L’imposizione manipolatoria dell’inglese nella comunicazione pubblica

Di Antonio Zoppetti

Durante l’Occupazione, mille parole tedesche sono spuntate sui muri di Parigi e di altre città francesi. È iniziato qui il mio orrore per le lingue dominanti e l’amore per quelle che si volevano eradicare. Visto che oggi, in quegli stessi luoghi, conto più parole americane che non parole destinate ai nazisti all’epoca, cerco di difendere la lingua francese, che ormai è quella dei poveri e degli assoggettati. E constato che, di padre in figlio, i collaborazionisti di questa importazione si reclutano nella stessa classe, la cosiddetta élite.
(Michel Serres, Contro i bei tempi andati, Bollati Boringhieri, 2018).

Ogni volta che prendo un Frecciarossa vengo travolto da nuovi anglicismi imposti agli utenti in modo voluto e prepotente. I clienti, che un tempo per definizione avevano sempre ragione, si sono trasformati in utenti da manipolare; e la prima regola della comunicazione trasparente, che una volta presupponeva l’adozione di un linguaggio adatto e comprensibile per il destinatario, è stata sostituita dalle nuove prassi che impongono a tutti la lingua decisa dagli strateghi della comunicazione con il risultato che è il destinatario che deve per forza di cose assoggettarsi alla terminologia decisa dal mittente.

La lingua è potere. Attraverso le parole si può controllare il destinatario, intimidirlo, trasformare chi non è d’accordo in chi non ha capito, e soprattutto educarlo. La lingua della comunicazione pubblica, cittadina e istituzionale ci martella a suon di anglicismi in modo sistematico e ben preordinato. E la sensazione è davvero quella di vivere in un Paese occupato.

Cronaca di un viaggio nell’itanglese

Alle 9 esco di casa per raggiungere la stazione. Passo davanti all’insegna di un Italian Bakery aperto non da molto accanto all’Italian Hair Line. Si tratta banalmente di un fornaio e di un parrucchiere in un’area semiperiferica o semicentrale (dipende dai punti di vista) di Milano, in un quartiere popolare dove non ci sono turisti. Queste attività commerciali che si elevano attraverso l’inglese magari con il pretesto di voler essere internazionali hanno come clientela gli italiani che scendono nel negozio sotto casa, o se sono di passaggio sono attirati dalle pizzette nelle vetrine, ma dubito che mediamente sappiano cosa significhi “bakery”.

Alle 9 e 15 sono in metropolitana. A quell’ora l’affluenza è media, c’è persino qualche posto a sedere. Mi guardo intorno. Ci sono studenti, gente comune, e una buona fetta di “stranieri” di varia provenienza. Cinesi, ispanici, altri che parlano in qualche lingua che non identifico, e che dall’aspetto potrebbero essere arabi, rumeni, slavi… ma non vedo inglesi o americani. Eppure la comunicazione è bilingue a base inglese, nella cartellonistica e soprattutto negli annunci sonori. A ogni fermata l’inglese ti penetra come un mantra: prossima fermata Loreto, next stop Loreto
La porta della carrozza è interamente coperta da una pubblicità con scritte in inglese e, in piccolo, un motto italiano che specifica di cosa si stia parlando, ma anche la logica degli altri pannelli pubblicitari segue quasi sempre lo stesso andazzo.

Alle 9 e 30 attraverso il “gate” della stazione (a Milano non ci sono le porte, solo i gate), mi dirigo verso il mio binario e mi sento sollevato perché penso a come è bello che ci sia ancora il “binario”, anche se mi assale l’angoscia che la prossima volta a qualcuno sarà venuto in mente di chiamarlo tracks o alla peggio binary, perché binario è un po’ troppo italiano. Su Italo hanno già sostituito ufficialmente il “capotreno” con il train manager, nella comunicazione ai passeggeri e anche nei contratti di lavoro.
Intanto devo preoccuparmi di fare il “Self Check In” del mio “ticketless”, perché le Ferrovie hanno deciso che la “convalida” “del “biglietto digitale” si debba chiamare in inglese. È la globalizzazione bellezza! È la nuova terminologia imposta alla gente, e se qualcuno si perde e non capisce, il personale gli spiega tutto nella terminologia che hanno deciso gli strateghi della “comunication”. Cartellonistica e annunci sono solo in italiano e inglese. Il mantra dell’inglese sonoro, come nella metropolitana, ritorna ad anglificare la mente e il cuore dei passeggeri. Un tempo c’erano i corsi di lingua da apprendere durante il sonno, adesso lo si può fare anche nel dormiveglia in treno, il corso d’inglese è compreso nel prezzo del biglietto. Il plurilinguismo non esiste, è stato cancellato.
Guardo i nuovi schermi informativi in italiano-itanglese o inglese, e ripenso ai vecchi cartellini che invitavano a non sporgersi dai finestrini, a non gettare oggetti e a non fumare in quattro lingue: italiano, inglese, francese e tedesco. Oggi le altre lingue sono state buttate via. Che gli stranieri imparino l’inglese, e se no, si arrangino. L’inglese è la nuova lingua da imporre. Punto. Lo si fa nella sua interezza come lingua “internazionale” della comunicazione cittadina e ferroviaria, e attraverso gli anglicismi che vengono introdotti in italiano al posto delle nostre parole storiche.

Un annuncio spiega che per ogni reclamo è possibile usare il “webform” sul sito Trenitalia oppure il modulo cartaceo. “Webform” è il nuovo anglicismo introdotto, o forse sono io che non l’avevo mai sentito declamare prima, comunque sia fa parte ormai della terminologia ufficiale della colonia Italia. Mi domando perché un modulo digitale sia indicato come webform mentre se la stessa cosa è cartacea diventa “modulo”. La risposta è che tutto ciò che è nuovo o riguarda l’informatica viene riproposto in inglese: “webform” è ripetuto anche nella traduzione in inglese, e arriva da lì. Gli strateghi hanno pensato bene di introdurlo invece di tradurlo.

Due ore dopo il treno è in forte ritardo. Capisco che ho ormai perso la coincidenza che da Mestre mi dovrebbe portare a Pordenone. La gente è spazientita. Arriva l’annuncio ufficiale e rimango incredulo di fronte a quelle parole, soprattutto quando vengo informato anche attraverso un messaggino:

“A causa di un guasto … il tempo di viaggio del treno Frecciarossa XXX è superiore di circa 30 minuti rispetto al programmato … Distinti saluti, Customer care…”

Nulla è lasciato al caso. Gli strateghi della comunicazione devono aver pensato di eliminare la parola “ritardo” che probabilmente suscita “vibrazioni negative” per l’azienda (e incentivano la richiesta dei rimborsi), dunque preferiscono usare la locuzione manipolatoria “il tempo di viaggio è superiore di 30 minuti”. Nove parole contro una: ri-tar-do. In compenso non si firmano Assistenza clienti, ma Customer Care, e in questo modo la presa per il culo del passeggero è conclusa. Gli strateghi della comunicazione – gli stessi che magari sono pronti a spiegarci che il ricorso all’inglese è motivato anche al fatto che gli anglicismi sono più sintetici rispetto all’italiano – hanno le idee chiare: la sinteticità è un valore solo per giustificare gli anglicismi, ma se si deve occultare il ritardo qualunque cosa va bene.

La lingua è un fiume che va dove vuole?

Qualche ora dopo sono finalmente al mio dibattito su dove sta andando la lingua italiana. Il mio interlocutore è un convinto seguace del “liberismo” linguistico, sostiene che la lingua è un fiume che va dove vuole, non è possibile controllarla.

Chiedo: ma “la lingua è un fiume che va dove vuole chi?”. La gente e il popolo? Mi pare che vada dove vuole chi è nelle condizioni di imporla al popolino a cui non resta che ripetere self check in e gli altri 4000 anglicismi che ci arrivano prevalentemente dall’alto, dall’espansione delle multinazionali e della loro lingua, dalla nuova cultura coloniale dove sembra esserci solo l’inglese e dai collaborazionisti dell’inglese che si annidano proprio nelle élite. Il punto è che l’acqua “va dove vuole” nella natura selvaggia, altrimenti viene incanalata per farla scorrere sotto i ponti delle città, nei sistemi di irrigazione, mentre si costruiscono gli argini proprio per orientarne i flussi, e quando le acque tracimano è perché è mancata la manutenzione, sono stati trascurati o fatti male.

L’idea che orientare la lingua sia un’imposizione autoritaria è tipica italiana, perché prevale lo stereotipo che l’unico modello di politica linguistica a cui guardare sia quello del fascismo. Mi viene fatto notare che anche se da un punto di vista razionale una parola come “covid” che indica una malattia, e non un virus (il coronavirus), dovrebbe essere femminile, e nonostante inizialmente l’allora presidente della Crusca avesse consigliato di usare il genere più appropriato, nell’uso si è imposto il maschile. Questa non è però la prova dell’ingovernabilità della lingua, ma del fatto che da noi mancano delle istituzioni che la regolamentino in modo ufficiale. Infatti anche in Francia si è posta la questione, e il giorno dopo che l’Accademia francese ha spiegato la correttezza del femminile, tutti si sono adeguati e hanno scritto così, non perché l’accademia sia un organo che obbliga la gente a parlare in un certo modo, tutto il contrario: la gente – e i giornali – riconoscono questo ruolo di consulenza che accettano e seguono, contenti che esistano delle prescrizioni e delle uniformazioni su cui modellarsi. Da noi questo ruolo appartiene ai mezzi di informazione che si muovono in modo caotico, istintivo e spesso pasticciato (oltre a preferire l’inglese). C’è insomma una bella differenza tra autoritarismo e autorevolezza, tra imposizione forzata e spontaneo riconoscimento di un punto di riferimento normativo necessario per conservare l’integrità e l’identità linguistica.

E allora è più sensato seguire l’autorevolezza di un’accademia o lasciare che la lingua la facciano i giornali o le ferrovie? Se questi ultimi introducono l’inglese al posto dell’italiano non è anche questa un’imposizione?

Mentre nell’italietta provinciale pensiamo che lo tsunami anglicus sia inarginabile, all’estero gli argini si costruiscono e funzionano, magari non sempre, ma complessivamente l’anglicizzazione del francese o dello spagnolo non è certo paragonabile alla nostra. Il liberismo linguistico, che io chiamo invece anarchismo metodologico, presuppone che sulla lingua non si debba intervenire, il che è una presa di posizione politica (più che linguistica) comprensibile ma anche discutibile. Per giustificarla si dice che tanto non è possibile imporre alla gente come parlare. Ma basta prendere un Frecciarossa per constatare che non è affatto così. La verità è che la lingua è un meccanismo di imitazione per cui la gente segue i modelli che arrivano dai centri di irradiazione linguistici, e questi ci stanno presentando un ben preciso modello di newlingua che di liberale non ha proprio nulla. Vige la legge del più forte, e non voler tutelare l’italiano davanti alla glottofagia dell’inglese significa essere complici della sua distruzione, che qualcuno scambia per una “normale” evoluzione e pensa pure che arrivi dal basso, come se l’attuale “dittatura dell’inglese” fosse qualcosa di “democratico”.

A me pare invece che siamo in presenza di un cambio di paradigma conflittuale dove una minoranza di collaborazionisti che occupano i centri di irradiazione della lingua – dalle istituzioni ai mezzi di informazione – sta educando le masse e imponendo la lingua dei padroni. A questo modello dominante bisognerebbe contrapporne un altro, che purtroppo non si vede tra gli intellettuali, ma è invece presente e sentito in larghe fasce della popolazione che non ne possono più degli anglicismi e si trovano tagliate fuori.

Impara l’itanglese con i giornali e dimentica l’italiano!

Di Antonio Zoppetti

Il ruolo dei mezzi di informazione non è solo quello di offrire notizie, ma anche di diffondere le novità lessicali. È grazie alla loro funzione sociale di “centri di irradiazione della lingua” (per dirla con Gramsci e Pasolini) se ci siamo arricchiti di tante nuove parole come fake news, lockdown, green pass (sull’attestato denominato “certificazione verde”) e via dicendo.

La lettura dei quotidiani è dunque utile anche per imparare la newlingua chiamata itanglese che, al contrario della veterolingua di impostazione dantesca, ci permette di rimanere al passo con i tempi e con la modernità. I lessicografi che si occupano dei neologismi, del resto, si basano soprattutto sugli archivi dei giornali per scegliere le nuove voci da inserire.

Nell’immagine, tratta dal Corriere.it di ieri, sotto la categoria geoengineering (l’italiano geoingegneria compare dopo come sinonimo secondario) si parlava del climate change (cambiamento climatico è forse considerato provinciale), e sotto l’etichetta di gender gap (divario di genere è roba da boomer) dello smart working, in primo piano e in grande rispetto al “lavoro in remoto” scritto dopo e in piccolo. A essere pignoli quest’ultimo “anglicismo” non sarebbe un “prestito” visto che gli inglesi non lo usano (né lo capirebbero) perché dicono remote o home working, cioè lavoro da remoto, da casa o telelavoro come si dice anche in francese e in spagnolo… ma è pur sempre un prestito di due radici internazionali ricombinate all’italiana, e questo è il segno che la nostra lingua è molto vispa e creativa, come qualcuno ha osservato in modo acuto.

A proposito di “case”, nel senso di house al plurale, mi permetto solo di muovere una critica al titolo “Case green” perché di primo acchito mi è venuto da leggerlo come “chèis grin” (sul modello di case history, che nulla ha a che vedere con la storia delle edificazioni); solo procedendo nella lettura mi sono accorto che non riguardava il grave problema dei case di plastica non ecologica dei computer (un tempo detti anche custodie, casse, l’esterno, il guscio, le scatole, scocche o involucri) o delle cover degli smartphone e dei device (i telefonini e i dispositivi non avrebbero la stessa evocatività). No, si intendeva proprio il vecchio concetto di casa come abitazione (la location dove risiediamo), e forse sarebbe stato più moderno e più chiaro parlare di green building (ma nessuno è perfetto, nemmeno il Corriere). Comunque sia, l’inglese occupa la parte alta della gerarchia delle parole, per esprimere i concetti fondamentali, e l’italiano occupa il ruolo inferiore di sinonimo di rafforzo, che aiuta il popolino alla comprensione (e affermazione) dell’itanglese.

Urbex, urbexer (e prossimamente urbexing?)

Gli anglicismi servono per introdurre i concetti nuovi (non a caso la metà dei neologismi del Duemila è in inglese) come nell’articolo sugli urbexer, parola che è stata virgolettata in quanto non ancora registrata per esempio tra i neologismi della Treccani, che riporta solo la voce urbex tratta da un articolo di Repubblica D: “Sono persone normali, fanno lavori diversi – chirurghi, insegnanti di geografia, una signora con quattro figli programmatrice di computer, registi, autisti di bus, addetti ai call center – ma quando ‘staccano’, o nel weekend, si cambiano i vestiti come i supereroi e diventano ‘urbex‘: esploratori urbani”.

Quest’ultima citazione – composta da 46 parole – contiene solo 6 vocaboli inglesi, che rappresentano appena il 13% del lessico utilizzato; è bene ribadirlo per chi pensa che la presenza dell’inglese sia ormai ingombrante, sbagliandosi: l’87% delle parole rimane infatti in italiano, il che prova inequivocabilmente che l’itanglese è tutta un’illusione ottica. Ma, senza voler far polemiche, la citazione riportata dalla Treccani è poco precisa, e infatti il giornalista del Corriere si rivela ben più corretto dal punto di vista filologico e lessicale: distingue molto lucidamente il fenomeno dell’urbex, cioè dell’esplorazione urbana (contrazione di Urban Exploaration che si scrive preferibilmente con le iniziali maiuscole), da coloro che la praticano, che è molto più opportuno declinare in urbexer: così come ci sono i blogger e non i bloggatori, i runner e non i corridori come si diceva negli anni Sessanta, anche gli esploratori degli edifici abbandonati si declinano con le nuove flessioni in “er” che caratterizzano le norme dell’itanglese (per saperne di più potete consultare una Grammatichetta).

Del resto questa nuova pratica è stata inventata negli Usa, e a noi non resta che imitarla e ripeterla nella loro lingua, ci mancherebbe altro! Parlare di esploratori urbani sarebbe patetico, oltre a evocare i giovani esploratori che fa molto manuale delle giovani marmotte.

Chissà se presto non si comincerà a parlare anche di urbexing che segue la regola di baby sitterbaby sitting e delle nuove declinazioni dell’inglesorum: blog, blogger, blogging; surf, surfer, surfing; shop, shopper, shopping; work, worker, working… per il momento questa variazione non si è ancora sviluppata. Ogni cosa a suo tempo, nel frattempo è stato introdotto il neologismo copilot.

Un solo nome: copilot!” Altro che assistenti virtuali e copiloti

Copilot non è ancora stato registrato tra i neologismi Treccani né tra quelli della Crusca (e nemmeno sul dizionario AAA delle Alternative Agli Anglicismi, aggiungo con immodestia) ma sul fatto che presto si diffonderà – grazie alla fortuna dell’intelligenza artificiale – forse ci si potrebbe scommettere.

Fino a ieri era il nome commerciale di un prodotto rilasciato l’anno scorso, Microsoft 365 Copilot, ma nell’articolo la parola compie il salto che ne fa una parola “comune”, e per chi non sa cos’è basta cercare in rete per comprendere tutto in modo chiaro.

– È un “nuovo tool di AI [è sempre meglio invertire l’ordine dell’acronimo all’inglese] di aiuto per la nostra produttività”.
– “Un tool?” direbbe un povero ottentotto che parla solo l’italiano. Un “competecnico” che si esprime invece in itanglese, per essere più trasparente e arrivare anche agli idioti, potrebbe rispondere:
– “Una suite, se preferisci, che combina l’intelligenza artificiale con le funzioni di una moderna chatbot. Basta scaricarla sul tuo device” [nota: suite un tempo era francese, anche se oggi il significato informatico ci arriva dall’inglese].
– Ma non si potrebbe dire assistente virtuale o copilota?
Copilota, basta leggere sul dizionario, si riferisce a un assistente di volo, o alla peggio a chi fa da secondo nei rally. Assistente digitale è troppo generico, non è proprio come il tecnicismo inglese… Ma qual è il problema delle parole straniere? Non sai che le lingue evolvono? Sei rimasto al purismo e alla guerra ai barbarismi del ventennio?


– A dire il vero non vedo parole straniere, vedo solo parole inglesi e pseudoinglesi. Quanto al purismo… se dici che il significato di copilota è solo quello storico forse il purista sei proprio tu: stai cristallizzando l’italiano nella lingua dei morti, invece di creare neologismi. Credi che l’italiano si debba evolvere solo attraverso la sua anglicizzazione? Nemmeno copilot è presente sui dizionari, fino a prova contraria, e in inglese vuol dire appunto copilota.
– Ma cosa c’entra? Anche mouse vuol dire solo topo, se è per quello, ma da noi è un prestito di necessità, o vuoi fare come i francesi, gli spagnoli, i portoghesi, i tedeschi e tutti gli altri che lo hanno tradotto?

Comunque la pensiate, segnalo che giovedì 21 marzo interverrò a Pordenone (Biblioteca civica, ore 17,45) in un dialogo organizzato dalla Società Dante Alighieri a cui parteciperà il professor Domenico De Martino dell’università di Pavia, linguista, dantista e collaboratore della Crusca. Il titolo è: “Dove va la lingua italiana?”. E, come si evince dalla grafica, la conversazione moderata da Carlo Vurachi ruoterà proprio sul tema dell’inglese.

Per chi è interessato all’argomento segnalo anche una diretta di qualche giorno fa, disponibile su YouTube, in cui sono stato intervistato da Matteo Brandi e Ludovico Vicino del partito Pro Italia.

Marco Biffi, la diglossia e la lingua di Marinella

Di Antonio Zoppetti

Voglio riprendere un articolo dell’accademico della Crusca Marco Biffi uscito qualche tempo fa sul Corriere fiorentino intitolato “Se l’italiano diventa la lingua «bassa» a causa di scelte miopi”.

L’autorevole linguista ci ricorda che la lingua italiana è diventata un patrimonio di tutti solo negli anni Settanta del secolo scorso, visto che per centinaia e centinaia di anni è stata solo una lingua letteraria che viveva nelle pagine dei libri, mentre la gente si esprimeva fondamentalmente nel proprio dialetto.

La nostra storia linguistica è sempre stata caratterizzata da un bilinguismo squilibrato, cioè dalla presenza di due lingue che non avevano un uguale status, ma possedevano una precisa gerarchia. Il toscano, che si è affermato nella letteratura per motivi di prestigio e che dal Cinquecento in poi è diventato il canone imposto dalle grammatiche e dai vocabolari, era la lingua colta, mentre le altre varietà dei volgari, regrediti allo stato di “dialetti” (lingue “inferiori”) erano la lingua del popolo.

Questo “toscano” fatto coincidere con l’italiano, per i puristi avrebbe dovuto seguire i modelli aurei delle tre corone fiorentine trecentesche – Dante, Petrarca e Boccaccio –, per altri era invece il fiorentino vivo delle classi colte, come nella soluzione manzoniana del sciacquare i panni in Arno. Prima ancora del toscano, nel Medioevo, era il latino a essere la lingua della cultura e della scrittura con cui l’italiano-toscano ha dovuto scontrarsi nella sua affermazione, e ancora una volta, nella diglossia medievale, il popolo perlopiù analfabeta si esprimeva in volgare e non aveva accesso alla lingua “alta”.

In questo modo solo una parte della popolazione era bilingue, mentre la maggior parte era soltanto dialettofona, e la lingua italiana standard era confinata solo in alcuni contesti. (…) Ci sono voluti secoli per arrivare con fatica a una lingua per tutti gli italiani”.

E dopo questa difficilissima e tortuosa conquista, oggi cosa sta accadendo?

Il prestigio dell’inglese e soprattutto le “scelte miopi” della nostra classe dirigente stanno lavorando per riportarci a quella che il linguista tedesco Jürgen Trabant chiama la diglossia neo-medievale a base inglese. Questa è la nuova lingua della scienza, delle tecnica, del lavoro e dei piani alti. Ma la conoscenza dell’inglese riguarda solo una minoranza della popolazione italiana, europea e mondiale, e di nuovo il popolino ne è escluso. Dunque nel giro di meno di mezzo secolo dall’unificazione linguistica

“il nostro tessuto politico, economico e (ahimè) culturale, promuovendo l’uso dell’inglese a discapito dell’italiano (…) si ingegna per costruire, stavolta a tavolino, un bilinguismo con diglossia inglese/italiano, in cui l’italiano è la varietà «bassa». Politiche riconducibili a tutto l’arco costituzionale stanno da anni spingendo in questa direzione, all’inseguimento di un internazionalismo vuoto e miope che non ha rispetto del valore identitario di un bene culturale prezioso come la lingua. Come un ragazzo segue un aquilone. E così la lingua di tutti gli italiani, come Marinella, finirà per scivolare nel fiume a primavera. «E come tutte le più belle cose», sarà vissuta 40 anni, «come le rose».”

Finalmente qualcuno denuncia in modo lucido e senza esitazioni ciò che sta accadendo – come cerco di fare da anni anch’io – e soprattutto cosa accadrà tra non molto, se non si interviene.

La regressione dell’italiano

Facciamo il punto sulla situazione.
La regressione dell’italiano davanti all’inglese parte dalla scuola. Se un tempo l’italiano era una materia primaria e centrale, oggi questo ruolo è scemato, ed è l’inglese che è divenuto il perno della nuova cultura che si vuole istituzionalizzare. Tutto ciò è iniziato ai tempi delle tre “i” di Berlusconi-Moratti (Internet, Inglese, Impresa) su cui la scuola doveva puntare. L’insegnamento dell’inglese è stato introdotto sin dalle elementari per creare le nuove generazioni bilingui progettate a tavolino, e se un tempo si studiava una lingua straniera, oggi l’inglese è obbligatorio e ha cancellato la formazione basata sul plurilinguismo. In questa “dittatura dell’inglese” i progetti nati per favorire il plurilinguismo dall’Erasmus al Clil (che prevede l’insegnamento di una materia in lingua straniera) si sono di fatto declinati nell’insegnamento e nella diffusione del solo inglese (alla faccia delle altre lingue). La riforma Madia ha cancellato il requisito di conoscere “una lingua straniera” per accedere ai concorsi della pubblica amministrazione, e l’ha sostituito con l’obbligo del solo inglese. Intanto sempre più università vogliono estromettere l’italiano dalla formazione e insegnare direttamente in inglese, un modello che adesso si sta diffondendo anche in alcune scuole secondarie. Lo Stato italiano prevede che i progetti di ricerca o scientifici (Prin e Fis) si debbano presentare in inglese! Non in italiano!

La ricerca scientifica si svolge soprattutto in inglese, perché se qualcuno non segue questa prassi finisce che il suo studio non sarà letto, né citato, né godrà del prestigio di quelli stilati nella “lingua dei padroni”. L’Unione europea, nata all’insegna del plurilinguismo, di fatto sta imponendo l’inglese nella comunicazione istituzionale (grazie alla politica scellerata di Ursula Von der Layen) e sempre più usa quasi esclusivamente l’inglese come lingua di lavoro. E poi c’è l’inglese che ci arriva dall’espansione delle multinazionali, dalle pubblicità alla lingua delle interfacce informatiche che non è più fatta dagli italofoni nativi ma utilizzata senza traduzioni, mentre persino i titoli dei film non si traducono più.

La nostra intera intellighenzia sa solo ripetere il pensiero che arriva d’oltreoceano e lo fa con la terminologia, i concetti e le parole d’oltreoceano, che scimmiotta e ostenta abbandonando l’italiano, di cui fondamentalmente si vergogna. E così le nuove generazioni allevate in questo contesto culturale e figlie dell’esposizione all’inglese di cinema, tv, videogiochi, internet… vedono nell’inglese la lingua del futuro, della modernità e del mondo. E i mezzi di informazione che un tempo hanno contribuito all’unificazione dell’italiano ora diffondono l’itanglese, dai giornali alle tv.

Tutti i centri di irradiazione della lingua hanno sostituito il modello dell’italiano con quello dell’itanglese, che caratterizza il piano scuola, il linguaggio istituzionale, del lavoro, delle leggi (divenute act, mentre le tasse sono tax).

