L’imposizione manipolatoria dell’inglese nella comunicazione pubblica

Di Antonio Zoppetti

Durante l’Occupazione, mille parole tedesche sono spuntate sui muri di Parigi e di altre città francesi. È iniziato qui il mio orrore per le lingue dominanti e l’amore per quelle che si volevano eradicare. Visto che oggi, in quegli stessi luoghi, conto più parole americane che non parole destinate ai nazisti all’epoca, cerco di difendere la lingua francese, che ormai è quella dei poveri e degli assoggettati. E constato che, di padre in figlio, i collaborazionisti di questa importazione si reclutano nella stessa classe, la cosiddetta élite.
(Michel Serres, Contro i bei tempi andati, Bollati Boringhieri, 2018).

Ogni volta che prendo un Frecciarossa vengo travolto da nuovi anglicismi imposti agli utenti in modo voluto e prepotente. I clienti, che un tempo per definizione avevano sempre ragione, si sono trasformati in utenti da manipolare; e la prima regola della comunicazione trasparente, che una volta presupponeva l’adozione di un linguaggio adatto e comprensibile per il destinatario, è stata sostituita dalle nuove prassi che impongono a tutti la lingua decisa dagli strateghi della comunicazione con il risultato che è il destinatario che deve per forza di cose assoggettarsi alla terminologia decisa dal mittente.

La lingua è potere. Attraverso le parole si può controllare il destinatario, intimidirlo, trasformare chi non è d’accordo in chi non ha capito, e soprattutto educarlo. La lingua della comunicazione pubblica, cittadina e istituzionale ci martella a suon di anglicismi in modo sistematico e ben preordinato. E la sensazione è davvero quella di vivere in un Paese occupato.

Cronaca di un viaggio nell’itanglese

Alle 9 esco di casa per raggiungere la stazione. Passo davanti all’insegna di un Italian Bakery aperto non da molto accanto all’Italian Hair Line. Si tratta banalmente di un fornaio e di un parrucchiere in un’area semiperiferica o semicentrale (dipende dai punti di vista) di Milano, in un quartiere popolare dove non ci sono turisti. Queste attività commerciali che si elevano attraverso l’inglese magari con il pretesto di voler essere internazionali hanno come clientela gli italiani che scendono nel negozio sotto casa, o se sono di passaggio sono attirati dalle pizzette nelle vetrine, ma dubito che mediamente sappiano cosa significhi “bakery”.

Alle 9 e 15 sono in metropolitana. A quell’ora l’affluenza è media, c’è persino qualche posto a sedere. Mi guardo intorno. Ci sono studenti, gente comune, e una buona fetta di “stranieri” di varia provenienza. Cinesi, ispanici, altri che parlano in qualche lingua che non identifico, e che dall’aspetto potrebbero essere arabi, rumeni, slavi… ma non vedo inglesi o americani. Eppure la comunicazione è bilingue a base inglese, nella cartellonistica e soprattutto negli annunci sonori. A ogni fermata l’inglese ti penetra come un mantra: prossima fermata Loreto, next stop Loreto
La porta della carrozza è interamente coperta da una pubblicità con scritte in inglese e, in piccolo, un motto italiano che specifica di cosa si stia parlando, ma anche la logica degli altri pannelli pubblicitari segue quasi sempre lo stesso andazzo.

