Le school street(s) e l’educazione istituzionale all’itanglese

Di Antonio Zoppetti

In una scuola milanese di via Porpora è stata da poco introdotta un’area pedonale con un parco giochi e una strada scolastica, e cosa si legge sulla segnaletica rivolta a tutti i cittadini e ai bambini delle elementari?

Porpora school street”.

L’inglese viene così introdotto e diffuso in modo ufficiale come la lingua della comunicazione e della segnaletica cittadina come fossimo un Paese anglofono. Forse dopo i “prestiti linguistici di necessità” è arrivato il momento di teorizzare anche i prestiti urbani e architettonici di necessità?

Il progetto non è nuovo e non è solo milanese, è dal 2019 che lo spingono con questo nome. Su un articolo apparso sul Fatto quotidiano del 2020, “L’Emilia Romagna sperimenterà le school street: niente più traffico davanti alle scuole”, si leggeva questa premessa:

Le statistiche del Dipartimento dei trasporti inglesi rivelano che nel 2018 il 14% dei decessi di bambini causati da incidenti stradali in Gran Bretagna ricadeva nella fascia oraria di ingresso a scuola (ore 7.00-9.00) e il 23% in quella di uscita (ore 15.00-17.00).”

E la conclusione era:

“Ma quella che si verifica ogni mattina davanti alle scuole non è una condizione irreversibile. In Emilia-Romagna, grazie ad una risoluzione del gruppo Europa Verde che è stata approvata dall’Assemblea Legislativa, sperimenteremo le “school street”, sulla base delle migliori pratiche in atto in svariati Paesi del Nord Europa. Si tratta di strade o piazzali in prossimità di una scuola, in cui è – temporaneamente durante gli orari di entrata e uscita da scuola, o permanentemente – interdetto il traffico degli autoveicoli in modo che tutti possano raggiungere la scuola in sicurezza a piedi o in bicicletta.”

Se analizziamo come è concepito un articolo del genere emerge chiaramente cosa frulla nella testa colonizzata di chi crede che l’Italia sia una provincia dell’impero anglofono. Per giustificare l’opportunità delle strade scolastiche non ci sono le statistiche sugli incidenti italiani, ma quelle inglesi, come se la realtà fosse la medesima e noi fossimo una provincia dell’impero. Dunque non resta che copiare le soluzioni con un nome in inglese.

L’esigenza di questi spazi è sentita dai cittadini, che in molti luoghi chiedono le “strade scolastiche”, ma le soluzioni adottate altrove sono state rese in italiano senza alcuna psicopatologia provocata da un “morbus anglicus cerebrale”.

La legge per cui l’italiano è la nostra lingua è carta straccia

In Francia utilizzare l’inglese per la segnaletica cittadina è vietato ma, a parte le leggi, difficilmente verrebbe in mente a chi ha un barlume di lucidità. In Italia, al contrario, non solo lo si fa come fosse una cosa normale, ma nella nostra anglo-assuefazione nessuno protesta, a quanto pare, anche se non so se tutto ciò sia legale.

L’unica legge che ha sancito che l’italiano è la lingua ufficiale è la n. 482 del 15 dicembre 1999, che all’articolo 1 (comma 1) recita: “La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano.” È solo in base a questo comma che la Corte Costituzionale ha riconosciuto che “questa legge può ben considerarsi ricognitiva e interpretativa d’un principio costituzionale implicito, come di nuovo ha dichiarato la Consulta (sentenza n. 159 del 2009)”. In altre parole: che la lingua ufficiale sia l’italiano non viene detto in modo esplicito nella Costituzione, ma lo si ricava e deduce implicitamente.

Peccato che questa legge abbia il valore di carta straccia. Se la stessa cosa fosse sancita nella Costituzione forse le università non potrebbero cancellare l’italiano dalla formazione universitaria per insegnare in inglese – dal Politecnico di Milano all’Università di Bologna – e nelle stesse città la comunicazione in inglese, invece che in italiano, sarebbe incostituzionale. Ma anche le Poste italiane forse non potrebbero rinominare i pacchi celeri o ordinari con la nuova nomenclatura basata sul “delivery (come denunciato dal Gruppo Incipit dell’Accademia della Crusca nel comunicato n. 17 del 3/11/2021: “Poste italiane o Delivery services?” e come avevo già fatto in febbraio anche da questo sito).