L’itanglese è l’effetto collaterale di questa espansione dell’inglese internazionale che si vuole ufficializzare.

Davanti a questo crollo, siamo in presenza di un cambio di paradigma che ci rende una colonia culturale – e linguistica – di un luogo che non c’è, chiamato Occidente, che non è altro che il nuovo impero americano, ed è la prosecuzione di ciò che un tempo si chiamava colonialismo e poi imperialismo, ma che oggi viene esaltato come l’unico modello possibile di lingua e cultura proprio dagli intellettuali che un tempo avevano un atteggiamento critico, ma oggi si sono trasformati nella principale voce del padrone che legittima il nuovo ordine costituito.

Ed è proprio questo il punto più disarmante. La questione della lingua è nata con Dante ancor prima che la lingua italiana fosse “fondata” e ha suscitato in ogni secolo accesissimi dibattiti e polemiche. Oggi tutto tace, siamo oramai lobotomizzati, rassegnati, diamo per scontato la cancellazione dell’italiano che finirà per diventare un dialetto di un anglomondo che pensa e parla inglese. E non solo manca la resistenza, quel che è peggio è che regna il compiacimento, nel perseguire la strategia degli Etruschi che si sono sottomessi da soli alla romanità fino a esserne inglobati e a scomparire.

Meno male che c’è qualche voce fuori dal coro, che ogni tanto trova persino qualche sprazzo sui giornali, come nel caso di Marco Biffi, di qualche comunicato Incipit, o di Michele Gazzola che denuncia i costi spropositati – oltre ai problemi etici di equità – dell’inglese dell’Unione Europea.

Psicopatologie dell’inglese quotidiano

Di Antonio Zoppetti

Qualche giorno fa, scanalando tra i programmi televisivi mi sono imbattuto in una trasmissione in cui un amabile e colto esperto di antiquariato stava stimando un oggetto di porcellana di una signora intenzionata a venderlo. Il nome del programma – anzi format – come sempre era in inglese, Cash or Trash, solo affiancato da un’esplicazione in italiano (Chi offre di più?) con la stessa logica commerciale dei titoli di film che non vengono più tradotti. Nel caso serva un rafforzo in italiano di solito viene inserito in seconda posizione, dopo l’inglese, una scelta non casuale e ben ponderata che serve a imporre questa lingua, e allo stesso tempo a stabilire una ben precisa gerarchia. L’inglese ha la precedenza perché è lingua di prestigio e superiore.

Tornando ai fatti, l’autorevole esperto ha cominciato a esaminare l’oggetto per valutarne l’epoca, la fattura e tutto il resto, e a proposito dell’integrità si è accorto che il valore era sminuito dal particolare che la base era lievemente scheggiata, in altre parole presentava delle sbeccature o sbrecciature (ma si può dire anche sbocconcellature). Indicando quel difetto ha detto più o meno:

“Vede qui? Queste si chiamano chips, e sono una sorta di sbeccature, potremmo dire.”

Proviamo ad analizzare quest’ultima frase in profondità per sviscerare, come faceva Freud, il substrato psichico che produce questo tipo di linguaggio.

PUNTO 1 – Il contesto comunicativo “verticale”

Partiamo dal ruolo dell’esperto, che mette in scena la sacralità di colui che sa, e dunque spiega a chi non sa. La comunicazione con la venditrice non è sullo stesso piano (diciamo orizzontale), la donna si trova nella condizione inferiore tipica del discente. Il suo stato psicologico è quello di chi riceve e pende dalle labbra del maestro. Tutto quello che ha in mente è probabilmente solo sapere il prezzo della sua mercanzia, l’obiettivo primario, ma nell’essere edotta allo stesso tempo scopre che ciò che inficia il valore del suo manufatto si chiama “chips”, parola che di sicuro non conosce, o meglio avrà già sentito ma con altro significato, quello di patatine.

Un po’ di tempo fa in un locale ho ordinato una birra e ho chiesto di avere anche due patatine. Il ragazzo mi ha chiesto: “Chips?”.
“Patatine”, gli ho risposto. “Sì, ma chips?” Ha insistito. A quel punto ho capito il suo dilemma. Non sapeva se volessi un piatto di patatine fritte calde e fumanti, a pagamento, o se intendessi una ciotola con le patatine confezionate che come le noccioline accompagnano gli aperitivi e sono in omaggio. “Patatine normali, quelle del sacchetto” ho specificato. “Ah, perfetto, le chips!” Ha concluso.

Qualcosa di simile mi è accaduto in un’altra occasione in una specie di profumeria quando cercavo un regalo natalizio. Il negozio era grande – e veniva presentato dunque come uno store, mica come un semplice negozio – e abbastanza affollato. Curiosavo tra gli scaffali con in mano il prodotto scelto, e mi si è avvicinato un commesso chiedendomi se avevo bisogno di una bag. Credevo mi volesse vendere un sacchetto da regalo, e gli ho domandato quanto costasse. “No, una bag”, ha risposto indicandomi delle borse per i clienti che servivano per contenere i prodotti da presentare alla cassa, come i carrelli della spesa.

In tutti e tre gli esempi abbiamo a che fare con un meccanismo piuttosto simile. L’addetto ai lavori – detentore del linguaggio – impone una terminologia in inglese al cliente, invece di usare l’italiano. Lo fa in modo inconsapevole, con spirito educativo e in questo modo insegna la newlingua all’interlocutore, che la impara ed è ora pronto a ripeterla.

PUNTO 2 – Differenziazione dei significati e cancellazione dell’italiano

…Si chiamano chips, e sono una sorta di sbeccature, potremmo dire.
In una frase manipolatoria come questa, l’introduzione dell’inglese si porta con sé una giustificazione che nasce dalla volontà di farlo apparire più preciso o prestigioso (dunque ai vertici della gerarchia e della diglossia). Ho chiamato questo meccanismo “non-è-proprismo” perché consiste nel fare credere che la parola inglese abbia una sua necessità, e dunque si differenzierebbe dall’analoga parola che abbiamo sempre usato nella nostra lingua madre. De Amicis, nell’Idioma gentile, aveva caricaturato questo atteggiamento con la macchietta del visconte La Nuance, sempre pronto a dimostrare che ogni francesismo possedesse una presunta differente sfumatura di significato, una nuance appunto, che l’italiano non avrebbe. Oggi avviene lo stesso con l’inglese che nell’entrare ridefinisce tutta l’area semantica delle parole già esistenti, e nel farlo sottrae loro un ambito e le fa regredire (se si impone chips che fine faranno sbeccatura, sbrecciatura o sbocconcellatura già oggi poco conosciute, benché tecnicamente perfette per descrivere i fatti?). Ed ecco che l’esperto, nell’introdurre “chips” spiega che è una “sorta di sbeccatura”. In questo modo lascia intendere che non è proprio come una semplice sbeccatura, è di più: e infatti gli addetti ai lavori dicono così. Probabilmente anche il commesso della profumeria sarebbe stato pronto a spiegare che una bag non è proprio una borsa, un sacchetto o una sportina, e il barista mi avrebbe spiegato che le chips sono le patatine confezionate, al contrario di un piatto di patatine. Il fatto che tutto ciò sia semplicemente falso, e che in inglese — prima ancora che in italiano — non esista affatto questa differenza, sembra non avere alcuna importanza. Anzi sembra non possedere nemmeno una sua realtà.

PUNTO 3 – L’alienazione linguistica

In Psicopatologia della vita quotidiana Sigmund Freud indagava sulle disfunzioni della memoria e interpretava i lapsus, la dimenticanza dei nomi o delle parole straniere non come dei fatti casuali, ma come dei meccanismi inconsci di rimozione che si impongono sulla nostra coscienza. E scriveva:

“I vocaboli di uso corrente della lingua madre non possono, nei limiti del normale funzionamento delle nostre facoltà, cadere nella dimenticanza. Ovviamente, per quanto riguarda i vocaboli di una lingua straniera, le cose stanno diversamente. In questo caso, la tendenza a dimenticarli esiste…”.

Questa convinzione ritorna spesso nel saggio, anche a proposito dei lapsus linguae:

“Mentre il materiale usato nei discorsi fatti nella lingua materna non sembra soggetto a dimenticanza” sono invece frequenti i lapsus.

Freud è ormai stato abbandonato e superato, ma è interessante notare quanto questa visione sia inapplicabile all’odierna realtà dell’italiano, e degli italiani, che sembrano invece dimenticare la lingua madre per sostituirla con quella inglese in un processo che lo psicanalista avrebbe di sicuro ricondotto alla “rimozione” e che potremmo meglio definire attraverso il concetto di “alienazione linguistica”.
In una trasmissione come Cash or Trash ogni oggetto datato, d’epoca, della nonna, o “retrò” (alla francese) è denominato vintage, mentre non c’è l’oggettistica di “lusso” bensì il luxury, pronunciato sempre rigorosamente in inglese, nonostante sia un termine ben più lungo dell’italiano, a proposito di chi blatera che il ricorso all’inglese dipenderebbe dal fatto che è più sintetico e maneggevole.

La verità è un’altra, e la solita: il passaggio dall’italiano all’inglese nasce invece da un processo di alienazione dovuto al considerare quella lingua superiore e più prestigiosa, e dunque è dovuto a un complesso di inferiorità nei confronti della propria lingua madre. Questo è il vero motore, a volte inconsapevole, istintivo o inconscio (per dirla con Freud) che emerge attraverso processi di giustificazione come quelli indicati al punto 2) e attraverso meccanismi come quelli del punto 1) che – come i lapsus – sono inconsci, ma allo stesso tempo se sono analizzati in profondità rivelano una forma mentis che deriva dal pensare in inglese invece che in italiano.

E a questo punto bisogna abbandonare l’approccio psicologico del singolo parlante e passare dalla “psicolinguistica” alla “sociolinguistica”, perché affermare che le “sbeccature si chiamano chips” non ha a che fare con un disturbo mentale di un singolo individuo, ma con una mania compulsiva, che appartiene alla nostra società, dove ogni singolo individuo tende a comportarsi e a replicare una tendenza collettiva.

PUNTO 4 – I centri di irradiazione sociali della lingua

Gramsci è stato uno dei primi a porsi la questione della lingua come fatto sociale, e più che alle grammatiche dei linguisti guardava a quella “grammatica” che “opera spontaneamente in ogni società”, quella che si segue “senza saperlo” e che tende a unificarsi in un territorio da sola e senza essere normata (Antonio Gramsci, Quaderno 29 [XXI], § 2.), in altre parole: al linguaggio popolare.
Questa grammatica “immanente nel linguaggio stesso” nasce da una serie complessa di fattori che si intrecciano, e una lingua nazionale unitaria prende forma attraverso questi processi complessi quando esiste una necessità. La lingua che prende forma nel popolo è perciò l’imitazione (e il ripetere) dei modelli linguistici che arrivano dall’alto, cioè dalla classe dirigente, e il processo di “conformismo linguistico” – cioè il propagarsi di una lingua che tende a codificarsi in un certo modo condiviso e riconosciuto da tutti – avviene attraverso i “focolai di irradiazione” della lingua che negli anni Trenta aveva individuato nella scuola, nei giornali, negli scrittori sia d’arte sia popolari, nel teatro, nelle riunioni civili di ogni tipo (da quelle politiche a quelle religiose), nel cinema e nella radio. La lingua, come prodotto sociale, nasce in questi luoghi e da queste interazioni.
Trent’anni dopo Pasolini si era accorto che i nuovi centri di irradiazione della lingua erano ormai i centri industriali del nord, e che la nuova lingua tecnica e industrializzata arrivava da lì, e se tutti da Palermo a Milano parlavano di “frigorifero” era perché quella parola nasceva ed era diffusa dall’industrializzazione.

Oggi i nuovi centri di irradiazione della lingua non sono più nell’asse Milano-Torino come negli anni Sessanta, provengono direttamente dall’anglosfera, e la lingua che importiamo in modo diretto da fuori d’Italia entra in modo crudo e senza essere mediata da alcun processo di adattamento, traduzione o creazione di parole nostre. Queste parole spesso non coincidono con “cose” nuove, tutt’altro: sostituiscono le parole della nostra lingua materna che il povero Freud considerava impossibili da dimenticare, ma che invece dimentichiamo e gettiamo via, come è accaduto al calcolatore abbandonato per il computer, e come nel caso di una sbeccatura che diviene chip. Ma anche come nel caso di chi parla di reputation invece di reputazione, di vision invece di visione, di underdog invece di sfavorito, di cashback invece di rimborso e via dicendo. In questi ultimi casi la lingua materna resiste, ma finisce per diventare meno prestigiosa rispetto ai suoni in inglese, dunque possiede uno status sociale inferiore, che ne mette a rischio la sopravvivenza e il futuro.
In altre parole, nella riorganizzazione culturale e linguistica dei nostri tempi al centro della newlingua che non arriva affatto dal basso, come in molti vorrebbero far credere, c’è il costruire l’esigenza e la necessità – per dirla con Gramsci – dell’inglese. Il commesso che ti offre la bag, il barista che ti parla di chips… stanno creando la “necessità” di queste nuove parole in inglese.

Intanto, rispetto all’epoca di Freud, Gramsci e Pasolini, i nuovi centri di irradiazione della lingua si sono arricchiti non solo della televisione, ma anche del mondo digitale, pensato in inglese ed espresso in inglese. E dopo l’epoca delle riunioni religiose o politiche i nuovi fari che ci illuminano di inglese sono rappresentati dalla lingua dell’informatica che non viene tradotta, così come accade nel lavoro, nella scienza, nelle pubblicità… dove gli anglicismi sono predominanti.
La forma mentis di chi ti insegna che le sbeccature si chiamano chips è quella di chi è stato plasmato a ragionare nella lingua superiore, e la diffonde in modo inconsapevole come un colonizzatore, per il semplice fatto che la sua mente è ormai stata colonizzata. Esattamente come è colonizzata quella dei linguisti che ci spiegano che esistono i prestiti di necessità, una concettualizzazione che apparentemente descrive questa necessità, ma che nella realtà la presuppone, introduce e impone, facendo finta di dimostrarla con pseudo-argomentazioni imbarazzanti.

L’imposizione (orwelliana) della newlingua e il mito della lingua che arriva dal basso

Di Antonio Zoppetti


Domenico mi scrive:
“Ho scoperto che c’è un nuovo mezzo di trasporto: il people mover, che io – nella mia ingenuità e nella mia arretratezza culturale e linguistica – ancora mi ostinavo a chiamare banalmente navetta, trenino, metropolitana leggera e che a Perugia, dove evidentemente sono obsoleti e ancora sono rimasti all’uso ‘volgare’ dell’italiano, chiamano minimetrò. E invece no: people mover hanno deciso altrove e people mover deve essere anche da noi, silenziosi e lobotomizzati pecoroni. Oramai lo chiamano così pure Wikipedia e, se non erro, il Dizionario Treccani; lo chiamano così gli aeroporti e i comuni di Venezia, di Bologna, di Pisa; lo chiamano così RFI e Trenitalia (vedi immagine), lo chiamano così i quotidiani locali… e dunque così sia.”

Intanto lo spid (Sistema Pubblico di Identità Digitale) sarà sostituito dal sistema It Wallet, in un passaggio dall’identità e dal portofoglio digitale agli stessi concetti espressi in inglese, proprio mentre a Milano il 2024 sarà l’anno del senso civico espresso attraverso un’iniziativa dal grande valore civico, così grande che si può esprimere solo nella lingua dei padroni: la Milano Civil Week che “farà parte delle Week milanesi”.

Mentre le settimane diventano week, il cibo food, i negozi store, l’economia economy, l‘ecologia green… (ad libitum sfumando) la nostra classe dirigente colonizzata si schiera dalla parte di questa newlingua orwelliana, che sembra concepita per distruggere l’italiano in una cancellazione del passato e in una riscrittura della storia.

Dalla novalingua di Orwell alla newlingua chiamata itanglese

In 1984 Orwell aveva immaginato l’imposizione della novalingua sulla veterolingua che seguiva esattamente questi schemi. E come gli adepti del Grande Fratello, i nuovi intellettuali decervellati della colonia Italia abbracciano e giustificano questo annientamento culturale. Invece di denunciare la glottofagia dell’inglese c’è chi la nega e ci spiega che l’anglicizzazione è tutta un’illusione ottica passeggera, mentre acutissimi linguisti e cruscanti accecati dall’idiozia dei prestiti di “lusso” e “necessità” ci raccontano che certi anglicismi sarebbero “necessari”, con un ragionamento che attraverso l’arte della manipolazione delle parole crea un apparato teorico per legittimarli.

Mentre c’è chi sostiene che la lingua non si possa controllare e nasca dal basso e può venire persino da un bambino, un’idea balzana che Gramsci aveva bollato come un “errore madornale, per superficialità”, basta analizzare gli anglicismi introdotti dalla politica degli ultimi trent’anni per rendersi conto di come stiano le cose.

Renzi ci ha regalato il jobs act, invece della riforma del lavoro (e dell’abolizione dell’articolo 18) che ha aperto la strada a chiamare le leggi act, e intanto le tasse – dopo che il drenaggio fiscale era già divenuto fiscal drag – diventano tax (flat tax, carbon tax, web tax, exit tax…). Di Maio ci ha regalato il navigator, Meloni ha diffuso underdog (che si affianca al sinonimo outsider), i leghisti hanno affermato la devolution e la deregulation, la destra il family day, e il movimento per la vita è diventato pro life. Tra progetti abominevoli per promuovere la nostra cultura che hanno sperperato i soldi pubblici — a sinistra e a destra — con costosissmi e controproducenti progetti chiamati volta in volta Very Bello, ITsART (grazie Franceschini!) o Open to meraviglia (grazie Santanché!), che si coincilano con la straordinaria idea dell ministero e del liceo del Made in Italy (grazie Meloni!), il presidente del consiglio è diventato premier, i segretari di partito sono leader che esercitano la loro leadership e premiership per mantenere l’establishment; l’austerità e l’autorità sono austerity e authority, in parlamento c’è il question time, ci sono solo la privacy e il welfare senza quasi alternative, si parla di moral suasion, il tetto di spesa è price cap, la lottizzazione è diventata spoils system, sono state introdotte e istituzionalizzate mostruosità come i caregiver, la voluntary disclosure, il whistleblowing, e i servizi segreti e di spionaggio sono oramai intelligence.

L’esempio più eclatante di questa newlingua che arriverebbe “dal basso” è lockdown, che nasce il 17 marzo 2020 dopo che il covid era arrivato in Italia e Conte aveva proclamato le zone rosse. Ma zona rossa evidentemente non è un “prestito di necessità”, almeno per gli anglofoni, e infatti i giornali angloamericani hanno raccontato il fenomeno con le loro parole – visto che non sono deficienti – e hanno dunque riferito del modello dell’italian lokdown. Il giorno dopo l’intero apparato informativo del nostro Paese — sulla cui deficienza non ci sono dubbi — ha buttato via le parole con cui aveva aperto le prime pagine sino a quel momento (tutto chiuso, città blindate, quarantena, blocco, coprifuoco, serrate…) per esprimersi in inglese: la parola è diventato IL tecnicismo unico: “Basterà una sola parola – si legge in 1984 – un solo significato rigidamente circoscritto (…), tutti i significati sussidiari saranno stati cancellati e dimenticati” perché in fondo la novalingua “non mira ad altro che a ridurre la gamma del pensiero” e la lingua unica è funzionale al pensiero unico.

Fuori dalla politica, anche tutti gli altri organi del Grande Fratello remano nella stessa direzione, dalle poste italiane che ci impongono i delivery alle Ferrovie dello Stato con i loro gate, ticketeless con obbligo di self check in per le tratte regionali, le aree kiss&ride, le tariffe premium e business… tutte parole che arrivano dal basso, evidentemente, come accade nel linguaggio del lavoro o dell’informatica.

I mezzi di informazione: il braccio armato del Grande fratello

E poi c’è la lingua dei giornali che ci educa all’inglese, e per vedere come stanno le cose basta analizzare come battezzano ciò che è nuovo e come rinominano la veterolingua: nell’immagine una serie di articoli che spiegano (dall’alto) cosa siano la Christmas Fatigue, lo smishing, il South working, lo Scrapbooking, la prova dello stub (ex guanto di paraffina), il contratto di work for equity, la Power Station, lo snowie, il phubbing (ma si potrebbe continuare all’infinito).

La lingua nasce dal basso? C’è un limite alle cazzate che si possono sparare, e molti linguisti l’hanno abbondantemente superato.
In un articolo delirante su Open che mi ha segnalato Paolo vengono introdotti e spiegati alcuni anglicismi presentati come fossero parole normali (Rizz, Almond mom, Vibes, Slay, Pick-me girl e Pick-me boy) e siccome chi non si aggiorna è un “boomer” l’autore del pezzo sostiene che sarebbero “entrate di diritto nel nostro vocabolario, e sono ormai universalmente comprensibili (pensiamo a «swag», per indicare ammirazione per lo stile di qualcuno).” Ma certo! Chi non usa swag, oggi come oggi? Chi non lo capisce? E infatti l’universale comprensibilità di queste idiozie richiede proprio la guida di Open “per non sentirsi persi in una piazza straniera.”

Ma ci rendiamo conto del livello di pezzi come questi? Io mi sento in una piazza straniera perché sono in una piazza straniera, vivo all’interno di una cultura coloniale che sta americanizzando ogni cosa, da un punto di vista sociale, politico, economico… e dunque linguistico. E mi vogliono raccontare che la lingua nasce dal basso?

Questo è esattamente il progetto del dizionario della novalinga di Orwell che punta a imporre (dall’alto) la newlingua coloniale. E gli attori (se non si deve ormai dire i player) che introducono, diffondono e giustificano gli anglicismi facendo contemporaneamente credere che la lingua nasca dal basso sono gli stessi che da decenni cambiano, sempre dall’alto, il naturale modo di parlare della gente in nome di una ventata riformista che proviene sempre dall’agloamericano. Con furore fondamentalista, in nome del politicamente corretto si sono messe al bando parole che oggi sono ormai impronunciabili. Da un giorno all’altro ci hanno spiegato che non si poteva più dire “negro” o “mongoloide” perché erano improvvisamente diventate espressioni razziste e bisognava sostituirle con “nero” e “down”, tra spazzini che diventavano operatori ecologici, disabili trasformati in diversamente abili, omosessuali che lasciavano il passo ai gay e via dicendo. L’ultima frontiera del revisionismo linguistico è che si deve convincere tutti a dire sindaca, ministra e la presidente, e guai a chi non si adegua: se “la” Meloni preferisce definirsi “il presidente”, se gli avvocati o notai donna preferiscono denominarsi attraverso il maschile generico vengono attaccate, e non rispettate, perché dietro l’imposizione della lingua dall’alto non c’è nulla di democratico e dal basso, ci sono le pressioni sociali di un nuovo sistema di potere che si vuole imporre a tutti. La nuova religione dell’inclusività non ammette dissidenti, tutti devono essere inclusi nel pensiero unico. E chi non è d’accordo viene tacciato di volta in volta di essere patriarcale (ultimamente pare che maschilismo perda terreno davanti alla nuova accezione di patriarcale), oppure di purismo o di fascismo nel caso di chi osa protestare contro l’anglicizzazione. Ma, al contrario, chi si oppone alla dittatura dell’inglese sta tentando di fare la resistenza, dal basso, anche se oggi una parola come “resistenza” si sostituisce con “resilienza”, a proposito di lingua imposta dall’alto.

Per la cronaca: non ho alcune intenzione di difendere né parole come “negro” o “mongoloide” né il maschile inclusivo. A dire il vero non me ne frega niente perché ritengo che non sia certo un’ipocrita riverniciatura lessicale a risolvere i ben altri concreti problemi della questione femminile, dell’emancipazione della donna o delle fasce sociali problematiche. Questa bislacca interpretazione che confonde cause ed effetti andrebbe semmai rovesciata, e se la parità dei sessi fosse realizzata, invece che postulata solo sulla carta, anche la questione linguistica perderebbe senso e si risolverebbe da sola.

Il punto è che l’attuale sistema di potere impone dall’alto la newlingua del politicamente corretto, dell’inclusività, dello scevà… e allo stesso tempo l’inglese. Davanti agli anglicismi si sostiene che non è possibile intervenire sulla lingua (naturalmente ciò vale solo per l’italietta, visto che in Francia Spagna e in molti altri Paesi non è affatto così), mentre sulle questioni legate all’inclusione o al politicamente corretto si entra a gamba tesa per spiegare agli italiani come devono parlare blaterando a vanvera che sono esigenze che nascono dal basso. E in questa schizofrenia intellettuale si adottano due pesi e due misure: introdurre e legittimare l’inglese sotto la bandiera del non interventismo linguistico, e praticare invece l’interventismo negli altri casi senza alcuna remora.

Il “cherry picking” linguistico

Di Antonio Zoppetti

Dal Dizionario AAA ricevo una gran quantità di domande su come tradurre gli anglicismi sempre più frequenti e astrusi. Voglio riportarne una arrivata qualche giorno fa perché mi permette di aggiungere qualche osservazione sul fenomeno in generale:

Buonasera,
recentemente mi è capitato di riflettere sull’espressione “cherry picking”. Non sono riuscita a trovare un traducente completamente adatto, sapreste darmi una soluzione?
Grazie!
Elizabeth R*

Cherry picking: significati

Cherry picking (letteralmente raccolta di ciliegie) indica una raccolta o scelta selettiva basata sulla metafora dello scegliere, tra le tante ciliegie, solo quelle migliori. In italiano circolano analoghe espressioni che si appoggiano invece alla metafora del fiore: il motto dell’Accademia della Crusca “il più bel fior ne coglie”, l’etimo della parola antologia (ánthos = fiore + loghìa che deriva dal tema légo = scelgo), il florilegio, il fior fiore di qualcosa.

Come nella proverbiale questione del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, che dipende dal punto di vista che assumiamo, mentre la metafora italiana del fiore guarda agli esempi migliori, la connotazione dell’espressione inglese evidenzia invece gli elementi trascurati, dunque indica una raccolta parziale, che confonde la parte (le ciliegie belle) con il tutto (ci sono anche le ciliegie col verme o acerbe).

