L’italiano in un museo

La notizia di un museo della lingua italiana è stata annunciata qualche tempo fa, a sorpresa, dal ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. Un’uscita così a sorpresa che Luca Serianni, coordinatore del comitato che si occupa dei contenuti, l’ha appresa dai giornali.
Questo museo dovrebbe sorgere a Firenze, nel complesso di Santa Maria Novella, dall’anno prossimo, in concomitanza con le celebrazioni dell’anno dantesco del 2021.

A dire il vero non ci sono molte iniziative del genere all’estero, per le altre lingue, e forse qualche motivo c’è, a pensarci bene. C’era un museo della lingua portoghese istituito nel 2006 in Brasile, a San Paolo, ma è andato distrutto in un incendio nel 2015, e da allora c’è solo un cartello che dice “In ricostruzione”. Anche sul fatto che dopo cinque anni non sia stato riaperto, forse bisognerebbe riflettere.

A proposito di fiamme e musei, non può che venire in mente il Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti del 1909 che declamava con violenza: “Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie (…). Musei: cimiteri! (…) Che ci si vada in pellegrinaggio, una volta all’anno, come si va al Camposanto nel giorno dei morti.”

Oggi i musei – non tutti a dire il vero – si sono modernizzati e rinnovati, proprio per non essere monumenti funebri, e di sicuro si possono concepire in modo nuovo, vivo, interattivo…

Al momento nulla si sa di come sarà il museo della lingua italiana, a parte qualche dichiarazione di intenti. Si sa solo che a delinearne i contenuti sarà un comitato presieduto da Luca Serianni che coinvolge cinque istituzioni: l’Accademia della Crusca, l’Accademia dei Lincei, la società Dante Alighieri, la Treccani e l’Associazione per la storia della lingua italiana.

È bello vedere iniziative a favore della lingua italiana, finalmente concepita come un patrimonio da tutelare e promuovere. Ma è un museo la soluzione? La sensazione è che mettere la nostra lingua in un museo sia un po’ il simbolo della sua morte, più che della sua vita.

Comunque la si pensi, e comunque questo progetto verrà realizzato, a proposito dei costi dell’operazione si parla di 4 milioni e mezzo di euro, stando a un’intervista che Luca Serianni ha rilasciato a Giorgio Kadmo Pagano (“Il nuovo Museo della Lingua Italiana di Firenze. Ecco come sarà”, Artribune, 2/9/20). E allora bisogna chiedersi se è questo il modo più sensato di destinare i soldi di tutti noi contribuenti per promuovere la nostra lingua.

Le risorse non sono infinite, se lo fossero applaudirei questa iniziativa.
È bello scegliere come sede una città simbolica come Firenze, ma non è accessibile facilmente a tutti gli italiani, molti dei quali, chissà, potranno forse accontentarsi di una visita digitale, anzi online (già mi immagino l’interfaccia del sito, con la sua bella home, e magari la gallery delle immagini di cui fare il download, ma spero di essere pessimista).

Più che guardare al modello di un museo bruciato di San Paolo, forse bisognerebbe osservare ciò che si fa in Svizzera, per la promozione del nostro idioma. Nel modello plurilinguistico elvetico, poiché l’italiano è schiacciato e in minoranza rispetto al francese e al tedesco, il Consiglio Federale lo sta promuovendo dal 2014. Nel progetto sulla cultura 2016-2020 ha stanziato consistenti fondi per rafforzare la presenza della lingua e della cultura italiana nell’insegnamento, nella formazione bilingue e attraverso una serie di manifestazioni culturali. E anche per i prossimi anni sono previste iniziative per la valorizzazione di ogni forma espressiva in lingua italiana (arti figurative, musicali, letterarie…) attraverso concorsi e incontri “su tutto il territorio svizzero”.

