Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati è “GDPR” (solo in Italia)

Come nelle barzellette, ci sono un italiano, un francese, uno spagnolo e un tedesco.

Da qualche giorno tutti ricevono varie missive di posta elettronica (in italiano dette email) che informano sugli aggiornamenti dell’informativa dei dati personali (in italiano spesso detti  “Aggiornamenti della Privacy Policy” come mi capita di ricevere)  per l’adeguamento al Nuovo Regolamento Europeo per la protezione dei dati personali.

Si tratta di un testo del 2016 che è entrato in vigore il 25 maggio 2018 e che in italiano è detto in inglese, con la sigla GDPR (General Data Protection Regulation).

In questa barzelletta, gli altri cittadini europei chiedono stupiti all’italiano perché lo chiami GDPR e non RGPD (Regolamento Generale Protezione Dati) e sono anche sorpresi che il nostro connazionale parli di “privacy” che pronuncia curiosamente all’americana (pràivasi) e non all’inglese (prìvasi).

Sulla Wikipedia italiana si legge:

“Il regolamento generale sulla protezione dei dati (…) meglio noto con la sigla GDPR, è un regolamento dell’Unione europea in materia di trattamento dei dati personali e di privacy”.

L’italiano è convinto che la sigla GDPR costituisca un anglicismo “necessario”, perché si tratta di un internazionalismo che ci viene dall’Unione Europea, come fosse il “nome proprio” e intoccabile di un provvedimento emanato dall’alto che non va messo in discussione, perché è un segno di modernità e di adeguamento a una lingua superiore, anche se di fatto sarà presto extracomunitaria se non nei cavilli burocratici.

Davanti a questi ragionamenti gli altri ridono e la barzelletta finisce qui. Purtroppo, per noi c’è ben poco da ridere.

Il punto è che negli altri Paesi europei si dice RGDP. Dunque per sentirci “europei” e internazionali bisognerebbe dire così, nella nostra lingua, e non in inglese.

Basta con GDPR: in italiano si dice RGDP

La voce della Wikipedia francese riporta la sigla inglese solo come variante secondaria. Quella spagnola riporta soltanto la sigla RGDP, esattamente come quella portoghese.

Anche la Wikipedia tedesca traduce nella propria lingua l’acronimo: Datenschutz-Grundverordnung (DSGVO) e riporta la sigla sia in inglese sia in francese, a testimonianza di come ogni Paese (tranne l’Italia, ovvio), come è naturale, usa la propria lingua invece di ripetere a pappagallo e a vanvera l’inglese: negli articoli informatici tedeschi da tempo la questione si esprime in tedesco, cosa che forse a noi sembrerà strano, ma che è normale negli altri Paesi.

Questo è solo un esempio di come siamo succubi davanti all’inglese. Anche le altre sigle sono tradotte dagli europei (ne ho già accennato in passato, ma ripeterlo è utile): in Francia, Spagna e Portogallo si parla di SIDA (Sindrome di ImmunoDeficienza Acquisita) e non di AIDS, di OVNI (Oggetti Volanti Non Identificati) e non di UFO, il DNA è ADN (Acido DesossiriboNucleico), mentre USA in spagnolo si dice EE.UU. (Estados Unidos) e in francese EU (États-Unis), così come ISIS è EI (Estado Islámico e État Islamique) e in generale tutte le sigle si adattano all’ordine delle parole delle rispettive lingue, e non rimangono senza adattamenti e traduzioni come da noi.

In sintesi: da noi manca la cultura della nostra lingua. Non ci sono filtri per arginare la penetrazione degli anglicismi, non ci sono politiche linguistiche, i giornali ripetono le cose in inglese, il linguaggio dell’informatica è ormai mutilato, quello della moda è in itanglese, come quello del lavoro, e persino quello della politica, delle leggi e del fisco si sta sempre più anglicizzando. Il gruppo Incipit, a 3 anni dalla sua costituzione, ha prodotto una manciata di alternative davvero inconsistente dal punto di vista numerico. E il risultato è che gli anglicismi aumentano in modo esponenziale, le alternative italiane spesso non esistono o non circolano, con la conseguenza che i parlanti troppo spesso sono costretti a ripetere ciò che passa il convento anglofilo-monolinguista senza alcuna libertà di scegliere come esprimersi.

 

[Ringrazio Giuliano Iodice per la segnalazione del caso e di quanto avviene nella lingua tedesca]

Il nome della cosa: itanglese, itangliano, itanglish, italianese, italiaricano…

Il 26 settembre del 1959, in un articolo apparso su France-Soir, “Potins de la grammaire”, firmato da Maurice Rat,  fa la sua comparsa la parola franglais, formata dalla contrazione di français e anglais. Cinque anni dopo, il termine diventa il titolo di uno storico libro di René Étiemble, Parlez-vous franglais? (Gallimard, Parigi 1964) che denuncia esplicitamente la penetrazione delle parole inglesi nella lingua francese. L’anno seguente De Gaulle commissionò a René Étiemble un rapporto sullo stato delle cose, e da questi risultati nel 1972 fu emanato il primo decreto del primo ministro Jacques Chaba-Delmas, che inaugurò la politica linguistica francese nei confronti degli anglicismi.

Italiese e italese

In Italia, la parola italiese circolava sin dagli inizi degli anni Sessanta, ma non indicava la contaminazione con l’inglese, bensì l’uso errato e sgrammaticato della nostra lingua che fu esemplificato nel Prontuario d’italiese di Enno Flaiano (Henry Beyle 1967).

Presto però il termine cominciò a designare anche da noi  l’taliano compromesso soprattutto dalla commistione con l’inglese e a circolare anche nella sua variante di italese, utilizzata per esempio all’inizio degli anni Settanta dal giornalista Nantas Salvalaggio per designare:

“Il linguaggio semicomico – un intruglio di italiano e inglese – che progressivamente invade le nostre case attraverso le riviste e i fumetti dei figli.”

 

Itanglese o itangliano?

