L’inglese, o più precisamente l’angloamericano, è ormai una lingua planetaria, e la sua interferenza si osserva in ogni idioma e Paese. La globalizzazione lo ha diffuso ovunque, attraverso l’espansione delle multinazionali che esportano i nomi dei propri prodotti e dei propri marchi attraverso pubblicità sempre più internazionali, e attraverso modelli commerciali, tecnologici e culturali di successo (dalla musica al cinema).
L’inglese globale è perciò l’effetto e l’altra faccia di un’egemonia e di un indiscutibile imperialismo economico e politico che in molti casi “svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle lingue”, come ha mostrato Claude Hagège, uno studioso che si occupa della dimensione internazionale della linguistica, e in particolare delle lingue a rischio di estinzione (Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano 2002, p. 7).
E l’italiano come si colloca, davanti a questa espansione?
Dove va (se va) l’italiano
L’interferenza dell’inglese sulla nostra sintassi e sulla nostra struttura linguistica è poca cosa, ma, purtroppo, non si può dire lo stesso del nostro lessico, visto che negli ultimi 30 anni abbiamo importato migliaia di parole inglesi che violano il nostro sistema fonetico e ortografico. Dunque il rischio non è la scomparsa e l’estinzione dell’italiano, ma la sua totale trasformazione lessicale che già da tempo manifesta evidenti sintomi di creolizzazione.
Quello che è in gioco, perciò, è il futuro della nostra lingua: verso quale italiano stiamo andando? Una lingua fatta di nuove parole che seguono la storia dei nostri suoni e delle nostre regole, dunque che vengono assimilate e reinventate, oppure una struttura italiana che contiene una percentuale di anglicismi non adattati (dunque “corpi estranei”) sempre maggiore fino a divenire itanglese?
Questo è il bivio e questo è il punto di non ritorno, che a mio avviso abbiamo già superato. E davanti a questo bivio si scontrano due opposte visioni del mondo e della modernità della nostra lingua.
La menzogna dell’inglese visto come segno di modernità e di internazionalismo
Per comprendere meglio la questione voglio citare le parole di un importante linguista, Alberto Nocentini, che scrive:
“…il francese e lo spagnolo, a differenza dell’italiano, hanno reagito colle risorse del proprio lessico e tradotto computer con ordinateur e ordenador, rispettivamente. Reazione che corrisponde a una maggior consapevolezza dell’integrità della propria lingua e che contrasta coll’esterofilia un po’ passiva e facilona dell’italiano. In casi come questo, dove il termine è un tecnicismo di diffusione internazionale, al pari di telefono, radio e televisione, resta però da vedere se la soluzione adattata dal francese e dallo spagnolo sia alla resa dei conti un vantaggio o uno svantaggio, perché pone le due lingue al di fuori del circuito internazionale.”
Alberto Nocentini, La vita segreta della lingua italiana. Come l’italiano è diventato quello che è, Ponte alle Grazie, Milano 2015, pp. 109-110.
Queste parole contengono una serie di luoghi comuni e di affermazioni insostenibili, ma evidenziano bene la vera natura del bivio a cui siamo giunti. Molti intellettuali ci vogliono fare credere che il ricorso all’inglese sia “necessario”, un ineluttabile segno dei tempi che coinvolge ogni Paese. Ma non è affatto così, è un fenomeno tipicamente italiano. E bisogna gridarlo forte!
La nostra esterofilia è di certo indiscutibile, ma affermare che l’italiano, al contrario di francese e spagnolo, non abbia tradotto la parola computer è un falso storico. Una parola come mouse non l’abbiamo tradotta, al contrario di francesi, spagnoli, portoghesi e tedeschi (dunque non siamo internazionali in questa strategia, siamo semplicemente succubi), ma computer, fino alla fine degli anni Settanta, si diceva normalmente calcolatore e nella versione italiana di 2001 Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968) computer non ricorre nemmeno una volta (c’era il calcolatore HAL 9.000).
Negli anni Ottanta si è diffusa (senza grande fortuna) anche l’alternativa elaboratore, visto che le macchine non erano più solo in grado di fare calcoli, ma anche di giocare a scacchi, elaborare le informazioni e permettere le prime applicazioni multimediali (si veda Egidio Pentiraro, A scuola con il computer, Laterza, Bari 1983, “Non calcolatore, ma elaboratore”, p. 9).
Quella che è successa, dunque, è un’altra storia rispetto alla ricostruzione di Nocentini: per prima cosa computer non è affatto un tecnicismo, ma a parte questo, il punto è che si è rivelato un “prestito sterminatore”, che, come molti altri, ha ucciso le alternative italiane esistenti che oggi sono utilizzabili solo come sinonimie secondarie. Questo “parolicidio” è avvenuto precisamente in concomitanza con l’affermarsi del personal computer, da quella data in poi l’anglicismo si è affermato definitivamente sulle alternative di calcolatore o elaboratore personale, come si evince anche dai grafici di Ngram Viewer.

Questa precisazione non è una cosa da poco, perché è il simbolo di ciò che sta accadendo all’italiano: sta regredendo, anche se pare che molti linguisti non se ne accorgano.