Alle 9 e 30 attraverso il “gate” della stazione (a Milano non ci sono le porte, solo i gate), mi dirigo verso il mio binario e mi sento sollevato perché penso a come è bello che ci sia ancora il “binario”, anche se mi assale l’angoscia che la prossima volta a qualcuno sarà venuto in mente di chiamarlo tracks o alla peggio binary, perché binario è un po’ troppo italiano. Su Italo hanno già sostituito ufficialmente il “capotreno” con il train manager, nella comunicazione ai passeggeri e anche nei contratti di lavoro.
Intanto devo preoccuparmi di fare il “Self Check In” del mio “ticketless”, perché le Ferrovie hanno deciso che la “convalida” “del “biglietto digitale” si debba chiamare in inglese. È la globalizzazione bellezza! È la nuova terminologia imposta alla gente, e se qualcuno si perde e non capisce, il personale gli spiega tutto nella terminologia che hanno deciso gli strateghi della “comunication”. Cartellonistica e annunci sono solo in italiano e inglese. Il mantra dell’inglese sonoro, come nella metropolitana, ritorna ad anglificare la mente e il cuore dei passeggeri. Un tempo c’erano i corsi di lingua da apprendere durante il sonno, adesso lo si può fare anche nel dormiveglia in treno, il corso d’inglese è compreso nel prezzo del biglietto. Il plurilinguismo non esiste, è stato cancellato.
Guardo i nuovi schermi informativi in italiano-itanglese o inglese, e ripenso ai vecchi cartellini che invitavano a non sporgersi dai finestrini, a non gettare oggetti e a non fumare in quattro lingue: italiano, inglese, francese e tedesco. Oggi le altre lingue sono state buttate via. Che gli stranieri imparino l’inglese, e se no, si arrangino. L’inglese è la nuova lingua da imporre. Punto. Lo si fa nella sua interezza come lingua “internazionale” della comunicazione cittadina e ferroviaria, e attraverso gli anglicismi che vengono introdotti in italiano al posto delle nostre parole storiche.

Un annuncio spiega che per ogni reclamo è possibile usare il “webform” sul sito Trenitalia oppure il modulo cartaceo. “Webform” è il nuovo anglicismo introdotto, o forse sono io che non l’avevo mai sentito declamare prima, comunque sia fa parte ormai della terminologia ufficiale della colonia Italia. Mi domando perché un modulo digitale sia indicato come webform mentre se la stessa cosa è cartacea diventa “modulo”. La risposta è che tutto ciò che è nuovo o riguarda l’informatica viene riproposto in inglese: “webform” è ripetuto anche nella traduzione in inglese, e arriva da lì. Gli strateghi hanno pensato bene di introdurlo invece di tradurlo.

Due ore dopo il treno è in forte ritardo. Capisco che ho ormai perso la coincidenza che da Mestre mi dovrebbe portare a Pordenone. La gente è spazientita. Arriva l’annuncio ufficiale e rimango incredulo di fronte a quelle parole, soprattutto quando vengo informato anche attraverso un messaggino:

“A causa di un guasto … il tempo di viaggio del treno Frecciarossa XXX è superiore di circa 30 minuti rispetto al programmato … Distinti saluti, Customer care…”

Nulla è lasciato al caso. Gli strateghi della comunicazione devono aver pensato di eliminare la parola “ritardo” che probabilmente suscita “vibrazioni negative” per l’azienda (e incentivano la richiesta dei rimborsi), dunque preferiscono usare la locuzione manipolatoria “il tempo di viaggio è superiore di 30 minuti”. Nove parole contro una: ri-tar-do. In compenso non si firmano Assistenza clienti, ma Customer Care, e in questo modo la presa per il culo del passeggero è conclusa. Gli strateghi della comunicazione – gli stessi che magari sono pronti a spiegarci che il ricorso all’inglese è motivato anche al fatto che gli anglicismi sono più sintetici rispetto all’italiano – hanno le idee chiare: la sinteticità è un valore solo per giustificare gli anglicismi, ma se si deve occultare il ritardo qualunque cosa va bene.

La lingua è un fiume che va dove vuole?

Qualche ora dopo sono finalmente al mio dibattito su dove sta andando la lingua italiana. Il mio interlocutore è un convinto seguace del “liberismo” linguistico, sostiene che la lingua è un fiume che va dove vuole, non è possibile controllarla.

Chiedo: ma “la lingua è un fiume che va dove vuole chi?”. La gente e il popolo? Mi pare che vada dove vuole chi è nelle condizioni di imporla al popolino a cui non resta che ripetere self check in e gli altri 4000 anglicismi che ci arrivano prevalentemente dall’alto, dall’espansione delle multinazionali e della loro lingua, dalla nuova cultura coloniale dove sembra esserci solo l’inglese e dai collaborazionisti dell’inglese che si annidano proprio nelle élite. Il punto è che l’acqua “va dove vuole” nella natura selvaggia, altrimenti viene incanalata per farla scorrere sotto i ponti delle città, nei sistemi di irrigazione, mentre si costruiscono gli argini proprio per orientarne i flussi, e quando le acque tracimano è perché è mancata la manutenzione, sono stati trascurati o fatti male.