Nella petizione rivolta a Mattarella (#litalianoviva) che ho avviato contro l’abuso dell’inglese, per esempio, c’è la richiesta di dare vita – molto semplicemente – a qualche campagna di pubblicità progresso per la promozione della nostra lingua. Il che non costa quasi nulla, a parte la realizzazione di qualche filmato, visto che questi spazi televisivi sono già previsti, e basta dedicarli anche all’italiano oltre che alle battaglie contro il bullismo o la violenza contro le donne. Esattamente come si fa in Francia e in Spagna, dove la lingua non è tutelata attraverso i musei, ma attraverso iniziative concrete in sinergia con le accademie linguistiche. Dove si creano alternative agli anglicismi, si redigono opere come il dizionario ufficiale della lingua francese, o quello della Reale Accademia Spagnola o il Dizionario panispanico dei dubbi. In lingua francese c’è il Grande Dizionario Terminologico del Quebeq che traduce gli anglicismi, e in Francia ci sono delle leggi che tutelano la loro lingua, inserita nella Costituzione, l’ultima delle quali, la legge Toubon, vieta l’uso degli anglicismi nei contratti di lavoro e nel linguaggio istituzionale.

Da noi non c’è nulla di tutto questo. E non è di un museo che avremmo bisogno per far vivere l’italiano. Con 4 milioni e mezzo di euro si potrebbe dare vita a una campagna più efficace, a una serie di interventi nelle scuole, a concorsi e manifestazioni un po’ più significativi perché l’italiano viva.

Giuseppe Antonelli, in un libro intitolato appunto Il museo della lingua italiana (Mondadori 2018) ne immagina la struttura a tre piani, italiano antico, moderno e un terzo piano dedicato all’italiano contemporaneo. Qui c’è anche la sezione di quella che chiama “e-taliano”, la lingua della Rete dove la “e” ormai si pronuncia “i” nell’italiano colonizzato. Antonelli è il linguista che sostiene che non c’è alcun problema né pericolo di fronte agli anglicismi, che “forse” tra un paio di generazioni torneremo a dire tesserino al posto di badge, concorrente al posto di competitor e scarpe da ginnastica al posto di sneaker. Certo! O “forse” nel frattempo nel museo ci sarà un quarto piano dedicato all’itanglese. Il nuovo italiano contemporaneo dal lessico creolizzato. Chi vivrà vedrà.

Per Antonelli gli allarmi sono tutta “un’illusione ottica” amplificata dal linguaggio dei giornali, e da quello dell’informatica. A cui bisognerebbe però aggiungere quello del lavoro, dell’economia, della scienza, del Miur, della pubblicità, dell’editoria, del cinema, del marketing, della moda… fino a chiedersi che cosa rimanga dell’italiano sottraendo questi e tanti altri ambiti, strategici e frivoli, della lingua contemporanea.

Se dovessi avanzare la mia proposta per il museo, come Antonelli ha una volta invitato a fare, suggerirei che il pavimento del terzo piano fosse lastricato di mattonelle, ognuna con impresso uno dei quasi 4.000 anglicismi riportati nel Devoto-Oli 2020. Forse sarebbe l’unico contesto in cui gli anglicismi si potrebbero calpestare, invece di farne il totem con cui elevarci.

E poi, proprio vicino all’uscita, anzi all’exit, vedrei bene una bella lapide. In morte dell’italiano come lingua del lavoro di un’Europa che usa soprattutto una lingua extracomunitaria, accanto al francese e al tedesco. L’italiano ucciso da una scuola come il Politecnico di Milano che ha scelto di erogare i propri corsi in inglese, estromettendo la nostra lingua dall’insegnamento e discriminando gli italiani come sono stati discriminati gli africani che non potevano accedere alle scuole coloniali, se non conoscevano l’inglese.

Ma sì, l’italiano in fondo è roba da museo. Il re è morto, lunga vita al re! Anzi: The King is dead, long live the King!