Al 1977 risale invece la coniazione di itangliano, che fa la sua comparsa nel libro Parliamo itang’liano (Rizzoli, Milano 1977) firmato da Giacomo Elliot, ma è ormai assodato che dietro lo pseudonimo ci fosse Roberto Vacca (come ha ammesso lui stesso in Roberto Vacca, “Globish o itang’liano?”, Nòva Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2007). Oggi ci può far sorridere il sottotitolo della pubblicazione spiritosa: “ovvero le 400 parole inglesi che deve sapere chi vuole fare carriera” visto che gli anglicismi in quarant’anni sono quasi decuplicati e che non c’è più tanto da ridere di fronte al fenomeno.

Nel 2000 itangliano è stato annoverato tra i neologismi della Treccani che considera questa parola “la denominazione prevalente”, e quest’ultimo termine da quest’anno è stato ammesso anche dallo Zingarelli.

L’alternativa itanglese non è invece accolta come una voce a sé dallo Zingarelli e dalla Treccani, anche se mi pare oggi più in voga, ma è stata invece registrata dal Gabrielli già da alcuni anni (che non include itangliano) e anche dal Devoto Oli, che ne data l’apparizione nel 1999.

 

Itanglish, italianese, italiamericano…

Alla voce itangliano, sulla Treccani, si specifica che

“altri termini sono stati coniati a definire il linguaggio che risulta dalla «mescolanza di vocaboli e costrutti italiani e inglesi»: italiaricano, itanglese, italiese, itenglish (Schweickard 2006: 562)”.

A dire il vero itenglish non ha goduto di una fortuna significativa, e caso mai si è diffuso maggiormente itanglish, inoltre il Devoto Oli, per non far torto a nessuno, riporta anche l’alternativa italianese, oltre a italese, italiese, itanglese e itangliano.

Ho provato a fare qualche indagine sulla fortuna e sulle occorrenze di questi neologismi nei dizionari e in Rete, per capire qual è “il nome della cosa” prevalente.

itangliano itanglese.jpg

Le opere utlizzate sono: Zingarelli 2018, Devoto Oli 2017, le versioni in Rete un po’ più datate di Treccani, Gabrielli, Nuovo de Mauro, Sabatini Coletti. La Wikipedia rimanda a itanglese, e in alcuni casi Google non restituisce dati attendibili perché la parola viene accorpata ad altre espressioni.

Franglais, Denglisch, spanglish, englanese…

Naturalmente non c’è un solo modo per chiamare le cose, e per fortuna i sinonimi e la polisemia sono una ricchezza della nostra lingua, anche se la monosemia e gli stereotipi linguistici sono preferiti da alcuni parlanti. Ma comunque lo si chiami, il problema è sempre lo stesso e non riguarda solo il nostro Paese: in Francia c’è il franglais, ma anche il franricain, in Germania si biasima il Denglish (alla tedesca Denglisch) ma anche il Germang, in Spagna tutto ciò si chiama perlopiù spanglish, in Asia c’è l’hinglish per l’hindi, il konglish per il coreano, il tinglish per il thai, e ancora il japish o l’englanese per il giapponese e, nel mondo, le contaminazioni di questo tipo hanno tanti nomi.

Bisogna precisare che se il proliferare dell’inglese è un fenomeno mondiale connesso con la globalizzazione e l’espansione delle multinazionali americane non significa che la quantità e la frequenza degli anglicismi sia uguale in ogni lingua.

Nei Paesi dove esiste una politica linguistica come la Francia le cose vanno meglio, così come accade per la lingua spagnola (cfr. Gabriele Valle: “L’esempio della sorella minore. Sulla questione degli anglicismi: l’italiano e lo spagnolo a confronto”, in Studium. Saperi e pratiche della speranza tra teologia e filosofia, a cura di Vincenzo Rosito, Anno 109, settembre/ottobre 2013, n. 5, p. 742-767), per la Svizzera, e persino per il tedesco dove gli anglicismi dilagano come in Italia, con la differenza che si tratta di due lingue affini per cui non sempre sono percepiti come corpi estranei e passano più inosservati.

 

 

La presenza di anglicismi e altri forestierismi dallo spoglio del Devoto Oli

I linguisti che si dichiarano “non preoccupati” per la presenza degli anglicismi nella lingua italiana hanno una visione “statica” del fenomeno. Se si mostra loro che un dizionario come il Devoto Oli registra attualmente circa 3.500 parole inglesi, rispondono che comunque rappresentano solo il 2 o 3% di tutte le voci presenti in un vocabolario. Ma questo modo di annacquare gli anglicismi e di spalmarli su tutti i lemmi di un dizionario (quelli monovolume raccolgono dalle 100.000 alle 150.000 voci) non è un criterio utile per comprendere come stanno le cose, per molte ragioni.

Occorre un’analisi lessicale storica e per categorie grammaticali

Per prima cosa i dizionari registrano molte voci arcaiche, disusate, poetiche… e queste andrebbero tolte dai conteggi delle percentuali degli anglicismi, che sono invece parole moderne. Ma, soprattutto, va detto che per oltre il 90% dei casi, le parole inglesi sono sostantivi e in maniera minore aggettivi e un’infiltrazione concentrata in questi ambiti non può essere trascurata.

Se si analizzano per esempio i verbi, il Devoto Oli  ne registra circa 10.000 e tra questi ce ne sono solo un centinaio costituiti da semiadattamenti come googlare, downloadare, backuppare… che complessivamente non rappresentano una percentuale preoccupante e tale da modificare il nostro sistema verbale: si attestano intorno all’1% dei verbi.

Nello stesso dizionario, al contrario, i sostantivi registrati sono più o meno 65.000 (cifra che include circa 900 francesismi e 3.000 anglicismi) e se si escludono le voci “morte” il loro numero scende ben al di sotto di 60.000.

Comunque sia, considerando circa 3.000 sostantivi inglesi su un totale di 60.000, ecco che la percentuale dei sostantivi inglesi diventa circa del 5%, che comincia a essere un numero molto invadente, soprattutto perché, se si vanno a guardare i neologismi del Nuovo millennio, gli anglicismi rappresentano ben la metà delle parole nuove!

E allora conviene passare da una visione statica a una dinamica: bisogna cioè analizzare il fenomeno dell’inglese che penetra nella nostra lingua non come un’istantanea, ma come un flusso che cresce in modo esponenziale, ed è per questo che è preoccupante.


