Dal codice a barre (in italiano) al QR code (in inglese)

Di Antonio Zoppetti

La notizia di questi giorni (in italiano e rivolta a tutti) è che dal 2027 sarà adottato un nuovo protocollo che prevede la sostituzione dei codici a barre con i codici QR nel settore delle vendite, del largo consumo e della grande distribuzione. In itanglese si può – ormai forse meglio – sintetizzare tutto ciò parlando del nuovo standard dei QR code per il retail.

Il codice a barre e il codebar

L’idea dei codici a barre nasce negli Stati Uniti intorno agli anni Cinquanta, ma dopo un lungo periodo di esperimenti e insuccessi il sistema viene perfezionato nel 1973, mentre l’anno successivo trova le prime applicazioni pratiche e, intorno al 1977, il protocollo sbarca anche in Europa per diffondersi sempre maggiormente.

Se confrontiamo questa storia con le frequenze di “codice a barre” nell’archivio di Google libri, vediamo infatti che l’espressione spunta dal rumore di fondo nel 1972, e nel 1977 la sua frequenza comincia a salire fino al 1994. Dopo qualche anno di stallo le occorrenze continuano a salire a partire dal 1998, e non è un caso che in quegli anni i codici a barre ISBN siano diventati obbligatori anche per i prodotti editoriali come i libri o i cd. Non si tratta di un obbligo vero e proprio, per essere precisi, ma di un requisito imposto dalla grande distribuzione per cui, senza il codice, questi prodotti non possono più finire nei circuiti di vendita ufficiali.

In inglese tutto ciò si chiama barcode, ma se aggiungiamo su Ngram Viewer anche questa parola, vediamo che l’inglese spunta solo successivamente, e la sua frequenza è bassissima. Si tratta probabilmente del riversamento in italiano dell’inglese internazionale non tradotto, e fuori dalla comunicazione in inglese – o dalla sua ostentazione da parte di qualche anglomane che preferisce infighettare i concetti con una connotazione alberto-sordiana – l’italiano resiste e non cede.

Il QR code e il codice QR

Il codice Qr è bidimensionale e contiene molte più informazione di quello a barre. La sigla QR sta per Quick Response (code), il sistema risale al 1994, ed è stato sviluppato in Giappone dalla Denso Wave. Per un decennio è stato un sistema che si imposto solo lì, e per diffonderlo, nel 1999, l’azienda ha deciso di renderlo distribuibile liberamente. In questo modo, in seguito è stato utilizzato anche negli Usa e in Europa, e se visualizziamo questa storia su Ngram Viewer vediamo che l’espressione “QR code” compare nel 2005, nello stesso anno in cui negli Stati Uniti è stato lanciato un progetto che permetteva di leggere il codice attraverso i nuovi telefoni intelligenti denominati smartphone, per collegare i luoghi fisici per esempio alle relative voci della Wikipedia. Da allora il fenomeno è esploso.

La differenza rispetto alla storia dei codici a barre è evidente: l’espressione è stata esportata direttamente in inglese e senza traduzione, nonostante l’origine nipponica della tecnologia. In linea di massima, visto il diverso sistema di scrittura rispetto all’alfabeto latino, nel Paese del Sol Levante le multinazionali che puntano alla conquista del mondo tendono a impiegare l’inglese in modo ancora più marcato delle altre, tanto che anche il walkman era un marchio registrato della giapponesissima Sony. Comunque sia, invece di tradurre l’espressione come era avvenuto nel caso dei “barcode”, è avvenuto tutto il contrario: abbiamo cominciato a ripetere a pappagallo “Qr code”, e cioè l’espressione che le interfacce dei telefonini esportavano nella propria lingua, come è avvenuto per downolad, e-mail, directory, password, account

L’equivalente italiano codice QR (pazienza se l’acronimo nasconde una sigla in inglese, non è questo un gran problema, in fin dei conti) è apparso come soluzione secondaria e non è mai decollato, dunque in italiano si tende a utilizzare l’inglese, nella scrittura e nella pronuncia.

Morale della favola

Se nel 1972 l’italiano era ancora una lingua sana e la traduzione della tecnologia d’oltreoceano era un fenomeno naturale e spontaneo, 30 anni dopo (in una sola generazione) tutto era cambiato. La nuova lungimirante “strategia” dei terminologi colonizzati è stata la rinuncia alla traduzione in favore dell’importazione degli anglicismi crudi (che spesso certi addetti ai lavori certificano con una sorta di “bollino blu” che ne sancisce la “necessità”, l’“insostibuitilità” e altre simili sciocchezze che valgono solo per l’Italia); e così la terminologia informatica priva di anglicismi degli anni Settanta (quando c’erano terminali, periferiche, stampanti a margherita, schede perforate, calcolatori…) ha portato all’attuale deriva del linguaggio di settore dove è avvenuto un “collasso di ambito”: l’italiano non è più in grado di esprimere la modernità senza ricorrere alla stampella dell’inglese, e il settore si esprime oggi in itanglese.

Se nei prossimi anni il codice a barre sarà sostituito dal QR code, e non dal codice QR, avremo un anglicismo in più e una parola italiana in meno.