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25 pensieri su “L’italiano in un museo

    • Solo a me l’inglese fa schifo?
      Perché sostituire una lingua nobile ed elegante come l’italiano con una orribile e cacofonica come l’inglese?
      Tutta questa anglomania è ridicola soprattutto perché l’inglese nemmeno lo conosciamo e questo favorisce la creazione di pseudo-anglicismi(come ad esempio smart working) che suonano ridicoli agli anglofoni.
      L’inglese non è affatto il futuro, ma la lingua che impone un paese malvagio che vuole sottomettere gli altri e noi invece di ribellarci facciamo la parte dei collaborazionisti.

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      • Il punto non è che l’inglese sia brutto o cacofonico, il punto è che indipendentemente dai giudizi “estetici” l’invasione di parole di una sola e unica lingua è tale che snaturando le regole dell’italiano, ec he la nostra lingua ha perso la capacità di evolvere per via endogena e si sta solo colonizzando attaverso l’inglese. E hai perfettaente ragione: i responsabili sono i collaborazionisti: cioè i giornali, la politica, la nostra classe dirigente zerbinata e incapace di produrre alcuché, ma solo di ripetere e scimmiottare ciò che arriva dagli Stati Uniti con senso di inferiorità e servilismo.

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  1. Zoppaz, anche Gabriele Valle si dimostra scettico per questo museo, per gli stessi tuoi motivi.

    Per ora continuiamo a incrociare le dita per la nostra petizione, affinché si possa fare una promozione più seria ed ampia rispetto ad un semplice museo. Dobbiamo dimostrare che l’italiano è un patrimonio vivo, non una lingua morta o “fuori moda”.

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  2. Ciao Antonio, mi chiedevo cosa ne pensi delle sorti della petizione. Con rammarico constatato che i firmatari non aumentano; ma a parte questo, ripensando un po’ alla petizione di Annamaria Testa “dillo in italiano” del 2015 che raggiunse le 70mila firme, mi domando se quella della petizione è la strada giusta. La mia non è per nulla una critica alla tua iniziativa, anzi vuole essere piuttosto una riflessione su cosa si possa fare in alternativa e come noi tutti possiamo sostenere e dare slancio a delle azioni. Sto aiutando un po’ Giorgio col gruppo di italofonia e mi chiedo se intravedi ulteriori sinergie o iniziative che potrebbero essere interessanti. Resto aperto ad uno scambio di idee.

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    • La petizione non ha raccolto poche firme, considerato che non è uscito nemmeno un pezzo su un giornale (nonostante abbia mandato centinaia e centinaia di comunicati stampa), e che è stata completamente ignorata dai mezzi di informazione. Quella della Testa invece finì su tutti i giornali, e dunque la visibilità è stata di gran lunga superiore. Le firme raccolte sono nate solo dal passaparola in Rete, e perciò dopo lo slancio inziiale si si sono stabilizzate. A breve la chiuderò e manderò tutto a Mattarella. Non so se è la strada giusta, ma qualche cosa volevo provare a fare. In ogni caso è un’iniziativa che serve a porre l’attenzione sul problema, e che si aggiunge a tutto quello che riesco a fare, e cioè la battaglia culturale dalle pagine di questo sito e la diffusione delle altternative sul dizionario AAA (oltre ai miei libri). Se sommi queste cose qualcosa ho provato a smuovere. Purtroppo in Italia iniziative come le mie sono fatte da privati che fanno tutto ciò come volontariato, senza finanziamenti. All’estero sono realizzate dalle istituzioni e la “politica linguistica” del nostro Paese sembra invece che pensi di investire i soldi in un bel museo… Io più di quel che sto facendo non so proprio che altro fare… Sto cercando di “fare Rete” e tutto sommato non sono così insoddisfatto dei risultati, anche se uno scoglio non può certo arginare il mare.

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      • Zoppaz, secondo me non è ancora il momento di chiudere tutto a breve ed inviare subito. Anche se siamo ancora lontani dalle 5000 firme (a proposito, siamo appena saliti a 3.701 firme) tuttavia consiglio di concedere ancora un anno di tempo se possibile, non si sa mai.