Mentre la realtà è questa, e l’impressione è qualla di vivere in un Paese occupato, un coro di intellettuali e linguisti ha attaccato l’assurdità della proposta di legge di Roberto Menia di introdurre in Costituzione che la nostra lingua è l’italiano, come in Francia, Portogallo e Svizzera. Ma i “liberisti linguistici” che si oppongono agli interventi legislativi possono stare tranquilli, in fin dei conti si tratta di una proposta di facciata e dunque innocua; come le altri leggi in tema di lingua presentate ciclicamente dai parlamentari di Forza Italia e Fratelli d’Italia, che tanto non vengono discusse. Questi partiti che le presentavano sin da quando erano all’opposizione, adesso che governano non le approvano affatto.

Il liberismo linguistico è invocato solo quando fa comodo

Le istituzioni che introducono e diffondono l’inglese senza alcun rispetto per il nostro patrimonio storico né per la trasparenza nei confronti degli italiani, lo fanno di proposito.

Pensiamo al Ministero della pubblica istruzione che nel 2018 ha emanato un Sillabo per l’imprenditorialità scritto in itanglese, con un inguaggio così assurdo che il Gruppo Incipit è intervenuto (comunicato n. 10: “Sillabo per l’imprenditorialità o sillabario per l’abbandono della lingua italiana?”) denunciando che

“per imparare a essere imprenditori non occorre saper
lavorare in gruppo, bensì conoscere le leggi del team building, non serve progettare, ma occorre conoscere il design thinking, essere esperti in business model canvas e adottare un approccio che sappia sfruttare la open innovation, senza peraltro dimenticare di comunicare le proprie idee con adeguati pitch deck e pitch day.”

Quello che colpisce è che, proprio nello stesso anno, lo stesso organo diramava contemporaneamente delle Linee Guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del MIUR (2018), dove nella prefazione dell’allora ministra Valeria Fedeli si leggeva (p. 4):

“Credo che nel MIUR la consapevolezza dell’importanza del linguaggio debba essere coltivata e praticata anche più che altrove – non solo per quanto riguarda l’uso del genere grammaticale femminile, quindi, ma anche per tutto ciò che riguarda la trasparenza degli atti amministrativi. Sappiamo che la lingua è un corpo vivente, che si evolve nell’uso quotidiano e non può essere cambiata per decreto. D’altra parte, le proposte riguardanti l’uso del femminile avanzate nelle presenti Linee guida non hanno nulla dell’imposizione dall’alto, perché richiedono semplicemente di applicare in modo corretto e senza pregiudizi le regole della grammatica italiana.”

Il richiamo alle pari opportunità, l’attenzione per la trasparenza e per le regole della grammatica italiana sono invocati nel caso dell’educazione al genere, ma nascosti sotto al tappeto nel caso degli anglicismi che al contrario vengono diffusi e promossi senza seguire gli stessi criteri. E infatti nel 2023 lo stesso Ministero ha varato un documento per il Piano Scuola 4.0 in cui di nuovo il modello linguistico era l’itanglese, e di nuovo il Gruppo Incipit lo ha duramente criticato (comunicato n. 22: “Un glossario per il Piano Scuola 4.0”):

“La trasformazione degli ambienti di apprendimento va sotto il nome di Next generation classrooms; le “azioni” sono definite Next Generation Class, Next Generation Labs; è prevista la rendicontazione di milestone e target; sono evocati i principi del Do No Significant Harm, si parla di check list, di compiti di driver dell’innovazione, mentoring, Digital board, peer learning, problem solving, multiliteracies, debate, gamification, making, blockchain, Task force Scuole, outcome. ”

E allora, per diffondere questo modello linguistico basato sull’itanglese cosa c’è di meglio che abituare i bambini sin da piccoli alla logica delle “school street”?
Per chiamare le cose con il loro nome bisognerebbe che tutti ci rendessimo conto di un fatto evidente e incontrovertibile, anche se nessuno lo mette in risalto: gli ambienti riformisti che vogliono educare gli italiani a parlare in modo etico, inclusivo e non discriminante sono gli stessi che, nel pacchetto, educano all’inglese e all’abbandono dell’italiano. E lo fanno in modo consapevole.

Non bisogna dimenticare che la politica e la pianificazione linguistica non avviene soltanto attraverso provvedimenti espliciti, cioè attraverso l’emanazione di leggi e decreti, ma anche con altre modalità, attraverso la persuasione morale, i gruppi di pressione, i movimenti di opinione che non arrivano solo dalle istituzioni, ma anche da altre parti sociali.

Peccato che tutte queste iniziative che predicano l’importanza del linguaggio sui temi sociali se ne freghino dell’italiano e della sua anglificazione.