L’aumento degli anglicismi dall’Ottocento a oggi

L’entrata delle parole inglesi è un fenomeno che comincia a diventare massiccio dal secondo dopoguerra. Dal grafico costruito sulla base dello spoglio di Zingarelli, Devoto Oli e Sabatini Coletti si può capire meglio come stanno le cose: nella prima colonna gli anglicismi datati prima dell’Ottocento, nella seconda quelli dell’Ottocento e nella terza quelli del Novecento.

 

GRAFICO 4.1
Le datazioni e il numero degli anglicismi non adattati di Zingarelli, Devoto Oli e Sabatini Coletti sino al Novecento (A. Zoppetti, Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 81).

Davanti a questi dati non si può fare finta di niente e rispondere che l’influsso dell’inglese è ancora poca cosa: la nave imbarca acqua, e bisogna capire come arginare la falla invece di dire che ci sono solo 2 o 3 dita, se non si vuole finire con l’andare a fondo!

Per comprendere meglio i numeri, è utile fare un confronto tra forestierismi analizzando anche i francesismi e gli ispanismi, che rappresentano le due lingue che storicamente ci hanno maggiormente influenzati (al quarto posto ci sono i germanismi, mentre il contributo delle altre lingue si attesta su valori molto più insignificanti). Dalle datazioni che si ricavano dal Devoto Oli, risulta che fino all’Ottocento era il francese a costituire la lingua con un maggiore apporto di forestierismi non adattati, e che dopo la seconda metà del Novecento è successo qualcosa di anomalo e grave che non ha precedenti storici!

Va precisato che i numeri che emergono dalle datazioni digitali sono grezzi, in altre parole hanno margini di errore stimabili intorno al 10% rispetto a quelli che si possono ottenere da analisi raffinate e più ponderate. Più nel dettaglio, nelle analisi grezze, quando una parola non ha indicata una data precisa, ma solo un riferimento al secolo, può capitare che una stessa voce compaia sia nella prima metà del Novecento sia nella seconda (è il caso di “access provider”, per esempio), il che spiega perché la somma dei forestierismi di prima e seconda metà del Novecento non corrisponda esattamente al numero degli anglicismi dell’intero Novecento, ma si tratta di un margine di errore trascurabile, visti gli ordini di grandezza. Ecco perché dal Devoto Oli risulta che nell’Ottocento sono entrati 187 anglicismi (contro i 244 francesismi e i 75 ispanismi) di cui 42 nella prima metà del secolo (contro 79 dal francese e 36 dallo spagnolo) e 152 nella seconda metà (contro 173 dal francese e 53 dallo spagnolo).

Questo equilibrio si spezza nella prima metà del Novecento quando, con il finire dell’epoca della Belle époque, entrano 747 anglicismi (contro 366 francesismi e 6 ispanismi), per poi impazzire definitivamente nella seconda metà del Novecento con 2.077 parole inglesi non adattate (contro 296 francesi e 32 spagnole).

Nel Nuovo millennio (al 2017) gli anglicismi accolti sono 509 (contro 12 francesismi e 5 ispanismi) e nel grafico ho provato a ricostruire la situazione in modo visivo.

Anglicismi entrati storicamente
Le datazioni e il numero di francesismi, ispanismi e anglicismi non adattati nel Devoto Oli 2017.

Per la cronaca: i neologismi del nuovo Millennio sono in tutto 1.049, dunque la metà di essi sono parole inglesi. Ma passando dai dati grezzi a ricerche raffinate, le cose stanno anche peggio, perché sotto gli anglicismi non sono incluse parole semiadattate come i verbi switchare, spoilerare e via dicendo, né le altre parole derivate dall’inglese (selfone, customizzazione, fashionista…) che farebbero salire di non poco le statistiche e porterebbero il numero degli anglicismi del Duemila a essere maggiore di quello dei neologismi autoctoni che riusciamo a produrre.

E allora qual è il destino del lessico italiano davanti a questi dati?
Quale sarà l’italiano del futuro se le cose non cambiano?

La mia previsione è che sarà itanglese. In sintesi: la struttura dell’italiano, la sintassi e i verbi saranno sostanzialmente quelli di ieri e di oggi, mentre i sostantivi saranno in percentuale sempre più ampia parole inglesi, dalle regole ortografiche e fonetiche diverse dall’italiano storico. La nostra lingua sarà sempre più inadatta a descrivere le cose nuove, che si diranno in inglese, soprattutto negli ambiti tecnologici, scientifici e lavorativi.

Si può ancora definire “italiano” un simile idioma? Per gli anglopuristi probabilmente sì, per me no. In gioco c’è l’identità dell’italiano del futuro!

Chi definisce i forestierismi come dei “doni” e li vede come un arricchimento dovrebbe guardare il fenomeno dell’inglese nel suo divenire. Allora si renderebbe conto che il problema non è nel purismo o nel neopurismo, ma è semplicemente nel loro numero! L’esplosione dell’inglese è impazzita e non ha più controllo: sette secoli di influenza del francese hanno generato migliaia e migliaia di francesismi italianizzati, ma meno di 1.000 francesismi non adattati. Invece, in soli 70 anni, nell’arco cioè di una sola generazione, abbiamo importato 3.000 parole inglesi (e solo un ulteriore migliaio di parole inglesi italianizzate)! Non siamo più capaci di tradurre e di adattare, non sappiamo (o non vogliamo) creare neologismi al posto degli anglicismi e spesso preferiamo usare l’inglese anche in presenza di parole italiane che in questo modo regrediscono.

Una lingua è in grado di sopportare una proliferazione così massiccia e rapida senza snaturarsi e perdere la propria identità?

Il disastro della terminologia informatica italiana di fronte all’inglese

Il primo uomo al mondo (di cui è possibile documentare l’attività) che ha utilizzato un calcolatore per l’analisi linguistica è stato Roberto Busa, un gesuita italiano studioso di Tommaso d’Aquino, che sin dal 1946 aveva pensato a come utilizzare il neonato calcolatore per la catalogazione e la creazione di indici sistematici del corpus tomistico. Dopo molte trattative, nel 1949, con l’appoggio di IBM, si recò così a New York e cominciò a lavorare sulle prime gigantesche macchine a schede perforate per digitalizzare tutte le opere di San Tommaso, codificando ogni parola e registrandone tutte le flessioni in modo da poterla rintracciare nel corpus. Il primo volume di questa impresa titanica uscì nel 1951, e negli anni Novanta il suo lavoro fu riversato su cd-rom e commercializzato.