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          • Vero, ma anche a prescindere dagli obiettivi della piattaforma io aspetterei comunque di raggiungere 5000 firme (non vedo poi una pressante urgenza, anzi – finché il Covid fa da padrone fra le notizie si è svantaggiati, credo, anche se probabilmente lo sarà ancora a lungo, temo).
            Adesso il Miur parla spesso, in riferimento ai supplenti da assumere, di “call” veloce: è così penoso, ridicolo, stride terribilmente e… fa venire i calli.

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            • I giornali avrebbero parlato della petizione nel momento del suo lancio, adesso manca la “notizia” e dubito che le diano spazio. Il Miur… plasma e abitua gli studenti al linguaggio che parleranno sul lavoro. Internet, inglese e impresa… le 3 i di Berlusconi e della Moratti, ma anche prima la riforma Berlinguer non era da meno, hanno prodotto lo sfacelo universitario e scolastico a cui stiamo assistendo. Il modello è quello statunitense, numeri chiusi, domande a selezione multipla invece di approci critici e qualitativi, pragmatismo… l’itanglese che usa è solo la punta del banco di ghiaccio!

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              • Secondo voi, il fatto che la storia della petizione sia stata ignorata dai nostri giornali (a parte una fonte recente di circa una settimana fa) è dovuto per disinteresse oppure perché semplicemente i nostri giornalisti erano troppo concentrati sulla storia della pandemia? (dopotutto lo scorso maggio, quando fu lanciata la petizione, eravamo ancora in quarantena)

                Comunque sia non dobbiamo arrenderci così facilmente, bisogna invece continuare ad insistere nella nostra battaglia.

                Non importa quanto siano sufficienti le firme che abbiamo raccolto fin’ora ma penso possa funzionare lo stesso. Chissà cosa ne penserà Mattarella della nostra “supplica” che noi cittadini chiediamo. Inoltre mi vien da chiedermi : se per ipotesi il Presidente della Repubblica dovesse approvare questa iniziativa, come potrebbe reagire il resto della classe dirigente (compresi gli “invasati”) ?

                Zoppaz, capisco il tuo pessimismo, tuttavia ricordati che la storia è ciclica : prima o poi questo sfacelo dell’Italia un giorno dovrà finire, non importa quando o come (nel bene o nel male chissà ) ma qualcosa dovrà accadere in futuro. Il tempo c’è lo dirà.

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                • Non so perché nessuno abbia riportato la notizia, la pandemia sicuramente non ha aiutato, ma forse sotto c’è quacosa di più profondo: tocca un tabù. Un conto è il lamento genercio per il troppo inglese, i giornali danno spesso spazio a queste cose, ma rimangono nell’ambito dell’articolo che denuncia e basta (e infatti i giornali sono i primi untori dell’itanglese). Credo che la richiesta di interveire spaventi.

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  3. Sì un museo è proprio quello che ci vuole per promuovere la lingua italiana. Io ci aggiungerei anche una bella lapide magari con la scritta R.I.P. acronimo naturalmente in inglese.
    Scherzi a parte se questa roba è promossa dai nostri politici possiamo stare sicuri che ne vedremo delle belle
    In Italia ormai per quanto riguarda il modo di esprimersi si vive in una situazione surreale, il virus anglicus fa il paio con quello a corona e secondo me miete molte più vittime. Non ci sono soltanto gli anglicismi nel parlare, ma anche e soprattutto la moda, diventata quasi regola, di titolare tutto in inglese anche le cose più squisitamente italiane.
    Ultimo esempio: “I love my radio” l’evento che celebra i 45 anni del sistema radiofonico italiano e della canzone italiana. Se volete potete seguirlo “on line” sul sito Ilovemyradio.it e tra poco naturalmente anche “on air” come sostengono sul sito stesso.
    Ma è tutto così ovunque ti volti. Mi stanno rovinando anche la passione per il cinema. Ho appena visionato un bel nero d’azione “City of Crime”. Pensavo fosse il titolo originale in inglese visto che sempre più spesso li prendiamo così senza neanche più tradurli, invece no. E’ la versione tutta “italiana” di 21 Bridges.
    Ma che popolo di imbecilli siamo?

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