500 sfumature di inglese. Gli anglicismi dai tanti significati

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Buone vacanze a tutti.

Introduzione

I forestierismi crudi hanno la fama di essere mono-significato: l’abat-jour è un tipo di lampada da comodino, il sombrero un tipo di cappello, e in linea di massima un bunker tedesco, un bonsai giapponese, una favela brasiliana, un wok cinese o uno zar russo designano qualcosa di preciso. Ma poiché la lingua è metafora, può capitare che, in senso lato, una matriosca passi a indicare un incastro più generale che travalica quello delle bambole. Questi usi figurati, però, sono piuttosto rari persino tra i francesismi che costituiscono un’eredità lessicale molto ampia. Gli anglicismi che si allargano e si diramano in una matriosca di accezioni, al contrario, sono numerosi e in forte aumento. Il loro uso metaforico non è solo una possibilità espressiva che appartiene alla creatività di un singolo parlante, spesso si è ormai codificata. E così il boomerang non è solo un “prestito di necessità” per un oggetto nuovo di cui non si è voluto adattare o reinventare il nome, è anche un qualcosa che torna indietro (“Il boomerang della politica dei dazi di Trump”), come il round del pugilato per estensione abbraccia una qualunque fase dialettica, di un incontro politico, un dibattito, una trattativa

In alcuni casi, questo percorso lessicale comincia con l’importazione di una parola dall’accezione tecnica o di ambito, ma poi il suo uso si allarga e si porta dietro il significato in inglese più esteso, come gli optional che non sono più solo gli accessori non inclusi nei modelli di base che si possono aggiungere con un sovrapprezzo, sono diventati come in inglese qualcosa di non necessario (da option = opzione), in senso lato sono un di più (la cortesia è un optional). E il surfing non è più solo uno sport acquatico, è anche il navigare in Rete, e la metafora dei surfer oggi è anche più frequente dell’accezione letterale.

Gli usi figurati

Le accezioni derivate dall’uso estensivo di un’espressione tecnica sono davvero tante. L’esempio da manuale è quello del dribbling calcistico. Quando un giornalista scrive che l’intervistato dribbla le sue domande, la metafora si riversa nel linguaggio comune con questo significato più ampio, esattamente come un assist, un passaggio vincente nei giochi a squadre, si trasforma in un qualsiasi aiuto determinante. Il benchmark, il parametro di riferimento del linguaggio finanziario, nel linguaggio comune diventa un sinonimo di punto di riferimento o pietra di paragone; un feedback, che in biologia è una retroazione, in senso tecnico può essere un segnale di ritorno, e nel linguaggio comune diventa un’espressione che sempre più spesso ha la meglio su un semplice riscontro, cioè un cenno di conferma (aspetto il tuo feedback). L’impriting utilizzato da Lorenz per descrivere il condizionamento irreversibile delle papere che alla nascita identificano con la madre la prima figura che vedono (traduzione in inglese del termine tedesco Prägung) diventa un’impronta o una caratteristica più generale (il cuoco lascia il suo imprinting in ogni piatto; l’imprinting culturale lasciato dal liceo classico), e questi significati si sovrappongono a tecnicismi che anche in inglese si appoggiano alle metafore, e per esempio l’imprinting è anche una tecnica di colorazione di un disegno sui capelli da parte di un parrucchiere, che poi passa a designare anche la decorazione stessa così come un timbro è allo stesso tempo la matrice ma anche il disegno che lascia.

Gli slittamenti di significato avvengono a volte per metonimia, per cui un cocktail non è solo una miscela alcolica, si può andare a un cocktail nello stesso modo in cui ci si si può fare un drink e avere un invito per un drink che diventa così un party, mentre uno shot non è solo un bicchiere, il cicchetto, come in italiano passa a indicare anche il contenuto e farsi uno shottino indica il bere un bicchierino tutto d’un fiato. E così un takeaway è sia il pranzo d’asporto sia il servizio offerto dai locali sia i locali stessi (un locale takeway), un remainder (lett. rimanenza di magazzino) è un libro scontato, ma indica anche le librerie specializzate nella vendita di questi libri, la security può indicare il personale addetto alla sicurezza (chiamare la security) oppure può designare un sistema di sicurezza di una banca o di un edificio, e anche la sicurezza informatica, un topless è il costume da bagno femminile e anche la pratica di prendere il sole a seno nudo, e un editor è un revisore editoriale, ma in informatica è invece un programma di scrittura o di lavorazione editoriale.

Attraverso questi e altri meccanismi, le espressioni inglesi sono sempre più polivalenti.

Tra gli anglicismi che hanno almeno tre accezioni ci sono per esempio il poker che è un gioco di azzardo, ma è anche il punto che si fa con quattro carte uguali, e in senso figurato può indicare un quartetto (un poker di vittorie). Che cos’è un mixer? Lo strumento per il missaggio della musica, il miscelatore graduato per le bevande, oppure un frullatore. Un ticket è un biglietto, ma può essere anche una tassa sanitaria, o un buono pasto che nel linguaggio aziendale nasce dalla decurtazione dei ticket restaurant (in realtà un marchio francese). Un boiler è uno scaldabagno ma anche un bollitore (o scaldacqua), magari elettrico.

Diversi significati a seconda dell’ambito

Spesso queste differenti accezioni di una stessa parola non sono il risultato di un uso metaforico di un tecnicismo, ma derivano dal fatto che importiamo dall’inglese così tante parole che alcune ci arrivano direttamente da ambiti diversi dell’inglese.
Lo screening in medicina è un programma di prevenzione, ma nell’ambito del lavoro è una ricerca dei candidati. La palette è la tavolozza dei colori di un programma informatico, e in cosmesi è una confezione di trucchi con le loro sfumature. Una cover non è solo una copertina di una rivista o di prodotto discografico, in ambito musicale indica un rifacimento di un brano di successo e riferita ai cellulari indica la custodia rimovibile; il pickup è un furgoncino ma anche il trasduttore che converte i suoni meccanici in impulsi elettrici inviati all’amplificatore della chitarra elettrica; il crash, di etimo onomatopeico e fumettistico, in economia diventa il crollo in Borsa e in informatica il blocco di un sistema e l’impallarsi di un programma; il crack è una violazione informatica, un fallimento in ambito finanziario, il suono onomatopeico di qualcosa che si spezza e anche una droga. Un driver è un programma per le periferiche, ma nell’ippica è il fantino, e in senso lato a volte viene usato anche per indicare un guidatore, un autista, come in Taxi driver.

Sempre più anglicismi hanno dunque i loro significati differenziati a seconda degli ambiti. Lo start che nei dispositivi elettronici è il tasto di avvio, in informatica diventa la funzione di avvio, nel cinema è il primo fotogramma di un film, nel linguaggio sportivo è la partenza, il via, ma anche la linea di partenza e il segnale di partenza, dunque anche lo sparo.

Ghost, fantasma, nell’editoria è uno scrittore invisibile (abbr. di ghost writer) che scrive a nome di un altro, e nel gergo fa un lavoro di ghosting. Ma tra i neologismi di recente registrazione nei dizionari c’è anche un altro ghosting che indica l’atteggiamento di chi sparisce improvvisamente da una relazione, senza farsi trovare e senza dare spiegazioni. Tutto ciò deriva dal fatto che la radice ghost, resa popolare da un celebre film, anche se non è registrata dai dizionari è nella disponibilità di molti, e circola appunto in molti derivati (i ghostbuster, a proposito di cinema). Lo stesso si può dire di shop: il derivato shopper è un sacchetto della spesa, ma in Rete circola sempre di più anche con il significato di acquirente, cliente. E così un hotspot (lett. punto caldo) è un centro di identificazione e di accoglienza per immigrati ma anche un punto di accesso gratuito alla Rete; uno short (abbr. di short film, picture o subject) è un cortometraggio spesso pubblicitario (short pubblicitario), ma nel linguaggio della moda o dell’abbigliamento gli short sono pantaloncini corti (più spesso al plurale shorts).