 

I primati italiani dell’informatica

Seguendo la strada aperta da Busa, il linguista Carlo Tagliavini, nel 1965, applicò un analogo trattamento alla Divina Commedia, sempre con il supporto e il finanziamento di  IBM. Poiché a quel tempo i calcolatori erano macchine ingombranti che funzionavano a schede perforate, con il testo scritto in stampatello maiuscolo che non poteva essere esportato, il risultato dell’opera fu stampato su carta: un catalogo di circa 1.000 pagine in cui, oltre al testo di Dante, venivano riportate le concordanze, il lessico, il rimario, le frequenze e altri indici che consentivano di accedere al testo per parola chiave.

Nello stesso anno, il 1965, negli Stati Uniti, Ted Nelson si inventava il concetto di “ipertesto”, ma ignorava completamente che in Italia avevamo già realizzato delle opere che erano di fatto ipertesti. Nelson racconta che l’idea gli arrivò invece da un articolo di un ingegnere americano, Vannevar Bush, che nel 1945 aveva immaginato una macchina teorica (mai realizzata) fatta di scrivanie e schermi translucidi, che avrebbe dovuto essere in grado di memorizzare percorsi di lettura e associazione dei testi (il Memex). L’articolo in questione è teorico e abbastanza ingenuo, ma è interessante notare che pochi anni dopo queste riflessioni pensate prima dell’invenzione del calcolatore elettronico, Roberto Busa, invece di immaginare, si era messo all’opera per realizzare qualcosa di concreto.

La tradizione italiana nell’informatica è stata pionieristica e importante. All’università di Milano, per esempio, Silvio Ceccato fu in prima linea sui primi esperimenti di traduzione automatica, e diresse il Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche dal 1957 sino alla seconda metà degli anni ‘60 – quando gli investimenti vennero tagliati – producendo una letteratura pionieristica e di grande spessore, che oggi è rimasta sconosciuta o è stata dimenticata.

Nel 1965 vide la luce anche il primo esempio di elaboratore personale tutto italiano, l’Olivetti Programma 101 (o P101) ed è risaputo che alla fine degli anni ’70 il fondatore della Apple Steve Jobs, insieme a Steve Wozniak, vennero in Italia proprio per tentare accordi con la Olivetti e con i progettisti italiani che corteggiarono invano, per costruire calcolatori personali in serie. De Benedetti decise di non perdere tempo con quei due fricchettoni, e dunque la storia di quello che oggi si chiama personal computer si svolse senza l’apporto italiano.

 

Il linguaggio informatico fino agli anni Novanta

Negli anni ’60, quando IBM si insediò in Italia, il linguaggio informatico era costituito da termini come perforatrice, verificatrice, selezionatrice, inseritrice, tabulatrice (da cui le liste di tabulazione), c’era il calcolatore interprete, si parlava di sistemisti e di sistemi suddivisi in unità centrale e periferiche, c’era il lettore/perforatore schede, la lettura/scrittura su nastri e dischi, la stampante, e non circolavano anglicismi. Persino nel 1989, quando IBM, con la consulenza di Tullio De Mauro, realizzò un prototipo di vocabolario elettronico (il VELI = vocabolario elettronico della lingua italiana) basato sulle 10.000 parole più frequenti tratte dallo spoglio di alcuni giornali, la parola computer era assente nel volume di presentazione. E non solo il linguaggio informatico di De Mauro era ineccepibile rispetto all’uso di anglicismi, ma persino la presentazione di Ennio Presutti, l’amministratore delegato di IBM e la prefazione di Pierluigi Ridolfi, Direttore della ricerca scientifica di IBM, avevano un uso di anglicismi limitatissimo (si trova bit, hardware, software e poco altro).

VELI vocabolario elettronico dell alingua italiana di IBM e De Mauro
Il VELI, vocabolario elettronico della lingua italiana, diretto da Tullio De Mauro, realizzato da IBM, con la presentazione dell’amministratore delegato Presutti.

Questa attenzione e questo rispetto per la lingua italiana nell’informatica stavano però per finire.

Qual è oggi il linguaggio degli amministratori delegati delle multinazionali?

Dopo l’epoca di IBM, con l’avvento di Microsoft, Apple, e poi con l’esplosione della nuova economia, chiamata “new economy”, e con l’arrivo di Google, Facebook e gli altri interlcutori, proprio nel momento in cui l’informatica ha cessato di essere un linguaggio per addetti ai lavori ed è diventato un fenomeno di massa, il linguaggio elegante e rispettoso di IBM è un ricordo sbiadito. I nuovi protagonisti hanno conquistato il mondo imponendo la propria nomenclatura anglicizzata. Se in alcuni Paesi come la Francia e la Spagna, grazie a una differente cultura e alla presenza di accademie e politiche linguistiche serie, il problema è stato in parte arginato, in Italia siamo passati definitivamente all’itanglese.

 

Lo sfacelo della terminologia informatica italiana

Cosa è cambiato oggi, rispetto a 30 anni fa?

Tutto. A cominciare dai nomi che leggiamo sulle scatole e che ripetiamo invece di tradurre, per cui multigiocatore si dice multiplayer, un decodificatore lo chiamiamo set-top-box, e un tappetino per il mouse è ancora più figo se si dice mousepad. La custodia o il contenitore di un apparecchio elettronico, detto hardware, diventa il case, o la cover se è un cellulare, i dispositivi sono device, e i cellulari mobile device, il calcolatore principale si dice host, l’ospitalità di un sito l’hosting, una scheda di memoria è una memory card, un microcircuito integrato un microchip, la memoria temporanea è buffer, la memoria nascosta è la cache.

yahoo
L’interfaccia della posta elettronica di Yahoo! La posta è mail, la posta indesiderata è spam, la pagina principale è home, e gli anglicismi assurdi sono davvero tanti: non c’è alcuna attenzione e rispetto per la lingua italiana.

I programmi un tempo erano prevalentemente in inglese e dunque abbiamo cominciato ripetere i termini che leggevamo senza tradurli. Con l’avvento delle interfacce “localizzate” (come è di moda dire adesso invece di “tradotte”), le cose sono migliorate solo parzialmente, perché lasciare le scelte terminologiche alle multinazionali significa rinunciare a parlare l’italiano e importare la nomenclatura dei produttori.