L’idea che orientare la lingua sia un’imposizione autoritaria è tipica italiana, perché prevale lo stereotipo che l’unico modello di politica linguistica a cui guardare sia quello del fascismo. Mi viene fatto notare che anche se da un punto di vista razionale una parola come “covid” che indica una malattia, e non un virus (il coronavirus), dovrebbe essere femminile, e nonostante inizialmente l’allora presidente della Crusca avesse consigliato di usare il genere più appropriato, nell’uso si è imposto il maschile. Questa non è però la prova dell’ingovernabilità della lingua, ma del fatto che da noi mancano delle istituzioni che la regolamentino in modo ufficiale. Infatti anche in Francia si è posta la questione, e il giorno dopo che l’Accademia francese ha spiegato la correttezza del femminile, tutti si sono adeguati e hanno scritto così, non perché l’accademia sia un organo che obbliga la gente a parlare in un certo modo, tutto il contrario: la gente – e i giornali – riconoscono questo ruolo di consulenza che accettano e seguono, contenti che esistano delle prescrizioni e delle uniformazioni su cui modellarsi. Da noi questo ruolo appartiene ai mezzi di informazione che si muovono in modo caotico, istintivo e spesso pasticciato (oltre a preferire l’inglese). C’è insomma una bella differenza tra autoritarismo e autorevolezza, tra imposizione forzata e spontaneo riconoscimento di un punto di riferimento normativo necessario per conservare l’integrità e l’identità linguistica.

E allora è più sensato seguire l’autorevolezza di un’accademia o lasciare che la lingua la facciano i giornali o le ferrovie? Se questi ultimi introducono l’inglese al posto dell’italiano non è anche questa un’imposizione?

Mentre nell’italietta provinciale pensiamo che lo tsunami anglicus sia inarginabile, all’estero gli argini si costruiscono e funzionano, magari non sempre, ma complessivamente l’anglicizzazione del francese o dello spagnolo non è certo paragonabile alla nostra. Il liberismo linguistico, che io chiamo invece anarchismo metodologico, presuppone che sulla lingua non si debba intervenire, il che è una presa di posizione politica (più che linguistica) comprensibile ma anche discutibile. Per giustificarla si dice che tanto non è possibile imporre alla gente come parlare. Ma basta prendere un Frecciarossa per constatare che non è affatto così. La verità è che la lingua è un meccanismo di imitazione per cui la gente segue i modelli che arrivano dai centri di irradiazione linguistici, e questi ci stanno presentando un ben preciso modello di newlingua che di liberale non ha proprio nulla. Vige la legge del più forte, e non voler tutelare l’italiano davanti alla glottofagia dell’inglese significa essere complici della sua distruzione, che qualcuno scambia per una “normale” evoluzione e pensa pure che arrivi dal basso, come se l’attuale “dittatura dell’inglese” fosse qualcosa di “democratico”.

A me pare invece che siamo in presenza di un cambio di paradigma conflittuale dove una minoranza di collaborazionisti che occupano i centri di irradiazione della lingua – dalle istituzioni ai mezzi di informazione – sta educando le masse e imponendo la lingua dei padroni. A questo modello dominante bisognerebbe contrapporne un altro, che purtroppo non si vede tra gli intellettuali, ma è invece presente e sentito in larghe fasce della popolazione che non ne possono più degli anglicismi e si trovano tagliate fuori.

23 pensieri su “L’imposizione manipolatoria dell’inglese nella comunicazione pubblica

  1. Caro Antonio, come al solito “chapeau”! (Sì, proprio un francesismo crudo, ultimamente li adoro dato lo tsunami di anglicismi).

    Anch’io in un recente viaggio ferroviario ho provato le stesse tue sgradevoli emozioni, in particolare per il modulo che, se cartaceo, rimane “modulo”, altrimenti “webform”.

    Penso che ormai la diagnosi sia stata ampiamente fatta, tutti noi siamo disgustati e avremmo mille esempi da citare e di cui lamentarci. Occorre passare sempre di più all’azione.

    Tu in questo sei stato e sei encomiabile (libri, alternative agli anglicismi, interventi pubblici…) e un modello per tutti noi. Io, più modestamente, faccio l’attivista nel mio lavoro, con qualche lettera ai giornali e alle aziende e poco più.

