Cultura e scuola non sempre viaggiano sugli stessi binari. Purtroppo la scuola ha preso da qualche tempo una brutta piega e, nel suo americanizzarsi, di tanto in tanto produce qualcosa che è il contrario della cultura come l’abbiamo sempre intesa.
Per fortuna nella scuola pubblica l’anglicizzazione del linguaggio è marginale, e non riguarda le lezioni degli insegnanti che parlano ancora in italiano. Il mondo della formazione, però, e in particolare il linguaggio con cui ci si rivolge agli insegnanti, per formarli, è decisamente virato verso l’itanglese.
Sul sito Tecniche della scuola si può leggere un articolo come: “Attività di debate per favorire il cooperative learning e la peer education” (Aldo Domenico Ficara, 31/01/2020), ma ce ne sono tantissimi altri scritti con lo stesso stile e criteri. Il titolo contiene tutto il paradosso del nostro problema, culturale, prima che linguistico. Le nostre radici sono sistematicamente recise e sostituite da una nuova cultura che importiamo ma non ci appartiene: nei concetti, e nel linguaggio che si esprime con la terminologia in inglese.
Leggendo questo pezzo sulla didattica – o forse dovremmo dire sul learning se vogliamo suicidarci per bene – scopriamo che nella suggestiva cornice di Villa Bassetti, a pochi passi dall’eremo di Santa Caterina del Sasso, a Leggiuno (nel Varesotto), si è tenuta la prima Debate Academy Italiana. L’ossimoro di tanta italianità di una cornice che però contiene un quadro che si esprime in inglese dovrebbe stridere. Ma non è così, sembra tutto normale, come normale è diventato insegnare in inglese invece che in italiano, e in molti casi diventa persino un vanto! E infatti alla manifestazione hanno partecipato prima i 23 studenti che hanno alternato attività di dabate tenute in lingua inglese a un corso di vela a Laveno (un abbinamento culturale un po’ curioso). Solo in un secondo tempo sono arrivati altri 25 studenti che hanno potuto partecipare alle sessioni anche in lingua italiana.
Scorrendo l’articolo, dopo le premesse del titolo in un inglese volutamente non spiegato, finalmente arriva la rivelazione per gli “ignoranti”: la metodologia didattica chiamata debate consiste in un confronto nel quale due squadre (composte ciascuna di due o tre studenti) sostengono e controbattono un’affermazione o un argomento dato dall’insegnante, ponendosi in un campo (pro) o nell’altro (contro). Il debate (che significa semplicemente dibattito) è quindi definito una “metodologia che permette di acquisire competenze trasversali (life skill) e curricolari, smontando alcuni paradigmi tradizionali e favorendo il cooperative learning e la peer education, non solo tra studenti, ma anche tra docenti e tra docenti e studenti”.
Ci rendiamo conto del livello che abbiamo raggiunto? Il dibattito, l’arte dell’argomentare che una volta era la dialettica, il contraddittorio, la disputa, la controversia scientifica, il confronto politico o culturale tra due tesi è ridotto a un debate che assomiglia più a un programma (o format) televisivo. Questa è la terminologia – e la prassi – che ci stanno imponendo, insegnando non è la parola più adatta. Si tratta di un calcio a millenni di storia e di filosofia, dalla retorica di Greci, sofisti e aristotelici alle dispute medievali che prevedevano l’avvocato del diavolo, dal saggio sulla libertà di John Stuart Mill che esaltava il valore euristico del confronto che corrobora le proprie idee attraverso la confutazione delle tesi avversarie, alla dialettica di Hegel e di Marx… La nostra cultura, accumulata in millenni di storia del pensiero occidentale attraverso un linguaggio che racchiude in sé secoli di stratificazioni celati nella parole, è improvvisamente stata annullata attraverso l’importazione del debate, ridicolo frutto del pragmatismo spicciolo e di una nuova “cultura” che si esprime in inglese, ma è solo l’importazione dell’ignoranza. E sembra più una supercazzola che una metodologia didattica.
Il problema è che di esempi del genere se ne possono fare migliaia, dallo speed mentoring e il role model al circle time e la token economy. La formazione e alcuni settori della didattica sono ormai in larga misura fatti di queste idiozie. Che cosa sono le life skill? Le possiamo tradurre con competenze trasversali o cognitivo-relazionali (come si è sempre detto in psicologia), ma anche questo tipo di traduzioni non fa che ricalcare qualcosa che ci è estraneo. Cercando in Rete le definizioni di questi concetti si possono trovare spiegazioni come: “Con il termine life skills si indicano tutte quelle capacità umane che si possono acquisire per insegnamento o per esperienza diretta, che possono tornarci utili ogni giorno per risolvere problemi, rispondere a domande, affrontare situazioni che la vita stessa ci pone davanti giorno dopo giorno. Le competenze per la vita sono da intendersi come un gruppo di abilità relazionali, emotive e cognitive che aiutano ogni individuo in ciascun ambito della sua vita.”