E infatti, invece di trasferimento o scaricamento dei dati c’è il download che ha generato downloadare, invece di pagina principale si è diffuso senza alternative home page, l’aiuto è un help, i caratteri sono font e quelli senza grazie sono sans serif, la tavolozza dei colori è chiamata palette, un programma di elaborazione o scrittura è un editor, la gabbia grafica è il layout, i programmi in Rete hanno un back end e un front end, e non un’interfaccia di amministrazione un’interfaccia utente. La posta elettronica è email, la casella di posta mail box, a tutto schermo si dice full screen, e la ricerca libera il full test. Facciamo il login e il logout e non l’autenticazione o la disconnessione, i moduli sono form, e spesso gli strumenti tool, la barra degli strumenti toolbar, i fotogrammi frame, l’inoltro è il forward, le gallerie gallery, l’aggiornamento l’update o l’upgrade, l’effetto metamorfosi è il morphing, una parola d’accesso password, il navigatore è browser, un marcatore è flag

Il problema non riguarda solo le scelte terminologiche, naturalmente, è più ampio. Spesso gli anglicismi sono usati più frequentemente dei corrispettivi italiani, sono preferiti, suonano più moderni, precisi… al punto che ormai alcune parole ci sembrano intraducibili, ma invece non sappiamo più dirle in italiano, perché nessuno lo fa più.
Tra gli esperimenti con i miei studenti ho constatato l’incapacità media dei ventenni diplomati di trovare alternative italiane a espressioni come startup, di default o touch screen. Venivano indicate come tecnicismi intraducibili, perché nessuno è più capace di dire nuova impresa (o impresa nascente), opzione di sistema (anziché di default) o schermo tattile (al posto di touch screen).

E allora la sicurezza informatica è la cybersecurity , ci sono gli spyware e non i programmi spia, il phishing e non l’adescamento e la frode informatica, e un trojan (decurtazione di  trojan horse = cavallo di Troia) guai a chiamarlo troiano! Gli anglopuristi tecnologizzati subito si scagliano contro questo uso barbaro e antistorico dell’aggettivo troiano, che “non vuol dire niente”, al contrario di trojan che evidentemente vuol dire tutto.  I tecnicismi si esprimono con parole come freeware e non programma libero, shareware e non programma di prova o versione gratuita.

Poco importa se questi tecnicismi in inglese molte volte non lo siano affatto! Tablet, per esempio, vuole dire tavoletta, eppure da noi viene spacciato per prestito di necessità, perché evidentemente la metafora della tavoletta in inglese si può usare, ma in italiano no!

Persino i tasti e i comandi si preferiscono spesso dire all’inglese, shift e non il tasto di maiuscolo (o minuscolo) che ha generato shiftare e poi slash invece di barra, e ancora escape, undo, print screen e screenshot (e non uscita, annulla, stampa e schermata).

Il delirio dell’inglese continua nel linguaggio della Rete, dove i social network sembra siano preferibili a un banale reti sociali, i seguaci sono follower, gli odiatori hater, gli influenti influencer, e si dice blogger e non bloggatori o blogghisti, spammer e non spammatori, per coerenza con gli youtuber e tutti gli altri termini che si comportano come parole inglesi invece che con le desinenze italiane, a meno che non sia indispensabile, come nei casi di googlare, whatsappare, downloadare, shiftare, switchare, twittare, upgradare, uploadare, backuppare, chattare, computerizzare, crashare, debuggare, embeddare, hackerare

Nel mondo del lavoro, per essere allineati con il gergo informatico in itanglese, è bene usare un linguaggio appropriato all’angloamericano degli addetti ai lavori: l’inserimento dati è il data entry, l’elaborazione dei dati il data processing, un fondatore è founder o startupper

Forse questo elenco sta diventando  noioso, oltre che avvilente. Eppure è poca roba, perché il dizionario degli anglicismi della terminologia informatica è molto, molto più esteso. Ho fatto solo alcune citazioni di termini che ammettono anche le traduzioni in italiano, ma purtroppo non sempre è così. Computer è ormai “necessario”, da quando calcolatore o elaboratore sono diventate parole obsolete; mouse non l’abbiamo tradotto (al contrario di quanto è avvenuto in Francia, Spagna, Germania, Portogallo…) e per moltissimi termini tecnici mancano ormai le parole per dirlo in italiano.

La nostra lingua, nel nuovo Millennio, è diventata incapace di esprimere l’informatica senza ricorrere all’inglese, è stata mutilata!

Il problema è che sta avvenendo lo stesso in molti altri ambiti, come la moda, il lavoro, la scienza… e che siamo circondati dai “teorici dell’itanglese di necessità” che invece di preoccuparsi dell’importanza delle traduzioni, continuano a ripetere che va tutto bene e non sta succedendo niente.

 

Puristi, neopuristi e anglopuristi

Ogni volta che mi trovo a spiegare e difendere le mie tesi su anglicismi e itanglese è sempre la stessa storia: devo affannarmi a precisare che non sono affatto un “purista”.

Difendere la lingua italiana davanti all’eccesso di anglicismi che caratterizza il nuovo Millennio non ha niente a che vedere con il purismo, riguarda invece la tutela di ciò che è locale davanti alla globalizzazione. È un problema di ecologia linguistica di fronte all’espansione delle multinazionali americane che, come effetto collaterale, insieme ai loro prodotti impongono in tutto il mondo anche il loro linguaggio. Quello che è in gioco è il pluralismo linguistico internazionale, che come la biodiversità è una ricchezza, non un segno di arretratezza; ma è minacciato da una fortissima mentalità monolinguista basata sull’angloamericano.

L’epoca del purismo è morta e sepolta, e oggi le cose vanno lette con ben altre categorie che devono rendere conto del presente e del futuro invece di guardare al passato.

Che cos’è il purismo?