A sua volta, questa raccolta di dati parziali o distorti può essere involontaria oppure voluta, e genera perciò due fenomeni diversi.

Il primo è psicologico: un individuo tende a formulare un giudizio tendenzioso senza rendersi conto della fallacia delle proprie percezioni, perciò il cherry picking ha a che fare in questo caso con una percezione distorta, una distorsione cognitiva dovuta a preconcetti, un pregiudizio cognitivo che in fin dei conti è un pregiudizio, un preconcetto, una trappola mentale, un errore di giudizio o valutazione.

L’esempio più classico di questa distorsione percettiva si ha nel meccanismo di corroborazione degli oroscopi o della previsione del futuro. Se la fattucchiera di turno prevede dieci cose, la nostra mente tende a notare – tra tutte – solo quelle due o tre che capitano davvero. Quando accade, ogni previsione avverata fa scattare la molla dell’associazione mentale: “Il veggente l’aveva detto!”, con il risultato che la profezia sembra verificarsi solo perché il nostro cervello lavora solo sugli esempi positivi e si dimentica di quelli che non si verificano affatto, e che con ogni probabilità sono più numerosi di quelli azzeccati.

Questo meccanismo è qualcosa di nuovo? No di certo, si tratta di una convalida (o conferma) soggettiva nota anche come effetto Forer o Barnum (dal nome di due studiosi che l’hanno indagato), ma nella nostra mania compulsiva di esprimere ogni cosa in inglese si può indicare anche con l’anglicismo bias (per non farci mancare nulla nella lingua di Albione, nemmeno i doppioni).

Non sempre, però, nella raccolta delle ciliegie cadiamo nelle trappole cognitive, altre volte lo stesso meccanismo è ben preordinato per costruire delle argomentazioni volutamente tendenziose, surrettizie e sornione (che sotto la maschera innocente celano l’inganno). E questo è il secondo significato retorico, o comunque impiegato per esempio nella comunicazione scientifica o medica di parte: si riferisce al tacere una parte della realtà, e in italiano si può rendere tecnicamente con la fallacia dell’incompletezza (o dell’evidenza incompleta), o in parole povere con un’argomentazione incompleta, distorta, deformata, tendenziosa, artificiosa, di parte, parziale, partigiana, faziosa, viziosa o viziata, una pseudoargomentazione o una manipolazione dei fatti (ancora una volta il concetto finisce per sovrapporsi all’anglicismo fake news, visto che stiamo riscrivendo la nostra storia e la nostra essenza con concetti inglesi).

Questa casistica di comodo, militante e non obiettiva si basa su una tecnica che è stata definita anche scopa di Occam, cioè un modo di nascondere i fatti indigesti sotto il tappeto in contrapposizione al “rasoio di Occam” (per cui tra due spiegazioni la migliore è sempre quella con il minor numero di passaggi, la più semplice ed economica).

Dal significato all’uso

Chiariti i significati del cherry picking in generale e negli ambiti della psicologia e della comunicazione, e chiarito che non si tratta di nulla di nuovo e che non ci mancano di certo le parole per esprimere le stesse cose in italiano, nel nuovo millennio abbiamo ripetuto l’espressione inglese in sempre più contesti.

In figura si vedono le frequenze della parola in inglese e in italiano, e il grafico è piuttosto calzante nel mostrare come gli andamenti siano simili nei picchi e anche nei cali, nonostante nei confronti con la lingua dominante la frequenza dell’espressione sia da noi più bassa.

Andando a vedere in quali contesti questa espressione viene impiegata, oltre al caso della psicologia, della comunicazione o della retorica, l’anglicismo viene utilizzato anche in ambito economico, con una diversa sfumatura, per indicare gli investimenti a basso rischio o sicuri perché basati solo sui parametri migliori e più affidabili su lungo termine. Ma poiché l’anglomania non ha limiti, ecco che l’espressione inglese si allarga anche di tantissimi altri significati, e sul Sole 24 ore, per esempio, si trova un’ulteriore accezione per cui cherry picking può indicare anche la prassi dello “strappare il personale” alle aziende concorrenti, naturalmente solo quello più brillante e strategico (le ciliegie buone); e poiché una ciliegia tira l’altra, tra i neologismi Treccani si legge che equivale anche alla “capacità di individuare le doti migliori di una persona (Corriere della Sera – Magazine 07/09/2006).”

Riassumendo, l’espressione inglese è una metafora piuttosto generica usata come parola ombrello, e si piega poi alle tante valenze che assume in vari ambiti configurandosi come un tecnicismo. Questo allargamento in tanti settori dove cherry picking si acclimata ricavandosi un significato peculiare tende a sovrapporsi all’italiano e a sostituirlo anche se esistono espressioni equivalenti, ma contemporaneamente tende a occupare le sue nicchie imponendosi come qualcosa di nuovo.

Perché dobbiamo trapiantare un modo di dire in inglese – molto generico e vago – farlo nostro e introdurlo in sempre più ambiti invece di usare le nostre parole?

Il problema è sempre lo stesso, e la risposta sta nella nostra mente colonizzata che ha come punto di riferimento solo l’anglosfera, una mens insana che produce una lingua insana.

Il cherry picking in Francia e Spagna

Mentre le Accademie di Francia e Spagna fanno il loro lavoro di accademie, e hanno dunque un approccio prescrittivo che contempla anche la coniazione di nuove parole, la Crusca, al contrario, si vanta del suo approccio descrittivo e si guarda bene da produrre neologismi, per cui le consulenze linguistiche finiscono spesso per legittimare gli anglicismi, invece di contrastarli. E così, alla domanda di un lettore che chiede se si può dire governanza invece di governance, segue una risposta che avvalora l’anglicismo sostenendo che è “ormai divenuto italiano”, anche se sul questo bizzarro concetto di “italiano” basato sull’uso ci sarebbe da ridire, visto che è una parola che viola le regole ortografiche e fonologiche della lingua che un tempo la Crusca ha contribuito ad affermare (Arrigo Castellani si rivolterebbe nella tomba davanti a certe affermazioni che legittimano quelli che chiamava “corpi estranei” proprio perché sono fuori dall’italiano e non si amalgamano con il sistema linguistico che li ospita).

Allo stesso modo, davanti alla domanda se è possibile tradurre know how la Crusca chiarisce: “La risposta è no (…) il referto della radiografia di know how sancisce una prognosi infausta per qualsiasi ipotesi di traduzione italiana.”

Davanti a questo atteggiamento viene da chiedersi a cosa ci serva una simile accademia, visto che per studiare la lingua senza intervenire ci sono già le università. Naturalmente (come ho già scritto in un altro articolo) l’atteggiamento dell’Academie Française e della Real Academia Española è ben diverso, visto che al posto di un “intraducibile” know how indicano senza esitare rispettivamente i traducenti savoir faire e conocimiento fundamental, ma è risaputo che quelli che in Italia sono spacciati come “prestiti di necessità” quasi sempre sono “necessari” solo da noi. Mi domando se questo atteggiamento dei linguisti italiani non si possa configurare come un caso di cherry picking linguistico: si fa credere che le parole inglesi siano come le ciliegie buone, mentre quelle italiane si oscurano e si nascondono sotto al tappeto, come se non esistessero, per procedere solo attraverso le espressioni inglesi facendole apparire intraducibili. In questa follia, in gioco c’è la lotta per l’imposizione dei nuovi concetti in inglese (anche se non sono affatto nuovi).

E forse, chissà, anche il motto della Crusca “il più bel fior ne coglie” si potrebbe modernizzare prima con “la più bella ciliegia ne colga” per poi passare gradualmente a dirlo nella lingua internazionale: cherry picking e basta.

Comunque sia, cercando cherry picking sul sito della Crusca non appare alcun risultato, invece, su un cinguettio di X (ex Twitter) della Reale Accademia Spagnola si legge: “In alcuni contesti l’anglicismo «cherry-picking» equivale a «espigueo» [= spigolatura NdA ], quando assume il significato dell’azione e dell’effetto di cercare in diversi scritti o fonti i dati per qualche lavoro.”

Nel mondo ispanico le alternative sono dunque promosse, invece che negate, e se si cerca l’espressione inglese sulla Wikipedia in spagnolo si atterra su una pagina in spagnolo: “Falacia de evidenza incompleta”, la stessa soluzione indicata in vari altri contesti, mentre su un dizionario dedicato alle alternative ai forestierismi si parla di “(sofisma de la) prueba incompleta, supresión de pruebas”.

Nel vocabolario di arricchimento del francese si divulga invece la parola “picorage”, che fa riferimento allo “spiluccare” degli uccelli, il “becchettare” selettivo che riprende la metafora dello scegliere le ciliegie buone, la stessa soluzione riportata dalla Wikipedia (“Nel sistema giudiziario, quando una persona è incaricata di difendere una particolare posizione, “picorage” può essere appropriato. Un avvocato è libero di presentare solo le prove che sostengono l’innocenza del suo cliente”).

Da noi, invece, ci sono dei linguisti che ci vogliono far credere che l’arricchimento dell’italiano avvenga proprio mediante gli anglicismi, visti non come una regressione, ma come un arricchimento… un punto di vista piuttosto strampalato.

Il fatto è che senza istituzioni serie in grado di intervenire nel codificare delle soluzioni condivise che possano diventare dei punti di riferimento ufficiali, in Italia siamo in balia di una classe dirigente anglomane che sa solo importare e legittimare l’inglese, a cominciare proprio dai linguisti.

E in questo modo gli anglicismi non possono che avere la meglio, perché non si può lasciare le alternative alla creatività e alle traduzioni soggettive dei singoli parlanti, tecnici, traduttori o giornalisti. Ammesso e non concesso che qualcuno si sforzi di dirlo in italiano, tra le tantissime soluzioni che si possono individuare a seconda dei contesti, ciò che viene a mancare è proprio l’uniformità che caratterizza l’equivalente inglese, che finisce per scalzare le traduzioni proprio perché varie, personali e non standardizzate in una soluzione condivisa.

Anche per questi motivi, in mancanza di punti di riferimento istituzionali, ricevo decine e decine di domande e di richieste di traduzioni come questa che ho voluto divulgare.

PS
Il 15 dicembre, alle ore 17, interverrò a Pistoia presso l’Archivio Roberto Marini (Galleria Nazionale, 9) al convegno “Gli americani ci fregano con la lingua” (citazione da un gustoso monologo di Francesco Guccini) insieme a Debora Pellegrinotti, Giampaolo Francesconi e Giuseppe Fasulo. Parlerò dei meccanismi con cui gli anglicismi penetrano nell’italiano e del rapporto tra lingua e potere.

Dal codice a barre (in italiano) al QR code (in inglese)

Di Antonio Zoppetti

La notizia di questi giorni (in italiano e rivolta a tutti) è che dal 2027 sarà adottato un nuovo protocollo che prevede la sostituzione dei codici a barre con i codici QR nel settore delle vendite, del largo consumo e della grande distribuzione. In itanglese si può – ormai forse meglio – sintetizzare tutto ciò parlando del nuovo standard dei QR code per il retail.

Il codice a barre e il codebar

L’idea dei codici a barre nasce negli Stati Uniti intorno agli anni Cinquanta, ma dopo un lungo periodo di esperimenti e insuccessi il sistema viene perfezionato nel 1973, mentre l’anno successivo trova le prime applicazioni pratiche e, intorno al 1977, il protocollo sbarca anche in Europa per diffondersi sempre maggiormente.

Se confrontiamo questa storia con le frequenze di “codice a barre” nell’archivio di Google libri, vediamo infatti che l’espressione spunta dal rumore di fondo nel 1972, e nel 1977 la sua frequenza comincia a salire fino al 1994. Dopo qualche anno di stallo le occorrenze continuano a salire a partire dal 1998, e non è un caso che in quegli anni i codici a barre ISBN siano diventati obbligatori anche per i prodotti editoriali come i libri o i cd. Non si tratta di un obbligo vero e proprio, per essere precisi, ma di un requisito imposto dalla grande distribuzione per cui, senza il codice, questi prodotti non possono più finire nei circuiti di vendita ufficiali.

In inglese tutto ciò si chiama barcode, ma se aggiungiamo su Ngram Viewer anche questa parola, vediamo che l’inglese spunta solo successivamente, e la sua frequenza è bassissima. Si tratta probabilmente del riversamento in italiano dell’inglese internazionale non tradotto, e fuori dalla comunicazione in inglese – o dalla sua ostentazione da parte di qualche anglomane che preferisce infighettare i concetti con una connotazione alberto-sordiana – l’italiano resiste e non cede.

Il QR code e il codice QR

Il codice Qr è bidimensionale e contiene molte più informazione di quello a barre. La sigla QR sta per Quick Response (code), il sistema risale al 1994, ed è stato sviluppato in Giappone dalla Denso Wave. Per un decennio è stato un sistema che si imposto solo lì, e per diffonderlo, nel 1999, l’azienda ha deciso di renderlo distribuibile liberamente. In questo modo, in seguito è stato utilizzato anche negli Usa e in Europa, e se visualizziamo questa storia su Ngram Viewer vediamo che l’espressione “QR code” compare nel 2005, nello stesso anno in cui negli Stati Uniti è stato lanciato un progetto che permetteva di leggere il codice attraverso i nuovi telefoni intelligenti denominati smartphone, per collegare i luoghi fisici per esempio alle relative voci della Wikipedia. Da allora il fenomeno è esploso.

La differenza rispetto alla storia dei codici a barre è evidente: l’espressione è stata esportata direttamente in inglese e senza traduzione, nonostante l’origine nipponica della tecnologia. In linea di massima, visto il diverso sistema di scrittura rispetto all’alfabeto latino, nel Paese del Sol Levante le multinazionali che puntano alla conquista del mondo tendono a impiegare l’inglese in modo ancora più marcato delle altre, tanto che anche il walkman era un marchio registrato della giapponesissima Sony. Comunque sia, invece di tradurre l’espressione come era avvenuto nel caso dei “barcode”, è avvenuto tutto il contrario: abbiamo cominciato a ripetere a pappagallo “Qr code”, e cioè l’espressione che le interfacce dei telefonini esportavano nella propria lingua, come è avvenuto per downolad, e-mail, directory, password, account

L’equivalente italiano codice QR (pazienza se l’acronimo nasconde una sigla in inglese, non è questo un gran problema, in fin dei conti) è apparso come soluzione secondaria e non è mai decollato, dunque in italiano si tende a utilizzare l’inglese, nella scrittura e nella pronuncia.

Morale della favola

Se nel 1972 l’italiano era ancora una lingua sana e la traduzione della tecnologia d’oltreoceano era un fenomeno naturale e spontaneo, 30 anni dopo (in una sola generazione) tutto era cambiato. La nuova lungimirante “strategia” dei terminologi colonizzati è stata la rinuncia alla traduzione in favore dell’importazione degli anglicismi crudi (che spesso certi addetti ai lavori certificano con una sorta di “bollino blu” che ne sancisce la “necessità”, l’“insostibuitilità” e altre simili sciocchezze che valgono solo per l’Italia); e così la terminologia informatica priva di anglicismi degli anni Settanta (quando c’erano terminali, periferiche, stampanti a margherita, schede perforate, calcolatori…) ha portato all’attuale deriva del linguaggio di settore dove è avvenuto un “collasso di ambito”: l’italiano non è più in grado di esprimere la modernità senza ricorrere alla stampella dell’inglese, e il settore si esprime oggi in itanglese.

Se nei prossimi anni il codice a barre sarà sostituito dal QR code, e non dal codice QR, avremo un anglicismo in più e una parola italiana in meno.

Naturalmente – lo ribadisco per i mistificatori che rivoltano le frittate delle mie riflessioni – la cosa grave non è che si dica QR code: si tratta di un singolo anglicismo che preso da solo non significa niente. La cosa grave è la somma di questi fenomeni che giorno dopo giorno si trasformano in “prestiti sterminatori” che fanno piazza pulita dell’italiano, e che negli anni Duemila non sappiamo far altro che ripetere in inglese invece di tradurre, adattare o inventare parole nuove. Le conseguenze di questa strategia sono sotto gli occhi di tutti. Se la rivoluzione industriale di fine Ottocento e del Novecento ci hanno portato la lampadina e la televisione, e non la lamp e la television, quella del nuovo millennio ci ha colonizzato con i computer, i mouse, il wireless e così via.

E per i negazionisti che fanno finta di non vederlo e di non capirlo, basta leggere come questo giornale riporta la notizia che all’inizio del mio articolo ho tradotto in italiano:

Per la cronaca: dai conteggi automatici (che considerano “QR code” due stringhe distinte) il testo riportato è composto da 141 parole in tutto, di cui 19 in inglese. Ma se si eliminano le date scritte in cifre e i nomi propri di persone o aziende (che non vanno conteggiate né come parole italiane né come parole inglesi) il rapporto è di 122 a 19, una percentuale che supera il 15% e che rende questo esempio un caso di lingua ibrida a base inglese, e non di una lingua sana che si appoggia sporadicamente a qualche “prestito” (considerando “QR code” come una parola sola, la percentuale scenderebbe a poco più del 9%, che non è comunque una bazzecola).

L’itanglese travalica completamente il concetto del “prestito linguistico”

Di Antonio Zoppetti

Voglio provare ad analizzare con le categorie del “prestito linguistico” vari esempi reali di comunicazione “italiana” in itanglese che mi sono stati segnalati negli ultimi giorni.

Esempio numero 1

Nell’immagine sopra si può vedere la presentazione di una multinazionale come la Manpower in italiano e in spagnolo. Domenico, che si è preso la briga di cercare la stessa comunicazione anche nelle varie lingue, ha rilevato che mentre in italiano ricorrono leader, global workforce solutions, business, brand, talent shortage e cyber security… nelle versioni spagnola, greca, portoghese, polacca, svedese, tedesca… “ mai – ma proprio mai – ricorre un termine inglese”.

Inoltre, nei suggerimenti della ricerca in “italiano” si legge: “Job title, Industry o Skills”, che a prima vista sembra un rimasuglio di un’impostazione della piattaforma in lingua inglese, ma si tratta invece di una “traduzione”, come si evince da “o” al posto di “or” e da “città” invece di “city”. Solo che questa traduzione di straordinaria bellezza e trasparenza evidentemente si avvale dei cosiddetti “prestiti linguistici”, i famosi “doni” che secondo alcuni osservatori arricchirebbero l’italiano invece di rappresentare un fenomeno sottrattivo che lo depaupera.
Inutile dire che negli altri Paesi le stesse cose sono espresse nelle rispettive lingue locali.

Esempio numero 2

Dalla lingua delle multinazionali si può passare a quella di un’azienda nostrana come la Rinascente che nella sua ultima newsletter (giratami da Marco) composta da un centinaio di parole, ne sfoggia una ventina in inglese (dunque un’incidenza di circa il 20%).

Si può partire dal prestito di “necessità” design che, anche se è l’adattamento dell’italiano disegno, è oggi diventato insostituibile per indicare ciò che più contraddistingue il made in Italy (= prodotto italiano), e cioè l’italian design. E così, mentre i Paesi che primeggiano in determinati settori di solito esportano la propria lingua e i propri termini (si pensi all’inglese informatico), noi esportiamo le nostre eccellenze in inglese, come si evince da food e drinks che ben rappresenta la grande nomea della cucina italiana nel mondo dell’epoca dei MasterChef. E lo stesso vale per la nostra grande tradizione nel campo della moda, cioè il fashion: la maglieria diventa Knitwear (come closer, pelase!) e tra ready-to-wear, shopping e brand i negozi e punti vendita si trasformano in store, mentre una destinazione è destination è ciò che è senza tempo, o sempreverde, diventa timeless (ma andrebbe bene anche evergreen: l’itanglese è un arricchimento che offre tanti sinonimi).

Questi, più che “prestiti”, sono l’abbandono dell’italiano e la prova della sua regressione. Timeless è il segnale di un collasso dell’italiano, delle sue regole e della sua capacità di rinnovarsi e di evolversi. Dopo il capostipite topless, gentilmente “prestatoci” negli anni Sessanta, quando ben pochi comprendevano il suo significato di “senza la parte sopra” e lo ripetevano come il nome proprio di un costume o della pratica di stare a seno nudo, sono arrivati il genderless, gli homeless (i senzatetto erano detti un tempo barboni, ma questa parola è politicamente scorretta, mica come l’inglese che è inclusivo), il ticketless, le automobili keyless senza l’inserimento della chiave, il telefono cordless e il wireless (letteralmente la tecnologia “senza fili” brevettata da Marconi), e oggi less (come free) è diventato un suffissoide da applicare alle radici inglesi seguendo le regole dell’inglese. E così c’è chi disserta sulla sottile differenza tra childless e childfree per distinguere chi non può avere figli da chi non li vuole, mentre nel settore dell’automobile (cioè l’automotive) ci sono gli pneumatici tubeless (senza camera d’aria), i veicoli senza guidatore denominati driverless e via dicendo.

Quando la frequenza dell’inglese è di questo tipo, e quando le radici inglesi si ricombinano con altre parole inglesi e italiane in ibridazioni o variazioni morfologiche, non siamo più in presenza di qualche “prestito” come avviene nel caso degli altri esostismi, ma di un fenomeno di ben altra portata che si chiama anglicizzazione.

Esempio numero 3

Su un sito di scommesse, cioè di betting, per essere moderni, mi hanno segnalato un articolo intitolato: “Sisal Wincity Diaz, il primo punto di vendita Sisal eco-friendly, aderisce al progetto ‘No Plastic More Fun” in collaborazione con Worldrise Onlus‘.”

Tra le perle evidenziate ci sono frasi come “Il Canvass Meeting Retail 2023 si è reso totalmente Carbon Neutral”.

Chi non comprende la differenza tra Carbon Neutral e Carbon Free può cercare in Rete (o se preferite googlare) l’espressione, per raggiungere fondamentali spiegazioni in “italiano” come: “Carbon net zero vs carbon neutral”, un articolo in cui si legge che il net zerosi applica all’intera organizzazione e alla sua value chain, per ridurre le emissioni indirette di carbonio dai fornitori a monte (upstream suppliers) fino agli utenti finali” ma per capire cosa si intende per climate neutrality “bisogna spostarsi in ambito imprenditoriale, dove un’azienda opera una riduzione e un offsetting di tutte le emissioni di gas a effetto serra (GHG) generate durante l’anno”.

Ma tornando al pezzo di partenza è tutto un pullulare di espressioni come: “L’Azienda sta lavorando a un nuovo concept store altamente sostenibile”; “newgioco.it, ora molto più user-friendly dopo il totale restyling”; “un prize money totale di 120 mila euro”; “Federico Chingotto e Miguel ‘Mike’ Yanguas … guidano l’entry list maschile; Maria Virginia Riera (…) sono invece le prime teste di serie del main draw femminile”…

Questi strani “prestiti” non sono più singole parole, ma “prestiti sintattici” (come qualcun li ha chiamati), cioè pezzi di inglese più complessi di quelli lessicali-terminologici, che riguardano il trapianto di porzioni di frasi che si trascinano l’inversione sintattica del costrutto originale. Allo stesso tempo, le ibridazioni come newgioco si inseriscono in una tendenza denominare in inglese ogni prodotto o funzione in una gerarchia delle parole che vede l’inglese al vertice della concettualizzazione che sostituisce quella italiana: “SNAIFUN, l’app Snaitech che premia la cultura e la passione sportiva con news, quiz e pronostici, diventa Premium Partner di AC Milan”; “Il Futuro del Gaming e degli Esports in Italia: l’Osservatorio Italiano Esports presenta in Parlamento il Primo White Paper sul settore” (da notare l’uso delle maiuscole un po’ all’inglese e un po’ alla cazzo).

Per chiamare le cose con il loro nome, questi esempi di comunicazione ibrida sono il segnale di una creolizzazione che travalica completamente l’approccio basato sul “prestito” teorizzato in certi manuali di linguistica. Non si ricorre all’inglese perché “ci manca la parola” (i cosiddetti “prestiti di necessità”) né perché qualche anglicismo si ricava una sua valenza più prestigiosa dei corrispettivi italiani (i cosiddetti “prestiti di lusso”). La frequenza e la pervasività dell’inglese è una scelta stilistica e una “newlingua” ibrida volutamente ricercata e ostentata. È una sorta di registro linguistico o di gergo che sta prendendo piede in sempre più ambiti (informatica, lavoro, economia, sport, moda, cucina…) e che sta raggiungendo il linguaggio comune, dei giornali, della politica, della cultura…

Esempio numero 4

L’ultima frontiera di questi “prestiti” si può rintracciare nella recente scelta di rinominare i porti pugliesi con la dicitura Port of Manfredonia, Port of Monopoli, Port of Barletta… per opera dell’“Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Meridionale” il cui presidente è il professore universitario Ugo Patroni Griffi (come mi ha segnalato Domenico).

Mentre nelle regioni autonome in cui si parla per esempio il tedesco la segnaletica prevede le scritte bilingui, in Puglia l’italiano è stato semplicemente buttato via, e c’è solo l’inglese.

Se questi sono prestiti… forse anche le politiche di certi atenei come il Politecnico di Milano di insegnare in inglese invece che in italiano si potrebbero leggere come una forma di prestito linguistico “totale”?

Gli intellettuali e la riorganizzazione della cultura e della lingua

di Antonio Zoppetti

Voglio condividere una lettera che ho ricevuto qualche giorno fa:

Questa mattina, in una traversa di via Padova [a Milano], ho incrociato il furgoncino che vedi nell’immagine e non ho potuto fare a meno di domandarmi perché mai una piccola ditta di Brugherio (!) debba avere una sotto-denominazione in inglese.
Qualche mese fa mi trovavo a passeggiare dalle parti di via Agnello/via Hoepli e, appeso a uno stabile, c’era un indecifrabile cartello in inglese, lingua che mastico a un discreto livello, ma in quel caso non capivo proprio: “REAL ESTATE”. Immagino che il cartello proponesse la vendita dello stabile decisamente dismesso e che fosse rivolto a investitori stranieri. La sensazione di essere in una città sempre più estranea e aliena mi è rimasta impressa a distanza di tempo.

Tutto questo per dire che non si tratta dei giornali, che peraltro vengono letti da pochissimi, ma ormai l’uso smodato dell’inglese è ovunque.

Un caro saluto

Elisabetta.