Questi sono solo alcuni esempi, ma l’elenco di questi anglicismi che assumono diverse valenze di settore è davvero lungo e costituisce un record tra i forestierismi, cioè un primato, che però in informatica è un tecnicismo che designa un’unità di archiviazione.

In altri casi la polivalenza degli inglesismi deriva dal loro diventare parole ombrello che vanno bene per ogni occasione e per tutte le stagioni. La location è uscita dal suo ambito cinematografico di ambiente, reale o artificiale, dove girare una scena e si è trasformata in un posto qualsiasi, la location di un ristorante intesa come ambiente, arredamento, ma anche posizione (per esempio una terrazza sul mare). Allo stesso modo un restyling può essere il rifacimento di un palazzo, la riprogettazione di un sito, la nuova versione di un’automobile, il rimodellamento di un logotipo, la revisione strutturale di un’impresa, il ritocchino chirurgico che si fa dall’estetista… Un partner può essere un alleato commerciale, un amico, un compagno, un marito, un fidanzato, un convivente (senza distinzione di genere).

Un altro moltiplicatore delle accezioni delle parole inglesi è da rintracciare nell’uso di una stessa parola sia come sostantivo sia come aggettivo, per cui si può avere uno shock o leggere una notizia shock, cioè sconvolgente, come c’è il mondo del fetish o del fashion, cioè del feticismo e della moda, ma anche gli abiti fashion e fetish, e il settore del green, cioè dell’ecologia, implica fare scelte green, cioè ecologiche (ma green è anche il campo da golf, che a sua volta è uno sport ma indica impropriamente anche un maglione). Un dirigente o un uomo d’affari può essere un executive e possedere una valigetta executive, cioè aziendale (per es. una ventiquattrore), e spostarsi su un jet executive, cioè un aereo privato dirigenziale, di rappresentanza.

Nel caso di relax questa duplice valenza coinvolge il sostantivo (ho bisogno di un po’ relax) e persino un verbo, quando è usato al posto di rilassati!

Collocazioni e locuzioni

In altri casi i diversi significati di uno stesso anglicismo si combinano all’interno di locuzioni con le loro precise collocazioni, per esempio full che nel poker corrisponde a una combinazione di un tris e una coppia, circola poi nel suo significato letterale di pieno, totale in molte locuzioni inglesi come full immersion, full screen, full-time, full text, full contact… Ma spesso queste locuzioni sono formate anche dalla combinazione con parole italiane, e dunque il default nel linguaggio economico è una bancarotta, un fallimento, ma in informatica l’espressione di default designa le impostazioni di sistema, di base, automatiche. Un corner è un calcio d’angolo, circola nell’espressione idiomatica salvarsi in corner (per il rotto della cuffia, per un pelo, per un soffio), ma nel linguaggio promozionale è un angolo nel senso di un padiglione, un espositore posto all’interno di un grande magazzino dove viene venduto o promosso un prodotto o un marchio. La compliance in medicina corrisponde alla capacità di adeguamento del volume di un organo davanti alla pressione (per esempio la capacità di dilatazione dei polmoni), in senso lato può essere un adeguamento, un’ottemperanza o disponibilità a collaborare, ma nel linguaggio economico c’è la compliance normativa (a regole o consuetudini) e in quello tributario la compliance fiscale, che può diventare un adempimento spontaneo del contribuente agli obblighi fiscali spesso sollecitato dall’Agenzia delle Entrate in un’ottica collaborativa, e in altri casi è un accordo preventivo tra contribuenti e il fisco che permette la correzione di eventuali errori o omissioni nella dichiarazione; il football è il gioco del calcio (o del pallone), ma il football americano è la variante americana più violenta e coreografica del rugby inglese. Il dumping è la politica di ribasso dei prezzi delle merci esportate (rispetto al mercato interno) per conquistare i mercati esteri, dunque un’esportazione sottocosto, ma anche una concorrenza sleale. Il dumping sociale indica invece l’inosservanza dei diritti dei lavoratori, del rispetto dell’ambiente, delle leggi sulla sicurezza e simili pratiche illecite che consentono di abbassare i costi, dunque il non rispetto delle regole e un sistema di produzione selvaggio per ottenere un maggior profitto. Un pool indica un gruppo di persone, una squadra che lavora per un unico scopo (pool antimafia o di ricercatori) o una cordata (pool del petrolio), ma in biologia il pool genetico è il corredo genetico.

Anglicismi omografi

Ci sono anche altri tipi di “doppioni” inglesi che non nascono dalle accezioni che arrivano da una stessa parola, bensì dal “prendere in prestito” parole omografe, che hanno un diverso etimo. Una persona down (dal nome del medico che ha studiato questa sindrome) non ha nulla a che vedere con un’espressione come “mi sento un po’ down” e cioè un po’ giù, sottotono (lett. sotto). I boxer sono cani simili al mastino (nome di origine tedesca adottato in inglese), ma sono anche le mutande a calzoncino come quelle dei pugili. Un cracker è una galletta salata o un criminale informatico, c’è il pin del cellulare (sigla di Personal Identification Number) ma anche la spilletta con le immagini di personaggi famosi (che ha a che fare con le pin-up); lo scotch (lett. scozzese) è un whisky e il nastro adesivo per antonomasia (originariamente un marchio registrato), il kiwi è il frutto dell’actinidia e un uccello (in italiano atterige), il cutter è un taglierino o un elettrodomestico sminuzzatore, ma nel linguaggio marinaresco è un piccolo veliero. Il jack è un fante nelle carte francesi e uno spinotto nel linguaggio tecnico.
A volte questi omografi assumono un genere diverso, e la zip è una cerniera lampo, mentre lo zip è un documento digitale compresso; la spider è una decappottabile (che si trasforma in maschile nel diminutivo spiderino) ma lo spider nel linguaggio della Rete è un programma di navigazione automatica; lo strip è uno spogliarello, abbreviazione di striptease (e c’è anche lo strip poker), e le strip sono le strisce a fumetti.
In alcuni casi ci sono doppioni non omofoni, che vengono pronunciati diversamente, per esempio i biscotti wafer che abbiamo importato per via scritta e leggiamo all’italiana (come il water), mentre i wafer delle casse dello stereo si dicono all’inglese (come la water polo, cioè la pallanuoto), così come quando Jumbo era solo un elefante del circo Barnum lo dicevamo con la “u” (come l’elefantino Dumbo), ma quando è arrivato l’aereo lo abbiamo pronunciato con la “a”, come abbreviazione di jumbo jet.

Decurtazioni all’italiana e pseudo-anglicismi

Alcuni di questi doppioni hanno proprio a che fare con il nostro vezzo di decurtare le parole inglesi e generano omonimie che non ci sarebbero: il cross, decurtazione di motocross, si sovrappone così al cross che nel calcio è un traversone e nel tennis un colpo diagonale, mentre una clip, abbreviazione di videoclip, si confonde con un fermaglio a molla o a scatto per fermare i fogli oppure gli orecchini, che vengono poi detti in senso lato anche loro semplicemente clip; il pony è un cavallo nano ma anche la decurtazione di pony express (un corriere che cavalca la metafora dell’andare a cavallo proprio come i rider, nell’era del delivey); un account è un conto o un profilo in Rete ma anche un venditore, anche si si dovrebbe dire account executive; i roller sono penne a sfera dall’inchiostro scorrevole ma anche l’abbreviazione dei pattini rollerblade; l’economy sostituisce l’economia in sempre più espressioni (new economy, net economy, gig economy, green economy, blue economy) ma è anche una tariffa economica di treni e aerei (al posto di economy class); gli spot (abbr. di spot advertisement) sono annunci pubblicitari e anche faretti per l’illuminazione di interni (abbr. di spotlight = faro orientabile, in italiano occhio di bue o riflettore lenticolare) e persino le macchie che hanno a che fare con la metrorragia e le perdite premestruali denominate spotting.