Il purismo si può fare risalire alle posizioni di Pietro Bembo (XVI secolo), un esponente di spicco dei cosiddetti “ciceroniani” che, impregnato del mito dell’età dell’oro, considerava il latino la massima perfezione della lingua: i modelli più alti e irraggiungibili erano per lui Virgilio per la poesia e Cicerone per la prosa. Il punto di partenza delle Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua era che il latino si fosse corrotto nel volgare a contatto gli idiomi degli stranieri arrivati con le invasioni, e che il modello dell’italiano ideale si dovesse rintracciare nella letteratura del Trecento più vicina al latino e cioè la poesia di Francesco Petrarca e la prosa di Giovanni Boccaccio (Dante era invece considerato come un poeta privo di “decoro”).
Alla fine del Cinquecento, sorse a Firenze l’accademia della Crusca che sposava questo principio e aveva come scopo quello di separare il “fior di farina”, cioè la buona lingua costituita dal fiorentino trecentesco, dalla “crusca” in senso dispregiativo, le male parole impure e poco digeribili che proliferavano: il lessico dialettale, i neologismi e i forestierismi. Nel 1612 vide così la luce il Vocabolario degli Accademici della Crusca, un’opera senza precedenti nelle altre lingue europee, che pur possedevano già la loro precisa identità. Va detto che al di là degli intenti puristici stretti, il vocabolario fu nei fatti molto più aperto, soprattutto nelle successive edizioni. Infatti Dante fu rivalutato e la prima edizione dell’opera partì proprio dallo spoglio degli scritti delle “tre corone”: le parole “lecite” della lingua italiana erano dunque quelle usate da Dante, Petrarca e Boccaccio.

Gli oppositori al purismo aperti agli internazionalismi

Molti autori si opposero alle posizioni di Bembo e della Crusca, e rivendicarono la dignità degli altri dialetti e i contributi di altre lingue. L’obiezione più forte era che, staccandosi dal linguaggio vivo, il rischio era quello di parlare la “lingua dei morti” del Trecento. Intanto, nel corso del Cinquecento e del Seicento, sia davanti alle importazioni di nuove “cose” che arrivavano dal Nuovo mondo e dall’epoca delle grandi esplorazioni, sia davanti ai progressi tecnici e scientifici, le parole “nuove” erano sempre di più. E così, nel Settecento, Alessandro Verri, dalle pagine del Caffè, lanciò la celebre “Rinunzia al Vocabolario della Crusca”, un vero e proprio manifesto contro il purismo e il conservatorismo linguistico in nome della modernità:

“Se il Mondo fosse stato sempre regolato dai Grammatici” non avremmo né case, né carrozze, né industria.

La conclusione fu la “solenne rinunzia” alla pretesa purezza della toscana favella:

“Se italianizzando le parole francesi, tedesche, inglesi, turche, greche, arabe, sclavone, noi potremo rendere meglio le nostre idee, non ci asterremo di farlo.”

 

Vorrei fare notare la parola “italianizzando”, una parola chiave per comprendere la natura di queste critiche. Se i puristi condannavano i neologismi e le parole di origine straniera in nome del toscano, va detto che tutti i più aperti sostenitori della modernità, da Machiavelli a Muratori, da Leopardi a Verri, non pensavano affatto di importare migliaia di parole straniere senza italianizzarle!

E allora cosa accomuna le posizioni dei più accesi puristi fustigatori dei barbarismi e quelle dei più aperti e moderni sostenitori di francesismi, anglicismi e internazionalismi di ogni epoca?

Il fatto che nessuno si sognava di fare entrare nel nostro lessico migliaia di forestierismi non adattati.


Dal purismo all’anglopurismo

Nel corso del Novecento, caduta la supremazia del toscano e raggiunta l’unità linguistica dell’italiano parlato, oltre a quello letterario, si è diffuso un atteggiamento moderato definito neopurista, rappresentato per esempio da Bruno Migliorini, che non respingeva a priori i forestierismi, ma valutava caso per caso cercando di adattare le innovazioni alla struttura fonologica e morfologica della nostra lingua con molta tolleranza. E il criterio di sostituire gli esotismi solo quando è possibile o di adattarli (regista invece di regisseur, clic invece di click) sarebbe un criterio auspicabile anche oggi. Ma le soluzioni avanzate ancora negli anni Ottanta da Arrigo Castellani, che proponeva invano adattamenti come fubbia (fumo + nebbia) al posto di smog (smoke + fog) o di guardabimbi per baby sitter appartengono ormai al passato e ci fanno sorridere.

Se un tempo i puristi, nel loro difendere e conservare la lingua italiana classica, rappresentavano contemporaneamente un ostacolo all’evoluzione linguistica, oggi chi sta portando l’italiano a chiudersi in sé stesso per diventare la lingua dei morti è rappresentato proprio dai più aperti sostenitori degli anglicismi che vedono come un segno di modernità e di internazionalizzazione.

Vorrei chiamare questa posizione “anglopurismo”.

Gli anglopuristi si vergognano di italianizzare le parole inglesi, come fosse un segno di ignoranza verso la lingua originale di cui siamo ormai succubi, dunque sono ostili di fronte a soluzioni come rosbif al posto di roast beef, surfista al posto di surfer, blogghista/bloggatore per blogger, scaut per scout o sciampo per shampoo. E in questo modo si apre la strada a migliaia di parole che entrano senza adattamenti violando il nostro sistema ortografico e morfologico con termini che si scrivono e leggono con altre modalità, e dunque rimangono corpi estranei. Il che non è un male in sé, lo diventa quando il loro numero è tale da costituire una rete di parole sempre più fitta che si espande nel nostro lessico portando addirittura all’interiorizzazione di nuove regole estranee alla nostra lingua.

Con il falso alibi dei prestiti di necessità, gli anglopuristi non perdono occasione di introdurre parole inglesi con la scusa che non esisterebbero equivalenti italiani. Questi signori non concepiscono che, quando anche un corrispondente non esistesse, un forestierismo si può anche adattare, tradurre o sostituire con neologismi e nuove creazioni italiane, l’unica soluzione che renderebbe la nostra lingua nuovamente una lingua viva. Gli anglopuristi storcono il naso davanti alle pochissime soluzioni di questo tipo che si stanno diffondendo, come apericena al posto di happy hour, o colanzo al posto di brunch. E davanti a cinguettio invece di tweet si oppongono dicendo che la soluzione italiana non è rispettosa del significato inglese! E più in generale considerano queste parole “brutte” rispetto a quelle inglesi.