Nell’ultimo articolo avevo pubblicato la foto dell’Italian Bakery che hanno aperto sotto casa mia proprio di fianco a un Italian Hair Line. E la sensazione di vivere in un Paese occupato è molto forte in una città come Milano. Cosa spinge a queste denominazioni? L’italian bakery è forse una catena (ma oggi si dice franchising) che punta a diffondere i prodotti da forno americani, invece che nostrani (non lo scoprirò mai perché non ci metterò mai piede), mentre l’Hair line si inserisce in una tendenza già consolidata nell’uccisione di parrucchieri e barbieri che oggi si sentono (e si presentano come) hair stylist. Come nel caso del disinfestatore di provincia che si definisce attraverso il concetto di “pest control” questa comunicazione è rivolta agli italiani, e più precisamente ai figli di Nando Mericoni, il personaggio incarnato da Alberto Sordi che nel voler fare l’americano si rendeva ridicolo, mentre i suoi discendenti hanno sostituito l’ironia con una tragica serietà.

La newcultura del Real Estate

Sotto questa mentalità che considera l’inglese una lingua superiore e più evocativa o “internazionale” (ma va bene anche lo pseudoinglese, ciò che conta non è che sia inglese, ma che suoni così) c’è solo il nostro complesso di inferiorità, il nostro servilismo provinciale e la nostra neocultura coloniale (forse meglio newcultura?). Il caso di “Real Estate” è un po’ diverso, perché questa espressione è rivolta sia agli stranieri sia agli addetti ai lavori italiani, che buttano via la nostra lingua per sfoggiare l’inglese. Per comprenderlo basta leggere la definizione di Real Estate che riporta la Treccani nella sezione “Lessico del XXI secolo”:

Espressione ingl. composta dall’aggettivo real (‘immobiliare’) e dal sostantivo estate (‘proprietà, patrimonio’), con cui si indica l’insieme degli operatori, dei prodotti e dei servizi riferiti al mercato immobiliare.”

Leggendo la voce si scopre che il settore del real estate (e non immobiliare) a sua volta comprende il real estate developement (che va dalla valutazione di fattibilità dell’investimento, all’individuazione dell’area edificabile, alla gestione dei rapporti con le amministrazioni pubbliche e con gli istituti di credito, fino alla costruzione dell’immobile); il real estate management riguarda invece la manutenzione ordinaria o straordinaria del bene, detta building management, che si distingue dal facility management che comprende la gestione dei servizi di pulizia, portineria, sicurezza interna, e in generale dei servizi funzionali alle esigenze degli utenti dell’immobile; la riscossione degli affitti e la contabilità per conto della proprietà si chiama property management, mentre la gestione del patrimonio immobiliare si chiama asset management.

Se questo è il lessico del XXI secolo si vede bene che siamo fritti. Questo modello di cultura coloniale si limita a ripetere la concettualizzazione d’oltreoceano, con parole in inglese che vengono soltanto spiegate in italiano, per il popolino, abbandonando la nostra lingua madre e riscrivendo tutto con le categorie a stelle e strisce.

La riorganizzazione della cultura

Perché siamo finiti in questa spirale?

Per comprenderlo è bene buttare via gli attuali approcci dei linguisti, che con i loro “prestiti di lusso e necessità” sono ogni giorno più ridicoli, e studiare qualcosa di meno superficiale e di più ampio, per esempio le analisi di Gramsci che, come è noto, vedeva nell’emergere della “quistione della lingua” il riflesso di qualcosa di più profondo, e cioè un ricambio – di solito conflittuale – della classe dirigente. Un ricambio prima di tutto sociale e culturale, che si porta con sé anche la lingua.

In una raccolta di pensieri (tratti dai Quaderni del carcere) intitolata Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (Einaudi 1949), l’autore mostrava che ogni nuovo gruppo sociale emergente si crea i propri ceti intellettuali “specializzati” che li legittimano, per cui ogni imprenditore si circonda di tecnici o scienziati portatori di una nuova cultura o di un nuovo diritto. Naturalmente la definizione degli “intellettuali” non ha a che fare con il pensare – tutti gli uomini pensano – ma con la loro funzione sociale. Dunque la creazione di un nuovo ceto intellettuale ha bisogno di giornalisti, filosofi, artisti e tecnici che danno vita a categorie specializzate che sono però connesse non solo con i gruppi sociali dominanti, ma con tutti i gruppi sociali, anche quelli più popolari. La lingua italiana, insomma, non nasce dal basso – Gramsci considerava questa affermazione un “errore madornale, per superficialità” – ma si delinea solo perché esiste un modello incarnato da una classe dirigente che viene seguito e imitato. Il volgare di Dante irrompe, non a caso, quando si afferma l’epoca dei comuni che si impone sul latino medievale dove i vecchi intellettuali erano i chierici, mentre, secoli dopo, dietro la polemica tra classicisti e romantici o tra manzoniani e antimanzionani c’erano in gioco analoghe affermazioni – e battaglie – per la conquista dell’egemonia sociale, culturale e dunque linguistica.

L’inglese e la nuova questione della lingua

Oggi la nuova questione della lingua riguarda il rapporto con l’inglese. Da una parte c’è il progetto di fare dell’inglese la lingua internazionale, un progetto classista ed elitario che spaccia questa lingua come di “tutti”, mentre è soltanto la lingua dei Paesi dominanti, incomprensibile per l’80% dell’umanità, e praticata semmai dai ceti intellettuali più colti che la vorrebbero ufficializzare e imporre come la lingua dell’Europa (lo hanno già fatto in ambito militare), delle relazioni di lavoro, degli studi scientifici, e persino dell’insegnamento universitario in inglese, invece che nelle lingue nazionali. Dall’altra parte, questa “dittatura dell’inglese” calata dall’alto – e perseguita dai programmi scolastici che hanno reso l’inglese obbligatorio per tutti e che puntano a creare generazioni bilingui a base inglese ovunque – produce come effetto collaterale lo “tsunami anglicus” che anglicizza le lingue di tutto il globo, e in particolare l’italiano, al primo posto in questa sorta di creolizzazione. Se negli anni Sessanta Pasolini si era accorto che il nuovo italiano era tecnologico e che arrivava dai centri industriali del Nord, e non più dalla tradizione letteraria toscana, anche Gramsci si era accorto che la cultura tecnico-scientifica stava prendendo il sopravvento su quella umanistica, e che l’interesse per la scienza era tale che i giovani delle classi colte e aristocratiche consideravano gli studi classici sempre più come un inutile perditempo. Questa nuova cultura arrivava soprattutto dagli Usa, e “minacciava” la cultura Europea e dello stesso Regno Unito.

Da allora tutto si è enormemente amplificato. I centri industriali del Nord oggi parlano in itanglese e diffondono una lingua industriale che non è più fatta dai nativi italiani, ma importata direttamente degli Stati Uniti. La cultura d’oltreoceano è diventata il nuovo modello che viene preso come punto di riferimento persino nelle nuove realtà scolastiche, in un abbandono della nostra cultura, dei nostri approcci storico-critici tradizionali, in nome del pragmatismo spicciolo del problem solving. Mentre lo storytelling ha preso il posto della retorica, oggi i tecnici hanno preso il sopravvento sulla cultura umanistica, ma la tecnica arriva dagli Usa e si porta con sé non solo la lingua di provenienza, ma anche la riconcettualizzazione del mondo attraverso le categorie del modo di pensare (prima che di parlare) americano. L’esercito degli intellettuali che diffondono l’itanglese e l’inglese per conquistare anche gli intellettuali tradizionali – come direbbe Gramsci – è imponente e si sta affermando in modo incontrastato. In prima fila ci sono i giornalisti e i mezzi di informazione, che un tempo hanno unificato l’italiano e oggi impongono l’itanglese a cui ci educano. Lo stesso schema è seguito da tutti gli altri intellettuali specializzati, dagli scienziati ai tecnici, dagli economisti ai politici, dai formatori sino agli “influencer”, che con gli intellettuali hanno poco o niente in comune, ma che con la loro visibilità sono comunque in grado di influenzare e orientare anche la lingua. Le parole e le categorie d’oltreoceano invadono ogni aspetto della nostra società, trainate dall’espansione delle multinazionali, dalla lingua del lavoro, dalla comunicazione pubblicitaria, dal marketing, dal cinema, dalla televisione e da ogni altro aspetto della nuova cultura americanizzata.

E così l’itanglese è divenuto il nuovo modello di tutti i nuovi intellettuali, specializzati e generalisti, e questo modello dai centri di irradiazione della lingua si espande sino al disinfestatore di Brugherio o al parrucchiere del centro o della periferia. Alla faccia dei linguisti che ci dicono che va tutto bene, o che è normale che le lingue si evolvano, senza rendersi conto che l’attuale “evoluzione” sta portando all’abbandono e alla morte dell’italiano, e non al suo rinnovamento. Ma anche la morte in fondo è un fenomeno “normale”.

L’inglese che spazzola l’italiano

di Antonio Zoppetti

Nell’ultimo articolo, con l’esempio del “phubbing”, ho mostrato come i giornali educhino all’inglese con modalità ben collaudate. Sul Corriere di oggi è la volta del “brushing”, con cui si dà un colpo di spazzola all’italiano per introdurre il corrispondente in lingua inglese.

Nella categoria “e-commerce” – visto che commercio elettronico è lungo, obsoleto e soprattutto una patetica espressione italiana – si riferisce della “truffa del ‘brushing’ che può svuotarvi il conto corrente”. Leggendo l’articolo arriva la definizione: “La truffa è nota come «brushing», che in inglese richiama appunto la spazzolatura. Di cosa? Del conto corrente. (…) Così la vittima cade nella rete e il suo conto viene «brushato», spazzolato, svuotato.”

Il giornalista, nello spiegare il significato di “brushing” ricorre alla parola “spazzolatura” – che ha un significato tecnico nella produzione tessile e tra i parrucchieri – e non a “spazzata” che si usa in italiano in senso generico. E non contento dell’anglicismo, per completare la distruzione del nostro lessico aggiunge anche la sua ibridazione con l’italiano (“brushato”).

Analizziamo le motivazioni che portano a queste scelte, e chiariamo perché il problema non sono i singoli anglicismi, ma appunto la mentalità coloniale che porta a preferirli e a farne dei tecnicismi “di necessità”, per citare le categorie coloniali utilizzate da certi linguisti.

Spazzolare, in senso lato, in italiano indica il far piazza pulita, lo svuotare. Si può spazzolare per esempio un piatto di spaghetti – cioè divorarli con voracità – mentre spazzolata, da vocabolario, può riferirsi anche a un prelievo fiscale vessatorio. Analogamente, spazzare significa anche rubare, razziare denaro o beni preziosi, svaligiare una casa o un magazzino svuotandoli. E allora la parola italiana che si può usare al posto dell’inglese è semplicemente spazzata o spazzolata, invece che spazzolatura, ma guai a parlare di truffa della spazzolata! Bisogna seguire l’inglese, la lingua dei padroni, la lingua modello dei pappagalli italiani che ripetono come talebani il sacro idioma superiore. La grammatica inconscia è sempre la stessa: i tecnicismi informatici si devono dire in inglese, e così il calcolatore è stato buttato via in nome del computer, e il mouse non l’abbiano nemmeno tradotto. La terminologia informatica “italiana” segue queste regole e questa logica. Anche quando gli anglicismi non sono tecnicismi, ma metafore: spazzolata/messa in piega, topo, scarico (dei dati), influenti, piattaforme sociali… diventano termini monosignificato di ambito informatico: brushing, mouse, download, influencer, social… che si ricavano una loro nicchia che fa piazza pulita del lessico italiano. La giustificazione teorica di queste scelte linguiciste spacciate come necessarie (anche questa è la truffa delle spazzolate che svuotano il nostro lessico) è sempre la solita, e intrisa di ipocrisia: si dice così, è in uso, in inglese si chiama brushing

Si dice così? E chi lo dice?
– È un tecnicismo… è in uso…

È in uso? L’uso di chi? Di chi non sa fa altro che ripetere e introdurre l’inglese? Se fosse in uso non sarebbe necessario né virgolettarlo né spiegarlo. Non è affatto nell’uso comune, siete voi che lo state facendo entrare nell’uso con queste tecniche di comunicazione coloniale.
In inglese si dice così. In italiano non c’è un equivalente. Punto.

Il problema di come si può rendere in italiano, nemmeno si pone. E se qualcuno lo pone, la risposta è la medesima: l’equivalente italiano “non è proprio come….”.

In questo decervellamento culturale, e in questo stillicidio lessicale, il risultato è che l’italiano diventa itanglese. La ragione sta in parte nell’anglomania e in parte nel non conoscere la nostra lingua, per cui molti anglicismi avrebbero degli equivalenti, ma i palanti e gli scriventi sembrano non conoscerli o non volerli utilizzare.

E così ognuno introduce e diffonde i propri anglicismi insostituibili in ogni ambito: in politica la Meloni si definisce underdog, e Salvini vuole la flat tax; in economia si parla di spread e di joint venture; sul lavoro è tutto un pullulare di cariche in inglese, dai vertici che sono manager fino alle mansioni meno blasonate di dog sitter e rider, mentre oltre alle cariche si anglicizzano anche i processi produttivi, dall’outsourcing al branding, e le nuove scuole-aziende formano nella newlingua le nuove generazioni con i loro master.


Intanto i negozi diventano store, shop, outlet e sotto casa mi hanno appena aperto un “forno italiano” denominato italian bakery proprio accanto all’italian hair line… perché anche i panettieri, insieme ai parrucchieri e barbieri, ce la mettono tutta per dare una spazzolata all’italiano che sostituiscono con le americanate.

Ormai viviamo in un Paese culturalmente e linguisticamente occupato. L’itanglese è divenuto la nuova lingua dei giornali (nell’immagine seguente lo speciale cinema di Venezia) e dei nuovi centri di irradiazione della lingua.

I collaborazionisti della dittatura dell’inglese

Di Antonio Zoppetti

Lo scorso 30 agosto, la vicepresidente della Spagna e ministra del Lavoro Yolanda Díaz era impegnata in una conferenza stampa che si teneva a Madrid, nel suo Paese, quand’ecco che all’improvviso una giornalista straniera (presumibilmente anglofona) ha pensato bene di rivolgerle una domanda in inglese, e nella sua grande benevolenza, ha aggiunto che però avrebbe potuto rispondere in inglese ma anche in spagnolo: “Pero usted puede responder en inglés o en español.”

La politica non ha compreso la domanda, si è guardata attorno spaesata alla ricerca di un traduttore, fino a che qualcuno in sala le ha riassunto sommariamente la questione, e la donna ha così potuto rispondere nella propria lingua.

Il video è stato ripreso dalla tv del Corriere con un taglio volto a ridicolizzare la Díaz e a presentare l’episodio come qualcosa di estremamente imbarazzante: “La vicepresidente della Spagna sembra non capire nulla quando le viene posta una domanda in inglese. L’imbarazzo durante una conferenza stampa tenutasi lunedì a Madrid.”

I giornali hanno sguazzato nella vicenda, ponendo l’accento sul fatto che la ministra sarebbe rea di non conoscere la lingua di serie A che si vuole istituzionalizzare come la lingua dell’Europa e del mondo intero. Ed è rispuntata la solita tiritera che solleva una questione spinosa: “oggi come oggi” può un politico non sapere l’inglese? La risposta sottintesa – che serve a imporre le nuove regole – è “no”. Non sapere l’inglese è una vergogna ed è inaccettabile.

Questo tipo di informazione, più che raccontare la realtà la vuole ricostruire imponendo la propria visione neocolonialista e discriminatoria nei confronti delle altre lingue. La posta in gioco è quella di proclamare l’inglese non una lingua come le altre, ma farlo diventare un requisito culturale e un’abilità di base per tutti. Peccato che questo progetto imperialista e linguicista non ci convenga affatto.


Analizziamo i fatti da un’altra prospettiva.

Il problema è non sapere l’inglese o imporlo a tutti come il requisito della nuova cultura globale?

La politica spagnola è in buona compagnia, visto che tra gli 8 miliardi di abitanti del pianeta l’80% non conosce l’inglese, che non è la lingua “internazionale” come si vuole fare credere, ma la lingua madre dei Paesi dominanti che stanno cercando di imporre al resto dell’umanità. La politica spagnola è in buona compagnia anche tra i suoi colleghi spagnoli, italiani o francesi: solo una minoranza dei politici conosce l’inglese, il che è lo specchio di quanto avviene tra le gente dove l’inglese è padroneggiato da una piccola minoranza della popolazione. Ma, soprattutto, la politica spagnola era nella sua terra, parlava la sua lingua – che oltre a essere diffusa in tutto il mondo conta un numero di madrelingua ben superiore a quello degli anglofoni – e si rivolgeva agli spagnoli.

Ribaltiamo la questione. Come è possibile che un’inviata in Spagna non conosca lo spagnolo e si permetta di porre una domanda in inglese? Come reagirebbe un politico inglese, che mediamente se ne guarda bene dallo studiare altre lingue oltre alla propria, se durante una conferenza stampa gli ponessero una domanda in francese, spagnolo o italiano pretendendo di essere compresi? Con quale arroganza ci si permette di andare a casa altrui e dare per scontato che sia lecito imporre la propria lingua, invece di rispettare quella dei padroni di casa?

I giornalisti del Corriere non si pongono queste domande, perché come l’intera nostra classe dirigente sono colonizzati nella mente, e lavorano a favore dell’inglese, sia sul piano internazionale sia su quello interno, visto che non sanno fare altro che introdurre anglicismi per educare tutti alla newlingua ibrida che stanno imponendo con il loro modo di comunicare. Una lingua che si trascina con sé il proprio modo di pensare, concettualizzare ed esportare la propria visione. In gioco c’è proprio il disegno di rendere universale ciò che invece appartiene alla cultura anglofona, e per realizzare tutto ciò si confondono le acque e si tenta di sostituire la parola “internazionale” con “inglese”, come ha notato la giornalista Barbara Serra ricordando che le fonti giornalistiche americane non sono affatto internazionali, ma anglofone, una distinzione fondamentale ma che in Italia in pochi sembrano cogliere.

Il phubbing

Ecco un articolo del Corriere tra centinaia che seguono tutti lo stesso schema – che promuove e importa l’ennesimo anglicismo figlio della rimappatura concettuale con cui si anglicizza ogni cosa spacciandola per internazionale: il phubbing.

Il termine deriva dalla combinazione delle parole “phone” (telefono) e “snubbing” (snobbare), ma in modo ponderato il titolo acchiappone si guarda bene dallo spiegarlo, perché lo si vuole introdurre facendo sentire il lettore ignorante: solo leggendo l’articolo si scoprirà che indica l’atteggiamento “telefoninocentrico” di chi continua a “pistolare” sul cellulare in modo maleducato trascurando l’interlocutore che ha davanti.

Tutto ciò, naturalmente, si esprime in inglese, e visto che si tratta di un neologismo a nessuno viene in mente di tradurlo, adattarlo o inventare una nuova parola nostra. I nuovi centri di irradiazione della lingua stanno imponendo una terminologia che non è più fatta dai nativi italiani. Nell’italietta colonizzata si ripete a pappagallo la lingua dominante, che qualche arguto linguista forse presto inserirà nelle proprie bislacche categorie dei “prestiti di necessità”, anche se è una parola di cui non si sente il bisogno. Ma crearne il bisogno fa proprio parte del progetto “itanglese”.

Pensiamo a Fantozzi che guarda la partita in tv ignorando moglie e figlia che gli si piazzano davanti. Pensiamo a uno studente distratto che invece di ascoltare la lezione parla con il compagno di banco oppure fissa il vuoto assorto nei suo pensieri. Pensiamo a un adolescente brufoloso che invece di partecipare a una conversazione si isola ascoltando la sua musica in cuffia. Pensiamo a una canzone degli anni Venti del secolo scorso in cui, con le lacrime agli occhi, la bambina mormora che la mamma non le compera mai i balocchi perché presa solo dai profumi per lei. Esistono delle parole per descrivere questo genere di “snobbamenti” egocentristici o screanzati? No. Perché non avrebbero alcun senso, e non rispondono a una necessità che invece si vuole creare introducendo un anglicismo per descrivere questo stesso atteggiamento nel caso sia il cellulare, anzi lo smartphone, l’elemento di disturbo.

L’inglese: un obbligo per i cittadini ma non per i politici

Intanto, venendo a quanto accade in Italia, la politica si è schierata dalla parte dell’inglese: lo ha reso obbligatorio nella scuola – invece che essere una scelta – e soprattutto lo ha fatto diventare un requisito per essere assunti nella pubblica amministrazione o per presentare i progetti di ricerca. Ma questa imposizione dell’inglese che discrimina le altre lingue, e a maggior ragione i cittadini che le conoscono, non è un requisito anche per i politici, che ne sono esentati, e in molti casi faticano persino a esprimersi in italiano e a maneggiare il congiuntivo.

In questo modo la nostra lingua si anglicizza e l’inglese internazionale guadagna terreno facendo tabula rasa del plurilinguismo, che dovrebbe essere un valore e non un ostacolo alla comunicazione internazionale da svolgersi nella lingua naturale dei Paesi anglofoni.

Bisognerebbe gridare forte che la lingua dell’Europa è la traduzione, per dirla con Umberto Eco, che l’inglese non è la nostra lingua e non è una lingua superiore rispetto alle altre. Che non è un requisito per saper governare, ma neanche un requisito per sapere insegnare una qualunque materia, per lavorare nella pubblica amministrazione o per presentare il proprio progetto di ricerca. Fare della lingua inglese un requisito da imporre ai cittadini (ma non ai politici) significa discriminare le altre lingue nazionali e ridurle a dialetti di un mondo che parla e pensa in inglese. L’attuale regressione dell’italiano e la comparsa dell’itanglese dipendono da questa mentalità suicida che dovremmo combattere, invece che sposare.

Italianismi di lusso e di necessità: anatomia di un delitto linguistico

Di Antonio Zoppetti

Sono rimasto molto colpito da questo articolo del Corriere.it dell’altro giorno:

Scommetto che anche voi, leggendolo, avrete subito pensato la prima cosa che è venuta in mente a me: “15enne” (“quindicenne” si scriveva nell’italiano antico) poteva benissimo essere sostituito dalla parola teenager. Tuttavia, riflettendoci, bisogna spezzare una lancia a favore della scelta del giornalista, perché teenager, pur essendo più evocativo, moderno e internazionale, risulta meno preciso, e non ci informerebbe sull’età esatta del nativo halloweeniano in questione. Lo stesso si può dire di un’espressione generica come over 14 o under 16: solo specificando entrambe le formule il lettore ne ricaverebbe l’età precisa, ma per economia linguistica scrivere un teenager over 14 ma under 16 sarebbe stato troppo lungo, dunque quel “15enne” si può considerare un italianismo di necessità e non di lusso (credo che ogni linguista serio ne converrebbe).

Analizziamo meglio l’articolo alla luce delle più moderne teorie della comunicazione.

Blitz

Qualcuno potrebbe storcere il naso davanti a una parola come blitz che nel sostituire italianismi di lusso come irruzione, non solo è più recente di raid, ma è anche meno in uso dal punto di vista statistico e in calo (vedi figura), dunque visto che come tutti sanno è l’uso che fa la norma, sarebbe meglio seguire la massa e scrivere sempre raid per non fare confusione e per evitare inutili e dannosi sinonimi. Senonché, ancora una volta, l’acume del giornalista è ineccepibile: parlare di raid e di rider crea un evidente bisticcio lessicale che è meglio evitare, anche a costo di privilegiare un doppione meno comune che in questo caso è motivato da esigenze di stile.


“Pizzo”

Il giornalista, giustamente, scrive “pizzo” tra virgolette, e non solo perché ricorrere alla lingua di Dante suona sempre più inappropriato, ma anche perché “pizzo” è una voce gergale e, soprattutto, è ambigua.
Senza quelle virgolette qualcuno avrebbe potuto pensare a un merletto, quei ricami che erano ancora in voga quando l’underwear era chiamato “intimo”, prima che si riconcettualizzasse l’intera categoria di ciò che si indossa sotto il dressing e l’outfit attraverso la terminologia più appropriata di boxer, slip, push-up, body e i nuovi capi intimi senza fronzoli. E prender “tangenti” per “mutande” potrebbe creare equivoci imbarazzanti.

Invece di “pizzo” l’autore avrebbe potuto scrivere paga una royalty o un fee, ma queste parole appartengono al diritto internazionale e non sono legate alla mafia o alla criminalità, dunque hanno un’opposta connotazione e il ricorso al gergale “pizzo” sembra preferibile (ricorrere invece a giochi di parole come “pizzo connection” sarebbe sì più aderente all’itanglese e all’anglopurismo, ma non sarebbe una locuzione stereotipata adatta allo stile giornalistico). Ecco dunque un altro italianismo di necessità.

Cessione dell’account

Un “pizzo” sul login dell’account di sicuro è un’espressione più tecnica, precisa e trasparente di “accesso all’account” (tra l’altro ac-cesso evoca i cessi, i water closet e i bagni), ma comunque è apprezzabile l’uso terminologicamente ineccepibile di account, che un tempo qualcuno avrebbe potuto designare con profilo, un italianismo decaduto anche per la sua solita polivalenza e ambiguità. Ormai è in uso solo per indicare per esempio il profilo “nasuto” di Dante, o la prospettiva dei dipinti degli antichi Egizi, e questa parola si tende a evitare anche per indicare lo skyline di una città, l’identikit di un criminale e a maggior ragione va evitato nel linguaggio informatico che deve essere univoco. Dunque “profilo” è italianismo di lusso da evitare.

Caporalato digitale

Qualche perplessità suscita invece l’espressione “caporalato digitale” e per molteplici motivi. Caporalato, come pizzo, è un italianismo gergale e dunque andrebbe meglio tra virgolette anche lui (per coerenza). In secondo luogo (= in seconda location) la parola “digitale” è ancora una volta ambivalente, fa pensare alle impronte digitali, e sarebbe più corretto parlare di digital (come in digital divide, digital art…) anche per uniformarsi alla regola dell’itanglese che si è ormai consolidata e che prevede in questi casi la caduta della “e finale” in parole come vision, mission, tutor, social, competitor

Last but not least, invece di caporalato digitale l’autore del pezzo avrebbe potuto scrivere digital caporalato, con inversione sintattica e pronuncia all’inglese; sarebbe preferibile anche perché è un’accezione nuova e indica qualcosa di nuovo rispetto al caporalato tradizionale della raccolta di pomodori. L’inglese è più adatto per descrivere ciò che è nuovo, e infatti la metà dei neologismi del nuovo Millenno è in inglese. Volendo evitare un vocabolo imbarazzante come “caporalato” forse si poteva ricorrere a un digital bossing o qualcosa del genere, ma non importa. Andiamo avanti.