Talvolta i doppioni non nascono solo dall’accorciamento all’italiana, ma anche da un significato tutto nostro che differisce da quello inglese, e sono dunque pseudo-anglicismi; il dressing, che abbiamo mutuato dalla radice di to dress (come dalla radice foot abbiamo ricavato il footing, per l’intermediazione del francese) viene spesso usato nell’ambito della moda per indicare il modo di vestire, ma in inglese si dice clothing e il dressing è solo un condimento dell’insalata, che comunque è riportato tra gli anglicismi dei dizionari italiani anche con questo secondo significato.

Gli pseudo-anglicismi che convivono con gli anglicismi più ortodossi sono tanti. Book (libro) si trova in composti come e-book, instant book, guest book… ma viene usato impropriamente anche come sinonimo di portafoglio fotografico (in inglese portfolio) cioè cartella, presentazione, campionario. Bomber (bombardiere) nel gergo dell’abbigliamento (come abbreviazione di bomber jacket) indica il giubbotto da aviatore, ma nel linguaggio calcistico si trasforma in cannoniere (e nel pugilato in picchiatore). Allo stesso modo mister non significa più solo signor, come equivalente maschile di miss è il vincitore di una sfilata di bellezza o di culturismo, e nel linguaggio calcistico si carica di un significato estraneo all’inglese per indicare l’allenatore di una squadra. Tra questo genere di parole una delle più ramificate è box, che significa scatola o contenitore, ma è anche uno spazio ristretto ricavato nell’ambiente che lo contiene, quindi un compartimento o reparto. In una pagina può esprimere un riquadro (un box di testo), c’è poi il box doccia (la cabina doccia), in altri contesti è un recinto per gli animali o una stalla (il box dei cavalli), nei circuiti automobilistici è un posto di rifornimento e impropriamente – ma ormai largamente diffuso soprattutto nel Nord Italia – può essere un posto macchina al coperto.

Doppioni, triploni e quadruploni

La moltiplicazione dei significati e delle accezioni delle parole inglesi che deriva da omografi, usi figurati, significati nei diversi ambiti e pseudo-anglicismi non è sempre separabile in modo netto. Talvolta questi meccanismi si sommano e si sovrappongono e il risultato è una diramazione molto ampia. “I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni” scriveva Gadda riferendosi alla ricchezza della sinonimia e dei registri dell’italiano, ma oggi sembra valere anche per il ricorso all’inglese.

Un esempio di triplone misto è slot (lett. fessura): in informatica è l’alloggio che nei calcolatori permette l’inserimento di schede aggiuntive, dunque una porta. Viene usato però anche come decurtazione di slot machine, mentre un terzo significato è in locuzioni come slot di tempo, cioè una finestra o un lasso di temporale. Tra gli altri “triploni” c’è set che può indicare una serie, un completo (un set di pentole, un assortimento di valigie o un corredo di lenzuola), ma nel linguaggio cinematografico e televisivo è il teatro di posa, mentre nel tennis o ping-pong è ognuna delle partite che compongono un incontro. Lo spoiler nel linguaggio televisivo o cinematografico è l’anticipazione o lo spifferare un finale che ne rovina i colpi di scena, ma prima di questo recente significato era solo l’alettone o il deflettore nelle automobili e in aeronautica era il diruttore o disruttore, cioè un elemento aerodinamico dell’ala.
Un quadriplone è rappresentato da una parola come convention che letteralmente indica l’assemblea dei delegati di un partito per eleggere il candidato alla presidenza degli Usa; per esteso si usa per un qualsiasi congresso, raduno, incontro, vertice, conferenza, ma nel mondo del lavoro e del commercio indica un convegno di lavoro per stabilire gli obiettivi da raggiungere, e nel linguaggio commerciale può essere anche una riunione dei venditori.

Stop ha almeno cinque significati. Indica l’obbligo di arresto nella segnaletica stradale e i cartelli stessi; può essere il fanalino o la luce (di colore rosso) che segnala la frenata degli autoveicoli; è il tasto di interruzione del funzionamento di apparecchi e dispositivi, e in generale ogni comando che equivale a fermarsi (intimare lo stop); ma è anche un’interiezione che significa basta, fermati, ed è persino un tassello o vite a espansione. Anche master può indicare un corso di specializzazione o di perfezionamento (e anche il titolo, l’attestato); nel linguaggio sportivo corrisponde a un torneo dei campioni (specialmente nel tennis e nel golf) dove sono ammessi a partecipare solo i migliori giocatori del mondo; in informatica è la matrice (da cui masterizzare), l’originale dalla quale si ottengono le repliche per esempio di un cd o di un altro supporto; nei giochi di ruolo è il capogioco, cioè chi coordina i partecipanti che assumono i propri ruoli e nell’ambito del porno e del bondaggio è il padrone, cioè la figura maschile dominante che detta le regole di una relazione di sottomissione.
Ring di significati ne ha almeno sei: 1) nel pugilato è il quadrato, e in senso lato salire sul ring equivale a disputare un incontro, mentre abbandonare il ring significa ritirarsi dal pugilato, appendere i guantoni al chiodo; 2) nell’ippica è il recinto dell’ippodromo dove sfilano i cavalli dopo la gara; 3) come abbreviazione di ring road, è anche una “strada ad anello”, cioè una circonvallazione, un raccordo anulare, o una tangenziale cittadina (anche se propriamente non si tratta di un anglicismo, ma di un termine di derivazione dal tedesco); 4) si usa anche per indicare una pista automobilistica, un circuito per gare motoristiche; 5) nel linguaggio economico indica un accordo o un cartello di oligopolio fra imprese con lo scopo di sottrarre il prodotto dal mercato e farne alzare il prezzo; 6) nell’industria tessile è un tecnicismo che indica il filatoio ad anello.

Conclusioni

Non mi pare che la polivalenza dei forestierismi sia stata oggetto di molte analisi, ma mi sembra che ci sia un’enorme differenza tra il caso degli anglicismi e quello dei “prestiti” da altre lingue, dove non ho riscontrato questo fenomeno. Guardare l’interferenza dell’inglese da questo punto di vista conferma l’impressione che non abbiamo più a che fare con un fenomeno che si può etichettare attraverso le categorie del prestito; l’inglese assomiglia di più a un trapianto di radici e di parole che stanno prendendo vita autonoma e che si stanno allargando nel nostro lessico anche attraverso numerose ibridazioni che non si vedono tra gli altri forestierismi (cfr. Antonio Zoppetti, “L’inglese nell’italiano: espansione per ibridazione”, portale Treccani, 21 giugno 2019). Questo dipende sicuramente dalla sproporzione numerica (cfr. Antonio Zoppetti, “I forestierismi nei dizionari: quanti sono e di che tipo”, portale Treccani, l7 luglio 2019), ma è un segnale che rivela anche tutta la profondità con cui gli anglicismi si ancorano nel nostro lessico.

La loro polivalenza è un dato nuovo, tra i circa 1.700 anglicismi registrati nel 1990 dal Devoto Oli si riscontrava raramente, erano spesso tecnicismi mono-significato; tra i circa 4.000 annoverati dallo stesso dizionario nel 2020 spicca invece questa moltiplicazione dei loro significati che va di pari passo con l’essere sempre meno parole di settore e sempre più utilizzate nel linguaggio comune.

Per quantificare il fenomeno, su un campione che ho analizzato di poco più di 3.700 parole inglesi che circolano nell’italiano con una certa stabilità (cfr. Dizionario AAA – Alternative Agli Anglicismi) ho contato almeno 200 lemmi che possiedono più di un significato, ma se si considerano anche le accezioni che derivano dagli usi figurati sono molte di più, e credo che complessivamente generino ben più di 500 accezioni e definizioni diverse.

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Black friday, venerdì nero e anglicizzazione

Quando chiediamo a qualcuno se vuole sentire prima la notizia bella o quella brutta, spesso sceglie quella bella.

Dunque, la bella notizia è che comincia a farsi strada la traduzione di black friday persino sugli organi della stampa che hanno fatto dell’itanglese la loro lingua, come il Corriere della Sera digitale, anzi online.