Tra gli anglopuristi si annidano anche coloro che sostengono che gli anglicismi spesso non hanno proprio il medesimo significato degli equivalenti italiani: shopping non è proprio come fare compere, dicono, confondendo il risultato dell’acclimatamento della parola che ha assunto in italiano (= fare acquisiti di lusso o per la persona) con il significato inglese, dove anche andare al supermercato è considerato shopping. Curiosamente, questi angloentusiasti non hanno nulla da dire nei confronti di parole come mobbing, che considerano qualcosa di “necessario” e di insostituibile anche se in inglese si usa poco e si ricorre quasi sempre ad altre espressioni come victimization, persecution, harassment, workplace bullying (bullismo sul lavoro), oppure si parla meno tecnicamente di abuse e intimidation.

Soprattutto, gli anglopuristi si rifiutano di allargare il significato di parole storiche e farle evolvere, ampliandole, alla realtà di oggi. E così dichiarano che selfie non è esattamente come autoscatto, è un’altra cosa. Sul sito dell’accademia della Crusca, per esempio, questa tesi è divulgata con una presa di posizione ideologica molto discutibile. Si dice che selfie non è un “prestito di lusso” (come si possano nel nuovo Millennio usare ancora queste categorie obsolete rimane per me un mistero) e che non è “un sinonimo perfetto di autoscatto”.
Però, gli esempi tratti dai giornali a chiusura dell’articolo mostrano chiaramente che non è affatto così: i giornali usano autoscatto con la stessa accezione, esattamente come, nel Devoto Oli 2018, selfie è indicato come termine sostituibile da autoscatto.

I nuovi puristi dell’inglese uccidono l’italiano

Eccolo il nocciolo dell’anglopurismo: si vuole relegare l’italiano alla lingua dei morti, autoscatto viene classificato come parola storica, nei suoi significati del passato, quando esisteva il filo per l’autoscatto o il comando a tempo. Non si vuole allargare il significato di autoscatto in senso moderno e farne una parola adatta per le nuove tecnologie, la si vuole far morire! È in questo modo che gli anglopuristi uccidono l’italiano.

Calcolatore o elaboratore? Roba vecchia! Oggi c’è il computer e basta.

E cat sitter? È un prestito di necessità, evidentemente, dicono. Certo, esiste la parola gattaro, un neologismo degli anni Ottanta, ma si riferisce a chi cura i gatti randagi per passione, non a chi intraprende questa nuova professione che si può dire solo in inglese!

Quello che vorrei chiedere agli anglopuristi è perché la parola gattaro non può evolvere in senso moderno anche per designare una nuova professione.

Perché volete relegare l’italiano alla sua storia invece di farlo evolvere? Perché la metà dei neologismi del nuovo millennio è in inglese? Cose ne sarà della nostra lingua, fra trent’anni, se continuiamo a questo modo?

L’italiano si ridurrà a esprimere il vecchio, e tutto ciò che è nuovo si dirà in inglese.
Quando, nel 1962, durante la crisi tra Cuba e Stati Uniti, si coniò l’espressione hawks e doves, in italiano è stata tradotta con falchi e colombe. Oggi, se Trump parla di fake news, tutti gli apparati mediatici ripetono l’espressione in lingua originale, e le notizie false o le bufale sembra che abbiano un altro significato o un’altra sfumatura.

E allora, è più “purista” chi spera in un italiano che si sappia reinventare e arricchirsi di neologismi, nuove creazioni e adattamenti, visto che è una lingua viva, o chi lo vuole ingessare nel vocabolario storico preferendo ricorrere a parole tecniche in lingua originale senza alterarlo?

Da quale delle due prospettive ne uscirà un italiano che rischia di risultare presto la lingua dei morti?

Il tabù tutto italiano della politica linguistica

Le politiche linguistiche e gli interventi dello Stato per promuovere e tutelare le lingue nazionali sono prassi normali. Esistono in Spagna, in Francia e persino in Cina. Possibile che in Svizzera la lingua italiana sia tutelata e promossa in modo ben più significativo che da noi?

Tra i parametri internazionali che si usano per verificare i fattori di rischio che portano alla scomparsa delle lingue (ne muoiono circa 25 all’anno) c’è proprio il

supporto di politiche linguistiche efficaci: una lingua può essere considerata in un buono stato di salute quando essa sia sostenuta da politiche linguistiche efficaci, promosse sia da governi sia da altre istituzioni (non ultime, le centrali di diffusione di ‘credi’ ideologici o religiosi)”.

Il che dimostra che le politiche linguistiche non solo sono normali in tutto il mondo, ma funzionano. Solo nel nostro Paese aleggia un tabù che affonda le sue radici in motivi storici che sarebbe ora di lasciarci alle spalle.

L’unico esempio di politica linguistica italiana, infatti, è stato quello del fascismo, un intervento molto ampio e complesso che non si può ridurre alla sola guerra contro i “barbarismi”. Questo modello andrebbe studiato in modo critico per poi voltare pagina: riproporlo sarebbe assurdo, anacronistico, antistorico e soprattutto illiberale. Non ci vuole molto a capirlo. Eppure, anche presso molti studiosi importanti, accennare a un intervento dello Stato in tema di lingua evoca assurde reazioni di pancia, e subito si agita lo spauracchio del fascismo come se l’unica soluzione di una politica linguistica fosse quella. Come se le attuali politiche dei Paesi vicini e lontani non esistessero e non fossero gli esempi cui guardare oggi. Come se proteggere l’arte, l’architettura o persino l’eccellenza gastronomica del nostro Paese fosse dato per scontato, ma chiedere la tutela del patrimonio linguistico fosse una presa di posizione oscurantista, arretrata o di chiusura alla modernità.

Tutelare e promuovere la lingua italiana non ha nulla a che fare con la limitazione della libertà di espressione. Riguarda invece la protezione di ciò che è locale davanti alla globalizzazione, riguarda la difesa della nostra storia, perché la lingua è il collante della nostra cultura e del mostro Paese. Lo aveva capito già Dante, nel De vulgari eloquentia, quando lamentava la mancanza di una pubblica amministrazione che omologasse la lingua e servisse da modello unico per i vari dialetti e per affermare la lingua delle “genti del bel paese là dove l sì suona”. E infatti, il passaggio dai dialetti al volgare è passato anche attraverso la scelta di utilizzare l’italiano non solo per la letteratura, ma anche nella pubblica amministrazione e negli atti notarili, che avvenne a partire dal XV secolo per consolidarsi nel corso del XVI.