Rider e food delivery

Quanto ai rider (pronuncia all’inglese) fa rider (pronuncia all’italiana) chiamarli fattorini, ciclofattorini o con altri patetici italianismi di lusso e non in uso; al massimo, se proprio si devono evitare le ripetizioni, esiste il sinonimo pony expess, anche se ormai di bassa frequenza e maggiormente legato a uno strumento di locomozione come lo scooter più che una bike, che grazie a Dio sta soppiantando l’italianismo di lusso bicicletta, come la prima parola inglese ha già fatto con motoretta, motorino e simili.
Colpisce invece lo scrivere food delivery in minuscolo invece di Food Delivery, preferibile; ma questo è un problema di interferenza dell’italiano sugli anglicismi che a volte vengono purtroppo storpiati. Lo so, può suonar blasfemo violare a questo modo la lingua sacra, ma a pensarci bene è un peccato veniale, rispetto a quanti vorrebbero parlare – pensate un po’ – della gastronomia a domicilio, che come mi ha fatto notare una volta uno “sveglio” (anzi smart) è anche concettualmente errata: e se uno si vuole far portare l’hamburger in un luogo diverso da quello che risulta essere il suo domicilio fiscale come la mettiamo? Per esempio al lavoro, a casa della fidanzata… (questo non è humour è un commento reale che mi hanno lasciato in passato). Per non parlare degli homeless che sono per definizione senza fissa dimora. L’inglese non pone di questi problemi.
Stesso discorso per “piatti a domicilio”: i rider non portano affatto i “piatti”, quelli sono a cura del committente, le pietanze sono consegnate nel loro apposito packaging, e chi dice piatti non ha idea di cosa sia il delivery e magari lo confonde pure con il take away, con il doggy bag, con il McDrive o con il catering. Quanto a italianismi di lusso come settore alimentare, ristorazione o pietanze invece di food sono un linguaggio troppo lungo (ci sarebbe cibo ma poi evoca il mangime dei cani e dei pet) e da boomer. E allora meglio le parole inglesi, che sono dei “doni” – non dimentichiamolo mai! – e dovremmo mostrare un po’ di gratitudine invece di criminalizzarle come ai tempi del fascismo! E a chi si lamenta perché non sono italiane andrebbe rammentato il proverbio: a gift horse dont’ look in the mouth!

Altre considerazioni statistiche

Alcuni puristi catastrofisti e oscurantisi, gli stessi che un tempo se la prendevano con i francesismi, da un po’ di tempo gridano al vento che l’italiano sarebbe in pericolo davanti all’inglese che stravolge il nostro modo di parlare. Ma proprio le analisi di articoli come questo dimostrano che non è affatto così, e che è tutta un’illusione ottica, un po’ come la temperatura percepita: se finisci all’ospedale in pieno agosto perché i tassi di umidità e la calura ti fanno svenire, hai preso un bel granchio! Perché se guardi il termometro magari segna solo 30 gradi e il tuo collasso non è dunque oggettivo, è un capriccio da ignorante, sei tu che ne percepisci 40 e credi di morire.

Anche per gli anglicismi avviene la stessa cosa.

Se contiamo le parole del titolo in questione sono 16 (“Rider 15enne paga ‘pizzo’ sulla cessione dell’account: blitz contro il caporalato digitale nel food delivery”), ma gli anglicismi sono solo 4 o 5 (rider, blitz, account + food e delivery che però si potrebbero contare come una sola parola, e non come due)! Avrebbero potuto essere ben di più, come a questo punto dovrebbe essere chiaro. E allora di che cosa si sta parlando? L’italiano è salvo ed è ben lontano da essere in pericolo, perché le parole come “il”, “del”, “nel”, “sul”, “contro”… resistono e continuano a essere prevalenti. Finché l’inglese riguarda il lessico non c’è alcun problema e non è il caso di fare tutto ‘sto casino per 4 o 5 parole inglesi!


Anche la firma del giornalista rimane italiana, Pierpaolo Lio, e lo stesso si può dire per la parola di apertura del pezzo che è “Milano” e non “Milan”. Dunque anche se su GoogleMaps si legge Milan, Venice, Florence… noi continuiamo a denominare i nostri luoghi nel nostro dialetto, a parte la regione Sicilia che preferisce Sicily, ma ciò è motivato dalla decisione di essere internazionali.

Certo, noi invece parliamo di New York e non di Nuova York come si diceva una volta, e mentre gli statunitensi parlano di Tuscany, Lombardy e adattano tutti i nostri toponimi noi non lo facciamo per i loro, ma ubi major minus cessat (espressione latina che si potrebbe tradurre con In front of English, Italian is dead), ed è normale in un mondo globalizzato!

Problemi di trasparenza

Un’altra delle fake che vorrei smontare riguarda la presunta poca trasparenza dell’itanglese.

Se si analizza l’articolo si vede benissimo che accanto ai titoloni cubitali è appositamente previsto, più in piccolo, un catenaccio che si rivolge proprio ai boomer e agli analfabeti e usa vocaboli come tangenti, credenziali, profili, fattorini… Dunque anche chi non è istruito perché per esempio conosce il francese, il tedesco, lo spagnolo o altri inutili dialetti del mondo (come l’italiano) riesce a farsi un’idea di che cosa diamine si parli, in attesa che tutti finalmente si convertano alla lingua dei popoli dominanti e dei nati fortunelli, che non devono apprendere altre lingue e preferiscono che sia il resto del mondo a dover imparare e utilizzare il loro idioma naturale. Del resto gli sforzi e gli investimenti dell’intera Europa che ha fatto dell’inglese la lingua obbligatoria da apprendere sin dalle elementari presto risolveranno tutto. E a mano a mano che i boomer moriranno – si spera presto – anche i catenacci giornalistici forse cesseranno finalmente di esistere e di avere un senso (o almeno di essere scritti in una lingua e in uno stile obsoleti). E chi non lo capisce non ha proprio idea di come funzioni il giornalismo, oggi come oggi.

Lo stile giornalistico e i suoi virtuosi presupposti

Parliamoci chiaro, i flussi dell’informazione internazionale ricalcano, ripetono e seguono ciò che viene battuto dalle agenzie dell’anglosfera, ed è un bene che sia così, perché se un domani dovesse scoppiare, che ne so, un conflitto con la Russia, la Cina o il mondo musulmano, mica si potrebbero riprendere le loro fonti che fanno propaganda, al contrario delle nostre che ben ci raccontano in modo neutrale e oggettivo avvenimenti come l’invasione dell’Iraq motivata da prove false, o l’aggressione della Russia all’Ucraina presentata senza raccontare tutti i precedenti che hanno portato Putin a commettere questo crimine ingiustificabile. Comunque, senza fare inutili polemiche, tornando alla lingua, è normale che se Dunald Trump si sveglia un giorno e dice “fake news” tutti i giornali il giorno dopo scrivano fake news, e non bufale, così come quando in Italia esplode il covid hai voglia a titolare che Conte ha introdotto le zone rosse, la quarantena, il coprifuoco, o ha blindato le città; se i giornali anglofoni chiamano tutto ciò l’italian lockdown anche noi dobbiamo epurare la nostra lingua, abbandonare quello che si diceva sino al 17 marzo 2020 e scrivere solo lockdown. O vogliamo ridurci come i francesi e gli spagnoli che parlano di confinamento? (parola che da noi evoca il fascismo, tra l’altro).
Del resto non è che un giornalista italiano, o di qualche altra area periferica dal peso pari a zero, possa inventare le proprie regole, ci mancherebbe solo questa! Quelle sono fissate dai canoni del giornalismo anglosassone, e al massimo i giornalisti periferici possono applicare questi canoni quando danno notizie locali irrilevanti per le fonti internazionali. Dunque le scuole coloniali di giornalismo, tra cui spicca il “Master Full Time e online per giovani” erogato da “RCS Academy”, insegnano le regole auree di quello anglosassone basato sulle famose 5 W (da pronunciare in inglese e non “doppie vu”, che fa molto provinciale), e cioè Who? (chi?), What? (cosa?), When? (quando?), Where? (dove?) e Why? (perché?).
Certo, mancherebbe un piccolo particolare: il come? Ma in inglese non comincia con “W” quindi tanto vale omettere questa insignificante quisquilia nello storytelling massmediatico, e se proprio si vuole insistere su questo benedetto “come?” la risposta è semplice: in inglese e attraverso gli anglicismi! In questo modo il cerchio si chiude, e l’anatomia del delitto linguistico è servita.

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PS
Oggi, dalle 16:30 alle 18:00, si terrà il seminario digitale “L’italiano come lingua ufficiale nella Costituzione? Proposte di politica linguistica a confronto”.

È moderato da Michele Gazzola (Ulster University) e i relatori sono:
Massimo Arcangeli (Università degli Studi di Cagliari);
Claudio Marazzini (presidente dell’Accademia della Crusca);
Lucilla Pizzoli (Università degli Studi Internazionali di Roma).

La locandina → https://www.societadilinguisticaitaliana.net/wp-content/uploads/2023/03/Locandina-seminari-digitali-27mar-def.pdf
Il collegamento Zoom → https://us02web.zoom.us/j/87068830649?pwd=QVdoLzN2NnR6REYwZFZ6U0VDQ1hWZz09

2.200 firme per una legge sull’italiano e “Rapporto sull’anglicizzazione”

di Antonio Zoppetti

Come annunciato nell’ultimo articolo, davanti alle dichiarazioni di vari politici del nuovo Governo di voler legiferare sulla lingua italiana, sembra che anche nel nostro Paese, finalmente, ci sia uno spiraglio per porre in primo piano la questione della lingua, dell’anglicizzazione e della necessità di varare una politica linguistica.

Per questi motivi è arrivato il momento di chiudere le sottoscrizioni a favore della nostra petizione di legge per l’italiano e di inoltrarle in Parlamento. Entro questa settimana le firme saranno inviate alle Commissioni Cultura di Camera e Senato, e a una rosa di deputati che si sono dimostrati sensibili alla questione, insieme a un “Rapporto sull’anglicizzazione” basato su numeri e statistiche (lo potete scaricare a questo indirizzo) e a un “Libro bianco” per una politica linguistica disponibile sul sito italofonia.info.

Nel ringraziare, di cuore, i quasi 2.200 firmatari che ci hanno appoggiato, di seguito rendo pubblica la lettera che accompagnerà l’invio di tutta la documentazione.

2.200 firme per una legge sull’italiano e “Rapporto sull’anglicizzazione”

Onorevoli Parlamentari,

spett.li Commissione Cultura di Camera e Senato,

con la presente vi inoltriamo le circa 2.200 firme di cittadini che hanno sottoscritto una petizione di legge (https://attivisti.italofonia.info/proposte/legge-vivalitaliano-2021/) presentata alla Camera e al Senato per la tutela e la promozione della lingua italiana davanti all’abuso dell’inglese (assegnata: al Senato il 24 marzo 2021, n. 795, VII Commissione permanente, Istruzione, beni culturali; alla Camera il 20 aprile 2021, n. 727, VII Commissione cultura).

Abbiamo preso atto con grande interesse che l’attuale Governo si sta mostrando sensibile ai temi della lingua italiana in modo concreto, per la prima volta, e dopo la proposta del Sen. Menia di inserire l’italiano in Costituzione, e le varie dichiarazioni pubbliche rilasciate dal Presidente del Consiglio Meloni e da altri politici di spicco (Rampelli, Lollobrigida, Mollicone…), speriamo che le nostre iniziative possano contribuire alla causa e, soprattutto, al dibattito mediatico innescato dal vostro operato.

La nuova questione della lingua, in un mondo sempre più “globalizzato”, non ha più a che fare con il “purismo”, come in passato, riguarda invece “l’ecologia linguistica” e la tutela degli ecosistemi linguistici: si trasforma nella questione “delle lingue” – declinate al plurale – schiacciate e in alcuni casi messe a rischio dall’espansione dell’inglese globale che entra in conflitto con gli idiomi locali. In gioco non c’è solo lo “tsunami anglicus”, come lo ha definito Tullio De Mauro, e cioè l’interferenza dell’angloamericano che rischia di trasformare l’italiano in itanglese, il francese in franglais, lo spagnolo in spanglish, il tedesco in Denglisch, il greco in greenglish… (ovunque, anche fuori dall’Europa, non c’è Paese che non abbia ormai coniato un termine per designare il fenomeno: dal japish per il giapponese sino al konglish per il coreano). Il problema, a parte le contaminazioni, è quello del plurilinguismo e della tutela delle lingue minori che retrocedono dinnanzi all’inglese globale e in alcuni casi rischiano l’estinzione (in Europa il caso dell’islandese è quello più preoccupante).
Siamo perciò convinti che l’Italia abbia un bisogno urgente di una politica linguistica, che in altri Paesi si è ben delineata, perché l’inglese rischia di soppiantare l’italiano nelle università e diventa per esempio il linguaggio unico della scienza, del lavoro, dei contratti aziendali, delle denominazioni urbane, delle manifestazioni culturali e artistiche, dei prodotti proposti da istituzioni come le Ferrovie dello Stato o le Poste italiane (un esempio per tutti: Alitalia trasformata in ITA Airways).

Per questo motivo ci permettiamo di allegare due documenti.

– Un Rapporto sull’anglicizzazione con dati e statistiche sull’interferenza dell’inglese realizzato da un esperto che sul tema ha pubblicato vari libri e articoli. Riteniamo che contenga elementi utili e incontrovertibili per una misurazione e valutazione di ciò che sta accadendo alla nostra lingua nel nuovo Millennio.

– Un “Libro bianco” che guarda alle politiche linguistiche e ai provvedimenti varati in Francia, Spagna e Svizzera, e illustra i grandi benefici che l’attuazione di analoghe misure potrebbero portare al nostro Paese e a tutti i cittadini, nel promuovere la nostra lingua sul piano interno, di fronte agli anglicismi sempre più numerosi, e soprattutto sul piano internazionale, visto che l’italiano gode all’estero di un’ammirazione e di una nomea che poche altre lingue possono vantare. E costituisce perciò una risorsa non solo culturale, ma anche economica, su cui investire.

Chi siamo

Come fondatori e rappresentanti della comunità degli “attivisti dell’italiano” aggregata attraverso le nostre pagine in Rete, da ormai molti anni siamo in prima linea nella denuncia della regressione della nostra lingua davanti all’inglese, con tante iniziative volte a cambiare l’assurda e deleteria mentalità per cui le parole inglesi appaiono più evocative dei corrispettivi italiani.

In particolare, tra i tanti siti dedicati all’italiano che gestiamo, con grande sforzo abbiamo dato vita al Dizionario AAA (Alternative Agli Anglicismi), disponibile gratuitamente in Rete (https://aaa.italofonia.info/), che raccoglie e classifica circa 3.800 parole inglesi affiancate dai sinonimi italiani utilizzabili e dalle spiegazioni dei significati, visto che l’inglese pone dei consistenti problemi di trasparenza soprattutto nei confronti dei cittadini meno giovani. Si tratta del più ampio lavoro del genere esistente in Italia, ed è stato concepito per colmare un vuoto che in Paesi come Francia e Spagna viene realizzato in modo istituzionale dalle accademie.


Nel 2019 abbiamo lanciato un appello al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, firmato da più di 4.000 cittadini (https://www.change.org/p/sergio-mattarella-basta-anglicismi-nel-linguaggio-istituzionale-viva-l-italiano-litalianoviva), per chiedere un intervento simbolico che sensibilizzasse la politica sull’abuso dell’inglese nel linguaggio istituzionale, ma non abbiamo mai avuto risposta.

Senza risposta sono rimaste anche le tante lettere inviate negli ultimi anni a vari politici: dal Presidente Draghi che in un paio di occasioni pubbliche aveva esternato con ironia l’assurdità del ricorso a certi termini inglesi, ad alcuni politici della scorsa legislatura che hanno però ignorato la nostra petizione di legge. Senza riscontro sono rimaste poi le nostre lettere di protesta collettive rivolte per esempio all’onorevole Franceschini che aveva deciso di denominare in inglese il portale dedicato al patrimonio culturale italiano ITSART, o all’onorevole Di Maio che ha introdotto la figura del “navigator” in modo ufficiale.

Nella speranza che questo nuovo appello sia ritenuto degno di considerazione e che il nostro punto di vista possa contribuire alla maturazione dei provvedimenti che intendete mettere in campo, esprimiamo la nostra più ferma convinzione che la tutela e la promozione della lingua italiana abbia bisogno soprattutto di una campagna mediatica volta a ribaltare l’attuale senso di inferiorità nei confronti dell’inglese.

L’inserimento dell’italiano in Costituzione – che appoggiamo e avevamo incluso nella nostra petizione di legge – ha un alto valore simbolico, ma da solo, a nostro avviso, non basta. La “battaglia” conto l’abuso degli anglicismi passa per la “connotazione”: occorre un cambio di paradigma culturale che spezzi la convinzione per cui l’inglese sia una lingua “superiore” e che gli anglicismi siano preferibili, o più moderni e internazionali, rispetto agli equivalenti italiani.

Questo capovolgimento di prospettiva si può perseguire (con costi irrisori) attraverso i canali già esistenti delle pubblicità progresso previste per sensibilizzare i cittadini sui temi sociali; attraverso campagne nelle scuole; attraverso emanazioni di linee guida, raccomandazioni e direttive per il linguaggio amministrativo e istituzionale, esattamente come è stato già fatto per esempio nel caso della femminilizzazione delle cariche o per il linguaggio non discriminatorio. In Svizzera queste direttive esistono, in nome della trasparenza e del rispetto che si deve ai cittadini italofoni, e anche in Francia e in Spagna le accademie realizzano campagne pubblicitarie in cui promuovono le proprie parole al posto degli equivalenti inglesi, sia con banche dati terminologiche ufficiali per gli addetti ai lavori sia con campagne mediatiche rivolte alla popolazione. Questi modelli hanno ottenuto discreti risultati e crediamo siano utili da studiare e da seguire.

Ringraziandovi per l’attenzione e per l’interesse mostrato per la lingua di Dante, patrimonio storico e culturale di tutti gli italiani di ogni schieramento politico, vi auguriamo buon lavoro e, a nome di tutti i firmatari, vi porgiamo i nostri più cordiali saluti.

Antonio Zoppetti (primo firmatario della petizione di legge)
Giorgio Cantoni (fondatore del portale Italofonia.info)

Colonialismo linguistico, collaborazionisti e colonizzati: handle, reverse shopping e underdog

[di Antonio Zoppetti]

Davanti allo tsunami anglicus che travolge la lingua italiana ricorre sempre la stessa domanda. Perché?
Perché continuiamo ad accumulare parole ed espressioni in inglese e stiamo abbandonando l’italiano?
Perché gli anglicismi sono preferiti, evocano qualcosa di più dei corrispondenti italiani e sono diventati un tratto socio-distintivo con cui chi appartiene agli strati sociali alti si eleva e si identifica?

Il fenomeno non trova una spiegazione nell’ambito della linguistica, ma in quello sociale. Per comprenderlo basta analizzare tre anglicismi che sono spuntati nelle ultime settimane: handle, reverse shopping e underodog.

Gli handle e il colonialismo linguistico

Il primo esempio risale alla settimana scorsa, quando Youtube ha inondato le caselle postali di tutti con un messaggio il cui oggetto recita: “Ti presentiamo gli handle di YouTube”.
Che cosa cavolo sono gli handle? Qual è la novità?

La tecnica di questa comunicazione è volutamente cialtrona, e punta non alla chiarezza, ma a diffondere la terminologia in inglese senza definirla – la definizione rivelerebbe il trucco e il nulla – in modo che il destinatario si faccia da solo l’idea di che cosa possa essere questa nuova parola, in modo intuitivo. Così arriva a comprendere in modo confuso un concetto, ma non ha la parola per definirlo se non nell’inglese imposto dall’alto. A dare il nome delle cose non sono più i nativi italiani, ma le multinazionali d’oltreoceano.

La tecnica si basa sugli stessi schemi comunicativi che prevedono la ripetizione ossessiva della parola handle come fosse un nome proprio necessario e insostituibile associato a una serie di frasi esperienziali fumose di cui non si deve spiegare il significato. Ecco il testo con cui Youtube si rivolge ai colonizzati:

“Ti scriviamo per comunicarti che nelle prossime settimane YouTube introdurrà gli handle, per permettere ai membri della community di trovare altri utenti ed entrare in contatto con loro più facilmente. Il tuo handle è univoco per il tuo canale e viene utilizzato per menzionarti nei commenti, nei post della scheda Community e non solo. Ecco ciò che devi sapere: Nel corso delle prossime settimane, implementeremo gradualmente la possibilità di scegliere un handle per tutti i canali. Riceverai un’altra email e una notifica in YouTube Studio quando potrai scegliere il tuo. Nella maggior parte dei casi, se hai già un URL personalizzato per il tuo canale, te lo assegneremo come handle. Se desideri un handle diverso da quello assegnato, potrai cambiarlo. Se al momento non hai un URL personalizzato, potrai comunque scegliere un handle per il tuo canale. A partire dal 14 novembre 2022, se non avrai ancora selezionato un handle per il tuo canale, YouTube te ne assegnerà automaticamente uno. Potrai cambiare l’handle assegnato in YouTube Studio, se lo desideri. Nel frattempo, scopri di più sugli handle e sul loro utilizzo: Cos’è un handle di YouTube? Un handle di YouTube è un nuovo modo con cui gli spettatori possono trovare il tuo canale e interagire con te. A differenza dei nomi dei canali, gli handle sono unici per ogni creator, così sarà più facile stabilire una presenza distinta su YouTube. Handle e URL del canale. Il tuo nuovo handle sarà incluso nell’URL del canale. Nella maggior parte dei casi, l’URL personalizzato diventerà il tuo handle. Puoi utilizzare il tuo handle per indirizzare gli utenti al tuo canale, anche quando non sono su YouTube. Ad esempio, se il tuo handle è @user123, l’URL del tuo canale sarà youtube.com/@user123.”

La parola handle è ripetuta 17 volte per educare al suo utilizzo, e solo alla fine si capisce che non si tratta altro che di un nome, solo che invece di spiegarlo e definirlo si rigira la frittata per fare passare un concetto semplicissimo con un “un nuovo modo con cui gli spettatori possono trovare il tuo canale”.

In inglese handle vuol dire tante cose, non è un tecnicismo specifico o intraducibile come Youtube vuole farci credere, è una parola generica che significa maniglia, e può essere usata in molti contesti per esempio con il significato più generico di appiglio, mentre nel linguaggio della rete si riferisce a un nome che è contemporaneamente un identificativo (in itanglese un user name) e un indirizzo (URL).

In questo tipo di comunicazioni di stampo colonialista in gioco c’è “il nome della cosa” per cui le multinazionali statunitensi si battono. Esportare la loro lingua insieme ai loro prodotti è un tutt’uno funzionale ai loro interessi. E così se un tempo c’era il Monopoli ora c’è il Monopoly, l’Uomo ragno è diventato Spiderman e Guerre stellari Star Wars, ma dietro la strategia dei marchi registrati che non devono essere tradotti nelle lingue locali – è lo stesso disegno per cui i titoli dei film hollywoodiani si esportano nella lingua originale – c’è la prosecuzione delle logiche coloniali che ormai saltano la fase degli eserciti e delle conquiste militari per muoversi direttamente alla conquista culturale. È la strategia che Winston Churchill spiegava in modo lucido nel 1943: “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente” (Discorso agli studenti di Harvard, 6 settembre).
La strategia che importanti funzionari del governo statunitense esplicitano di voler perseguire senza troppi giri di parole:

“L’obiettivo centrale della politica estera nell’era dell’informazione deve essere, per gli Stati Uniti, il successo dei flussi dell’informazione mondiale, esercitando il suo dominio sulle onde come la Gran Bretagna, in altri tempi, lo ha esercitato sui mari. (…) Ne va dell’interesse economico e politico degli Stati Uniti vegliare affinché sia l’inglese a essere adottato quale lingua comune del mondo; affinché siano le norme americane a imporsi nel caso si dovessero emanare norme comuni in materia di telecomunicazioni, di sicurezza e di qualità; affinché, se le varie parti del mondo sono collegate fra loro attraverso la televisione, la radio e la musica, i programmi trasmessi siano americani: e affinché, a essere scelti come valori comuni, ci siano valori in in cui gli Americani si riconoscono.” (David Rothkop, ex funzionario dell’amministrazione Clinton, in “In Praise of Cultural Imperialism?” in Foreign Policy, n. 107, estate 1997).

Naturalmente la possibilità di colonizzare linguisticamente un Paese dipende anche dal suo grado di resistenza. L’Italia è una sorta di colonia culturale – ma a sua volta anche politica, dalle basi Nato e la politica estera dettata dagli Usa alle ingerenze storiche nella politica interna – che si controlla come si vuole. Ma in Paesi dalla ben diversa autonomia come la Francia o la Spagna, dove esiste una cultura terminologica che non accetta queste imposizioni, Youtube si rivolge con le parole autoctone, e la stessa comunicazione non introduce gli handle, bensì rispettivamente gli identificatori (Présentation des identifiants) e i nomi utente (Resumen de los nombres de usuario). È lo stesso fenomeno per cui Airbnb offre agli italiani di diventare hoste non locatori, mentre ai francesi o agli spagnoli il programma si rivolge con le parole hôte e anfitrión e di esempi del genere se ne possono fare centinaia. In questo modo l’italiano si creolizza attraverso una lingua fatta di creator e non di creatori, di community e non di comunità e via dicendo.
Che fine fa il concetto di “prestito” utilizzato dai linguisti, in questi casi? Nessun “prestito”: non siamo noi a prendere in prestito una parola (che non ci manca affatto), è una multinazionale statunitense a imporcela, e noi servi e succubi, invece di ribellarci la accettiamo e ne andiamo fieri. Questo clima culturale tipicamente italiano in cui le multinazionali sguazzano e fanno quel che vogliono, ammaestrandoci con la loro terminologia, si basa su una rete di collaborazionisti (per riprendere le parole di Michel Serres) e di colonizzati, come si può comprendere attraverso i prossimi esempi.