Certo, nell’immagine tratta dall’edizione in Rete del 21 novembre 2020, “venerdì nero” ricorre solo 2 volte contro le 5 dell’anglicismo. In un caso l’italiano è anche riportato tra virgolette, come una bizzarria – e pensare che un tempo erano i forestierismi che si riportavano tra virgolette – ma comunque è già qualcosa. Venerdì nero è diventato un sinonimo secondario, ma possibile, e in un uso.

Urrà!
E la notizia brutta?

Giusto… me ne stavo quasi dimenticando. Nulla di nuovo, in realtà. Se nella stessa immagine guardiamo gli anglicismi, la sensazione è quella di vivere in un Paese occupato, dove gli organi di informazione usano un linguaggio di regime che ricorre al lessico degli invasori. L’invasione non è militare, naturalmente, è quella delle multinazionali che esportano il loro linguaggio che il giornalismo collaborazionista diffonde e ci impone dall’alto.

Nella porzione di Corriere riprodotta (se preferite screenshottata, per essere coerenti con l’itanglese) si vedono 4 riquadri (o box, per gli amanti dello pseudo-inglese) con i relativi titoli e sommari che rimandano (o linkano?) al pezzo.
Copiaincollando il testo in un programma di scrittura (detto preferibilmente editor), si contano in tutto 147 parole. Non è un calcolo precisissimo perché una locuzione come “black friday”, così come “venerdì nero”, si dovrebbe considerare come una parola sola, e non come due. Inoltre, per determinare la reale percentuale dell’inglese, con qualche piccolo aggiustamento e intervento manuale bisogna escludere le “parole che non valgono” ai fini dei conteggi, per esempio i numeri (30 e 2020), i nomi propri come quelli dei giornalisti e soprattutto delle aziende. Facendo questo lavoro di pulizia emerge chiaramente chi è l’invasore. Sono le multinazionali statunitensi che si chiamano Amazon o Ebay, ma anche quelle non americane hanno ormai nomi anglicizzati, come MediaWorld, il marchio che la società tedesca Media Mark ha scelto di utilizzare in Italia, la terra dei cachi. Eliminate queste parole insieme ad altre come “Elio e le storie tese” (da considerare una parola sola: il nome di un gruppo musicale) i vocaboli effettivamente in gioco sono 119, e tra questi 13 sono inglese, cioè l’11% del lessico utilizzato (per l’esattezza il 10,9):

black friday (che ricorre 5 volte)
best of
weekend
store
online
e-commerce
testimonial
smartwatch
sport
.

Sport è ormai considerato una parola italiana, oltre che un internazionalismo (ma non lo è affatto visto che mezzo miliardo di spagnoli lo chiamano deporte), ma per pesare la reale interferenza dell’inglese è bene conteggiarlo, anche se lo usiamo dalla fine dell’Ottocento. In compenso non è stato conteggiato “stressanti”, che pur derivando da stress è ormai a tutti gli effetti una parola italiana che, come sport, non viola le nostre regole di pronuncia e di scrittura.

Se si lemmatizzano le parole italiane, e cioè si elencano considerando quante volte ricorrono accorpando le flessioni (altre e altri sono la stessa parola riconducibile al lemma altro), i vocaboli sono solo 52 (di cui alcuni si ripetono più volte):

l’articolo determinativo (il, lo la, le, gli, l’…) ricorre 17 volte
preposizione di → 12 volte
ricorrono 4 volte: degli, altre/altri, offerte
ricorrono 3 volte: e, su, migliori
ricorrono 2 volte: in, allo/al, venerdì nero (uno tra virgolette), è, non, solo, proposte, tanti/tante, scelta, giusta, sconti
ricorrono 1 volta: a, dal, fino, per, con, questo, anticipo, purificatore, aria, spazzolino, elettrico, parte, obiettivo, dichiarato, rendere, acquisti, meno, stressanti, c’(=ci), gigante, presidiare, abbiamo selezionato, migliaia, persone, coda, proseguirà, novembre, categorie, merceologiche, eccezione, negozi, preso, assalto.

In sintesi: il lessico è formato da 61 lemmi, di cui 52 italiani e 9 inglesi, un’incidenza del 14,7%.

Le cose si aggravano se si analizzano le categorie grammaticali. Con l’eccezione di online, usato nel testo in funzione di aggettivo, gli altri 8 anglicismi sono tutti sostantivi, o locuzioni con valore nominale. Se consideriamo questo aspetto, abbiamo 16 sostantivi in italiano (venerdì nero, scelta, proposta, sconti, purificatore, aria, spazzolino, obiettivo, acquisti, migliaia, persone, coda, novembre, categorie, eccezione, negozi) e 8 in inglese (black friday, best of, weekend, store, e-commerce, testimonial, smartwatch, sport).
Il che significa che su 24 sostantivi, un terzo è in inglese (il 33,33%). E questi costituiscono una parte della lingua fondamentale: sono le parole che abbiamo a disposizione per designare le cose! L’italiano è salvo nelle sue componenti verbali e nelle parole ad altissima frequenza come le preposizioni, le congiunzioni o gli articoli, ma cede il posto all’itanglese nel caso dei nomi.

Da quanto ne so, l’unico esempio serio di conteggi sul lessico dei giornali che passava per la lemmatizzazione risale agli anni Ottanta ed è stato fatto da Tullio De Mauro con il Veli (Vocabolario Elettronico della Lingua Italiana). A quei tempi gli anglicismi rappresentavano circa il 2% dei 10.000 lemmi più frequenti nei giornali (escluse le parole che non valgono).

Gli studi che circolano oggi sono invece fatti in modo automatico, senza lemmatizzare e senza escludere le parole che non valgono. E quando si attribuisce all’inglese una percentuale “solo” del 2 o 3% delle parole dei giornali si salva la nostra lingua conteggiando le occorrenze delle congiunzioni o delle preposizioni, oltre alle date e ai nomi propri (ne ho già parlato in “Le percentuali degli anglicismi nella stampa”).

Non conosco studi recenti realizzati con i criteri che a suo tempo aveva utilizzato De Mauro, ma a naso suppongo che si si facessero scopriremmo delle percentuali intorno all’8-10% a seconda degli ambiti (è una mia supposizione che non sono in grado di dimostrare se non utilizzando piccoli campioni che non sono sempre rappresentativi, come in questo articolo). È vero che non in tutti gli ambiti e gli articoli le percentuali sono così alte come in questi esempi. Tuttavia, in articoli che parlano di informatica, economia o lavoro possono essere anche maggiori. È vero anche che i dati qui riportati si riferiscono ai titoloni dei giornali, e che all’interno dei pezzi gli anglicismi sono più diluiti, tuttavia sono i titoli quelli che la gente legge e sfoglia, e il loro impatto è molto più forte rispetto al testo del pezzo,

Queste percentuali non si possono negare. Qui non c’è nessuna illusione ottica: i numeri di questo tipo mostrano che abbiamo a che fare con una lingua che non è più italiana se non nella sua struttura.

Se torniamo all’immagine e guardiamo la pubblicità nel riquadro giallo in basso a destra, le cose non vanno meglio.

“Nuova Mini Countryman plugin hybrid con il nuovo leasing operativo Why-Buy Evo tua da 220 € al mese”.

Dov’è l’italiano in questa lingua hybrid delle pubblicità?
I nomi delle automobili sono inglese, i contratti di locazione finanziaria si chiamano leasing seguiti da formule che ne specificano le caratteristiche in inglese (leasing operativo Why-Buy Evo).

Il plugin hybrid non riguarda solo le automobili, ormai chiamate preferibilmente il settore automotive, ma anche l’italiano. L’inglese è il plugin hybrid che si è innestato nella lingua del bel paese là dove ‘l sì… suonava.

Le profonde differenze tra l’interferenza di francese e inglese

Davanti all’odierna anglicizzazione dell’italiano, circola un luogo comune molto in voga tra i “negazionisti” non preoccupati per la sorte della nostra lingua. È un argomento che si sente spesso e qualche giorno fa, davanti alle preoccupazioni che esprimevo, mi è stato riproposto al Tg2 Italia da Dario Salvatori: ciò che oggi accade con l’inglese in passato è già accaduto con il francese.