Oggi, però, il linguaggio della politica, delle istituzioni, dell’amministrazione e persino del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (Miur) sta ricorrendo sempre più all’inglese e all’itanglese. E il paradosso è che se da una parte si nega la liceità di un intervento dello Stato a proposito degli anglicismi, dall’altra si interviene imponendo la femminilizzazione delle cariche delle donne, utilizzando in questo modo due pesi e due misure.


Due pesi e due misure per le pari opportunità della lingua e delle donne

Nel 2007, una direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri (Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche) invitava a usare un linguaggio non discriminante nei documenti di lavoro per favorire in questo modo una politica per le pari opportunità. L’Accademia della Crusca, qualche anno dopo, ha affiancato il Comune di Firenze nello stilare le Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, per stabilire caso per caso come si potesse rendere il femminile più opportuno. In questo modo, l’uso di termini come ministra, sindaca, poliziotta anziché donna poliziotto e simili (anche se non tutti sono d’accordo nell’impiegarli, donne comprese) ha preso piede non solo nei dizionari, ma anche nel linguaggio dei giornali. Da marzo del 2017, per le donne è possibile richiedere all’Ordine degli Architetti il duplicato del timbro professionale con la dicitura ufficiale di “architetta”.

Perché le istituzioni intervengono su simili questioni ma non sugli anglicismi?

Non ci vorrebbe poi molto per regolamentare anche le alternative per gli anglicismi in nome delle pari opportunità della lingua, oltre che del gentil sesso.

Si parla da anni, e invano, dell’istituzione di un Consiglio Superiore della Lingua Italiana (Csli). Sono state avanzate varie proposte di legge che non hanno avuto nessun seguito e si continuano a tirar fuori dai cassetti per poi rimetterle a dormire senza che nulla sia fatto né legiferato.

Il disegno di legge proposto il 21 dicembre 2001 da alcuni senatori partiva dal presupposto che la lingua italiana è un bene culturale e sociale che non viene tutelato. Nelle intenzioni c’era dunque la diffusione e la promozione dell’italiano nel nostro Paese, attraverso la scuola, i mezzi di informazione, la compilazione di un dizionario dell’uso e di una grammatica ufficiale facilmente aggiornabili. Ma la proposta è caduta nel vuoto. La fondazione del Consiglio è stata poi ripresentata nel 2008, con il Disegno di legge n. 354, rimasto ancora una volta in corso di esame senza esiti; il 22 maggio 2013 è stata presentata una nuova proposta di legge simile a quella del 2001, in cui si faceva riferimento anche al problema degli anglicismi e del loro numero; e ancora, il 17 ottobre 2016, ma a queste proposte non è seguito nulla di concreto.

 

Le istituzioni introducono l’inglese invece di proteggere l’italiano

Invece di costituire il Csli e di tutelare la nostra lingua, gli apparati dello Stato ricorrono sempre più all’inglese, contribuendo in questo modo al depauperamento dell’italiano e al prosperare dell’itanglese.

Da tempo denuncio che il linguaggio della politica è sempre più infarcito di job, act, tax, spending review, question time, quantitative easing, stepchild adoption, ticket, privacy, premier, welfare… Gli anglicismi si stanno diffondendo persino nel linguaggio delle leggi e del fisco oltre che sempre più sui giornali.

Di recente, l’Accademia della Crusca ha preso una netta posizione contro un documento del Miur, il famigerato “sillabo”, scritto in itanglese. Un documento che il ministro Valeria Fedeli (che chiamerò “ministra” solo quando farà qualcosa anche per l’inglese oltre che per la femminilizzazione della sua poltrona) ha giustificato con affermazioni ridicole, invece di porgere le sue scuse agli italiani. Sulla questione del Miur (Licia Corbolante ne ha fatto un resoconto tra i più interessanti) e del linguaggio della politica è recentemente intervenuto anche Michele Cortelazzo in uno speciale sul sito Treccani: “Perché nelle nostre istituzioni si rema contro la lingua italiana”.

Ma davanti a queste riflessioni la risposta del Miur, come ha denunciato Alberto Asor Rosa dalle pagine de La Repubblica è che da quest’anno le domande di finanziamento per i “Progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale” (Prin) dovranno essere presentati in lingua inglese! Si tratta di quelle proposte di ricerca scientifica “che il Miur (il ministero dell’Università e della Ricerca scientifica) s’impegna a finanziare dietro accurato esame da parte di apposite commissioni” e che sono una cosa estremamente importante, perché “senza i Prin la ricerca scientifica universitaria sarebbe pressoché agonizzante”. E quindi è sconcertante apprendere che:

All’articolo 4 del bando sono elencate le modalità di «presentazione della domanda». E cosa troviamo, per la prima volta nella storia dei Prin? Troviamo che «la domanda è redatta in lingua inglese»; e che, soltanto se il proponente decide di farlo, «può essere fornita anche una ulteriore ( ulteriore!) versione in lingua italiana». E cioè: l’immensa mole della ricerca scientifica universitaria italiana, per esprimersi ed essere riconosciuta nelle sua validità, deve esprimersi, per farsi riconoscere, in lingua inglese. Solo se lo si desidera — è una specificazione chiaramente di secondo ordine e piano —, può tentare di spiegarsi anche nella ormai antiquata e inappropriata lingua italiana. E cioè: l’interesse nazionale dei Prin deve essere «rilevante»: e però, nonostante l’altisonante autocertificazione, la nazione non entra più, nei modi che le sono propri, nella definizione della richiesta.”

[Alberto Asor Rosa “L’università, la ricerca e gli eccessi dell’inglese”, La Repubblica 27 Aprile 2018]

Si tratta dell’ennesimo sfregio alla lingua italiana, che si inserisce nel problema dell’abbandono dell’italiano nell’università e nella scienza e in una più generale anglicizzazione che penetra nella nostra lingua in ogni settore, da quello del lavoro a quello della tecnica, dall’informatica alla moda

Se la “politica linguistica” italiana continuerà a essere questa, il futuro non potrà che essere l’itanglese.