La commissione dell’UE, in concomitanza con il Natale, nel 2021 ha emanato delle “Linee guida per una comunicazione inclusiva”, in cui si suggeriva di sostituire “Buon Natale” con “Buone feste” per non discriminare chi non è cristiano. E allo stesso tempo l’Unione Europea lavora per istituzionalizzare l’inglese come lingua ufficiale dell’Europa – benché nessuna carta legittimi questa prassi linguiscista – introducendolo nei documenti bilingui a base inglese, nella comunicazione della Von der Leyen rivolta agli europei in inglese, invece che all’insegna del plurilinguismo, e in mille altri modi ancora.
Passando al fronte interno, nel 2023 “le Commissioni Affari costituzionali e Lavoro della Camera hanno approvato all’unanimità l’emendamento di Arturo Scotto (Pd) che prevede che nei documenti della Pubblica amministrazione la parola ‘razza’ sia sostituita da ‘nazionalità‘”.

A quando una modifica costituzionale per abolire anche “senza distinzione di razza”? Forse avrebbe più successo di quella di Menia.
Intanto, lo scorso 28 marzo l’Università di Trento ha pensato bene di varare il Regolamento dell’ateneo utilizzando il “femminile inclusivo” e dunque introducendo espressioni come la presidente o la rettrice anche quando si riferiscono agli uomini.

E mentre il revisionismo linguistico impazza su questi fronti, cosa si fa davanti all’interferenza dell’inglese?
La si aiuta, introduce e agevola con la stessa energia, applicando due pesi e due misure: intervenire sulla lingua e sul modo di parlare della gente per cambiarlo in nome di ideologie politiche spesso dai toni fondamentalisti, e contemporaneamente anglicizzare. Invocare la trasparenza, la comprensibilità, la non discriminazione come un valore in un caso e negare le stesse cose sul fronte dell’itanglese.

Davanti al globish delle istituzioni sarebbe ora di protestare e di organizzare la Resistenza al nuovo regime linguistico che si vuole imporre dall’alto ai cittadini, in modo manipolatorio e con prepotenza.

L’italiano cede il passo all’inglese sul piano interno e anche internazionale

Di Antonio Zoppetti

Nelle ultime settimane l’itanglese dei giornali ha raggiunto dei picchi notevoli anche grazie a una serie di manifestazioni tutte italiane, tranne che nella lingua.

A Vinitaly, di cui è già pronta la campagna per la prossima edizione, gli amanti del vino sono definiti Wine Lover, c’è il Design Award, e gli appuntamenti internazionali, di cui il sito invita al save the date, sono in inglese: tutto si chiama Around the World, e oltre alle date, anche le città come Belgrado sono tradotte in inglese.

Le motivazioni di queste scelte sono legate a un voler essere “internazionali” puntando sulla lingua inglese rivolta all’esterno e all’itanglese sul piano interno. Eppure, nei ristoranti di lusso dei Paesi anglofoni, da New York a Melbourne, i menù propongono il “vino”, perché questa è la parola italiana che evoca la nostra eccellenza nel mondo, e non Wine.
È bizzarro avere a che fare con i tanti che sono pronti a spiegarci che è giusto e “necessario” introdurre in inglese ciò che arriva dagli Stati Uniti perché è normale che le culture esportino nella propria lingua i settori dove sono forti. Ma questi stessi personaggi, quando si tratta di esportare i nostri punti di forza – dal Made in Italy all’Italian Design – sono pronti a spiegarci anche tutto il contrario, e cioè che è giusto e necessario usare l’inglese, perché è la lingua internazionale. Il risultato è che non c’è che l’inglese in questo curioso import-export basato su due pesi e due misure.

Quale altro Paese storpia il proprio nome in inglese, invece che esportarlo nella propria lingua? La scelta di Vinitaly al posto per esempio di Vinitalia è come chiamare Pirandello Louis invece di Luigi, riscrivere con “Italy’s Brothers” l’inno nazionale, proclamare il Green, il White e il Red i colori della nostra bandiera, magari con la scusa di una standardizzazione internazionale dei Pantone.

Passando dal Wine al Food, che dire della manifestazione Woman in Food, abbreviata in Wif?