Fino ai primi del Novecento era infatti il francese a essere la lingua di moda, il modello culturale internazionale di prestigio cui guardavamo e da cui importavamo. Eppure, nonostante gli allarmismi del passato, la lingua italiana è sopravvissuta e ha saputo ben sopportare e superare questa “invasione”. Dunque anche oggi, davanti al massiccio ricorso all’inglese, non c’è da preoccuparsi troppo. Si tratta di una “moda” che passerà: con il tempo l’italiano avrà la meglio e, come è avvenuto in passato, assimilerà o abbandonerà i sempre più numerosi forestierismi non adattati.

Questa tesi non è però fondata sui fatti. Tra il fenomeno accaduto all’epoca del francese e ciò che accade oggi con l’inglese ci sono delle differenze profonde a abissali, e ogni paragone da cui trarre rassicuranti previsioni sul futuro non mi pare fondato.

 

1) Il numero degli anglicismi di oggi non è paragonabile a quello dei francesismi di ieri

La prima importante differenza sta nei numeri, e non è una cosa da poco, né da sottovalutare. Basta sfogliare i dizionari di inizio Novecento per rendersene conto: non registravano affatto migliaia di francesismi.
Naturalmente, i criteri dei vocabolari dell’epoca erano molto più “puristici” e molto meno aperti ad accogliere i forestierismi, rispetto a oggi. Ma anche sfogliando gli elenchi dei “barbarismi” banditi in epoca fascista risulta evidente che il fenomeno non è paragonabile da un punto di vista quantitativo. Nel “Bollettino di informazioni della Reale Accademia d’Italia”, che aveva lo scopo di stilare le parole straniere “vietate” affiancate dai sostitutivi italiani indicati dal regime, le parole bandite erano in totale circa 500 (l’elenco fu anche pubblicato sul Corriere della Sera del 21 giugno 1941), e comprendevano soprattutto francesismi, ma anche anglicismi e parole di altre lingue. Era una questione di principio e di orgoglio nazionale, più che di effettivo pericolo per la nostra lingua.

Andando a scartabellare opere ancora più specialistiche, si può citare la più celebre: Barbaro dominio. Processo a 500 parole esotiche di Paolo Monelli (Hoepli 1933), dove i numeri erano gli stessi. Successivamente questo lavoro fu ampliato in una seconda edizione del 1943: Seicentocinquanta esotismi esaminati, combattuti e banditi dalla lingua. Ma ancora una volta, questi numeri non riguardavano solo il francese, i gallicismi in queste opere erano poco più della metà, e dunque erano circa il 10% delle circa 3.500 parole inglesi accolte nei dizionari monovolume del nuovo Millennio. Perciò c’è una bella differenza, almeno di un ordine grandezza! Lo si può vedere nel grafico che ho provato a ricostruire sulla base delle marche e delle datazioni del Devoto Oli 2017.

Anglicismi entrati storicamente
Le datazioni e il numero di francesismi, ispanismi e anglicismi non adattati nel Devoto Oli 2017.

 

2) La rapidità di penetrazione dell’inglese non ha precedenti storici

In questo confronto tra ciò che è accaduto oggi e ciò che accadeva all’inizio del secolo scorso non bisogna poi trascurare la rapidità dell’aumento delle parole inglesi: tutto è avvenuto nell’arco di 80 anni.

L’interferenza del francese, al contrario, è stato un fenomeno plurisecolare, che ci ha influenzati sin dalle origini del volgare, quando si guardava agli esempi letterari della lingua d’oil, l’antenata dell’odierno francese, che finì per affermarsi a Parigi e avere la meglio su quella d’oc, il provenzale diffuso al sud della Francia che si ritrova anche nel linguaggio di Dante. Di lingua francese erano anche i Normanni che ancor prima si erano stanziati nell’Italia meridionale e in Sicilia. Poi, su questi antichi sostrati si sono innestati migliaia di francesismi successivi (ma perlopiù adattati, non “crudi”), che risalgono sia alle epoche in cui siamo stati invasi militarmente e dominati politicamente, sia al periodo in cui la Francia era la nazione più importante di tutta l’Europa e la sua egemonia culturale e linguistica era un punto di riferimento per tutti: l’Illuminismo, la Rivoluzione, l’età napoleonica e la Belle Époque terminata con lo scoppio della Prima guerra mondiale.

Nel caso del’inglese, invece, fino alla seconda metà dell’Ottocento gli anglicismi erano quasi assenti dalla nostra lingua. Solo alla fine del secolo hanno cominciato a penetrare in modo non preoccupante. Se nelle opere come Barbaro dominio erano ancora molto contenuti rispetto al francese, ciò che è avvenuto dopo la Liberazione non ha precedenti, nella storia della nostra lingua.

Di seguito riporto una tabella tratta da Diciamolo in italiano con l’entrata per epoca degli anglicismi non adattati secondo le marche di tre importanti dizionari. Nella prima colonna quelli prima dell’Ottocento, nella seconda quelli del XIX secolo, e nella terza quelli del XX secolo (ma il Sabatini-Coletti, DISC, utilizzato si ferma al 1997).

aumento anglicismi in zingarelli devoto oli sabatini coletti
Gli anglicismi non adattati entrati per epoca (fonte: Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 81). Tra parentesi sono riportati i numeri grezzi che si ricavano da ognuna delle tre opere.

In sintesi, nel corso del Novecento sarebbero entrati 2.000/2.300 anglicismi, stando ai vocabolari monovolume, ma i dizionari che si occupano specificatamente di parole straniere indicano cifre ancora più alte. E la gran parte di questi sono entrati nella seconda metà del secolo!


3) Il francese è stato italianizzato, l’inglese non si italianizza

Nel corso dei secoli abbiamo importato e adattato dal francese un numero di parole enorme, per esempio la maggior parte dei calchi che terminano in -ismo, -ista, -aggio (illuminismo, materialista, libertinaggio), -zione (emozione, rifrazione, presunzione), -izzare (razionalizzare, scandalizzare) e -ficare (elettrificare). Persino i colori blu e marrone sono adattamenti di bleu (da noi c’era il celeste o il turchino) e marron (il colore della castagna). I meno di 1.000 francesismi non adattati registrati nei dizionari contemporanei, dunque, sono solo la punta del “banco di ghiaccio” (o dell’iceberg, se preferite), perché tutto il resto è ormai assimilato e italianizzato al punto che l’etimo francese è persino scomparso dai dizionari, in qualche caso, per esempio in quello di “precisazione” che ai tempi di Leopardi “muoveva le risa”, nel suo apparire brutta e barbara.

Il prossimo grafico mostra il rapporto tra forestierismi adattati e non adattati secondo le marche del Devoto Oli 1990, e come si può notare, mentre per il francese (ma anche per lo spagnolo e il tedesco) il rapporto tra parole adattate e non adattate appare “sano”, e cioè per la maggior parte sono state adattate, nel caso dell’inglese è invece assolutamente sbilanciato e “malato”: le parole crude sono molto di più di quelle italianizzate!

forestierismi adattati e non del devoto oli
Le parole straniere adattate e non adattate nel Devoto Oli 1990 (fonte: Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 86).

Come si può notare facilmente, nel 1990 l’interferenza del francese era ancora superiore, complessivamente,  a quella dell’inglese, anche se il numero degli anglicismi non adattati era di gran lunga maggiore. Negli anni seguenti, però, i rapporti che si ricavano dalle analisi etimologiche si sono invertiti, e se si guarda il grafico successivo ricostruito sulle marche del Gradit 1999 (il dizionario a volumi curato da Tullio De Mauro), la situazione si è ribaltata: nel 1999 l’interferenza dell’inglese ha superato quella plurisecolare del francese! E i francesismi erano per il 70,5% adattati, contro solo il 31,6% degli anglo-americanismi, che per il 68,4% mantenevano la propria forma inglese.

forestierismi adattati e non nel GRADIT
Le parole straniere adattate e non adattate nel Gradit 1999 (fonte: Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 87). In numeri assoluti: 6.292 anglicismi (1.989 adattati + 4.303 non adattati), 4.982 francesismi (3.517 ad. + 1.465 non ad.), 1.055 ispanismi (792 ad. + 263 non ad.), 648 germanismi (360 ad. + 288 non ad.).