    Spiace però constatare che qualcosa non sta funzionando nella nostra azione, più o meno significativa. Lo tsunami continua, insensibile ai nostri lamenti.

    Perché non sta funzionando? E soprattutto, cosa potremmo fare per farla funzionare? Qui viene fuori l’ingegnere che è in me (un po’ nascosto per la verità) e vedo una “bella” tabellina con l’analisi di quello che stiamo facendo e i motivi della scarsa efficacia. Poi, in positivo, come e cosa potremmo migliorare?

    Magari potrebbe servire un bell’incontro (in presenza?) in cui, da “carbonari”, potremmo fare una bella disanima delle azioni concrete possibili per passare tutti dalla fase della denuncia e del lamento a quella costruttiva, anzi distruttiva verso il morbus anglicus.

    Sono un ingenuo disilluso? Forse sì, ma penso che in caso contrario non ci resti che la rassegnazione.

    Un caro saluto a tutti.

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    • Se la lingua è gramscianamente qualcosa che arriva dall’alto, dalle classi dirigenti e dalle istituzioni, c’è ben poco da fare dal basso (a parte la “rivoluzione” o comunque l’attesa di un cambio di dirigenza). Le pressioni globali dell’inglese internazionale non si arginano con la buona volontà di qualche cittadino (tra l’altro il progetto dell’inglese globale implica interessi politico-economici che passano sopra le teste di chiunque, non è che dire basta alla guerra è in grado di fermarla… ). A parte fare rete e cultura (informare, divulgare, riflettere) c’è poco da fare dal basso. Il problema è politico, ma la politica si volta dall’alta parte anche di fornte alle petizioni, alle raccolte firme, alle porteste organizzate. Occorrerebbe creare un movimento culturale che porti a pressioni sociali, esattamente come avviene in nome del politicamente corretto, della femminilizzazione delle cariche… Ma un conto è individuare la strada teoricamente (personalmente ho presentato persino una proposta di legge di iniziativa popolare) e un conto è essere in grado di creare un movimento con un ampio consenso e organizzato. E questo non sono in grado di farlo.

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      • Certo, ma se scoprissimo che qualcuno di noi ha contatti con un influenzatore (o -trice) di grosso calibro che perori la causa e che su TikTok prenda in giro gli anglicismi e se molti ragazzi/e iniziassero a riscoprire le AAA?

        Se scoprissimo che qualcuno ha contatti con politici in grado di lanciare una “pubblicità Progresso” accattivante e divertente?

        Se…

        OK, sono un illuso… 🙂

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        • Diciamo che se ci fossero 10.000 illusi attivisti come te sarebbe più fattibile. Personalmente faccio quello che posso e non credo di essere in grado di fare di più. Ho provato a coinvolgere ogni personaggio pubblico che si è espresso contro l’abuso dell’inglese, e ho scritto a tutti nella speranza di conivolgerli in una campagna mediatica in cui fossero disposti a “mettere la faccia” (Riccardo Muti, Gianna Nannini, Nanni Moretti, Elio delle storie tese, Dacia Maraini, Corrado Augias e tanti altri), ma nessuno mi ha mai risposto, anzi probabilmente avran pensato che fossi uno squilibrato (e non è detto che forse non lo sia).

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        • Bisognerebbe prendere un articolo scritto da un inglese o da un americano e modificarlo sostituendo alcune parole con corrispettivi italiani e vedere come suona. Sono anni che vorrei fare una cosa del genere.

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          • In inglese i forestierismi crudi sono pochissimi e rarissimi (al contrario delle parole straniere adattate che come avviene nelle lingue sane sono invece tanti). Le linee guida e iconsigli degli scrittori anglofoni da Orwell (Politics and the English Language) a quelle dei giornali consigliano di evitare parole straniere in presenza di corrispettivi inglesi, ed è normale, lì.

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  2. È veramente triste questa situazione. Italian Bakery… perché Forno o Panificio sarebbe stato… retro. Questa tendenza è per l’illusione di essere superiori, di aver creato qualcosa di nuovo.

    Il lato peggiore della faccenda è che non esista un’istituzione che ponga un freno a tutto ciò. Se fossi il direttore di una rivista o di un telegiornale o di uno spettacolo, vieterei gli anglicismi. Altro che new entry, sold out, red carpet ecc.