Il reverse shopping e i collaborazionisti dell’inglese

Qualche giorno fa è apparsa una notizia curiosa ripresa da tutti i giornali con le stesse parole: in Belgio Decathlon ha capovolto la sua insegna per dare vita a un esperimento di permuta – come si potrebbe dire in italiano – che prevede che i clienti possano vendere al colosso francese gli indumenti usati. E come titolano i giornali? Con la geniale rivoluzione del “reverse shopping” spacciato come una novità (esattamente come gli handle) per il semplice fatto di usare un nome in inglese. Ma se si va sulla pagina di Decathlon nella versione belga-francese l’espressione “reverse shoppping” non esiste, lo stesso concetto è espresso in francese, e al massimo si può trovare l’espressione secondaria (e non la nuova categoria da sbattere nei titoloni dei giornali) di shopping à l’envers, in altri casi anche detta shopping eneversé. Visto che shopping in francese è radicato e in uso dalla metà dell’Ottocento l’anglicismo è usato ma affiancato da un’espressione in francese (lo shopping al contrario) e non con un “prestito sintattico” totalmente in inglese con inversione della naturale collocazione delle parole. Anche sui giornali spagnoli la notizia è data in spagnolo, e invece di reverse shopping si parla di strategie per dare nuova vita all’usato, di capi di seconda mano e di riciclo ecosostenibile.


Dunque sono solo i giornali italiani che ricorrono all’inglese per esprimere un concetto nato in Belgio con un’altra espressione, che però viene riportata immotivatamente in inglese, attraverso una pessima informazione che fa credere che il reverse shopping sia un internazionalismo e che si chiami ovunque così.
Dov’è il prestito? Ancora una volta non c’è. Il prestito è preso dall’inglese e sovrapposto a un’espressione francese diversa, e a un abbandono dell’italiano sistematico. È lo stesso meccanismo per cui Ursula von der Leyen parla di covid certifacate e i giornali italiani traducono con “green pass, perché ancora una volta gli esempi degli anglicismi e pseudoanglcismi diffusi dai collaborazionisti dell’inglese sono sterminati.
Il colonialismo – anche quello linguistico – ha infatti bisogno dei collaborazionisti interni che agevolano il disegno di esportazione. La storia del colonialismo segue sempre gli stessi schemi: conquistare i centri nevralgici come le università, i giornali, gli strati sociali alti, le città, per poi procedere all’espansione anche nelle fasce sociali più basse e nelle campagne.
I collaborazionisti sono coloro che diffondono la lingua dei conquistatori dall’interno, sono gli zelanti portatori della nuova cultura che giustificano e utilizzano, fanno a gara a chi usa più anglicismi, si vergognano dell’italiano che spesso ignorano e riscrivono attraverso la lingua e i concetti d’oltreoceano. In questo modo si arriva alla terza fase. La creazione di uno strato sociale di colonizzati sempre più ampio che perde la capacità di pensare in italiano e comincia non solo ad accettare la lingua dei colonizzatori, ma a preferirla.

Gli underdog e i colonizzati

Hanno fatto clamore le dichiarazioni del nuovo presidente del consiglio Giorgia Meloni (uso il maschile generico come piace a lei) che nel parlare alle Camere si è definita un’underdog (uso l’articolo al femminile).
Più precisamente le sue parole sono state: “Sono quello che gli inglesi definirebbero un’underdog” a cui è seguita una risatina e una imbarazzante spiegazione del nuovissimo concetto per il popolino: quello che in italiano si potrebbe definire “sfavorito”.


Cosa spinge un presidente del consiglio – firmataria di una legge per la tutela dell’italiano davanti all’abuso dell’inglese e per inserire in Costituzione che l’italiano è la nostra lingua – a pensare in inglese e poi a dover spiegare che underdog vuol dire sfavorito? Se invece di ricorrere a “quello che gli inglesi chiamerebbero” avesse usato l’espressione che utilizzano i francesi, gli spagnoli o i turchi… forse l’assurdità sarebbe più evidente. Ma dietro questo lapsus linguistico che esprime le cose in inglese invece che in italiano c’è tutta la mentalità dei colonizzati, che invece di pensare in italiano lo abbandonano e pensano nella lingua superiore. Quello che fino a poco tempo fa si sarebbe chiamato un outsider oggi è underdog ripreso dai collaborazionisti (i giornali), ma ad accomunare le due diverse scelte linguistiche c’è solo l’abbandono dell’italiano in favore dell’inglese.
Questo è l’atteggiamento dei colonizzati, che è il risultato della lingua dei collaborazionisti che a loro volta remano per agevolare il nuovo colonialismo linguistico e culturale della globalizzazione e dell’era di Internet. Ognuno fa la sua parte nell’anglicizzare la nostra lingua, e il cerchio si chiude.

PS

Intanto, mentre in Italia i collaborazionisti e i colonizzati diffondono l’inglese, nelle ex colonnie britanniche hanno capito il problema, stando a un articolo uscito su Internazionale di questa settiamana (un grazie a Elisabetta che me l’ha rigirato).

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

La “S” di governance (Grammatichetta di itanglese)

(C) Antonio Zoppetti 2022, tutti i diritti riservati

Una recente consulenza della Crusca spiega che governance è una parola “di origine straniera ma è ormai divenuta italiana”, quindi non presenta problemi, mentre l’adattamento governanza dà “l’impressione di un termine antiquato, più adatto a un romanzo cavalleresco che a un consiglio di amministrazione o al testo di un decreto”. Del resto, nota l’autore del pezzo a proposito delle parole inglesi ormai italiane, “è difficile sostenere che titoli di leggi non possano contenere” parole come computer.

Questo giudizio si basa un approccio descrittivo e quantitativo, e anche il Devoto Oli – che nell’edizione del 1995 marcava computer, mouse e un altro centinaio di simili voci di alta frequenza come parole inglesi – nelle nuove edizioni ha tolto la marca di anglicismo, e la loro origine inglese è stata spostata nello spazio dedicato all’etimologia, come fossero parole italiane di origine inglese. Il nuovo approccio descrittivo va tanto di moda e guida i linguisti di ultima generazione che hanno smarrito un punto di partenza fondamentale, quello dell’identità linguistica: il sistema orto-fonologico che caratterizza l’italiano, e cioè il modo di scriverlo e di pronunciarlo.
C’è infatti una bella differenza tra l’italianizzazione di una parola e il trapianto di una voce non adattata. Quest’ultima rappresenta il più delle volte un “corpo estraneo” che non si amalgama con il tessuto linguistico, per dirla con Castellani. Sottolineare questa differenza non è un atteggiamento da puristi, visto che è un “paletto” dato per scontato da tutti i più aperturisti teorici dell’accoglimento delle parole straniere: Machiavelli, Muratori, Cesarotti, Leopardi, persino Alessandro Verri, autore della celebre Rinunzia al vocabolario della Crusca. Nessuno di loro ignorava questa fondamentale distinzione.

Accantonare la questione dell’identità linguistica e proclamare italiane le parole inglesi che la violano porta alla legittimazione dell’itanglese, in un atteggiamento solo descrittivo che non tiene conto della norma e dei giudizi qualitativi. Se si adotta questo criterio, bisogna però andare fino in fondo. In gioco c’è la definizione di che cosa sia l’italiano: se computer e governance sono parole italiane, per coerenza si riscrivano anche le grammatiche!

La “S” di governance

Le grammatiche tradizionali distinguono due suoni per la “S”, quello sordo di parole come sasso, e quello sonoro di sbaglio, chiamato così perché nell’emettere il suono facciamo vibrare le corde vocali. Ma passando dai fonemi ai grafemi sono rimaste a un sistema di trascrizione dei suoni inadeguato al nuovo “italiano” sancito dai nuovi linguisti.

Se governance è parola italiana, prendiamo atto che il suono “S” si può trascrivere anche con il grafema CE. È lo stesso suono che si ritrova all’interno di parole ormai “italiane” come city, suspance (forma inesistente al posto di suspense), compliance, concept, iceberg, influecer, intelligence, dance e lapdance, residence, service

Ma allora la S si può anche scrivere Z, come nel caso del citizien journalism. Altri esempi: magazine, apetizer, friendzone e friendzonare… diversi dalla Z di zapping, zip, zoom o zombie… pronunciata come in italiano.

Anche il suono SCE, che una volta si scriveva così e con le eccezioni come coscienza, scienza e derivati (fantascienza, pseudoscienza…), oggi va rivisto, nelle sue formulazioni.

Se si abbandona l’identità linguistica e si passa all’analisi esclusivamente descrittiva e quantitativa delle parole inglesi accolte nell’italiano, allora prendiamo atto che il suono è espresso anche con SH, e altre volte con i grafemi CHE, TION e SION.

Vediamo la situation con degli esempi di altissima frequenza: show, shock, flash, shampoo, trash, hashtag, leadership, marshmallow, milk-shake, shaker, shopper, shop, shopping, pusher, push up, refresh, slash… L’elenco è sterminato, non si tratta di qualche esempio one shot!

Altre volte il suono SC si può rendere in itanglese con CHE, come nel caso della cache, la memoria che ogni tanto è bene svuotare facendo il cleaning al computer, quella che mostra Google nelle copie cache dei documenti che archivia. Da non confondere con il cash, quello che un tempo si diceva anche contante e che nel nuovo “italiano” ha prodotto il cashback.


Un altro modo per trascrivere SC è quello contenuto nelle parole in -TION, come la svalutation di Celentano, e nei suoni in escion che ci piacciono tanto e vanno ormai di gran moda: location, nomination, compilation, deregulation, corporation, education… e in questa escalation ci sono suoni rafforzati dall’apposizione della C come ele-c-tion day, collection… Passando dalla E alle altre vocali tematiche ci sono la fiction, gli optional e tante altre belle parole. Tra queste bisogna ricordare almeno le extension, e anche la vision, dove al suono SC si aggiunge una sfumatura che tende verso SG, un meraviglioso suono che ci mancava e che dimostra una cosa molto semplice: gli anglicismi sono da intendersi come un arricchimento della nostra vecchia lingua, sono qualcosa che si aggiunge come un dono!

Ma cominciare con le S e Z sorde e sonore e con queste considerazioni disordinate non si conviene a una grammatica che si rispetti, forse è meglio fare un rewind per un restart più poderato, magari partendo dalle vocali, dove il concept del dono si ricava forse meglio.

Ispirato dalla prima grammatichetta descrittiva della lingua toscana che compose nel Quattrocento Leon Battista Alberti, nel mio piccolo, sto provando anch’io a stendere le linee guida di una prima Grammatichetta dell’itanglese, con le regole che chi proclama italiane le parole inglesi dovrebbe aggiungere alle grammatiche tradizionali.

Chi è curioso può leggere di seguito la prima bozza ancora incompleta e un po’ rozza.

Buone vacanze a tutti.

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GRAMMATICHETTA DI ITANGLESE


PARTE I: la fonologia

§ Come si legge il grafema A

In italiano A = A
In itanglese A = A, ma anche E, O, EI


A si legge A in parole come abaco, spam, hardware
• A si legge E in parole come back, badge, band, baseball, brandy, candid camera, cracker, dandy, lady, stand, range, flashback, gangster, glamour, happy hour

In parole come airbag (pron. àir-bèg) la e è aperta, ma in altre come baby, si legge chiusa (béby).
Esempio per comprendere la differenza di pronuncia della E:
“In men (pron. chiusa mén) che non si dica arriva superman (pron. aperta mèn)”.

• A si legge O in parole come call, hall

• A si legge EI in parole come case quando non è il plurale dell’italiano casa.
Es. case history, case sensitive, case study… e anche nello pseudoanglicismo beauty case.

CONSIGLIO DI STILE: anche se l’italiano database si può leggere come si scrive, il consiglio per gli amanti dell’itanglese è di sfoggiare una dizione più inglese (pron. databèis).

Altri esempi di alta frequenza di parole ormai italiane: container, fake, frame, game, hit parade, nickname, pacemaker, cake designer, home page

ATTENZIONE: le parole in AY si leggono EI (es. gay, day, display, layout…) tranne nel caso di spray, che in itanglese è un’eccezione: si pronuncia sprài.

§ Come si legge il grafema E

In italiano E = E aperta o chiusa
In itanglese E = E aperta o chiusa, ma anche I o muta


E si legge E in parole come elefante, election day, best seller, top ten, export, executive
• E si legge I in parole come email e i derivati di electronic abbreviato (ebook, e-reader…), ma spesso la pronuncia in itanglese oscilla e viene detta E soprattutto nel caso di e-commerce. Invece è obbligatorio pronunciarla I in altri casi, es.: Peter (pron. pìter) Parker è Spiderman (un tempo era l’Uomo Ragno).
• E non si legge (è muta) a fine parola in casi come bike, slide, home e home page… e all’interno delle parole quando è seguita da “i”, es.: piercing, brief.

§ Come si legge il grafema I

In italiano I = I
In itanglese I = I, ma anche AI, EA

I si legge I in parole come: imbuto, identikit, import, impeachment, imprinting, all inclusive, indoor

La “i” è però infida (pronuncia italiano: infìda) perché altre volte si pronuncia all’inglese, es.: industrial design → nella prima parola le i sono i, nella seconda sono ai.

I si legge AI in parole ed espressioni di alta frequenza come I love New York, ma anche iceberg, bastardo insight, firewall


Le file e le pile in italiano sono il plurale di fila e pila, ma nella transizione dall’italiano all’itanglese il pile e il file, parole a tutti gli effetti italiane vista la loro frequenza e datazione, si pronunciano invece fàile e pàile.

Pile è uno pseudoanglicismo che in inglese non si usa: questa è la prova che l’itanglese è una lingua autonoma e nuova, è l’evoluzione dell’italiano che si modernizza, ed è tutto normale perché le lingue si evolvono da sempre, come aveva capito Lapalisse (pronuncia in itanglese: lapalàis)!


PRIVACY: Anche se gli inglesi dicono “prìvasi”, il consiglio è di dire “pràivasi” come fanno gli statunitensi. In caso di difformità di pronuncia è sempre bene fare come gli americani, per citare i pionieri dell’itanglese Nando Mericoni e Renato Carosone. Dunque meglio scrivere humor invece di humour all’inglese!

I si legge con un suono simile a EA in parole come birdwatching.

Anche la Y talvolta si legge AI e cyber non si sa bene sempre se dirlo all’italiana o all’inglese; per non sbagliare il consiglio per gli anglomani è di dirlo sempre sàiberg anche nei composti! Es.: cybersicurezza, cybercriminale, cybersex

§ Come si legge il grafema O

In italiano O = O aperta o chiusa
In itanglese O = O aperta o chiusa, ma anche U

O si legge O in parole come obbligo, offshore, on demande, over 60, computer, top model, social

La O – come la E – in italiano ha due pronunce per cui le domande da pórci (pronuncia chiusa, da “porgere”) non sono come le domande da pòrci (cioè da maiali). Ma forse è tutto più chiaro facendo esempi in itanglese: la O chiusa è quella di QR code o pole position mentre usiamo la pronuncia aperta quando diciamo I love you ascoltando un podcast.

• O si legge U in parole come movie, back to school, peer to peer

§ Come si legge il grafema U

In italiano U = U
In itanglese U = U ma anche A, I, IU

• U si legge U (es.) in parole di alta frequenza come uva, usability, utility, username, pullman, o ancora in enunciazioni mistilingue come “a poker ho fatto un full” o “sono fuori dal tunnel”.


ATTENZIONE: tunnel in itanglese è un’ECCEZIONE che si legge come si scrive, al contrario dell’inglese in cui si pronuncia pressapoco “tànel”. Anche bus a volte è detto all’italiana (soprattutto nei composti come autobus) e a volte con sfoggio della A di America.

U si legge A in parole di alta frequenza come brunch, club, budget, cult, cutter, customer care, customizzare, just in time, under 21, upgradare, uploadare, check-up, pub, pulp, runner, running, rush finale, top gun…

Puzzle una volta si diceva all’italiana, ma così aveva un “brutto suono”, per citare Paolo Monelli, che ricorda cose poco profumate: adesso finalmente tutti dicono pàsol!

ATTENZIONE: altre volte la U in itanglese si legge più simile alla E come nel caso di bluff.

• La U si legge I nel caso di business e dei suoi derivati (businessman, business plan, business class…).

• La U si legge IU, e si comporta da dittongo, nel caso di computer e computerizzare, humour, community, consumer, duty free shop


PARTE II: l’ortografia

§ Come si scrive il suono A

In italiano A = A
In itanglese A = A, U


• Il suono A si scrive con la lettera A in parole come amore, acquascooter, scanner, tag, pancake (a volte è una pronuncia diversa rispetto a quella degli anglofoni).
• Il suono A si scrive con la lettera U in parole ed espressioni di alta frequenza come fuck you, bundle, customer care, customizzare

§ Come si scrive il suono E

In italiano E = E
In itanglese E = E, ma anche A


Il suono E si scrive E in parole di alta frequenza come energia, escort, emoticon, endorsement, editor… e nel plurale men (es. “Ho visto il film Men in black, un vero cult!”). Ma al singolare, man, il suono E si scrive con la A, come nei casi badge, happening, hater, home banking, make up, plaid, tasto play, player, playback, play boy, playlist, snack, takeway

§ Come si scrive il suono I

In italiano I = I
In itanglese I = I, ma anche E, EA, EE, IE, Y


In italiano c’è una sola i al contrario dell’inglese, dunque in itanglese la pronuncia di bitch (= puttana, es. “Son of a bitch!”) e di beach (= spiaggia, es. beach volley) sono identiche.
Ma andiamo con ordine.

Il suono I si scrive I in parole di alta frequenza come istrice, sprint, infopoint, influencer, instant book, internet, interpol, intelligence, salvaslip e i composti di slip (pseudoanglicismo da non confondere con to sleep = dormire, es.: “Chi sleep non piglia fish”)…
Il suono I si scrive EA in parole come appeal, easy, leader, leasing, reading, release, sneaker, speaker, team, striptease, streaming


ATTENZIONE: spread è un’eccezione! Non dite MAI “sprid”, si pronuncia sprèd!

• Il suono I si scrive EE in parole come street (street art, street food, Wall street…), green, agreement, engineering, free, freezer, meeting, weekend, pedegree, screening, screenshot, screensaver, roastbeeff, teenager
• Il suono I si scrive E in parole come e-book, top secret, Peter Pan, ground zero
• Poiché la E finale è muta, il suono I si scrive IE in parole come movie (action movie, B movie…), barbie o hippie, che si può scrivere anche con la Y (hippy).

Talvolta, infatti, I si scrive con la Y per esempio in canyon, e in tutte le parole che terminano in Y come boy scout, gallery, curvy, history, papy, mamy, baby, happy, copy, austerity, authority, whisky

Ci sarebbe anche la J che un tempo da noi si chiamava i lunga, ma adesso non è più vocale e si pronuncia gèi.
In attesa di poter dire leggittimamente: “Sono andato a Gesolo con Giacopo e Giolanda che tifano Giuventus”, per ora ci si può limitare all’ostentazione di giunior al posto di junior.

ATTENZIONE: TROJAN è un’eccezione e in itanglese si sente dire con la i, solitamente.

§ Come si scrive il suono O

In italiano O = O
In itanglese O = O, ma anche OA, A, AU

Oltre che con la O, come in italiano (es. self control), in itanglese il suono O si può rendere anche con la A (call center, small, talkshow…), oppure con la OA di toast. Es.: roastbeef, broadcast, download, coach e coaching, board editoriale, skateboard


ATTENZIONE: c’è anche la possibilità di usare AU come nel caso di audience (pron. odiens) che però è considerata un’eccezione: infatti automotive, austerity, authority… si leggono AU come in italiano.

§ Come si scrive il suono U

In italiano U = U
In itanglese U = U, ma anche O, OO


• U si scrive U in parole come ufo, utility, usability
• U si scrive O in espressione come Basilicata coast to coast, movie
• U si scrive OO in very good, bazooka, zoom, book, boom, room food, look, motoscooter


ATTENZIONE: davanti a due OO bisogna stare attenti alle eccezioni perché mica sempre si dice U, a volte si dice A, per es.: “Barman, mi porti un cocktail, please! Vorrei un bloody mary!”
Anche la trasmissione di Bruno Vespa Porta a porta in inglese sarebbe Door to door (dove le doppie O si leggono O e la O di to si legge U), e lo stesso vale per le coltivazioni di marijuana o le gare ciclistiche indoor e outdoor.


ECCEZIONE: in itanglese anche shampoo si pronuncia con la O finale, e non con la U come in inglese!

§ Dittonghi, iati e oltre

In italiano AU = AU
in itanglese AU = OU
ma anche OW

In italiano ci sono i dittonghi, quando due vocali sono pronunciate con una sola emissione di fiato come fossero un tutt’uno (es. piede), e gli iati (es. po-eta), ma l’itanglese ci porta ben oltre.

Il suono AU di causa e di mouse si può rendere con OU o OW.
Es.: account, bounty killer, out, compound, house, happy hour, fare outing, outfit, outsider, outsourcing, scout e scouting
Oppure: clown, down, download, browser, brownies, countdown

Un tempo la W era da noi pronunciata come V in parole come Wagner o W l’Italia. Ma nel passaggio da Walter e Uolter, ormai l’interferenza dell’inglese l’ha trasformata in vocale, es.: weekend, new, new entry, news, newsletter, password, network, software, hardware, spending review, workstation, web community, webcam

ATTENZIONE ALL’ARTICOLO!
Il suono UO di uomo in italiano richiede l’articolo LO (es. l’uovo), ma in itanglese il sono UO di work richiede l’articolo IL, dunque si dice il walkie talkie, il work in progress, come davanti alla lettera V di vip e di viral marketing. Lo stesso vale per il wiskhy e il water (che si pronuncia uoter nell’espressione water polo).

Anche il dittongo IU di chiuso in itanglese si può scrivere in altre modalità, es. lo IU di beauty o di computer.


§ Altri suoni in consonante

Chi si ricorda la favola della C dura (velare) che si pronuncia dolce (ma vale anche per la G) davanti alle vocali E e I? E la regola che per renderle dure si rafforzano con l’H come in chiave o pieghe?

In itanglese non è affatto così e può avvenire tutto il contrario: basta un’H per addolcire i suoni come in chat, cheap e chip, check in e checkout, coach, coaching

L’H si usa anche in tante altre parole come thriller, formaggio light, pet therapy, bluetooth… e a inizio parola, oltre ai casi del verbo avere (ho, hai, ha) ricorre in hard disk, hacker, happening, hot spot, help desk, hipster

In itanglese il suono C duro si può rendere anche con la K (killer, work in progress, basket, pink, punk, milkshake, film maker, book, look, parking…), che talvolta si può marcare con il CK (backup, click) e talvolta con la doppia K (trekking).

Allo stesso modo la G dura di targhe o di ghiro in itanglese non ha bisogno dell’H, es.: target, caregiver
A volte per rendere la pronuncia dura ci si appoggia alla U, es.: guinness.

In italiano le parole che terminano in GE si leggono GE, es: silloge, strage… ma in itanglese la E finale in questi casi è muta, es.: vintage, bondage o extralarge

Il suono della G si può rendere anche con la I lunga: deejay, jeep, junior, jet, jingle, job, jogging, jolly jukebox, jumbo, junk food, just in time

In itanglese GLI non si legge come in italiano “gli” di fermagli e appigli, ma in modo duro come in anGLIcismo o glitterato (ma anche in italiano c’era già questa pronuncia in parole come glicine o glicemia).

Ci sarebbe poi il suono F che si rende con il PH: big pharma, graphic novel, effetto morphing, smartphone… e anche tante altre cose. Ma ho già trattato delle regole per ibridare le parole (screenare), per ricomporle con l’accostamento di radici inglesi (smart working) e italiane (baby-delinquente, libro-game). Così come ho già detto delle regole formative (blogger invece di bloggatore, no vax invece di antivaccinista, covid hospital invece di ospedale covid) o dei “prestiti” sintattici che stravolgono l’ordine delle nostre parole (social media marketing).

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

La traduzione: lezioni di accoglienza nel trattamento dei forestierismi

Di Antonio Zoppetti

Davanti alle parole straniere che non hanno un traducente naturale e che non sono ancora entrate nei nostri vocabolari (e forse non ci entreranno mai), come si deve comportare un traduttore per compiere le proprie scelte consapevoli? Meglio accogliere lo “straniero” o difendere la “purezza” dell’italiano?

Questo è l’interrogativo che pone Ilide Carmignani, una delle più rinomate traduttrici italiane, celebre soprattutto per le sue traduzioni delle opere di Luis Sepúlveda. Il tema sarà affrontato in un incontro al salone del libro di Torino (16 ottobre 2021, Sala Ciano, Padiglione 3, ore 12.45) intitolato “La traduzione: lezioni di accoglienza. Il trattamento dei forestierismi” che vede la partecipazione dei responsabili editoriali del Devoto Oli e dello Zingarelli, rispettivamente Biancamaria Gismondi e Mario Cannella, e anche la mia.

La questione della “purezza della lingua” e dell’accoglienza dello “straniero” evoca pericolosamente, e in modo provocatorio, una serie di archetipi su cui è bene fare molta chiarezza.