Mentre fortissime pressioni sociali, spesso proprio in nome del politically correct, spingono per educare tutti all’inclusione o alla femminilizzazione delle cariche, perché “ogni parola ha le sue conseguenze” e dunque è giusto e normale intervenire sull’uso per cambiare il modo cui ci siamo sempre espressi, in questi stessi ambienti riformatori che introducono la sorellanza accanto alla fratellanza, non c’è invece alcuna attenzione per l’anglicizzazione della nostra lingua, e tra Cook e food stylist, l’inglese viene ostentato come se ci fosse da andarne fieri. Su questo aspetto guai a intervenire! Guai a parlare di politica e pianificazione linguistica, sul fronte dell’itanglese, perché invece che guardare a cosa si fa oggi in Francia in Spagna, in Svizzera e nelle moderne democrazie, i nostri intellettuali sembra che sappiano guardare solo ai tempi del fascismo, quando le parole straniere vennero messe al bando e sono pronti a spiegarci che la lingua non si può di certo imporre dall’alto. Di nuovo si adottano due pesi e due misure, la pianificazione linguistica è perseguita su alcune questioni e negata per altre. E allora abbasso la discriminazione della donna, ma viva la discriminazione dell’italiano, degli italiani e delle italiane!

Mentre a Milano impazza quello che un tempo era il Salone del mobile, la parola d’ordine è una sola: rinominarlo con la Week Design, in attesa forse che anche il Fuorisalone divenga l’OutDesign. Il “renaming” è imposto dall’alto e i giornali sono i cani da guardia di questo revisionismo linguistico che hanno il compito di diffondere: Week, Week e se non basta: Weekend!

Intanto, nella nostra demenza culturale, abbiamo pensato di anglicizzare anche il logo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, per presentarci così, in inglese, a tutto il mondo, senza riflettere sull’impatto, fuori dai Paesi anglofoni, di questa scelta miope, perché siamo convinti che anche tutti gli altri siano – come noi – una provincia degli Usa. Dunque, invece di tradurre e puntare al plurilinguismo nel presentarci in Francia, Spagna, Germania e ovunque, ci presentiamo direttamente in inglese come fossimo un Paese anglofono.

In una recente pubblicità rivolta alla Francia (Histoire d’or à l’italienne) promossa dal nostro Ministero e dall’Italian Trade Agency (nome tipicamente italiota) è successo un bel pasticcio, perché le associazioni francesi si sono inviperite proprio perché il nostro inglese viola le loro leggi.

L’irriducibile Daniel De Poli, che da anni si batte contro l’anglicizzazione del francese – tempo fa mi ha segnalato il caso della condanna all’Aeroporto di Metz-Nancy-Lorraine – mi ha subito scritto facendo presente:

“Le menzioni in inglese Ministry of Foreign Affairs and International Cooperation e Italian Trade Agency sono illegali, perché contravvengono all’articolo 3 della legge del 4 agosto 1994 (legge Toubon) che recita:
Qualsiasi iscrizione o annuncio affisso o fatto sulla pubblica via, in un luogo aperto al pubblico o su un mezzo di trasporto pubblico e destinato all’informazione del pubblico deve essere formulato in francese (art. 3).
Per di più, l’uso dell’inglese negli annunci pubblicitari dovrebbe essere evitato poiché molti francesi non capiscono o fraintendono la lingua inglese. Una menzione in francese ha molto più impatto perché è immediatamente comprensibile. Penso quindi che sarebbe auspicabile attivarsi affinché le prossime menzioni siano scritte in francese in Francia, per esempio traducendo in francese, invece che in inglese: Ministère des Affaires étrangères et de la Coopération internationale e Agence italienne pour le commerce extérieur.
Infine, vorrei sottolineare che questo tipo di reato – l’uso illegale dell’inglese – dà luogo ad azioni legali da parte dell’associazione di difesa della lingua francese Francophonie Avenir, che spesso hanno portato a delle condanne. Lo stesso governo di Emmanuel Macron è stato perseguito in diversi casi (casi 3, 4, 5 e 7), e il 20 ottobre 2022 c’è stata la condanna per un uso illegale del marchio Health Data Hub.”

Naturalmente, Daniel De Poli non ha scritto solo a me, ma si è rivolto alle associazioni per la tutela del francese e anche alle nostre istituzioni diffidandole, per il futuro, di presentarsi in Francia come un Paese anglofono. E la sommessa risposta di cortesia che ha ottenuto è la seguente:

Egregio Sig. De Poli,
la ringraziamo per l’attenzione mostrata verso le attività della nostra Agenzia e per la Sua cortese segnalazione, ricca di spunti informativi.
Siamo a conoscenza dei contenuti e delle prescrizioni della Legge n. 94-665 del 4 agosto 1994, che applichiamo con attenzione nelle nostre attività promozionali volte a sostenere le aziende italiane che desiderano operare sul mercato francese. Le menzioni in inglese cui fa riferimento riguardano in effetti la versione internazionale del logo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale della Repubblica Italiana e il logo stesso dell’Agenzia ICE, oggi Italian Trade Agency.
Alla luce di quanto da lei segnalato, ci riserviamo quindi di approfondire e verificare le modalità più corrette per esporre i loghi ufficiali del Ministero e dell’Agenzia in eventuali futuri annunci destinati al pubblico francese.