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    • Anche per me ci vorrebbe questa istituzione, ma i linguisti e molti altri non la vogliono proprio perché credono che la lingua non si debba difendere ma sia un processo che si autoregola. Ma di fronte all’attuale tendenza cannibale del globalese il liberismo inteso come non fare niente si trasforma nello stare a guardare questo processo glottofago. Un po’ come dire che se le balene rischiano l’estinzione invece di proteggerle bisogna accettare la selezione naturale perché un biologo studia la vita, mica la deve proteggere. Peccato che l’estinzione dipenda non dalla selezione naturale ma dalla dissennatezza dell’uomo.

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  3. Buon Dantedí Antonio!

    Anch’io avrei delle esperienze di itanglese da parlare.

    La metropolitana che prendo tutti i giorni per Torino si rivolge esattamente con una comunicazione bilingue italiano – inglese anziché tetralingue. Stessa cosa anche per il bilinguismo dei musei che visitai di recente (unica parziale eccezione il museo dell’automobile dove almeno le spiegazioni sui teleschermi delle audioguide sono scritte anche in spagnolo, francese e tedesco).

    Un giorno la segretaria della scuola dove lavoro stava seguendo una video conferenza sul tema dei distributori automatici nelle scuole, che però vengono chiamati “vending machine” dai presentatori del video (questo mi mancava proprio! ).

    Nel mio paese di residenza, Givoletto (che ha poco più di 9.950 abitanti, quindi non è così “cosmopolita”), visitai una palestra all’aperto (installata già da circa due anni) che però si chiama “Area Outdoor Fitness” (e a loro volta tre delle cinque attrezzature disponibili sono chiamate in inglese).

    Sempre dalle mie parti c’è un doposcuola il cui motto ufficiale recita “education and fun”, l’estate ragazzi che da un bel po’ di anni venne ribattezzato “Young Animation” e poi due bar i cui motti recitano “food and drinks” (unica soddisfazione è la presenza almeno di “vineria” invece di “winebar”.

    E fu così che l’itanglese dall’alto viene imposto anche nelle campagne…

    Poi Antonio, visto che parliamo di linguisti (salvo eccezioni) mi chiedo : tutti quei linguisti “anarchici” convinti che la lingua “va dove vuole” sono a loro volta sostenitori incalliti della neolingua itanglese, giusto? A differenza dei linguisti “seri” (in minoranza) che invece dovrebbero accorgersi eccome sul cattivo stato della lingua italiana che sta subendo e quindi provare a fare qualcosa piuttosto che continuare ad appellarsi alla “legge della giungla”.

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    • Le testimonianze dell’imposizione dell’itanglese sono innegabili, e comunque la storia del colonialismo anche linguistico segue una ben precisa strada: la conquista delle istituzioni, poi della scuola, dunque dei grandi centri e delle èlite per poi diramarsi nelle zone periferiche un tempo rurali.
      I sostenitori del liberismo, che io chiamo provocatoriamente anarchismo, non sono necessariamente anglomani, semplicemente non considerano il fenomeno preoccupante, o da arginare, ma un’evoluzione che tuttavia a mio parere porta a una lingua diversa dall’italiano. Questo per alcuni non è un problema, indipendentemente dalla loro “serietà”. Il prof De Martino (oltre a essere simpatico) è un dantista tra i più seri e qualificati, a scanso di equivoci, non è un “sostenitore dell’itanglese”. Sposa però una visione politica della lingua diversa dalla mia, e ritiene che in Italia la diversa situazione sociale rispetto a Francia o Spagna renda le stesse politiche inapplicabili. Per me invece sarebbe auspicabile costruire le condizioni sociali di regolamentazione e pianificazione linguistica proprio come in quei Paesi.