L’espressione inglese è dilagata in seguito a un modello sviluppato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Lsbe: Life skill based education) che ha tentato l’elencazione di queste skill (consapevolezza, pensiero critico e creativo, empatia, gestione delle emozioni…) e si è diffuso soprattutto nell’ambito della didattica, dove si mira a insegnare e sviluppare questo tipo di capacità definite in molti casi attraverso l’inglese, visto che includono il problem solving, il decision making (capacità di prendere decisioni) o la gestione dello stress. Nell’ambito del lavoro queste stesse cose sono chiamate invece soft skill, e indicano molto semplicemente la capacità di relazionarsi con gli altri e di lavorare in gruppo, cioè una predisposizione slegata dalle competenze acquisite. Il punto è che il linguaggio della formazione prepara al linguaggio del lavoro, che ormai si è appiattito su concetti e termini inglesi. Ma anche il linguaggio dei giornali riprende lo stesso criterio, e le occorrenze di espressioni come queste sono infinite: “…è cosi che si favorisce anche l’acquisizione di competenze trasversali (life skill) (La Nazione, 19/1/2017); “…è un classico esempio di ‘soft skill’ o ‘life skill’, cioè di competenza trasversale, non strettamente legata a un sapere” (La Repubblica, 11/9/2014); “Sono 10 e si possono imparare, allenare, sviluppare: sono le ‘life skills’ o ‘competenze per la vita’ (greenMe.it, 31/8/2017); “…una metodologia per acquisire competenze trasversali («life skill»)” (La Tecnica della Scuola, 4/10/2019)…
Dov’è la novità, in questi concetti, a parte che si dicono in inglese come fossero cose nuove e moderne?
Non solo facciamo evolvere l’italiano quasi esclusivamente attraverso l’importazione dell’angloamericano (la metà dei neologismi del nuovo Millennio è in inglese crudo), ma lo stesso accade per la nostra cultura, perché il linguaggio è lo strumento per ricostruire e interpretare la realtà.
Ripenso a Pasolini, a quando esaltava la dignità della cultura popolare dei contadini e delle masse – in un certo senso la saggezza – in contrapposizione alla cultura scolastica ed erudita. Ripenso alla storica differenza tra i saperi tecnici e professionali e l’esperienza di vita, alle massime di buon senso come “è pieno di imbecilli laureati e di persone che pur non avendo compiuto degli studi sono comunque preparate e intelligenti”, ai dibattiti pedagogici imperniati sulla differenza tra la cultura nozionistica e quella critica, alle valutazioni curriculari sulle attitudini di un candidato e non solo sulla sua esperienza… Tutto ciò viene cancellato dalla nostra storia e ridefinito in itanglese, imposto dall’alto al basso con una nuova terminologia che taglia le nostre radici e germoglia sulla loro uccisione e morte, in una metafora di cultura e coltura che mi pare calzante.
Ripetiamo le direttive culturali dell’Oms, che parla e pensa in inglese, in modo servile e acritico. Le facciamo nostre in un tabula rasa del nostro passato.