Cordiali saluti…”.

Davanti all’ammissione, a mio avviso sconcertante, che la versione “internazionale” del logo non è all’insegna del plurilinguismo ma concepita solo in inglese, non ho molto da aggiungere, a parte vergognarmi e dolermi profondamente della nostra provinciale pochezza che ci sta trasformando in una “colonia” anche dal punto di vista linguistico, oltre che economico, politico, militare e culturale. Voglio però riportare un’altra segnalazione arrivata da Daniele Imperi che mi pare un’ottima conclusione per farci riflettere su dove stiamo andando.

Si tratta di una schermata presa dal profilo Instagram dei nostri Oscar Mondadori. A prima vista sembra un libro in inglese, ma invece è in “italiano”, a partire dal titolo non tradotto, sino alle indicazioni del genere (Contemporary romance), dei contenuti (What’s Inside?), e delle spiegazioni (Doppio PoV, Single mom…). Questo sarebbe il nuovo “italiano”, per certi linguisti che ci spiegano come la nostra lingua sia “vitale” e vispa, o per quelli che ci spiegano che l’anglicizzazione è tutta un’illusione ottica… La realtà è che questo è itanglese, il nuovo modello linguistico della cancel culture diffusa e imposta dall’alto a partire dalle nostre istituzioni, dai nostri mezzi di informazione, e dalla nostra classe dirigente che ha rinunciato all’italiano.

Finanziamenti pubblici ai giornali: 28 milioni di euro per aiutare l’anglicizzazione?

Di Antonio Zoppetti

Il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha da poco pubblicato il resoconto del finanziamento pubblico erogato ai giornali e l’elenco delle testate cartacee che hanno ricevuto i fondi straordinari per le copie vendute nel 2021 (un grazie a Carlo Vurachi che mi ha segnalato la notizia). Si tratta di 28 milioni di euro, a fronte delle richieste che ammontavano a 38 milioni [cfr. Andrea Falla “Dallo Stato 28 milioni ai giornali (cartacei): ecco chi ha preso i contributi per l’editoria”, Today 2/4/2024].

Non voglio entrare nel merito se questi finanziamenti siano giusti o meno, voglio porre sul tavolo un’altra questione che vado dicendo almeno dal 2017, quando scrivevo:

“Poiché i giornali ricevono un notevole contributo dallo Stato, che poi sono i soldi di noi cittadini, non sarebbe una cattiva idea quella di chiedere loro un codice di autoregolamentazione, come è avvenuto spontaneamente in Spagna, in cui si sforzino a evitare gli anglicismi inutili, per esempio, e a contribuire a tradurli. Non in modo coercitivo, certo, però si potrebbero per esempio legare i finanziamenti pubblici a un impegno a diffondere un uso corretto della lingua italiana, visto il ruolo fondamentale della stampa. L’intervento dello Stato per arginare l’entrata negli anglicismi sul fronte della lingua ufficiale avrebbe sicuramente delle ricadute anche in altri ambiti, come quello della pubblicità, dei linguaggi settoriali e dell’aziendalese. E soprattutto richiamerebbe l’attenzione sul problema, e agirebbe sulla consapevolezza dei parlanti.” (Diciamolo in italiano. Gli abusi nell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla, Hoepli Milano, p. 183).

Un rapporto di “comparazione” poco chiaro

Provo a riprendere la questione in modo più dettagliato partendo dal rapporto “Il sostegno all’editoria nei principali Paesi d’Europa. Politiche di sostegno pubblico a confronto” (a cura del Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri), nella cui Prefazione si legge:

“L’Unesco per sottolineare l’importanza, in un sistema democratico, della libera informazione, suole richiamare una icastica affermazione dell’economista statunitense Joseph Stiglitz: ‘L’informazione è un bene pubblico […] e in quanto bene pubblico ha bisogno del sostegno pubblico’. La lapidaria evidenza di questo concetto sembrerebbe non lasciare spazio a grandi dibattiti, nondimeno in Italia negli ultimi tempi si è imposta una corrente di pensiero tesa a ‘delegittimare’ le misure di sostegno pubblico al sistema dell’informazione, articolata essenzialmente su due diverse argomentazioni: da un lato, che l’afflusso di risorse pubbliche al sistema editoriale rappresenterebbe un condizionamento per chi dovrebbe essere libero di svolgere la funzione di watch dog a tutela della democrazia e del pluralismo delle opinioni; dall’altro, che la spesa volta a sostenere il pluralismo dell’informazione non potrebbe essere considerata essenziale, in quanto estranea all’ambito tipico delle attività di carattere pubblicistico.
Per verificare la bontà o meno di questa impostazione, è risultato quasi inevitabile e doveroso per il Dipartimento dell’Informazione e dell’Editoria volgere lo sguardo verso altri paesi europei in chiave comparativa, al fine di verificare se il complesso sistema italiano che supporta l’informazione, in modo diretto e indiretto, costituisse una nostra peculiarità ovvero se invece trovasse una corrispondenza in altri paesi europei di consolidata tradizione democratica.”

– La prima considerazione è che anche la lingua italiana “è un bene pubblico” e non si capisce perché in quanto bene pubblico non abbia anch’essa bisogno del “sostegno pubblico”: anche questa lapidaria sentenza non dovrebbe lasciare spazio a grandi dibattiti, “nondimeno in Italia negli ultimi tempi si è imposta una corrente di pensiero” tesa a delegittimare l’italiano e a cancellarlo per sostituirlo con l’inglese. E infatti, in un documento istituzionale come questo, la funzione del “cane da guardia” è stata sostituita dall’espressione inglese watch dog. Perché? Forse perché abbiamo un/a presidente del Consiglio che si è definito/a underdog? Forse perché (hot dog e doggy-bag a parte) è arrivato il momento di sostituire cane con dog come si fa con i dog sitter e le gare di agility dog? A chi è destinata questa comunicazione? E che scopo ha? Di certo l’espressione non è trasparente, non si rivolge alle masse, che al contrario si vogliono “educare” attraverso la sostituzione dell’italiano con l’inglese. E soprattutto non è rispettosa del nostro patrimonio linguistico.

– La seconda considerazione è che non si può ridurre chi critica questi finanziamenti a chi ne mette in risalto “l’essenzialità” o il “condizionamento” dei watch dog, ci sono critiche di ben altro carattere che riguardano i criteri di queste erogazioni.
I meccanismi sono complicati, ma per semplificare, ci sono finanziamenti indiretti (per es. riduzione di Iva e costi di spedizione) e diretti, e questi ultimi sono distribuiti con vari criteri molto discutibili. Il punto dolente riguarda le testate che sono pubblicate da cooperative o società “senza fini di lucro”, un requisito che viene aggirato, come spiegato chiaramente in un articolo de Il Post [“I giornali che ricevono i contributi pubblici (seconda rata del 2022)”]:

“I criteri per accedere ai contributi possono essere in buona parte soddisfatti attraverso la creazione di strutture formali (cooperative, soprattutto) che non cambiano la natura societaria delle aziende giornalistiche, la differenza di condizione tra alcune testate che vengono finanziate e altre che invece no è inesistente, e questo crea una discriminazione di fatto alla libera concorrenza. Prendete la vivace competizione che si sta sviluppando tra i quotidiani italiani di destra, con Libero che cerca di rincorrere i recenti successi della Verità, e un gran lavoro di entrambi nel convincere gli inserzionisti a preferire l’uno o l’altro: bene, in questa competizione lo Stato – e le persone che pagano le tasse, e il canone Rai – dà a Libero cinque milioni e mezzo di euro che la Verità non riceve.”

Tra le altre critiche che riguardano le modalità di erogazione ci sono per esempio il fatto che i finanziamenti siano previsti solo per i giornali cartacei con esclusione delle testate solo digitali (ecco un’altra discriminazione), o anche che alcuni meccanismi di rimborso si basino sulle tirature e le vendite dei giornali, con la conseguenza che sono avvantaggiate non le piccole testate indipendenti, ma quelle già affermate. Dunque criticare i meccanismi non equivale a metterne in discussione il principio.

Terza considerazione: il titolo del rapporto parla di una comparazione tra la situazione italiana e i “principali paesi europei”, ma questa comparazione è fatta solo con 8 paesi, tra cui c’è il Regno Unito che è uscito dall’Europa e poco in linea con il titolo. E non c’è una riga che spieghi come e perché sono stati inclusi nella comparazione non i paesi europei, ma alcuni paesi europei, dove per esempio colpisce che non sia stata inclusa almeno la Spagna. Qual è il criterio di questa comparazione “europea”? Scegliere come parametro di riferimento una rosa arbitraria – magari di comodo – non è un grande indizio di “scientificità”.