La crescita dell’inglese è aumentata ancora di più nell’edizione del Gradit del 2007, tanto che lo stesso De Mauro (a quei tempi ancora fermo sulle sue posizioni “negazioniste”) aveva dovuto ammettere:

Il confronto con i dati registrati nella prima edizione del GRADIT mostra che negli ultimi anni gli anglismi hanno scalzato il tradizionale primato dei francesismi e continuano a crescere con intensità, insediandosi, come più oltre vedremo, anche nel vocabolario fondamentale.

[Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia repubblicana: dal 1946 ai nostri giorni, Laterza, Bari-Roma 2016, p. 136].

Di seguito un grafico che raffronta gli anglicismi del Gradit 1999 e del 2007, da cui si evince sia l’aumento delle parole sia la crescita della sproporzione tra adattati e non adattati.

aumento anglicismi nel Gradit
Le parole straniere adattate e non adattate nel Gradit 1999 (fonte: Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 88).

Secondo Arrigo Castellani (cfr. “Morbus anglicus”, 1987) la ragione di questa differenza tra l’adattamento del francese e il non adattamento dell’inglese risiedeva anche nell’affinità strutturale delle due lingue:

L’influsso del francese sull’italiano nel periodo che ha preceduto la valanga anglo-americana è stato indubbiamente forte. Ma le parole ed espressioni francesi sono state per lo più assimilate senza grossi traumi, data la vicinanza tra le due lingue. La maggior parte dei gallicismi moderni dell’italiano sono fusi col resto della lingua, non si riconoscono più.

Questa affinità è indubbia, visto che il francese è lingua neolatina molto più vicina alla nostra, ma non credo sia una ragione sufficiente. Nulla, infatti, ci vieterebbe di italianizzare l’inglese e dire per esempio smarfono anziché smartphone o guglare invece che googlare, né di creare calchi e traduzioni invece che ricorrere all’inglese crudo. Nulla ci vieterebbe anche di pronunciare all’italiana parole come club o summit, come abbiamo sempre fatto, e come fanno normalmente in Francia (dove si dice “futbòl” e “campìng”) o in Spagna (dove si dice “uìfi” al posto di wi-fi e “puzle” al posto di “pasol”). E allora le ragioni dei mancati adattamenti non credo si possano spiegare solo con l’affinità tra le lingue. Il punto è che ci vergogniamo di storpiare l’inglese,  che consideriamo “sacro” e superiore alla nostra lingua, e dobbiamo ostentarlo. Ormai pronunciamo sempre più spesso USA all’americana, mentre in Spagna e Francia si chiamano EU (rispettivamente Estados Unidos e États-Unis), così come avviene per le altre sigle: gli ufo sono ovni (Oggetti Volanti Non Identificati) e l’aids è sida (Sindrome da ImmunoDeficienza Acquisita).

Ma c’è di peggio. Non solo importiamo senza adattare, non solo pronunciamo all’americana, viceversa facciamo diventare inglesi le nostre parole (un adattamento al contrario!), e così diciamo tutor e vision invece di tutore e visione, in televisione passa comedy invece di commedia, nelle pubblicità limited edition invece di edizioni limitate, nell’informatica downloadiamo invece di scaricare, in politica il presidente del consiglio diventa premier, nel linguaggio istituzionale si varano act e si introducono tax, sui giornali killer e pusher sostituiscono assassino e spacciatore, e parole come elaboratore e calcolatore le abbiamo messe in cantina perché ormai si dice solo computer. Tutto questo non dipende dall’affinità delle lingue, le cause sono ben altre. E il risultato è che ormai la metà dei neologismi del nuovo Millennio si esprime in inglese crudo e la nostra lingua non sa più coniare nuove parole sue per esprimere le cose nuove.


4) il francese era un fenomeno elitario, l’inglese è di massa

C’è poi un’altra grande differenza tra l’interferenza ai tempi del francese e quella di oggi dell’inglese, come aveva già osservato acutamente Arrigo Castellani:

“Il francese ha agito sulla lingua della borghesia”, mentre oggi il fenomeno è di massa, “la differenza è principalmente qui”.

Castellani aveva ragione, nel 1987, a scrivere queste cose, ma oggi si deve dire molto di più, alla luce di quanto è accaduto e sta accadendo.

Sia il francese di ieri sia l’inglese di oggi hanno una comune radice sociolinguistica elitaria, sono cioè un modo di esprimersi che distingue la nostra classe dirigente che si pone attraverso i forestierismi su un altro piano, rispetto alle masse. Ma con l’avvento della Rete la distinzione tra masse e professionisti ha cessato di essere nettamente separabile. Se da una parte il ricorso all’inglese, e il suo abuso scriteriato, oggi caratterizza il linguaggio dei mezzi di informazione o della politica, dall’altra parte le masse si sono appropriate della Rete e hanno prodotto milioni di pagine scritte dalla gente comune che imita e prosegue gli stessi modelli attraverso siti personali che funzionano da “ripetitori” (blog, riviste in rete e giornalettismi, reti sociali, tronisti virtuali e persone comuni che diventano influenti/influencer). Questo fenomeno sociale si basa sull’emulazione dello stesso stile e linguaggio dei mezzi di informazione ufficiali, che a loro volta ricalcano il linguaggio della Rete in un circolo vizioso. Tutto ciò contribuisce all’emergere di una nuova lingua, ormai diventata itanglese, in cui i modelli dall’alto si fondono con quelli dal basso. Mentre dall’alto accade che si anglicizzi il linguaggio istituzionale, quello del lavoro, della scienza, della tecnica, dell’economia, dell’informatica (e questo nel caso del francese non è mai accaduto), dal basso arriva la “lingua dell’ok”, quella popolare, del rock e della musica, dei fumetti (oggi sempre più comic, strip, cartoon, graphic novel), dei videogiochi, dei film i cui titoli non si traducono più, dei prodotti di largo consumo… E su questo terreno si innesta anche la forte pressione dell’espansione delle multinazionali e dei mercati che esportano la propria nomenclatura insieme alle loro merci in un nuovo colonialismo, anche linguistico, basato sull’angloamericano.

Tutto ciò non è liquidabile come una semplice moda passeggera, e non è paragonabile nemmeno lontanamente a quanto avveniva nei primi del Novecento. A quei tempi il francese aveva raggiunto il clou, era chic e à la page, con il suo particolare charme. Era la lingua d’élite, del bon ton, del savoire-faire, e tra i tantissimi vocaboli non adattati ci ha trasmesso molti di quelli legati al costume (da toilette a bidet), alla gastronomia (bignè, ragù, omelette) o alla moda (collant, décolleté, foulard, gilet, papillon, tailleur). Ma fuori dalla moda (che però oggi si esprime sempre più in inglese) il francese non ha mai colonizzato interi settori come oggi accade con l’inglese nell’informatica, nel lavoro, nell’economia, nella scienza, nella tecnologia, nella musica…

Quello che sta accadendo alla nostra lingua non è un fenomeno superficiale e di moda, è una strategia dell’evoluzione dell’italiano che ci sta portando verso l’itanglese.

Chi pensa che se siamo sopravvissuti alla moda del francese sopravvivremo anche alla moda dell’inglese lo fa senza cognizione di causa e racconta una favola che non si fonda sui fatti. Chi si basa su questi ragionamenti induttivi rischia di fare la fine del tacchino di Russell, che poiché ogni giorno riceveva da mangiare all’ora di pranzo, era convinto che sarebbe avvenuto sempre così. Ma il giorno del Ringraziamento, all’ora di pranzo,  fu il tacchino a trovarsi sul desco di chi lo aveva sempre nutrito.