Naturalmente – lo ribadisco per i mistificatori che rivoltano le frittate delle mie riflessioni – la cosa grave non è che si dica QR code: si tratta di un singolo anglicismo che preso da solo non significa niente. La cosa grave è la somma di questi fenomeni che giorno dopo giorno si trasformano in “prestiti sterminatori” che fanno piazza pulita dell’italiano, e che negli anni Duemila non sappiamo far altro che ripetere in inglese invece di tradurre, adattare o inventare parole nuove. Le conseguenze di questa strategia sono sotto gli occhi di tutti. Se la rivoluzione industriale di fine Ottocento e del Novecento ci hanno portato la lampadina e la televisione, e non la lamp e la television, quella del nuovo millennio ci ha colonizzato con i computer, i mouse, il wireless e così via.

E per i negazionisti che fanno finta di non vederlo e di non capirlo, basta leggere come questo giornale riporta la notizia che all’inizio del mio articolo ho tradotto in italiano:

Per la cronaca: dai conteggi automatici (che considerano “QR code” due stringhe distinte) il testo riportato è composto da 141 parole in tutto, di cui 19 in inglese. Ma se si eliminano le date scritte in cifre e i nomi propri di persone o aziende (che non vanno conteggiate né come parole italiane né come parole inglesi) il rapporto è di 122 a 19, una percentuale che supera il 15% e che rende questo esempio un caso di lingua ibrida a base inglese, e non di una lingua sana che si appoggia sporadicamente a qualche “prestito” (considerando “QR code” come una parola sola, la percentuale scenderebbe a poco più del 9%, che non è comunque una bazzecola).

17 pensieri su “Dal codice a barre (in italiano) al QR code (in inglese)

  1. A questo punto mi sembra evidente che coloro che parlano ancora di “prestiti” siano mossi più da malafede che da una differente percezione della realtà.

    Tra l’altro in quel testo di E-DUESSE che hai riportato, c’è anche “GS1 Italy” invece che “GS1 Italia”, e il sito in questione si presenta subito con un motto in inglese (“Trasforming tomorrow”), e quest’altro orrore “Il Solution partner program di GS1 Italy”. Su una frase di 7 parole solo 2 sono in italiano.

    Io temo che il prossimo passo dell’itanglese sarà anche l’utilizzo dei nomi inglesi delle località italiane (come gli esempi dell’articolo precedente), perchè “più cool”, e alla fine avremo gente che invece di Firenze usa Florence, poi Naples, Rome e così via.

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    • Non ho conteggato “GS1 Italy” considerandolo un nome proprio, seppure di un ente italiano che rilascia i “barcode EAN” come li chiamono loro. Però preciso che i conteggi del genere hanno il senso di mostrare chiaramente l’andamento, non di quantificarlo in modo preciso, e dunque anche a essere generosi nei criteri quello che emrge mi pare molto chiaro e difficile da negare, e ciò vale in sempre più ambiti della nostra lingua.

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      • Trascriverò qui quasi completamente la pubblicità di una ditta della provincia di Milano,trovata per caso oggi in rete.
        Sarò grato a chi me la tradurrà perché io non ho capito nulla: debbo però riconoscere che si tratta di uno degli esempi più belli di lingua itanglese ( con tracce residue di italiano) in cui mi sia mai capitato di imbattermi. Difficile fare di meglio:”La nostra mission è potenziare il customer service nell’automotive industry utilizzando touchpoint innovativi,conversazionali e digitali.
        I nostri punti di forza: per garantire un servizio eccezionale ci concentriamo su tre elementi essenziali:brand experience excellence,customer seamless engagement ,agent cloud shoring.Il nostro approccio combina empatia (leggasi feeling)umana e intelligenza artificiale per fornire un servizio e una customer experience straordinarie.Siamo il customer center più all’avanguardia( leggasi leader) e performante sul mercato grazie all’ausilio di tecnologie self- service ,chatbot e machine learning a sostegno sia del cliente( leggasi customer) che dell’agente. I nostri consulenti possono avvalersi del supporto di una serie di soluzioni dotate di AI che non solo migliorano la qualità del loro output ma garantiscono ai clienti un servizio continuo ed efficiente 24/7″.
        Ma di che cosa stiamo parlando?

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        • Ci provo io che so’ traduttore:
          “La nostra missione è potenziare l’assistenza alla clientela nel settore automobilistico utilizzando modalità di contatto innovative, conversazionali e digitali.
          I nostri punti di forza: per garantire un servizio eccezionale ci concentriamo su tre elementi essenziali:eccellenza nell’esperienza con il marchio, coinvolgimento continuo della clientela, supporto dell’agente nella nuvola (cioè tramite Internet). Il nostro approccio combina empatia umana e intelligenza artificiale per fornire un servizio e un’esperienza straordinaria ai clienti. Siamo il centro assistenza alla clientela più all’avanguardia e dai migliori risultati sul mercato grazie all’ausilio di tecnologie di autoassistenza, chatbot e apprendimento automatico a sostegno sia del cliente sia dell’agente. I nostri consulenti possono avvalersi del supporto di una serie di soluzioni dotate di IA che non solo migliorano la qualità delle loro prestazioni ma garantiscono ai clienti un servizio continuo ed efficiente 24 ore su 24.”
          Non sono sicuro su “shoring” che non ho mai incotrato prima (lett. “puntellamento”), ma il resto del signficato dovrebbe essere questo.

