio: quel che altrove appare o è uno tsunami appare invece ed è una fronteggiabile ondata sui lidi ispanici (…). È indubbio che lo tsunami anglicizzante va quasi guadagnando terreno nell’uso italiano: non si segnala tanto per il numero di lessemi analizzanti registrabili in un grande dizionario (…) ma per altri due aspetti: l’uso in locuzioni formali e ufficiali (education, jobs act, spending review e via governando) e  la penetrazione degli anglismi nel vocabolario fondamentale e d’alto uso, dove prima c’erano solo pochi esemplari, bar, film, sport, tram, e oggi si affolla un più folto manipolo…” (p. 17)

Sembra incredibile che queste parole siano state scritte dal massimo esponente del “negazionismo”, eppure sono state ribadite e approfondite in un articolo sul sito Internazionale poco meno di un mese dopo: “È irresistibile l’ascesa degli anglismi?”, dove persino il giudizio sull’avversario Arrigo Castellani sembra rivisto, davanti alla dimensione internazionale dell’espansione dell’inglese:

“Non è un fatto nuovo: da alcuni decenni impetuose ondate di anglismi si riversano nell’uso di chi parla e scrive le più varie lingue del mondo. Trent’anni fa e più un valoroso filologo, Arrigo Castellani, nel diffondersi di anglismi nell’uso italiano vide e diagnosticò un morbus anglicus, un virus capace di infettare e corrompere la lingua italiana. Ma del fenomeno ormai bisogna dire di più. (…) L’afflusso di parole inglesi dagli anni Ottanta ai nostri ha assunto dimensioni crescenti, uno tsunami anglicus. Le ondate somigliano ormai infatti a un susseguirsi di tsunami…”.

Il 23 dicembre 2016 il Nuovo vocabolario di base di Tullio De Mauro venne pubblicato in Rete sul sito Internazionale, e dal confronto con quello del 1980 spicca subito che l’inglese è penetrato anche qui: gli anglicismi sono decuplicati.

Nel 1980, alla lettera B era presente solo bar, mentre nel 2016 gli anglicismi sono 13: baby, babydoll, band, bar, basket, bikini, bit, blog, boss, box, boxer, brand, business. E in tutto il vocabolario di base, se nel 1980 gli anglicismi non adattati erano poco più di una decina, nel 2016 sono 129 su meno di 7.500 parole, cioè almeno l’1,7% (se non me ne è scappato qualcuno e senza conteggiare parole macedonia come salvaslip).

Le parole con cui, pochi mesi prima, De Mauro chiudeva l’anticipazione in Rete di questi risultati sono queste:

“L’accentuata frequenza di anglismi è certamente uno dei tratti in cui si sedimenta la storia linguistica italiana degli ultimi decenni.
A voler bandire l’uso degli anglismi dalle lingue del mondo e dall’italiano c’è lavoro, se non gloria, per tutti.”

Poco dopo la pubblicazione del Nuovo vocabolario di base, il 5 gennaio del 2017, Tullio De Mauro se n’è andato.

nuovo vocabolario di nase de mauro

 

Anche se ne ho più volte criticato le posizioni e anche se ho provato a confutare molte delle sue argomentazioni passate, lo voglio oggi ricordare, rendendogli onore per l’onestà intellettuale di aver saputo rivedere, davanti ai fatti, le convinzioni di una vita. Una cosa che tanti piccoli linguisti ancora non hanno saputo fare.