Tullio De Mauro e gli anglicismi, anzi gli anglismi (a due anni dalla sua scomparsa)

Il 5 gennaio di due anni fa ci ha lasciato uno dei più importanti linguisti italiani.
Lo voglio ricordare ricostruendo le sue posizioni sugli anglicismi, anzi sugli anglismi.


Per Tullio De Mauro si dice anglismi e non anglicismi

Tullio tullio de mauroDe Mauro si è sempre battuto per chiamarli anglismi, perché è la derivazione corretta dalla radice anglo: l’inserimento di ci è una forma che sarebbe a sua volta un inglesismo (da anglicism).
Questa argomentazione non teneva conto del fatto che non c’è nulla di male a prendere dall’inglese, quando lo si adatta, e non teneva conto dell’affermazione storica della parola “anglicismo”, attestata sin dal Settecento persino da un purista come Giuseppe Baretti che con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue si scagliava contro le maleparole dalle pagine della sua rivista la Frusta letteraria. Comunque la pensiate, va detto che nonostante la maggiore frequenza storica di anglicismi, in seguito alle considerazioni di De Mauro, negli ultimi anni la variante anglismi si sta diffondendo sempre più soprattutto tra i linguisti, come variante “colta”.

De Mauro, il falsificatore del “Morbus anglicus” di Arrigo Castellani

Tullio De Mauro è sempre stato un noto “negazionista”, per quasi tutta la vita non ha mai creduto che l’interferenza dell’inglese rappresentasse un problema per la lingua italiana, ed è celebre in proposito la sua polemica con il neopurista Arrigo Castellani. Quest’ultimo, in un articolo del 1987 che sarebbe passato alla storia, il “Morbus anglicus” (in Studi linguistici italiani, n. 13, Salerno Editrice, Roma, pp. 137-153), aveva denunciato l’invasione sempre più consistente delle parole inglesi che come un virus stavano intaccando la nostra lingua italiana. A suo vedere, bisognava in qualche modo intervenire per curare lo stato di salute dell’italiano, altrimenti il rischio sarebbe stato che i tessuti vitali ne venissero intaccati.
Tullio De Mauro si oppose a questo allarmismo, che confutò statistiche alla mano. La sua posizione si rivelò perciò vincente, tra i linguisti, e divenne quella del pensiero dominante che solo di recente si è incrinata e sta andando ormai in frantumi.
Tutto ebbe forse inizio nel 1980…

1980: il Vocabolario di base della lingua italiana senza anglicismi

De Mauro compì vari studi statistici senza precedenti nell’italiano. Nel 1980 pubblicò il primo Vocabolario di base della nostra lingua, che includeva le circa 7.000 parole che si usano più di frequente.
Queste, a loro volta si possono distinguere in 2.000 parole fondamentali, quelle che da sole costituiscono il 90% dei discorsi e dei testi (e, di, perché, essere, avere…), altre 2.300 definite ad alta disponibilità, che tutti conoscono (per cui sono disponibili nella nostra testa), ma che si usano poco, per esempio forchetta, che non compare spesso nei libri né nei discorsi, anche se è di base. E poi altre 2.750 ad alto uso, e cioè che si usano moltissimo, ma non come le prime, e che comunque sono molto più frequenti delle ulteriori 40.000 parole che formano il linguaggio comune, cioè quelle che tutti conoscono, anche se non è detto che le usino attivamente.
Da questa classificazione è emerso perciò un modello e una mappatura della lingua italiana “a strati” molto interessante: al centro ci sono le parole più frequenti, attorniate da quelle comuni, e attorno a queste sono rappresentate tutte le altre che appartengono a linguaggi tecnici e settoriali, e non sono comprensibili a tutti: l’avvocato conosce i suoi tecnicismi ma non quelli del medico, che a sua volte non condivide quelli dell’avvocato e così via.

vocabolario di base
Una rappresentazione del modello “a strati” del lessico della lingua secondo De Mauro.

In questo schema interpretativo, che sin dal suo apparire registrò anche pesanti critiche e perplessità, De Mauro mostrò come, negli anni Ottanta, gli anglicismi fossero confinati nella parte esterna, e non intaccassero affatto il nucleo centrale dell’italiano. Inoltre, dalle statistiche basate sui lemmi dei dizionari, allora i vocaboli inglesi costituivano ancora percentuali bassissime, intorno all’1% delle parole e anche meno. Dunque l’allarmismo di Castellani appariva ingiustificato, e non era il caso di preoccuparsi…

1989: gli anglicismi sono il 2% del Vocabolario elettronico della lingua italiana (Veli)

Nel 1989 vide la luce il Veli, il Vocabolario elettronico della lingua italiana, un lavoro immenso basato sulla statistica e sull’uso del calcolatore – De Mauro all’epoca non usava la parola computer – che lo studioso curò in collaborazione con IBM partendo dallo spoglio di alcuni testi giornalistici (ANSA, Il Mondo, Europeo e Domenica del corriere) pubblicati tra il 1985 e il 1987. Per quell’epoca in cui i testi non erano disponibili in digitale fu una rivoluzione; il lavoro analizzò circa 26 milioni di parole, che vennero lemmatizzate, cioè ricondotte dalle loro flessioni al lemma (per esempio vanno era ricondotto ad andare) con sistemi automatici poi raffinati manualmente. Successivamente furono scelti i 10.000 lemmi più frequenti e significativi e ne nacque un prototipo di dizionario pubblicato su due dischetti (all’epoca erano i cosiddetti floppy disc rigidi).

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Il Veli, curato da De Mauro, consisteva in un volume introduttivo che riportava anche gli indici lessicali e due dischetti con il primo prototipo di dizionario elettronico basato sulle 10.000 parole più frequenti.

Tra queste 10.000 parole più utilizzate nella stampa, gli anglicismi costituivano circa il 2%, una percentuale decisamente più alta di quella dei dizionari, che era invece della metà, e anche di quella che veniva attribuita all’uso degli anglicismi nell’italiano in generale.

In altre parole, passando dai dizionari allo studio delle frequenze giornalistiche le cose cambiavano sensibilmente. De Mauro, ancora una volta non se ne preoccupò: il 2% era ancora una percentuale fisiologicamente sopportabile, che non rappresentava di certo un pericolo per la nostra lingua. Ma negli anni Novanta le cose erano destinate a cambiare…

1999-2007: il Gradit e l’aumento degli anglicismi

Curato da De Mauro, nel 1999 uscì il Gradit, cioè il Grande dizionario italiano dell’uso in 6 volumi, che raccoglie circa 260.000 parole (più del doppio di quelle dei vocabolari monovolume), classificate attraverso i criteri di frequenza già adottati nel Vocabolario di base del 1980 (parole di base, comuni e settoriali) e da altre marche che ne identificavano i settori (economia, informatica…). Gli anglicismi non adattati erano 4.300, quindi rappresentavano solo l’1,6% dei lemmi. Stavano aumentando, certo, ma ancora una volta niente di troppo preoccupante, in fin dei conti.

Nel 2007, la nuova edizione del Gradit, però, ne registrava ben 6.000 e la loro percentuale saltava al 2,3% (un incremento del 39,5%, 1.700 in più in soli 8 anni).

patole straniere nella lingua italiana de mauro manciniLa cosa si stava facendo imbarazzante e preoccupante, per il più importante sostenitore delle tesi negazioniste. Ma, a onor del vero, l’aumento così eccessivo non dipendeva tanto da una reale entrata di nuovi anglicismi in questo breve lasso di tempo, bensì da una ristrutturazione interna del dizionario. Nella nuova edizione erano infatti confluiti i risultati di un lavoro specialistico sui forestierismi: Parole straniere nella lingua italiana (Tullio De Mauro e Marco Mancini, Garzanti, Milano 2001, e seconda edizione ampliata del 2003) che aveva raccolto oltre 10.000 parole da più di 60 lingue (dall’albanese al vietnamita, passando per il russo, il giapponese, il tedesco fino al francese e all’inglese). E queste sono poi state immesse nella nuova edizione del Gradit 2007, che è passato così da 7.000 a 10.000 forestierismi, e si è arricchito soprattutto da questo punto di vista.