L’accoglienza del diverso e l’imposizione delle lingue dominanti

Prima di tutto è bene precisare che non ha senso fare alcuna analogia tra l’accoglimento delle parole straniere e l’accoglimento degli immigrati. Più volte alcuni giornalisti hanno accostato, a sproposito, la massima “sovranista” – come è di moda dire oggi – “prima gli italiani” con “prima l’italiano”, riferendosi alle posizioni che ho espresso in Diciamolo in italiano (Hoepli, 2017). Ma le parole non sono persone, e in una città come Milano la fitta presenza sul territorio di migliaia di cinesi, rumeni, albanesi, arabi o africani da un punto di vista linguistico non ha alcun impatto. Gli italiani non conoscono una parola di queste lingue, e l’unico terreno di scambio è quello gastronomico. I wanton fritti, il kebap o i falafel, lo zighinì degli eritrei. C’è poco altro. L’italiano è impermeabile alle lingue degli immigrati, risente invece dei modelli culturali ed economici statunitensi, che non sono presenti sul territorio a questo modo, ci arrivano in altre forme molto più potenti, dall’alto, e hanno a che fare con l’inglese come lingua internazionale, con l’espansione delle multinazionali, la globalizzazione e anche con il senso di inferiorità culturale, prima che linguistico, di una classe dirigente fatta da giornalisti, imprenditori, tecnici, scienziati… che ostentano l’inglese con orgoglio. Tutto ciò ci porta a ricorrere agli anglicismi anche quando avremmo le nostre parole, che però non hanno il medesimo prestigio. Gli anglicismi, al contrario degli altri forestierismi, non hanno a che fare con l’accettazione delle culture deboli, minoritarie o discriminate, sono il risultato, spesso prepotente, dell’imposizione di una cultura dominante che ci sovrasta.

Dalla purezza della lingua all’ecologia linguistica

Anche la “purezza della lingua” e la “difesa dell’italiano” sono categorie che andrebbero ridefinite, nel nuovo Millennio, perché non hanno nulla a che vedere né con il vecchio concetto di “purismo” né con le prese di posizione legate alla guerra ai barbarismi di epoca fascista.
Nessuna lingua è pura, non c’è nulla di male né di strano nell’accattare parole altrui, come scriveva già Machiavelli nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua. Il punto oggi è un altro e ha a che fare con il tema dell’ecologia linguistica. È una questione di numeri e di modalità.

La prima edizione elettronica del Devoto Oli del 1990, di cui ho curato il riversamento digitale, conteneva circa 1.600 anglicismi, ma oggi sono diventati 4.000. La prima edizione dello Zingarelli digitale del 1995 (un prototipo fuori commercio) ne annoverava circa 1.800, mentre oggi sono 3.000.

Negli ultimi 30 anni, in sintesi, l’interferenza dell’inglese è cresciuta a dismisura e in modo incontrollabile, e gli anglicismi “hanno scalzato il tradizionale primato dei francesismi e continuano a crescere con intensità, insediandosi (…) anche nel vocabolario fondamentale”, come ha scritto Tullio De Mauro (Storia linguistica dell’Italia repubblicana: dal 1946 ai nostri giorni, Laterza, Bari-Roma 2016, p. 136). Questa esplosione di parole inglesi è soprattutto cruda, e cioè senza adattamenti. Mentre l’influsso plurisecolare del francese ci ha arricchiti con migliaia di parole che sono state italianizzate, e i francesismi crudi sono oggi meno di un migliaio, l’inglese non si adatta e le migliaia di anglicismi sempre più frequenti e comuni sono dunque “corpi estranei”, come aveva compreso Arrigo Castellani nel suo “Morbus anglicus”, che violano le regole della nostra scrittura e pronuncia, e dunque se il loro numero diventa eccessivo finisce con lo snaturare l’identità linguistica “del bel paese là dove ‘l sì suona”.

Oggi le parole inglesi nei dizionari superano di gran lunga la somma di tutti gli altri forestierismi messi assieme, e tra le parole nate negli anni Duemila circa la metà sono in inglese crudo, una percentuale preoccupante anche perché tra le parole italiane mancano quelle primitive, come ha osservato Luca Serianni (Il lessico, vol. 2 della collana Le parole dell’italiano, Rcs Corriere della Sera, Milano 6/1/2020, pp. 53-54) e per la maggior parte sono derivate (come africaneria), o composte (come anarco-insurrezionalista).

Su questo scenario è evidente che la questione della “purezza della lingua” e della sua tutela ha tutta un’altra valenza rispetto al passato. La nuova “questione della lingua” si trasforma nella “questione delle lingue”, di tutto il pianeta, minacciate dall’invadenza dell’inglese che le schiaccia. È lo “tsunami anglicus” che Tullio De Mauro ha denunciato esplicitamente nel 2016 rivedendo totalmente le sue posizioni nei confronti del “Morbus anglicus” che negli anni Ottanta aveva negato.

Dopo aver fatto queste premesse è evidente che l’accoglimento dei forestierismi nelle traduzioni non può essere trattato alla pari. L’accoglimento di qualche parola straniera è il benvenuto, quando è il caso e quando non esistono alternative naturali. I forestierismi possono costituire un arricchimento, in queste circostanze. Ma il ricorso agli anglicismi, al contrario, rappresenta sempre più spesso un depauperamento della nostra lingua, è diventato una coazione a ripetere più simile a una nevrosi compulsiva, per cui tutto ciò che è nuovo si esprime direttamente in inglese, senza alcuna altra strategia: non si traduce, non si adatta, non si coniano nuove parole italiane… e quel che peggio si ricorre sempre più spesso all’inglese anche in presenza di parole italiane, e queste scelte generano numerosi “prestiti sterminatori” che scalzano e fanno morire le nostre parole storiche.

Per questi motivi sarebbe auspicabile spezzare questo ricorso all’inglese sistematico e distruttivo, e fare una distinzione tra l’accoglimento dei forestierismi, che in linea di principio può essere un’apertura positiva, e quello degli anglicismi che in sempre più ambiti sta trasformando la nostra lingua in itanglese.

Purtroppo in Italia non esistono punti di riferimento a cui i traduttori possono attingere soprattutto nel caso dei tecnicismi, e le scelte traduttive sono lasciate alla loro sensibilità e discrezione. In un contesto dove l’anglomania dilaga e l’inglese è preferito, è sempre più difficile proporre soluzioni italiane. Mentre in Francia e in Spagna le accademie coniano alternative e neologie autoctone e il ricorso all’inglese è una scelta, e mentre esistono banche dati terminologiche che fissano le traduzioni e rendono il francese e lo spagnolo lingue vive che si arricchiscono, in Italia non c’è nulla del genere. Davanti alle fortissime pressioni che arrivano dall’anglosfera il liberismo linguistico che parte dal presupposto che una lingua si difende da sé, che va studiata e non protetta, si trasforma in un anarchismo linguistico dove la lingua dei Paesi dominanti finisce per avere la meglio.

Queste sono le premesse del mio intervento e del confronto che avverrà a Torino, che si articolerà in modo meno generico soprattutto attraverso l’analisi di esempi lessicali molto concreti.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

L’inglese sottrattivo

Di Antonio Zoppetti

C’è un luogo comune molto diffuso per cui ad abusare dell’inglese sarebbe soprattutto chi lo conosce poco, e proprio per questo lo ostenterebbe infilandolo nell’italiano spesso a sproposito, visti i tanti pseudoanglicismi in circolazione. “Chi conosce bene l’inglese non lo mescola con l’italiano”, si dice, e in questa convinzione c’è persino chi pensa che le contaminazioni che danno origine all’itanglese siano addirittura inversamente proporzionali al grado di conoscenza della lingua di Albione.

Questa leggenda non solo è poco sostenibile, ma contiene una visione tipicamente anglomane che sottintende che basterebbe dunque studiare bene l’inglese per “salvare” la lingua italiana, una sciocchezza funzionale al progetto di fare dell’inglese la lingua internazionale alla quale tutto il pianeta si dovrebbe inchinare.

Certo, di sicuro molti di coloro che praticano l’itanglese lo fanno senza cognizione di causa, ma decurtazioni come social e basket al posto di social network e basketball, o espressioni demenziali – dal punto di vista dell’inglese ortodosso – come smart working, no vax e no tamp, si sono ormai affermate nell’uso e sono nelle bocche di tutti, anche di chi conosce molto bene la lingua di Shakespeare che tra l’altro è ben diversa dal globalese, l’inglese maccheronico dell’Economist e della global governance, dell’austerity, del fiscal compact e dello spread, per dirla con Diego Fusaro.

Indubbiamente è vero che i professori italiani che insegnano la lingua inglese aborrono l’itanglish, e lo stesso vale per gli stessi inglesi inorriditi e infastiditi dalle nostre spurie mescolanze all’italiana. Ma ciò non significa affatto che la via per salvare l’italiano sia quella di sapere bene l’inglese, anzi! Affermazioni di questo tipo sembrano volte a non stravolgere la purezza dell’inglese britannico più che attente alla nostra lingua. La verità è che per parlare in italiano bisognerebbe semplicemente amarlo e andarne fieri e basta sentire certi corrispondenti televisivi da New York – come Federico Rampini o Giovanna Botteri, tanto per non fare nomi – per renderci conto di come proprio loro ostentino e importino le espressioni in inglese per mostrare la loro grande conoscenza degli Stati Uniti che esaltano come un modello superiore, sostanzialmente fregandosene della lingua italiana. A importare parole come lockdown o fake news sono stati proprio giornalisti come questi che virgolettano le espressioni d’oltreoceano e delle agenzie internazionali con orgoglio, invece che voler rendere le stesse cose nella nostra lingua.

Avrebbe senso sostenere che chi un tempo si riempiva la bocca di citazioni latine in realtà non lo sapesse affatto? Credo di no, il ricorso a queste espressioni è trasversale alla sua conoscenza, e riguarda il latinorum degli azzeccagarbugli o quello dei professoroni, così come la lingua maccheronica di chi storpia involontariamente le massime – una volta ho sentito persino dulcium in fundis – o si è inventato il porcellum e il mattarellum con la stessa logica del lessico delle Sturmtruppen.

Tsunami anglicus e conoscenza dell’inglese

L’anglicizzazione delle lingue locali non è un fenomeno solo italiano, anche se siamo messi molto peggio degli altri Paesi, è un evento mondiale e ovunque sono nati neologismi per dargli un nome, che in Francia è il franglais, in Spagna spanglish, in Germania Denglisch e così via fino al greenglish greco, il runglish della Russia, il konglish per il coreano, il tinglish per il thai, il japish per il giapponese… Queste contaminazioni non si possono mettere in correlazione con il grado di conoscenza della lingua inglese, tutt’altro.
Anche se circola l’idea – sempre figlia della religione del globish come lingua sovranazionale – per cui gli italiani non conoscono l’inglese (il che è presentato come un peccato mortale nella logica catechizzante che ci deve convertire tutti alla lingua madre dei popoli dominanti e alla cancellazione del plurilinguismo), va detto che siamo in linea con la media europea. Dai dati Eurobaromentro 2012 risulta che solo il 15% degli europei dichiara di padroneggiare bene l’inglese, la restante porzione di chi l’ha studiato non è in grado di comprendere i contenuti di riviste o film né di utilizzarlo per esprimere un pensiero meno superficiale di quello dell’inglese turistico. E questa conoscenza è distribuita in modo squilibrato, perché tocca punte dall’86% al 90% degli olandesi, danesi e svedesi, ma solo dal 20% al 33% di spagnoli, ungheresi, bulgari, rumeni, polacchi e italiani. Eppure, proprio in Svezia, lo swinglish è in costante crescita e uno studio dell’Università di Stoccolma ha rilevato che sempre più parlanti cominciano a formare il plurale delle parole con la “s” invece che con le forme dello svedese che ricorre a “or”, “er” e “ar”[1].

Gli anglicismi che circolano nelle lingue di mezzo mondo, al contrario degli altri forestierismi che hanno una presenza limitata, non sono più un arricchimento e un qualcosa che si aggiunge, diventano al contrario un impoverimento della lingua con un evidente effetto sottrattivo. Le parole inglesi si trasformano in stereotipi e automatismi espressivi che si impongono a scapito delle alternative locali e spesso le fanno regredire o morire, come è successo da noi con “prestiti sterminatori” come computer che ha soppiantato il calcolatore o l’elaboratore. E quando si ricorre a spread invece di scarto, a killer invece di assassino, a droplet invece di goccioline, a trend per tendenza, cluster per focolaio, hub per centro… si sta distruggendo la propria lingua più che arricchirla attraverso quelli che qualcuno ha definito dei “doni”.

Queste parole sono solo i detriti che percolano soprattutto attraverso l’inglese internazionale diffuso da giornalisti, scienziati, imprenditori, pubblicitari, scienziati… e sono da mettere in correlazione con questo fenomeno, non con un’ostentazione dell’inglese maccheronico all’Alberto Sordi che riguarda un numero di parole ben più limitato e certi personaggi pubblici dipinti come macchiette.

Se si esce dall’ambito lessicale e delle singole parole, lo stesso effetto collaterale devastante per le lingue locali riguarda proprio l’utilizzo dell’inglese nell’ambito scientifico o quello della formazione universitaria.

L’inglese come lingua dell’università o della scienza non è un processo “aggiuntivo”, una risorsa in più che si affianca alla cultura nativa, bensì un processo sottrattivo che porta alla regressione delle lingue nazionali e del lessico nativo. E il caso dell’Olanda è esemplare.

L’inglese sottrattivo

Il 90% degli olandesi conosce bene l’inglese e quasi la metà dei corsi universitari sono tenuti in inglese, ma si arriva addirittura all’85% nel caso dei master e della formazione post-universitaria. Questa politica funziona nel suo attrarre gli studenti stranieri, e il rettore dell’Università di Utrecht, Henk Kummeling, ha dichiarato: “Per competere internazionalmente ha più senso utilizzare una lingua mondiale”.L’anglicizzazione del sistema universitario olandese, insomma, nasce dal bisogno di competere e attirare studenti, ovvero da esigenze di mercato. Ma queste scelte hanno anche i loro contro, e benché la quasi totalità degli olandesi consideri l’inglese la propria seconda lingua, molti temono per la perdita dell’idioma locale. “Se usi l’inglese nell’istruzione superiore”, ha spiegato alla Bbc la professoressa di linguistica all’Università di Amsterdam Annette de Groot, “l’olandese chiaramente peggiorerà. Si tratta di usarlo o perderlo. L’olandese si deteriorerà e la vitalità della lingua scomparirà. Si chiama bilinguismo squilibrato. Aggiungi un po’ di inglese e perdi un po’ di olandese”. A confermare questi timori non ci sono solo i difensori del plurilinguismo o i critici del globish, persino gli anglomani più accesi sono costretti ad ammettere questi effetti collaterali, e un autore come Gaston Dorren, entusiasta sostenitore dell’inglese globale, nel rilevare che questo processo non porta all’estinzione delle lingue locali che continuano a essere parlate con orgoglio nella vita quotidiana, ha dovuto per ammettere: “Anche l’olandese per esempio, che ha 25 milioni di parlanti, sta perdendo il dominio scientifico e del business, perché la maggior parte dei corsi scientifici universitari sono in inglese e nelle compagnie multinazionali le persone parlano in inglese.”

La perdita del dominio di alcuni ambiti sembra non preoccupare gli angloentusiasti, come se questo prezzo da pagare fosse poca cosa. La verità è che l’inglese sta sottraendo alle lingue locali sempre più ambiti, e persino la Svezia, che aveva sperimentato l’insegnamento nel solo inglese, ci ha ripensato ritenendo questa scelta dannosa per il futuro del Paese.[2]

Per comprendere le relazioni pericolose tra globalese e itanglese, basta guardare la comunicazione del Politecnico di Milano, che dopo lunghe e complicate vicende giudiziarie, continua a erogare corsi prevalentemente in inglese. Mi hanno appena segnalato alcuni “webinar” organizzati dal Dipartimento di Energia, intitolati “Energy for Motion”, che prevedono interventi in “italiano” i cui titoli sono: “Il ruolo dell’idrogeno per il sector coupling dei settori power e mobility”, “La sfida della durability delle celle a combustibile polimeriche nel settore dei trasporti”, “Lo sviluppo di power train ad idrogeno per heavy duty”, “Lo sviluppo di polimeri speciali per applicazioni nella hydrogen economy”…

In questo linguaggio che si usa per la formazione emerge l’altra faccia della scelta di insegnare in inglese, dove l’italiano si riduce a un ibrido e a una pochezza di cui ci si vergogna, perché se l’insegnamento avviene in inglese anche i concetti chiave diventano inglesi, e occupano la parte alta della gerarchia delle parole, la parte superiore della lingua, per cui si parla dei settori “power” e “mobility” o di “durability” come fosse normale e come se l’italiano non esistesse.

Questo linguaggio è la diretta conseguenza dell’anglificazione dell’ateneo, e questo itanglese non si può liquidare con la favola che chi conosce l’inglese non lo mescola con l’italiano, dimostrano invece tutto il contrario: usare l’inglese fa regredire l’italiano.

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Note

1) Robert McCrum, William Cran, Robert MacNeil, La storia delle lingue inglesi, Zanichelli, Bologna 1992, p. 43.
2) Cfr. Paolo Di Stefano, “Non solo Inglese. Perché è un affare difendere l’italiano”, Corriere della sera, 7/11/2011, Cultura, p. 32.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Italia: un Paese occupato, linguisticamente e culturalmente

Di Antonio Zoppetti

L’altro giorno, su La Repubblica, nella rubrica Moda e Beauty si parlava dello sharenting, il fenomeno dei genitori che pubblicano le foto dei figli in Rete, anzi sui social, che in inglese sarebbe social network (altrimenti significa solo sociale) ma che noi usiamo al posto di piattaforme sociali.

Sharenting circola almeno dal 2016, e nel 2020 un giornalista espertone ci ha scritto pure un libro (Gianluigi Bonanomi, Sharenting. Genitori e rischi della sovraesposizione dei figli online, Mondadori 2020). A noi non resta che dire così, visto che nessuno è capace di inventare parole nuove, né di usare quelle vecchie, nel pappagallismo italiano che non fa che scimmiottare ogni cosa che arriva dagli Stati Uniti, in particolare le fesserie.

Inutile dire che questa parola-concetto non esiste sui mezzi di informazione francesi e spagnoli, dove i social sono le reti sociali e gli influencer sono infuenti, perché fuori dall’Italia è in voga una bizzarra consuetudine, quella di usare la propria lingua, in linea di massima, senza che nessuno se ne vergogni. Ma noi siamo troppo avanti nel nostro suicidio linguistico e culturale.

Il plogging

E così capita che CemAmbiente di Cavenago Brianza lanci l’iniziativa del plogging, ottimo esempio di distruzione delle parole attraverso la sostituzione con quelle inglesi, in un lavaggio del cervello che cancella il passato, la storia e crea nuove realtà. L’attenzione per l’ecologia linguistica è inesistente in queste iniziative che proteggono l’ambiente mandando in rovina l’italiano.

Quando ero ragazzo il mio vicino di casa partecipava ogni estate ai campi per ripulire i parchi dai rifiuti. Le iniziative per ripulire l’ambiente sono un concetto piuttosto datato e diffuso. “Una camminata per pulire le strade” si può leggere in un articolo del 2012 su Il Tirreno che riferisce del progetto “Puliamo le nostre strade” organizzato dall’associazione A piedi nudi di un piccolo Comune. In italiano ci sono iniziative anche più recenti come la “Staffetta sull’Adda per ripulire i bordi del fiume e l’Alzaia dai rifiuti”, ma la differenza con il passato è che oggi tutto ciò è etichettato all’insegna del plastic free, visto che siamo incapaci di dire senza plastica.

“Ma queste iniziative sono altra cosa rispetto al plogging, che non è proprio come….”, dirà subito il “non-è-proprista” pronto a difendere le sfumature dell’inglese e dello pseudoninglese. Naturalmente questo atteggiamento porta il più delle volte a dire un gran numero di idiozie.

Il rispetto della natura si ritrova nei vecchi manuali di montagna, che tra le regole auree prescrivevano di non lasciare rifiuti e tracce del proprio passaggio, e spesso incentivano a raccogliere i rifiuti altrui, durante le escursioni. Un appassionato di montagna comeFabrizio Bellucci, detto Bicio, sul suo sito Zaino in spalla, scriveva (con tanto di logo oggi chiamato “kit del plogger”): “Nel mio zaino porto sempre un sacchetto di plastica (sì, proprio uno di quelli che inquinano maggiormente) e un guanto riciclati tra quelli utilizzati per l’acquisto di frutta e verdura nei supermercati. Durante la camminata in montagna, se vedo cartacce, lattine, pezzi di plastica abbandonati, mi infilo il guanto e li raccolgo nel sacchetto, che porterò giù a valle. Oltre all’oggettivo vantaggio di sgomberare i sentieri dai rifiuti, se qualche escursionista ci vede durante la raccolta, come minimo eviterà di gettare rifiuti a sua volta e magari seguirà il nostro esempio alla prossima occasione. (…) Il bello è che questa raccolta non avviene una volta all’anno in occasione della festa dei sentieri, ma è un piccolo gesto che è entrato ormai a far parte del nostro modo di andare in montagna.”

La cancellazione del passato

Cancelliamo il passato, riscriviamo la storia, costruiamo una nuova realtà è usiamo l’inglese. Presto fatto. Buttiamo l’italiano e passiamo al plogging. “Il nuovo trend nato in Svezia, unisce in sé le due parole ‘jogging’ e ‘plocka’ che è svedese e significa ‘raccogliere”. L’idea è semplice: interrompere la corsa o camminata con piegamenti e stretching fa bene al corpo e raccogliere contemporaneamente i rifiuti da terra aiuta l’ambiente.”

Plogging è perfetto da vendere come un nuovo concetto della newlingua. Suona inglese, si appoggia ai tanti “ing” che ormai abbiamo fatto nostri (shopping, working, trekking…), e dunque i giornali lo diffondono così: “Plogging, correre e raccogliere rifiuti” si legge sulla rubrica Vivere Green di ANSA (7 maggio 2018); “Sport e green: impazza il plogging, raccogliere rifiuti correndo” (Il Sole 24 ORE, 5 aprile 2021)…

Prima dell’arrivo del plogging c’erano altri modi per reinventare l’acqua calda facendola sembrare un concetto nuovo e inglese. Si può citare il “Collect Waste Walk: camminare e raccogliere rifiuti” (6 marzo 2019), spacciato come la geniale idea di un salentino (ma se si esprimesse non dico in italiano ma almeno nel dialetto locale, non sarebbe meglio?) “che ha inventato un nuovo sport che unisce la passeggiata all’attività di raccolta rifiuti”.

Oppure si può parlare più semplicemente di ecotrekkig: “Passeggiare e raccogliere rifiuti in montagna: così nasce l’ecotrekking”, una parola usata anche dall’italianissimo Chianti Green, che introduce il concetto dei “cittadini walk & clean”.
L’elenco di questi esempi è sterminato.

Il lessico dell’anglonuovismo

Il problema non sono le singole espressioni, talvolta passeggere, talvolta no. Il problema è la logica che c’è sotto, ed è questa che sta facendo morire l’italiano. Si rinnova tutto, anche le cose più vecchie, usando qualsiasi cosa che suoni in inglese. E allora nascono gli hub vaccinali invece dei centri, i covid hospital invece degli ospedali covid, i cluster invece dei focolai, i no vax invece degli storici antivaccinisti, seguiti dai no mask (ennesima espressione assente nel francese e nello spagnolo)… È la panspermia dell’inglese che ci bombarda quotidianamente con migliaia e migliaia di anglicismi, con la stessa tecnica della riproduzione delle ostriche che sparano migliaia e migliaia di larve. La maggior parte non sopravvivono, sono passeggere; ma altre attecchiscono, e poi si riproducono (se c’è il plogging c’è anche il plogger). E così il trekking e il trekker hanno la meglio su escursionismo ed escursionista, dove gli sport all’aperto sono outdoor, la corsa è il running, il jogging, persino il footing… in una catena di anglicismi che si amplia a scapito delle parole italiane che regrediscono (se la corsa è jogging poi nasce il plogging).

L’altro giorno una mia amica mi ha avvertito che era in ritardo perché il fixing dell’apparato acustico che stava acquistando andava per le lunghe. Si tratta semplicemente della fase di personalizzazione e adattamento che gli esperti chiamavano in un più solenne inglese, ma che si potrebbe dire anche customizzazione, in altri contesti. L’ortopedico mi ha detto che devo fare stretching, non esercizi di allungamento. Il nostro governo ha deciso di inseguire il modello di Macron che prevede l’obbligo del certificato verde, ma i giornali lo chiamano green pass, anche se Macron lo chiama passe sanitaire. E mentre i giornali spagnoli parlano di certificato covid, da noi c’è solo il green pass, che in inglese chiamano healt pass, cioè passaporto sanitario. Tutti gli apparati mediatici da noi continuano a tradurre il “certificato verde” in questa sovralingua itanglese, assurda e ridicola. Green pass è un’invenzione giornalistica evoluta dal covid pass. La sensazione è quella di vivere in un Paese occupato. E dobbiamo chiederci: chi ci sta occupando?

Il green pass sui giornali in Italia, e come si dice in Francia, Spagna e Regno Unito.

Il broccolino 2.0

Gli immigrati italiani di New York di primo Novecento chiamavano la lavatrice (washing machine) “vascìnga mascìne” nell’italiano broccolino. Quell’idioletto – cioè la lingua ibrida di una piccola comunità – era fatto di adattamenti delle parole inglesi ai suoni italiani, visto che i nostri connazionali a Brooklyn non padroneggiavano l’inglese, e il nome di quel quartiere era così simile a “broccolo” che bastava dire così per farsi intendere. Per cui il lavoro (job) diventava “giobba” e i negozi (shop) “scioppa”.

Un secolo dopo questo italiano broccolino è scomparso, ma è la nostra lingua nazionale che si è trasformata in una sorta di broccolino 2.0: si chiama itanglese ed è parlato in Italia dagli italiani, non dagli immigrati all’estero. Tutto si è ribaltato, non adattiamo più i suoni inglesi a quelli italiani, ma viceversa. Dunque il lavoro è ormai direttamente job o work a seconda dei contesti, e i negozi sono diventati shop, ma anche store. A buttar via le nostre parole per sostituirle con quelle angloamericane non sono più gli emigrati “ignoranti”, ma i giornalisti, gli intellettuali e la nostra intera classe dirigente, cioè quelli che hanno il potere di fare la lingua, quelli che un tempo hanno unificato l’italiano e oggi lo stanno distruggendo. Sono i coloni e i collaborazionisti di un nuovo regime linguistico che si vuole imporre. Che è fatto di parole inglesi importate ma anche di neo-coniazioni pseudo-inglesi autoctone.