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  4. Type / to choose a block è la scritta che appare nel riquadro dedicato al commento. Andiamo bene! Sì, l’uso dell’inglese è fastidioso, non necessario, manifesta soggezione culturale – e quindi politica – alla lingua del potere. E il bello è che un giornale ‘antiamericano’ come Il Fatto Quotidiano nella edizione informatica annuncia una nuova iniziativa che si intitola Ask me anything (chiedimi qualsiasi cosa) rivolta a una ‘community’, cioè a un gruppo di lettori. Non c’è niente da fare, è un vizio che sa di servilismo più che di snobismo. Però bisogna anche dire che questa stupida anglicizzazione resta di solito a un livello d’uso pregrammaticale, solo terminologico, che non ha niente a che fare con la capacità di usare la lingua inglese, come i termini latini ancora in uso nel linguaggio giuridico anglosassone non implicano la conoscenza del latino. Ma per me, come le ho detto alla fine della sua conferenza pordenonese, il vero problema è la qualità dell’italiano insegnato nelle scuole: da qui commenti del tipo: ‘cosa dobbiamo assistere’, ‘invito di non lasciare’, ‘capace a’ e ‘diritto a’ l’incidente ‘sul terreno’, indicativi e congiuntivi usati a casaccio’ , fino al ‘Caprio espiatorio’ (con la maiuscola) letto due giorni fa…   

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  5. Sulla scritta in inglese nei commenti non ne so niente (io vedo “scrivi un commento”); forse dipende dagli strumenti che usa lei o da qualche altra impostazione su cui non ho il controllo. Questo è un problema notevole per chi, come me, usa una piattaforma gratuita pensata in inglese e tradotta solo parzialmente, che non è facile da controllare e personalizzare. E anche se ci ho provato sostituendo home page con pagina principale, e-mail con posta… a ogni aggiornamento del sistema il rischio è che si ripristino messaggi inglese automatici, che non è facile individuare e correggere per chi non è uno smanettone (non sono in grado di controllare i messaggi di sistema di WordPress, ma solo l’interfaccia del sito).

    Sul servilismo sono d’accordo con lei, e anche sul fatto che il linguaggio della sinistra ostenti gli anglicismi in modo particolarmente fiero (e sciocco). Anche a me pare che l’uso di anglicismi e conoscenza dell’inglese non siano sempre correlati. A livello terminologico entrano spesso proprio perché si prendono i tecnicismi inglesi dai rispettivi ambiti, ma in molti altri casi si ricorre a pseudoanglicismi che suonano inglesi ma non lo sono o hanno altri significati, come basket per basketball, accezioni tecniche assenti nella lingua di origine come caregiver, o l’unione di radici ricombinate all’italiana come smart working. A questo proposito si esce dalla semplice terminologia e dal lessico e si registrano le prime regole a orecchio che portano appunto all’itanglese: importazione di espressioni con inversione sintattica (social media manager); prefissi formativi (baby cyber, under, over, no + inglese); suffissi all’inglese (blogger e non bloggatore, governance e non governanza), parole ibride che non sono più né italiane né inglesi (leaderismo, screenare….). Se il settore dell’alimentare è ormai denominato del Food non è una scelta terminologica, mi pare che ci sia una riconcetualizzazione delle cose in inglese con abbandono dell’italiano. E sul fatto che questo fenomeno si innesti su una pessima conoscenza dell’italiano sfonda una porta aperta. L’ignoranza della nostra lingua favorisce il ricorso all’inglese (spesso stereotipato) proprio perché spesso non si conosce l’italiano, materia che un tempo era centrale nelle scuole e che oggi scivola in secondo piano e produce una cultura di base dall’italiano povero se non incolto. E questo dipende certamente dalla scuola, anche se non avviene per colpa degli insegnanti, ma delle politiche scolastiche che negli ultimi decenni l’hanno molto trasformata.

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  6. Eccone un’altra a proposito della patetica “cazzutaggine” di Trenitalia.
    In attesa del mio treno per Milano, alla stazione di Brindisi sento l’altoparlante annunciare l’arrivo dell’ “Apulia Express”.
    Che roba è questa qua? È l’ “Orient Express” proveniente da Parigi che adesso fa il giro del Salento anziché delle capitali danubiane? È il “revamping” dello storico “Espresso del Levante” (treno di emigranti pugliesi degli anni ’70) ?
    Lo spiega l’alto parlante stesso: “regionale veloce ‘Apulia Express’ da Bari a Lecce è in arrivo sul secondo binario”.
    Dunque non è altro che una tradotta di pendolari pugliesi.
    Mi piacerebbe guardare in faccia chi ha maturato quel nome e magari anche una scansione del suo cervello intanto che .. tirava fuori quella genialata. Sono convinto che erano coinvolte le stesse aree del cervello attivate dall’orgasmo sessuale!