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          • Non sono certamente io la persona più indicata per tenere lezioni di inglese, vista la mia non eccelsa conoscenza della lingua.Ho però compiuto un rapido giro in rete e ho scoperto che il termine “ shoring”viene tradotto anche con l’equivalente italiano” sostegno “ che è sinonimo di supporto: perciò la traduzione da te effettuata di”agent cloud shoring” è corretta.Non so se possa io spingermi a proporre come traduzione “sostegno agli agenti che operano in rete”.Che ne pensi?

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            • Mah, puoi senz’altro proporla ma non so se la prendono bene e poi ci sono tutte le altre espressioni. Dipende poi da cosa fanno questi “cloud agent”. Spesso per “rete” si intende la rete aziendale. Potrebbe anche darsi che gli agenti ricevono sostegno “dal/nel” cloud, come l’ho inteso io.
              La mancanza delle preposizioni, la vaghezza dell’inglese (se non sai il contesto) e l’uso smodato delle metafore rendono spesso difficile tradurre in senso compiuto in italiano. Ad es. qui “seamless” (lett. “senza cuciture/giunture”) l’ho tradotto come continuo (piuttosto che “senza soluzione di continuità” per farla breve) ma sarebbe forse più corretto senza intoppi. Oppure per “brand experience” ho messo “con” il marchio, ma chissà.
              Tra l’altro, le pagine italiane del loro sito contengono anche errori d’ortografia e grafiche parte in inglese e parte in italiano.
              Ma, per curiosità, li conosci?

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              • No,la ditta in questione finora non l’avevo mai sentita nominare; ne ho solo recentemente conosciuta una dipendente , la quale
                mi ha raccontato di svolgere assistenza clienti per conto di questa ditta che a sua volta si occupa della clientela di una famosa casa automobilistica.Incuriosito , ne ho successivamente visitato il sito , che a questo punto potremmo definire “ il sito degli orrori”, trovando questo bel coacervo di vocaboli inglesi che ,come tu dici, sono anche mal traducibili.Mi pare assurdo pubblicizzarsi in tal modo: che cosa sperano di ottenere ? Se, come si suol dire,la pubblicità è l’anima del commercio, presto saranno costretti a chiudere i battenti per mancanza di clienti .Quanti visitatori del sito potrebbero mai comprendere ciò che hanno scritto ?La pubblicità per essere efficace deve colpire istantaneamente il potenziale interessato.Leggere le loro corbellerie in itanglese richiede uno sforzo intellettuale non indifferente per chi non conosce molto bene la lingua d ‘oltremanica e agli italofoni come noi causa solo repulsione.Un saluto.

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          • Caro Antonio , è palese che chi ha partorito una simile merdaviglia non può essere stato un programma di intelligenza artificiale, bensì il secondo tipo di programma da te specificato e infatti,al termine del messaggio di autoincensamento che io ho trascritto , compare la frase”…garantiscono ai clienti un servizio continuo ED EFFICIENTE”. Si tratta, come si può vedere, di errore di stampa, ma,ascoltandone la lettura , si avrebbe sùbito la percezione della qualità del servizio.
            Colgo qui l’occasione per ringraziare Faumes per l’impeccabile traduzione ,ma mi sorge il dubbio che ora ,essendone il testo divenuto comprensibile a tutti,abbiamo reso un ottimo servigio ,in termini pubblicitari ,a questa ditta di sciagurati itanglesi.

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            • Spostando la questione, il tuo commento e la tua citazione pongono un altro problema serio, dietro l’ironia dei nostri scambi: se l’itanglese è una neolingua (o forse meglio newlingua), come io vado sostenendo, che si sta differenziando dall’italiano storico attraverso la sua ibridazione (dunque non è più né italiano né inglese), prima o poi si arriverà a un punto di rottura determinato proprio dalla comprensibilità. A un certo punto l’itanglese (già oggi oscuro a molti) perderà il continuum e l’intellegibilità con l’taliano, e l’esempio che hai riportato sembra davvero segnare questo passaggio.

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                • Questa in parte c’è già ed è quello che denuncia l’Accademia Francese, o un linguista tedesco come Jurgen Trabant che parla di una nuova diglossia medievale che separa la lingua della cultura internazionale dalle parlate locali che diventano come il volgare di una volta davanti al latino dei dotti. Ciò vale sia per le fasce sociali più anziane sia per quelle che non conoscono l’inglese (in Italia entrambe sono in maggioranza). Questo fenomeno si è delineato nell’arco di una generazione, e se va avanti così, nel giro di un altro paio, i futuri parlanti di un itanglese sempre più esteso potrebbero anche non comprendere più troppo bene quello che si scriveva per esempio nel Novecento.

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