Fatte queste premesse, partiamo proprio dalla grande esclusa, la Spagna.

I giornali in Spagna e Francia

La Reale Accademia Spagnola collabora con le analoghe accademie presenti in una ventina di Paesi dove il castigliano è lingua ufficiale non solo per mantenere l’omogeneità della lingua a livello globale, ma anche proprio per diffondere e creare le alternative in spagnolo agli anglicismi.

E così, nel 2005, quando a Madrid è stato presentato il Dizionario panispanico dei dubbi (Diccionario panhispánico de dudas) alla presenza dei responsabili di quasi tutti i giornali più importanti di lingua spagnola, fu sottoscritto un accordo, come ha ben evidenziato Gabriele Valle, in cui si dichiarava:

“Consci della responsabilità che nell’uso della lingua ci impone il potere di influenza dei mezzi di comunicazione, ci impegniamo ad adottare come norma fondamentale di riferimento quella che è stata fissata da tutte le accademie nel Dizionario panispanico dei dubbi, e incoraggiamo altri mezzi affinché aderiscano a questa iniziativa” [“Lʼesempio della sorella minore. Sulla questione degli anglicismi: l’italiano e lo spagnolo a confronto”, p. 757].

E lo stesso autore ricorda che la Fundación del Español Urgente, un’istituzione senza fini di lucro nata da un accordo tra un’agenzia stampa e una banca, costituisce attraverso il suo sito un servizio di consulenza linguistica che è diventato un punto di riferimento per i giornalisti che si rivolgono proprio a queste risorse per trovare le traduzioni agli anglicismi.

Quanto alla Francia, sarebbe doveroso ricordare che mentre i mezzi di informazione italiani diffondono anglicismi che in Francia non esistono oppure sono deprecati, Le Figaro sforna innumerevoli pezzi che condannano l’inglese e riprendono le direttive della Commissione per l’arricchimento della lingua francese che invita a usare per esempio infox al posto di fake news. E lì ci sono delle leggi da rispettare a proposito della lingua, che è il francese – come è stato scritto nell’articolo 2 della Costituzione – e non si possono introdurre parole straniere nel linguaggio istituzionale. Le indicazioni dell’Accademia francese si intrecciano dunque con le iniziative statali e sono affiancate dalle indicazioni terminologiche regolarmente pubblicate da oltre trent’anni sul Journal officiel (la Gazzetta Ufficiale francese), mentre opere come il Grande Dizionario Terminologico del Quebec traducono gli anglicismi anche più tecnici, e rappresentano un punto di riferimento che noi non abbiamo, ma che i giornalisti francesi mediamente rispettano e tendono a seguire.

La situazione degli anglicismi sui giornali italiani, francesi, spagnoli e tedeschi (e anche quella dei forestierismi in totale sui giornali anglofoni) è stata studiata in modo esemplare da Peter Doubt sul sito Campagna per salvare l’italiano, da cui rubo una delle tante tabelle comparative con il conteggio degli anglicismi nella settimana dal 15 al 21 gennaio 2022 su 5 testate a campione.

In conclusione: i giornali francesi e spagnoli hanno un ruolo sociale importante anche dal punto di vista linguistico. Se il finanziamento pubblico ai giornali è una garanzia per il pluralismo e la democrazia e ha bisogno di un sostegno pubblico, lo stesso vale per la lingua italiana, oggi calpestata soprattutto dai mezzi di informazione, che un tempo hanno contribuito enormemente a unificare ma che dagli anni Duemila stanno trasformando in itanglese.

E allora, la mia modesta proposta è che i criteri di erogazione di questi finanziamenti dovrebbero essere legati anche al rispetto del nostro patrimonio linguistico, e si potrebbero per esempio sottrarre delle quote per ogni anglicismo introdotto al posto di un equivalente italiano, per esempio watch dog. Un algoritmo potrebbe facilmente calcolare la percentuale delle parole inglesi e detrarla dalle quote spettanti (se è il 2% ci sarà un taglio ai finanziamenti del 2%), con meccanismi correttivi moltiplicatori per cui qualora lo stesso anglicismo comparisse nel titolo varrebbe come 10 anglicismi, nell’occhiello 5 e via dicendo. I soldi trattenuti in questo modo potrebbero finire in un fondo destinato alla promozione della lingua italiana, per realizzare campagne pubblicitarie, borse di studio, iniziative su tutto il territorio. E se qualcuno pensa che questa sia una limitazione alla libertà di espressione dovrebbe tenere presente che i giornalisti hanno anche una funzione pubblica e didattica, nell’esercitare la loro libertà, e se viene meno è giusto che vengano meno anche i finanziamenti pubblici.