Omnia ex Usa
In un bellissimo ciclo di incontri in radio sul linguaggio, nel 1994, un intellettuale come Giuseppe Pontiggia rifletteva su un episodio che mi pare molto significativo. Quando il sociologo russo Pitirim Aleksandrovič Sorokin migrò in America, non ebbe una buona opinione di quell’ambiente culturale perché vedeva le proprie idee saccheggiate dai colleghi e trasposte in un altro linguaggio che non era il suo e grazie al quale questi colleghi riuscivano a far passare come propri i concetti espressi dal sociologo russo. Sorokin si accanì contro questi “travestimenti verbali” che servivano per occultare i furti di cui era vittima [cfr. Mode ed utopie nella sociologia moderna e scienze collegate, Editrice universitaria G. Barbera, Firenze 1965] e arrivò all’esplicita denuncia di plagio nei confronti del sociologo Talcott Parsons. Ma al di là dei plagi e della malafede, su cui non voglio entrare, sotto questo aneddoto traspare tutto il problema culturale della nostra americanizzazione. Tutto sembra arrivare dagli Usa, tutto è ridefinito con questi nuovi paradigmi che si esprimono in inglese e fanno piazza pulita del nostro pensiero, insieme alla nostra lingua. Questo tipo di “cultura” apparente, che ridefinisce le nostre categorie storiche, ci sta portando a pensare con i concetti-termini inglesi e attraverso le loro immagini mentali. Uno studente del Politecnico di Milano che è obbligato a ricevere le lezioni in inglese, o uno studente dell’Humanitas della stessa città, dove la medicina si insegna in inglese, finirà per pensare in inglese, perderà la terminologia e la capacità di esprimersi nella sua lingua madre; sarà costretto, se proprio lo deve fare, a tradurre il suo pensiero in italiano, sempre che esistano le parole, visto che in molti casi circolano solo gli anglicismi. E ciò vale anche per l’insegnamento in italiano che però è l’acritica trasposizione di paradigmi americani i cui concetti chiave sono espressi con una terminologia americana. Il risultato è un italiano apparente, l’itangese. Questo modo di fare scuola sembra non essere consapevole del legame per cui il linguaggio influenza il nostro modo di pensare. Oppure, se per caso deve riflettere su queste cose in modo astratto, tira in ballo l’ipotesi formulata da Sapir Whorf, come fosse il frutto di un’innovazione americana (di cui ho già accennato) e non del filosofo tedesco Von Humboldt, in una sudditanza culturale dove sembra che ci siano solo gli Stati Uniti e tutto è reinterpretato come un prodotto della loro cultura ed espresso nella loro lingua.
Lucio Fontana, celebre per i suoi tagli, era furibondo per il fatto di essere considerato come un sottoprodotto dell’arte americana. “Se io dico che ho fatto i neon” spiegava riferendosi alle sue installazioni artistiche luminose, chi sta facendo i neon negli Stati uniti “dice che sono un sottoprodotto degli americani. E loro non accetteranno mai che tu hai fatto i neon vent’anni fa, non io, ma anche Vantongerloo”, che era un artista belga. “Io vorrei, domani, fare un congresso internazionale e aggiornare trent’anni, quarant’anni di pittura e far vedere agli americani che loro non sono in niente precursori, oggi come oggi, dell’arte europea, che loro dicono che l’Europa è finita.”
[L’intervista integrale contenuta in Carla Lonzi, Autoritratto, De Donato editore, Bari 1969, è riportata nell’introduzione di Giorgio Kadmo Pagano in Robert Phillpson, Americanizzazione e inglesizzazione come processi di conquista mondiale, Esperanto Radikala Asocio, 2013].
Quando un giornalista italiano fece vedere a Dan Aykroyd il filmato di Jannacci e Gaber che negli anni Sessanta cantavano Una fetta di limone, un pezzo rock-blues interpretato in completo giacca e cravatta nere su camicia bianca, occhiali neri, capello nero… l’attore americano pensava che fossero imitatori dei Blues Brothers di cui era stato l’interprete, e non riusciva a credere che si trattasse di un “plagio ante litteram”. Perché solo così si può ormai interpretare ciò che non è americano, dove ciò che conta non è chi ha inventato qualcosa, ma chi lo impone in tutto il mondo, con le proprie parole e i propri concetti. Quello che c’era prima o che esiste al di fuori viene semplicemente ignorato e cancellato. Sotto il fenomeno dell’anglicizzazione della nostra lingua c’è questa “ignoranza”, questa ben più profonda colonizzazione culturale che si è ormai fatta strada tra i nostri intellettuali, politici, giornalisti, imprenditori, scienziati che hanno perso le proprie radici e pensano e parlano a stelle e strisce. E fuori dalla cultura alta, se guardiamo agli altri centri di irradiazione della lingua e del pensiero, siamo messi anche peggio. La nuova anglo-cultura di massa è propagata dalle menti colonizzate dei tronisti della televisione o della Rete che si fanno chiamare influencer o youtuber, a loro volta formati attraverso la “cultura” che è ormai quella dei canali satellitari che entrano nelle nostre case e ci abituano a ben precisi stili di vita, visioni del mondo e parole d’oltreoceano, che non sono nostri, ma che alla fine interiorizziamo e facciamo nostri.
Se non riusciamo più a fare tesoro della nostra cultura storica, a partire dalla formazione, dalla didattica e dalla scuola, significa che siamo un popolo ormai finito, sulla via dell’americanizzazione non solo linguistica, ma esistenziale. Stiamo facendo la fine degli Etruschi che si sono suicidati in un’assimilazione alla cultura romana che li ha inglobati fino a farli estinguere.