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  7. Forse si pensa che l’inglese sia più “inclusivo” dell’italiano, nel senso che, avendo ormai una percentuale a due cifre degli abitanti di molte delle nostre città una storia personale o familiare di migrazione (il che è del tutto fisiologico, del resto anche l’antica Roma era abitata in non piccola parte da gente provieniente dalla più varie province dell’impero), l’inglese sia compreso più facilmente e da un maggior numero di persone.

    Mi sono domandato se ciò sia stato verificato empiricamente.

    Si consideri che molte delle maggiori nazionalità migranti (non “etnie”, che vuol dire tutt’altra cosa e usarlo per dire “nazionalità del sud del mondo” mi suona discriminatorio oltre che improprio) provengono da Paesi non anglofoni (Romania, Albania, Marocco, Cina, Senegal …) e quindi l’inglese non è detto che lo conoscano mediamente meglio degl’italiani, o da Paesi dove l’inglese è bensì lingua ufficiale, ma non lingua materna e colloquiale (India, Pakistan, Nigeria …) e che, quindi, se non hanno goduto d’una buona scolarizzazione nel Paese d’origine, anch’essi è difficile che abbiano competenze d’inglese particolarmente solide.

    Si consideri anche il (preoccupante) fattore dell’invecchiamento della popolazione: una proporzione alta della popolazione ha frequentato le scuole quando l’inglese non era ancora obbligatorio e si poteva ancora liberamente scegliere di studiare francese o tedesco (a proposito di liberismo linguistico!) e quindi non so se proprio si trovi a suo agio di fronte al “(quasi) tutto inglese” in cui quotidianamente ci s’imbatte.

    Io divido il mio tempo tra Brescia e Montichiari, non propriamente metropoli, comunque constato a anche qui la progressiva anglicizzazione del “paesaggio linguistico”, inteso come visibilità delle lingue.

    La metrò leggera è bilingue negli annunci ufficiali, spesso monolingue inglese nella pubblicità (compresa quella dell’azienda stessa di trasporti); il motto dell’anno scorso “Siamo capitale della cultura” era sì in italiano, ma l’anno 2023 era scritto 20 23 andando a capo, evidente invito a leggere “venti ventitré” per insegnarci come si leggono in numeri in inglese (ma se io dicessi “duemila tre e venti” per insegnare ai miei allievi come si leggono i numeri in tedesco sembrerei certo uno stravagante!). A Montichiari le insegne sull’ingresso delle scuole sono rigorosamente bilingui, con eguale evidenza grafica della scritta inglese rispetto a quella italiana: giusto per suggerire che l’inglese sia una lingua altretttanto d’uso altrettanto “normale” dell’italiano.

    La struttura che mette(va) (tra poco sarà smantellata) in comunicazione visiva e audio la piazza Vittoria di Brescia col Sentierone di Bergamo era “The gate”. Perché invece non s’è pensato di chiamarla un po’ più originalmente “La Pórta”, con la -ó- chiusa che accomuna e contraddistingue i dialetti bresciano e bergamasco – e comunque comprensibile per tutti i neolatinofoni e in fondo anche per gli anglofoni (visto che “port” esiste in inglese, seppure con un significato ristretto e traslato)?

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    • Caro Pontoglio, “l’inclusività” dell’inglese punta a inglobare tutti n una lingua-pensiero-cultura unica che di fatto esclude le altre, le rende di rango inferiore e crea barriere e fratture sociali. Dai dati ufficiali l’inglese è conosciuto da circa il 20% dell’umanità, da una minoranza degli europei e anche degli italiani. Lo si sta però imponendo ai cittadini, attraverso l’insegnamento obbligatorio sin dalle elementari per creare le nuove generazioni bilingui a base inglese, attraverso la comunicazione cittadina e anche istituzionale (a partire dai documenti sino alla comunicazione delle Fs) e in mille altri modi. L’imposizione delle lingue avviene con queste modalità, alla faccia di chi crede che le lingue siano fiumi che vanno dove vogliono: in realtà vanno dove i costruttori degli argini e dei canali li orientano, e far credere che le lingue arrivino dal basso come fossero un processo democratico, popolare o spontaneo è una grandissima bufala.

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