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Un’ultima notizia, a proposito della questione degli anglicismi:

su YouTube è appena uscito il documentario L’idioma superiore, di Matteo Marcucci, che ha intervistato e messo a confronto le posizioni del presidente della Crusca Paolo D’Achille, del giornalista e conduttore di RaiNews24 Lorenzo di Las Plassas, e anche le mie.

Inclusività e anglicizzazione: la nuova lingua che si vuole imporre dall’alto

Di Antonio Zoppetti

Il Consiglio di amministrazione dell’Università di Trento ha varato da pochi giorni il Regolamento generale di Ateneo scritto con il “femminile sovraesteso”, come l’hanno chiamato, cioè cambiando l’uso storico dell’italiano e introducendo il femminile inclusivo. Tutte le cariche sono state femminilizzate, anche se includono il personale maschile, perché si sottintende la parola “persona”: la presidente, la rettrice, la segretaria, le componenti del Nucleo di valutazione, la direttrice del Sistema bibliotecario di Ateneo, le professoresse, la candidata, la decana…

“Una scelta che ha una valenza fortemente simbolica e che segue altre decisioni in questo senso intraprese dall’Ateneo a partire dal 2017 con l’approvazione del vademecum ‘Per un uso del linguaggio rispettoso delle differenze’”, si legge nel comunicato stampa che si può trovare sulla loro “pressroom” (ufficio stampa forse non è rispettoso delle differenze):

Questa provocazione – che fa però parte del linguaggio istituzionale e ha dunque la sua ufficialità – vuole fare riflettere sul sacrosanto problema della discriminazione femminile, anche se considerare il maschile inclusivo “discriminante” è una presa di posizione politica piuttosto discutibile, non condivisa e che non si fa alcun problema a entrare a gamba tesa sull’uso storico dell’italiano e la sua norma. Personalmente preferirei che le donne avessero delle reali pari opportunità sul lavoro, che fossero pagate come gli uomini e che avessero la possibilità di fare carriera e magari anche di diventare “rettrici” universitarie, visto che al momento sembra che ce ne siano solo 12 in Italia (fonte: Lorenza Ferraiuolo, “Università, Giovanna Spatari è la prima rettrice del Sud Italia”, Fortune Italia, 28/11/2023).

Se poi si vogliono far chiamare “rettori” o “rettrici” credo che dovrebbe essere una loro scelta, e vorrei ricordare che la maggior parte delle donne che sono avvocati, notai o architetti preferiscono il maschile inclusivo, dunque femminilizzarle a forza e volerle “educare” è un atto che non pare troppo “rispettoso delle differenze”. La verità è che questa inclusività esclude… ma comunque la si pensi, non resta che constatare che le fortissime pressioni sociali che spingono per cambiare l’uso in nome dell’inclusività sono le stesse che vogliono cambiare l’uso introducendo l’inglese. Basta contare gli anglicismi presenti sulla pagina principale del sito dell’Ateneo di Trento per vedere come sono “rispettosi” della lingua italiana: ci sono le call, gli hackathon, la reception del Rettorato, le news e le newsletter, gli open days (con la s del plurale), una challenge, la brand identity, il fundraising, lo staff, la categoria “people“…

Anche la Treccani nel 2022 ha deciso di registrare i femminili di nomi e aggettivi prima del maschile, e contemporaneamente ha deciso anche di introdurre il modulo Whistleblowing (proprio sopra la Cookie Policy e la Privacy Policy) invece delle Segnalazioni come si legge all’interno del documento.

Come ho ribadito anche la scorsa settimana al dibattito di Pordenone su dove va la lingua italiana – che è stato archiviato su YouTube se qualcuno è interessato – mentre in Italia sono state emanate raccomandazioni sulla femminilizzazione delle cariche in cui è stata coinvolta la Crusca, sugli anglicismi ci si volta dall’altra parte. E il paradosso è che si usano due pesi e due misure: sull’inclusività si interviene senza remore per educare tutti a parlare in un certo modo, ma davanti ai troppi anglicismi si risponde che sull’uso non si può di certo intervenire perché la lingua arriverebbe “dal basso”. Al contrario si diffondono dall’alto e del fatto che non siano trasparenti o rispettosi del nostro patrimonio linguistico storico o che creino fratture e barriere sociali sembra che non importi niente a nessuno.