Altrettanto infondato è paragonare un “internazionalismo” come computer ad altri come telefono e televisione. Ma come è possibile non vedere che nel primo caso si violano le regole di pronuncia e di ortografia (si legge compiuter, e come gli altri forestierismi non si volge al plurale) e si introduce una parola non adattata, mentre gli altri esempi sono parole adattate ai nostri suoni e alle nostre regole, e sono dunque parole italiane a tutti gli effetti? Come è possibile mettere sullo stesso piano i forestierismi non adattati con le parole italiane che derivano da parole straniere solo nella loro etimologia?
È arrivato il momento di spazzare via queste pseudoargomentazioni che fanno confusione invece che chiarezza.
La terza grande falsità è proclamare computer come un internazionalismo. Ma di che cosa stiamo parlando? È vero che si dice computer per esempio in tedesco o in polacco (dove si scrive con la k: komputer), ma sono queste le eccezioni, non è affatto vero che si dica così dappertutto. In greco è υπολογιστών (ipologhistòn), in portoghese computador, in rumeno calcolator, in slovacco e in ceco počítač, in finlanese tietokone, in norvegese datamaskin, nello svedese dator, in turco bilgisayar, in croato računalo, in ungherese számítógép, in islandese tolva… e persino nell’afrikaans si dice rekenaar!
E allora chi è “fuori dai circuiti internazionali”? Noi che non sappiamo fare altro che ripetere l’inglese a pappagallo e in modo coloniale? O chi traduce e adatta, come i francesi e gli spagnoli, ma come hanno fatto anche gli armeni, gli irlandesi, i catalani, i baschi e i gallesi?
Colonialismo, altro che internazionalismo!
Basta con queste sciocchezze della lingua sovranazionale. Sono bugie. Sono l’alibi per preferire l’inglese e rinunciare a parlare l’italiano!
Davanti al Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati solo gli italiani ripetono l’inglese GDPR (= General Data Protection Regulation), perché in Francia e Spagna si dice RGPD, e in Germania DSGVO (Datenschutz-Grundverordnung).
Essere moderni e internazionali dovrebbe portarci a rinunciare a dirlo in italiano? È questa la visione dei linguisti che negano l’anglicizzazione della nostra lingua? È questo l’italiano del futuro che hanno in mente?
Chi afferma ciò o è vittima di pregiudizi o è in malafede.
Brainstorming che dai noi è spacciato da certi linguisti come prestito di necessità, in Francia è stato tradotto con remue-méninges (spremimeningi) e in Spagna con lluvia de ideas (pioggia di idee). Graphic novel, che ripetiamo all’inglese anche se novel deriva dall’italiano novella (dall’opera di Boccaccio), in francese è roman graphique e in spagnolo novela gráfica. Basta confrontare le voci della Wikipedia italiana e francese per rendersi conto di come stanno le cose.
E se un francese usa preferibilmente parole come camping e football che noi diciamo preferibilmente campeggio e calcio, va ricordato che le pronunciano alla francese (campìng e futbòll), e non certo in inglese come facciamo noi, esattamente come wi-fi, pronunciato in modo autoctono anche dagli spagnoli. Noi, invece, ci vergogniamo a storpiare l’inglese, da cui ci stiamo facendo soggiogare rinunciando alla nostra lingua e incapaci di adattarlo ai nostri suoni.
Ripetere le parole inglesi senza tradurle, o sostituirle a quelle italiane anche quando esistono le alternative che facciamo morire perché non le utilizziamo, non significa “essere internazionali”, ma “essere provinciali” e stupidi. Significa rinnegare la nostra storia e le nostre radici per scegliere di diventare creoli. Questo è il morbus anglicus che sta soffocando la nostra lingua.
Chi, con l’alibi dell’internazionalismo o del tecnicismo “insostituibile”, vuole dirlo in inglese mente: sta semplicemente imponendo la propria visione del futuro della nostra lingua (l’itanglese) e il proprio senso di inferiorità verso l’inglese.
Questo è il vero problema, che denuncia anche Claude Hagège quando scrive che la predominanza dell’angloamericano spinge verso una mentalità monolingue che è tutta a beneficio dell’inglese e all’imposizione della lingua dominante da parte di tutti. Le competenze plurilinguistiche non sono considerate una ricchezza e il
“monolinguismo a vantaggio dell’inglese è vissuto come garanzia (…) della modernità e del progresso, mentre il plurilinguismo è associato al sottosviluppo e all’arretratezza economica, sociale e politica, oppure è considerato una fase, negativa e breve, sulla via che deve condurre al solo inglese”.
Claude Hagège, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano 2002, p. 100.
Questa mentalità, che in Italia va per la maggiore, è da respingere e da combattere con ogni mezzo, perché rappresenta una delle principali porte di ingresso agli anglicismi e una delle principali cause della regressione del nostro lessico.
PS
Sulla necessità di tutelare la nostra lingua dal pericolo degli anglicismi, segnalo l’appello di Gabriele Valle al presidente dell’ANSA Giulio Anselmi, perché segua l’esempio dei mezzi di informazione spagnoli.