L’englishwahing: il lavaggio del cervello attraverso l’inglese

Dalla “vascinga mascine” siamo passati al whitewashing (white = bianco e washing = lavaggio) per indicare il dare una sbiancata ai protagonisti dei film, cioè la tendenza a utilizzare attori bianchi per ruoli che storicamente spetterebbero ad altre etnie. Poiché gli anglicismi non sono isolati e ognuno tira l’altro come le ciliegie, si parla anche di greenwashing per indicare l’ecologia di facciata per esempio di certe pubblicità o politiche aziendali, e anche di pinkwashing per indicare lo pseudo-femminismo paternalistico e demagogico, l’ipocrisia rosa, potremmo chiamarla, se non fossimo colonizzati. Il punto è che nessuno vuole ricorrere all’italiano, e forse non ne siamo più capaci.

Questo fenomeno patologico che sta facendo morire la nostra lingua si potrebbe forse chiamare Englishwhasching, per usare il linguaggio di chi la sta distruggendo e fare in modo che capisca il problema. Dopo l’epoca in cui Manzoni aveva sciacquato i panni in Arno, oggi i nuovi centri di irradiazione della lingua preferiscono immergerli nelle acque del Mississipi, più che del Tamigi. È il lavaggio del cervello attraverso le parole-concetti in inglese.

La newlingua orwelliana

Questa newlingua ibrida ricorda in modo impressionante la neolingua di 1984 di Orwell, quella che il Grande fratello voleva realizzare con la creazione del dizionario della Novalingua. Nella sua Teoria della dittatura (Ponte della grazie, 2020), Michel Onfary analizza nel dettaglio questo progetto, punto per punto. La neolingua punta alla distruzione delle parole, alla cancellazione del passato, a riscrivere la storia per creare una nuova realtà. Esattamente quello che stiamo facendo noi.

Al contrario dello scenario owelliano, a imporre la newlingua non c’è una dittatura, ma una “onorevole gara” a sostituire le parole, che ricorda il meccanismo ben descritto da Tacito nell’Agricola. Il merito di questo condottiero romano non è stato tanto nella conquista della Britannia spiegava Tacito bensì nell’essere riuscito a tenerla colonizzandola culturalmente. È riuscito a far bramare i costumi, la cultura e la lingua degli invasori, in modo che coloro che prima sdegnavano il linguaggio romano alla fine ne ammirassero l’eloquenza. Agricola riuscì in questa impresa soprattutto coinvolgendo i figli dei capi tribù, cioè la classe dirigente, per tradurre tutto in termini più moderni. “Gl’inesperti chiamavan ciò cultura, mentre era parte di servaggio” conclude Tacito.

Oggi assistiamo allo stesso meccanismo, ma sono i discendenti dei Britanni a soggiogarci con le loro “fogge”, i loro costumi, la loro cultura e la loro lingua.
Non ci sono eserciti e carri-armati a occupare il nostro Paese, ci sono le nuove strategie che aveva lucidamente compreso Churchill: “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente.”

Questo disegno figlio del colonialismo inglese è stato poi realizzato dagli Stati Uniti. Le leve principali sono due: l’espansione delle multinazionali e della loro lingua, e la creazione del mito americano.

Dal mito del tu vuo’ fa’ l’americano alla realizzazione del “siamo tutti americani”

Naturalmente non c’è alcun complotto e nessuna sala dei bottoni dove queste cose vengono determinate. C’è una strategia più simile ai meccanismi della selezione naturale. Quando un esercito di cavallette invade un territorio non è perché il re delle cavallette lo ha ordinato loro. Semplicemente, migliaia di individui si muovono seguendo tutti la stessa pulsione e lo stesso obiettivo. Le multinazionali si espandono alla ricerca del profitto in tutto il mondo, imponendo allo stesso tempo la loro lingua e la loro terminologia (insieme alla loro logica) attraverso la pubblicità e le strategie di conquista. Nelle vetrine dalle insegne in inglese vediamo le sneaker, il black friday, le etichette con gli special prize… quando diciamo decoder invece di decodificatore, ripetiamo quello che leggiamo sulle scatole dei prodotti che compriamo. Le interfacce informatiche ci ammaestrano con i loro snippet, widget, timeline, homepage, link, download
Il mondo del lavoro parla inglese, la cultura è ormai identificata con quella anglo-americana (non avrai altra cultura all’infuori di me!), che usa la terminologia inglese, dal cinema alle scienze sociali, dal marketing allo sport, dalla scienza alla tecnologia… E in questo contesto anche la scuola parla (e dunque forma) in itanglese e ci sono università che erogano ormai i corsi in inglese, mentre l’Europa punta all’inglese come lingua sovranazionale (alla faccia dei principi costituenti basati sul plurilinguismo) con i documenti bilingui a base inglese e altri subdoli analoghi provvedimenti. Dall’albertosordità del tu vuo’ fa’ ‘americano siamo passati al “siamo tutti americani” con cui si è aperto simbolicamente il nuovo Millennio.


Al contrario di ciò che avviene in Francia e in Spagna, questo inarrestabile fenomeno non è controbilanciato da alcuna pressione interna contraria. In Italia non ci sono né leggi, né accademie o associazioni linguistiche a tutela della nostra lingua. Accecati dal nuovo modello americano globalizzato, agevoliamo dall’interno la nostra distruzione culturale, e dunque linguistica. E ce ne compiaciamo.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Lingue e democrazia davanti al globalese e all’itanglese (seconda parte)

Di Antonio Zoppetti

Se l’inglese diventa un idioma di rango superiore, tutte le altre lingue – a partire dall’italiano – diventano figlie di un dio minore, e rischiano di trasformarsi nei dialetti locali dell’anglomondo.

Nella prima parte di questo articolo ho mostrato che la soluzione del monolinguismo a base inglese per la comunicazione sovranazionale è una visione politica che si sta affermando, ma non è l’unica possibilità – come in Italia in molti credono – né la via più etica e per noi più conveniente.
Questa visione dell’inglese globale come lingua superiore è poi è alla base del fatto che, sul piano interno, molti anglicismi siano preferiti alle parole italiane e suonino più moderni e internazionali anche quando non lo sono.

Molti pensano che la questione dell’inglese internazionale non c’entri nulla con l’anglicizzazione dell’italiano e con l’invadenza degli anglicismi. E c’è chi difende a spada tratta l’inglese come lingua veicolare, ma è contrario a mescolarlo con l’italiano. In realtà le due cose non sono così separate e hanno un forte legame, perché le lingue non sono sistemi a compartimenti stagni, e la loro interferenza è un fenomeno normale.

Non resta che vedere in che modo l’inglese internazionale si riversa nell’italiano e lo sta trasformando in itanglese.

Dall’inglese internazionale all’itanglese

La penetrazione degli anglicismi nell’italiano, ma più in generale in tutte le lingue, è spesso causata dall’espansione delle multinazionali angloamericane e del loro lessico. I casi più evidenti sono quelli del linguaggio della Rete o dell’informatica, dove la metà delle voci così marcate nei dizionari è in inglese non adattato; ma questo meccanismo di importazione si trova in ogni ambito. Nella giurisprudenza, per esempio, parole come copyright, leasing o franchising si propagano intoccabili in tutto il mondo (come hanno osservato Francesco Galgano o Alessandro Gilioli) per precise disposizioni che hanno a che fare con il diritto internazionale che parla inglese e che potrebbe scontrarsi con altri ordinamenti. Dunque la supremazia della terminologia inglese si impone su quella locale per questi motivi legati ai diversi rapporti di forza.

Dai linguaggi di settore, queste parole finiscono poi nel linguaggio comune.

Perché la pandemia ha portato al lievitare degli anglicismi in tutto il mondo? Perché è un fenomeno internazionale, perché l’Oms parla inglese, perché gli scienziati parlano in inglese. In italia il fenomeno è stato più pesante perché non abbiamo istituzioni che regolamentano la lingua, e dunque abbiamo assorbito senza resistenze il lockdown, il droplet, lo spillover, gli hub, i cluster

Lo stesso vale per le categorie culturali, dalla scienza allo sport. Perché importiamo gli anglicismi con questa frequenza inaudita? Perché pensiamo che sia la lingua internazionale e superiore. Se non ci fosse questa mentalità sottostante non ci vergogneremmo di usare l’italiano.

Burn-out, spike protein e mindfulness

Per comprendere questo processo, in ambito medico-scientifico si può citare il caso dell’Oms (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) che parla in inglese e in inglese decide per esempio di inserire nella sua lista il burn-out (esaurimento professionale) come una sindrome riconosciuta e distinta da altri tipi di esaurimento. La conseguenza di questa scelta è che il termine penetra ovunque in inglese.

Mentre in Spagna c’è la Reale Accademia Nazionale di Medicina che interviene indicando il sostitutivo spagnolo “ufficiale” e sconsigliando l’anglicismo, come avviene anche in Francia, da noi non esistono autorità del genere e siamo in mano ai giornalisti e agli specialisti che parlano l’inglese internazionale e ripetono l’anglicismo senza nemmeno porsi il problema di tradurlo. Il risultato è che le alternative possibili non sono regolamentate, e crediamo che ricorrere all’inglese renda tutto più tecnico. Ma questo liberismo linguistico, figlio della convinzione che la lingua si difenda da sé, non funziona davanti alle forti pressioni dell’inglese globale dominante. Occorre cambiare prospettiva, esattamente come non si può rispondere che i panda si difendono da sé, occorre tutelarli e proteggere la biodiversità.

Voglio fare un altro esempio che mi pare utile per comprendere le conseguenze pratiche di una mancanza di un’autorità e di un punto di riferimento che potrebbe arginare gli anglicismi in Italia.

Quando è arrivato il covid gli scienziati e i divulgatori hanno cominciato a parlare degli spike – cioè gli spuntoni che lo caratterizzavano – e anche di spike protein direttamente in inglese, come fosse normale importare la terminologia anglofona senza traduzione. Poiché in italiano esiste la parola spinula, che in ambito scientifico e biologico indica proprio una formazione anatomica o patologica a forma di spina, ho domandato all’immunologa Maria Luisa Villa se potesse essere una valida alternativa. Mi ha risposto che la trovava un’ottima traduzione e ha anche chiesto un parere al virologo Fabrizio Pregliasco a cui la proposta è piaciuta. Forte di questi pareri autorevoli ho divulgato questa possibilità in un articolo sul portale Treccani e l’ho inserita tra i sinonimi possibili sul dizionario AAA che ormai è diventato una fonte per molti professionisti, visto che è il più grande archivio di riferimento esistente nel nostro Paese e quasi l’unico. Il risultato è che oggi spinula comincia a circolare, e si ritrova per esempio anche in molte voci della Wikipedia. Insomma, se un’alternativa c’è, e viene promossa, è possibile che si affermi, ma se nessuno la individua e la divulga, entrerà nell’uso solo l’inglese senza la libertà di scegliere.
Se questo lavoro fosse fatto da enti istituzionali con una maggiore risonanza e autorevolezza, le cose potrebbero migliorare.

L’altro giorno mi è arrivata la segnalazione di un libro intitolato Diventare grandi con la mindfulness. La mindfulness è una tecnica meditativa che è stata importata dal buddismo, e in lingua indiana si esprime con la parola “sati”, ma negli Stati Uniti hanno ridefinito e riproposto tutto nella loro lingua, e non certo in lingua pāli!
Che cosa fa il francese? La traduce con piena coscienza e in altri modi ancora.
Che cosa fa lo spagnolo? La traduce con coscienza o attenzione piena.
Che cosa fa l’italiano? Nulla. Invece di usare analoghe traduzioni o sinonimie come piena consapevolezza o presenza mentale, ripete a pappagallo con servilismo la parola-concetto così come la si esporta e la si importa. E se qualcuno volesse esprimerlo in italiano? Dovrebbe ricorrere alla creatività espressiva individuale, che genera soluzioni diverse, e non codificate e uniche come nel caso dei tecnicismi inglesi. In questo modo mindfulness diventa il titolo di un libro e penetra nell’uso come fosse qualcosa di intraducibile, come se non fosse a sua volta una ridefinizione di un concetto orientale. È con queste modalità che gli anglicismi diventano “necessari” o “insostituibili”, solo da noi, ovviamente, visto che altrove non lo sono affatto.

In questo quadro, il globalese si riversa nell’italiano con una profondità che non è più possibile spiegare con le categorie del “prestito” che i linguisti continuano ancora a utilizzare senza riuscire a comprendere il fenomeno nella sua profondità.

La newlingua dei WeFood e degli showcooking

La curatrice del sito Buoneidee mi ha rigirato la newsletter della regione Friuli Venezia Giulia che per promuovere il territorio organizza il WeFood, il weekend enogastronomico con showcooking a cui possono aderire i “produttori di food equipment, dai forni alle cucine” pieno di eventi digitali tra cui Food & Wine: come ripartire dopo i lockdown? Il progetto si chiama Academy.

Quando la cucina italiana, che è una delle nostre più importanti eccellenze, diventa cooking (e suggerisco ad Academy di trasformare il lavaggio dei piatti in uno showcleaning che magari genera business), la gastronomia Food, il vino Wine… non stiamo importando anglicismi perché ci mancano le parole. Stiamo distruggendo l’italiano perché stiamo passando alla costruzione di categorie sovra-italiane in una gerarchia lessicale dove al vertice c’è la lingua internazionale. Siamo ben oltre il prestito, siamo alla formazione dell’itanglese da parte di nativi italiani che hanno rinunciato alla propria lingua.

Lettera aperta a Mario Draghi

Il presidente del Consiglio Draghi è finito su tutti i giornali per un paio di uscite contro l’abuso dell’inglese. Ha ironizzato sull’uso di governance invece di governo e, davanti a smartworking e babysitting ha sbottato: “Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi?”.

In una “Lettera aperta a Mario Draghi” ho provato a rispondergli, a ringraziarlo per le sue dichiarazioni e anche a perorare la nostra causa di una legge per l’italiano.

Preferiamo gli anglicismi e li consideriamo più solenni proprio all’interno di una visione più ampia che considera l’inglese come la lingua internazionale e superiore. Non si può far finta di non vedere il legame tra itanglese e globalese!

C’è persino chi ormai lo teorizza esplicitamente e ha gettato la maschera.
In un articolo su Affari italiani (grazie ad Agostino che me lo ha segnalato) il giornalista esce allo scoperto e dice chiaramente “sì agli anglicismi” proclamando che Draghi “sbaglia” a ironizzare sulle parole inglesi, perché “i nostri giovani partecipano a un’agguerrita competizione globale utilizzando termini come advisor, asset, benchmark, board, CEO, CFO, chairman, cluster,compliance, governance, stakeholders, sales, skills, tools e via dicendo.” E allora i “nostri migliori giovani, la vera speranza del Paese (…) non si faranno condizionare da Draghi perché così prevede la globalizzazione.” Secondo l’autore del pezzo, “è sbagliato far passare simili messaggi: il progresso implica che il popolo (…) sia educato a piccoli passi, magari apprendendo gradualmente il significato degli anglicismi, e soprattutto, non avendo alibi per non apprezzare e beffeggiare chi sa ed è bravo.”

Eccolo il passaggio dall’anglofilia all’anglomania in nome del “progresso”, finalmente enunciato senza ipocrisie!
In questa visione allucinante che sta prendendo sempre più piede, l’italiano si deve buttare per parlare attraverso la sua contaminazione con l’inglese. Gli anglicismi educherebbero alla newlingua della globalizzazione un po’ come nel progetto colonialistico del basic english, la riduzione dell’inglese semplificato per le colonie che piaceva tanto a Churchill.
Meno male che c’è Draghi e che – dopo anni di jobs act, navigator, chasback di Stato e chi più ne ha più ne metta – per la prima volta emerge una diversa sensibilità per la questione della lingua da parte della politica e delle istituzioni. Ma invece di essere applaudito da tutti, Draghi viene attaccato da gironalistucoli figli di Nando Mericoni (l’Alberto Sordi di Un americano a Roma) che considerano l’italiano obsoleto, se ne vergognano e sono coloro che lo stanno uccidendo. Questi scribacchini teorici della rinuncia all’italiano sono quelli che prima introducono l’inglese in modo stereotipato e senza alternative – vedi lockdown – fino a farlo entrare nell’uso, subito dopo giustificano la parola dicendo che è ormai è entrata nell’uso (grazie a loro mica alla gente) e non si può più far niente, e nella terza fase ti dicono che se dici confinamento come in Francia e in Spagna sei retrogrado, o addirittura “ridicolo”.

Questa logica si deve spazzare via.

Per questo la nostra proposta di legge chiede campagne di promozione e “raccomandazioni” come quelle utilizzate per intervenire sull’uso – e cambiarlo – nel caso della femminilizzazione delle cariche. Se in un primo tempo “ministra” faceva ridere, adesso si è affermato, perché solo l’uso e l’abitudine fanno apparire una parola bella o brutta – per citare Leopardi – o anche ridicola, solo perché non siamo avvezzi a sentirla.

Non si può pensare di risolvere il problema delle formiche schiacciando quelle che passano, ma bisogna agire individuando il formicaio. Dunque, non ha tanto senso prendersela contro i singoli anglicismi, considerati in modo isolato, perché per uno che si argina a questo modo ne spuntano altri dieci. Bisogna agire sulle cause che inducono alla nevrosi compulsiva che porta a usare le parole inglesi, e sulla testa di certi giornalisti e intellettuali che dovrebbero “decolonizzare la mente”.

La battaglia per l’italiano e contro l’abuso dell’inglese si può condurre solo con questo spirito e su questo piano. E all’ideologia dell’inglese globale è necessario contrapporre un’altra visione politica basata sul plurilinguismo.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. Le immagini, i collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Gli anglicismi non sono prestiti, ma trapianti!

Di Antonio zoppetti

Il 26 settembre del 1959, in un articolo su France-Soir (Maurice Rat, “Potins de la grammaire”) ha fatto la sua comparsa la parola franglais, formata dalla contrazione di français e anglais. Cinque anni dopo, è diventata il titolo di un celebre libro di René Étiemble, Parlez-vous franglais? (Gallimard, 1964) che denunciava esplicitamente la penetrazione delle parole inglesi nella lingua francese.

I nostri dirimpettai hanno sempre avuto a cuore la propria lingua e De Gaulle, già alla fine dalla Seconda guerra mondiale e dopo lo sbarco in Normandia, si era opposto a ogni tentativo di trasformare il suo Paese in una sorta di provincia sotto il controllo degli Usa, non solo politicamente, ma anche dal punto di vista culturale e linguistico. La contaminazione lessicale dell’inglese, che a quei tempi si poteva solo intravedere, non riguardava solo la Francia, era destinata a diventare un fenomeno mondiale.

Sul modello del franglese oggi parliamo di itanglese, ma circolano anche varie altre espressioni meno frequenti (itangliano, italiaricano, italiese…) tra cui itanglish, un costrutto volutamente ibrido che esprimere il non essere più italiano, che a sua volta si riallaccia alle infinite neoconiazioni che sono spuntate in tutto il mondo, perché ovunque è nata l’esigenza di trovare il nome della “cosa”. In Francia circola anche il franricain, in Spagna tutto ciò si chiama spanglish (anche se l’origine della parola inizialmente indicava la contaminazione dell’inglese da parte dello spagnolo, e non viceversa), nel rumeno si parla del romglese, e fuori dalle lingue romanze in Germania c’è il Denglisch, in Asia c’è l’hinglish per l’hindi, il konglish per il coreano, il tinglish per il thai, il japish o l’englanese per il giapponese (di cui ho già detto) e ci sono altri esempi ancora citati da Tullio De Mauro che ha definito tutto ciò uno “tsunami anglicus”.

Recentemente si è cominciato a parlare anche del runglish della Russia post-comunista, che prima non era stata toccata dal problema (cfr. “La panspermia del globalese”), mentre in un articolo su The Guardian (Helena Smith, “The Greeks had a word for it … until now, as language is deluged by English terms”, 31/01/202) il linguista Georgios Babiniotis (Γεώργιος Μπαμπινιώτης), ex ministro dell’Istruzione, ha denunciato l’enorme “focolaio di Greenglish” in gran parte correlato al Covid. La pandemia è un fenomeno globale, e ha indotto a usare un linguaggio globale in inglese che ha portato anche in Grecia il lockdown e una serie di altri anglicismi, in un’esplosione anglomane che ho denunciato anche a proposito dell’italiano (cfr. Treccani).

In sintesi, anche se siamo uno dei Paesi più anglicizzati rispetto agli altri, il fenomeno del globish-globalese che contamina ogni idioma, e rischia di snaturare l’identità linguistica locale, è mondiale. Continuare a parlare in modo astratto di “prestiti” come si legge nei manuali di linguistica, suona ogni giorno più ridicolo, perché queste categorie tutte teoriche non sono in grado di rendere conto dell’attuale interferenza dell’inglese. Come mai l’intera umanità ha cominciato improvvisamente a prendere in prestito solo dall’angloamericano?


Meno superficialmente, sarebbe ora di cominciare a chiamare le cose con il loro nome. L’anglicizzazione non ha a che fare con i “prestiti” ma con i trapianti lessicali che sono il frutto di una forte pressione esterna. L’economia e la cultura a stelle e strisce che si espandono con la globalizzazione del pensiero e delle merci impongono i propri concetti, le proprie parole e la propria lingua. In questa dittatura dell’inglese le lingue locali sono sempre meno caratterizzate dal “prendere in prestito” qualche parola, per loro volontà, e sempre più invase e schiacciate da una terminologia che non è più fatta dai nativi, è invece imposta dall’esterno e subita. Il lessico di questa neolingua orwelliana si esporta con la pubblicità, con la tecnologia, l’economia, la cultura, la scienza…

Parole come leasing o franchising si propagano in tutto il mondo intoccabili perché “le case madri delle multinazionali trasmettono alle società figlie operanti nei sei continenti le condizioni generali predisposte per i contratti da concludere, accompagnate da una tassativa raccomandazione, che i testi contrattuali ricevano una pura e semplice trasposizione linguistica, senza alcun adattamento, neppure concettuale, ai diritti nazionali dei singoli Stati; ciò che potrebbe compromettere la loro uniformità internazionale” (Francesco Galgano, “Le fonti del diritto nella società post-industriale”, in Sociologia del Diritto, Rivista quadrimestrale fondata da Renato Treves, 1990, p. 153).
E come ha osservato Alessandro Gilioli (“Anglicismi nel linguaggio giuridico italiano: il caso leasing”, Italogramma, vol. 7, 2014, p. 3) lo stesso processo di propagazione si può rintracciare nella diffusione di “factoring, joint venture, marketing, licensing, trust, performance bond, know-how, incoterms, merchandising, common law, civil law, buyer, competitor, consumer, delivery, welfare state, authority, devolution, spending review”, ma si potrebbero aggiungere tantissimi altri “internazionalismi forzati” come antitrust, dumping

Accanto a questi trapianti c’è tutta la terminologia del lavoro che spinge, a cominciare dalle mansioni contrattuali di un’azienda come McDonald’s che nelle sue succursali esporta figure come quelle dei crew (ma anche dei crew-delivery o dei crew-trainer) o dei guest experience leader e swing assistant (anche detti training manager), per finire con i ruoli e il linguaggio di altre multinazionali, dalle cosiddette big pharma a quelle dell’informatica. Quando la Microsoft introduce i download nelle sue interfacce, Twitter i follower, Facebook la timeline, Google gli snippet e centinaia e centinaia di simili esempi, sono le multinazionali d’oltreoceano a imporre a tutti la propria terminologia, e la lingua non è più fatta dai nativi. Al massimo i nativi al soldo di queste imprese ratificano questi trapianti bollandoli come opportuni o “necessari” perché non vogliono tradurli, e spesso ne sono incapaci. In questo modo favoriscono l’occupazione dall’esterno, e c’è persino chi fa di questa prassi una massima di cui andar fieri, “i termini non si traducono”, come fosse un precetto: se ci sono già equivalenti forse si possono anche usare, altrimenti guai a creare nuove parole, si introduca la neolingua superiore: l’inglese! Una scelta deleteria per la nostra lingua, che impedisce di creare neologismi italiani e ci intasa con una creolizzazione lessicale e terminologica da Paese delle banane, con il risultato che gli anglicismi del sistema operativo di iPhone in italiano sono 10 volte superiori a quelli delle versioni in francese o spagnolo, dove la “necessità” di non tradurre il più delle volte non esiste affatto. Siamo un Paese linguisticamente occupato dove queste nuove parole che importiamo dall’esterno sono certificate da nativi colonizzati e collaborazionisti. Altro che prestiti!

Mentre all’estero si registrano delle resistenze, mentre le accademie linguistiche di Francia e Spagna producono alternative e arginano l’invasione, mentre la maggior parte degli altri Paesi mette in atto politiche linguistiche e misure per la tutela e la promozione della nostra lingua, noi no. Noi agevoliamo dall’interno questo suicidio lessicale – specchio di un suicidio culturale e sociale – con anglicismi che in Francia e in Spagna non penetrano (lockdown) e con i nostri pseudoanglicismi personali (smart working), perché i trapianti imposti da fuori non ci bastano. Nella nostra follia di sentirci moderni e internazionali usiamo in modo compulsivo non l’americano, ma il “mericoniano” (da: Nando Mericoni, il personaggio interpretato da Alberto Sordi in Un Americano a Roma).

Le conseguenze dell’operato delle multinazionali sull’ecologia sono ormai evidenti a tutti. E il governo Draghi ha introdotto il ministro per la transizione ecologica. Purtroppo in Italia nessuno si occupa dell’ecologia linguistica e della distruzione del nostro sistema linguistico e culturale. Anzi, i nostri politici sono i primi a a distruggerlo, dal ministro della cultura Dario Franceschini che annuncia il progetto ItsArt e che riduce le celebrazioni dantesche a una retorica che rischia di fatto di relegare l’italiano in un museo, al cashback di Stato di Conte, al navigator di Di Maio, al Jobs Act di Renzi

Non c’è bisogno di avere alcun ministro per la transizione all’itanglese, insomma, questo processo è già perseguito spontaneamente dall’intera nostra classe dirigente.

Sarebbe invece ora di varare una legge perché il nostro Paese tuteli e promuova la nostra lingua, invece di distruggerla.

PS 2023
Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. Le immagini, i collegamenti e i commenti originali sono perduti.