Tuttavia, qualcosa si stava incrinando nelle tesi negazioniste: mentre l’incremento dei francesismi era contenuto, da 4.982 (sommando quelli adattati e quelli “crudi” come abat-jour) si passava a 5.345 (372 in più e un incremento del 7,4%), gli anglicismi erano “impazziti”:  sommando quelli adattati e non adattati sono passati da circa 6.300 a circa 8.400 (un incremento del 33,3%, 2.100 in più, cioè una media di circa 262 all’anno). Scorporando i dati, quelli non adattati sono passati da 4.300 a 6.000 (un incremento del 39,5%, 1.700 in più) e quelli adattati da 2.000 a 2.400 (incremento del 20%, 400 in più). Ho provato a ricostruire questo aumento con un grafico.

aumento anglicismi nel gradit
Fonte: Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 88.

La cosa più preoccupante, per De Mauro, fu che complessivamente nel nuovo Millennio l’interferenza dell’inglese sulla nostra lingua aveva, in pochissimo tempo, superato il ruolo dei substrati plurisecolari del francese. Ciononostante, intorno al 2010 lo studioso era ancora serafico e poco preoccupato, perché nonostante l’aumento del numero delle parole inglesi nei dizionari, la loro frequenza era ancora poco diffusa, secondo le sue marche. In un’intervista che in Rete è diventata una sorta di manifesto del negazionismo, “Gli anglicismi? No problem my dear”, ribadiva perciò le sue posizione storiche.

Ma pochi anni dopo la situazione mutò…

2015: il vento è cambiato

storia lingusitica de mauroNel 2014, a p. 136 della Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni (Laterza, Bari 2014), De Mauro sembra assumere una posizione diversa e più preoccupata sulla questione dell’inglese, quando scrive:

“Il confronto con i dati registrati nella prima edizione del Gradit mostra che negli ultimi anni gli anglismi hanno scalzato il tradizionale primato dei francesismi e continuano a crescere con intensità, insediandosi, come più oltre vedremo, anche nel vocabolario fondamentale”.

Lo studioso, dunque, non solo stava elaborando l’aumento degli anglicismi del Gradit, ma stava anche lavorando sulle marche delle parole, in via di revisione e di aggiornamento. Gli anglicismi, anticipava in questo passo, sono sempre meno tecnicismi o di bassa frequenza e stanno penetrando nel nucleo della nostra lingua. Davanti a questi nuovi fatti, sembra proprio che De Mauro in questo periodo stesse abbandonando la sua storica indifferenza verso gli anglicismi.

Intanto, anche il panorama del pensiero dominante cominciava a cambiare.
Il 2015 fu un anno cruciale. Uscì una pubblicazione frutto di un convegno presso l’Accademia della Crusca con la collaborazione dell’associazione Coscienza Svizzera e della Società Dante Alighieri (La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi) in cui molti linguisti cominciarono a esprimere le proprie preoccupazioni, da Claudio Marazzini a Claudio Giovanardi (già autore nel 2003 insieme ad Alessandra Coco e Riccardo Gualdo di un preoccupato Inglese-italiano 1 a 1: tradurre o non tradurre le parole inglesi? Ediz. Manni).
Il linguista Luca Serianni, che nel “Morbus anglicus” era citato da Arrigo Castellani tra i “negazionisti” non preoccupati, aveva cambiato idea sul proliferare degli anglicismi.
Quello stesso anno, la petizione di Annamaria Testa “Dillo in italiano” aveva creato un caso mediatico e l’accademia della Crusca aveva dato vita al Gruppo Incipit per monitorare i forestierismi incipienti e arginarli con sostituivi italiani, almeno negli intenti.
Insomma, qualcosa nell’aria stava cambiando. E anche Tullio De Mauro stava rivedendo le sue posizioni.

2016: la svolta di De Mauro e l’ammissione dello “tsunami anglicus”

La svolta, del tutto inaspettata, arrivò nel 2016, quando lo studioso scrisse la prefazione a Italiano Urgente di Gabriele Valle (Reverdito editore, 2016), una raccolta di 500 anglicismi che venivano spiegati e affiancati da possibili sostituzioni basate sul modello della lingua spagnola. L’opera si apriva con una citazione tratta proprio dal “Morbus anglicus” di Arrigo Castellani e De Mauro sembrava essersi reso conto della profonda differenza tra l’anglicizzazione arginata dello spagnolo e quella abissale dell’italiano che definiva esplicitamente come uno tsunami:

“è indubbio: quel che altrove appare o è uno tsunami appare invece ed è una fronteggiabile ondata sui lidi ispanici (…). È indubbio che lo tsunami anglicizzante va quasi guadagnando terreno nell’uso italiano: non si segnala tanto per il numero di lessemi analizzanti registrabili in un grande dizionario (…) ma per altri due aspetti: l’uso in locuzioni formali e ufficiali (education, jobs act, spending review e via governando) e  la penetrazione degli anglismi nel vocabolario fondamentale e d’alto uso, dove prima c’erano solo pochi esemplari, bar, film, sport, tram, e oggi si affolla un più folto manipolo…” (p. 17)

Sembra incredibile che queste parole siano state scritte dal massimo esponente del “negazionismo”, eppure sono state ribadite e approfondite in un articolo sul sito Internazionale poco meno di un mese dopo: “È irresistibile l’ascesa degli anglismi?”, dove persino il giudizio sull’avversario Arrigo Castellani sembra rivisto, davanti alla dimensione internazionale dell’espansione dell’inglese:

“Non è un fatto nuovo: da alcuni decenni impetuose ondate di anglismi si riversano nell’uso di chi parla e scrive le più varie lingue del mondo. Trent’anni fa e più un valoroso filologo, Arrigo Castellani, nel diffondersi di anglismi nell’uso italiano vide e diagnosticò un morbus anglicus, un virus capace di infettare e corrompere la lingua italiana. Ma del fenomeno ormai bisogna dire di più. (…) L’afflusso di parole inglesi dagli anni Ottanta ai nostri ha assunto dimensioni crescenti, uno tsunami anglicus. Le ondate somigliano ormai infatti a un susseguirsi di tsunami…”.

Il 23 dicembre 2016 il Nuovo vocabolario di base di Tullio De Mauro venne pubblicato in Rete sul sito Internazionale, e dal confronto con quello del 1980 spicca subito che l’inglese è penetrato anche qui: gli anglicismi sono decuplicati.

Nel 1980, alla lettera B era presente solo bar, mentre nel 2016 gli anglicismi sono 13: baby, babydoll, band, bar, basket, bikini, bit, blog, boss, box, boxer, brand, business. E in tutto il vocabolario di base, se nel 1980 gli anglicismi non adattati erano poco più di una decina, nel 2016 sono 129 su meno di 7.500 parole, cioè almeno l’1,7% (se non me ne è scappato qualcuno e senza conteggiare parole macedonia come salvaslip).

Le parole con cui, pochi mesi prima, De Mauro chiudeva l’anticipazione in Rete di questi risultati sono queste:

“L’accentuata frequenza di anglismi è certamente uno dei tratti in cui si sedimenta la storia linguistica italiana degli ultimi decenni.
A voler bandire l’uso degli anglismi dalle lingue del mondo e dall’italiano c’è lavoro, se non gloria, per tutti.”

Poco dopo la pubblicazione del Nuovo vocabolario di base, il 5 gennaio del 2017, Tullio De Mauro se n’è andato.

nuovo vocabolario di nase de mauro

 

Anche se ne ho più volte criticato le posizioni e anche se ho provato a confutare molte delle sue argomentazioni passate, lo voglio oggi ricordare, rendendogli onore per l’onestà intellettuale di aver saputo rivedere, davanti ai fatti, le convinzioni di una vita. Una cosa che tanti piccoli linguisti ancora non hanno saputo fare.

Italiano, francese, spagnolo e tedesco di fronte agli anglicismi

Davanti all’interferenza dell’angloamericano e agli anglicismi, non c’è confronto tra ciò che sta accadendo in Italia e quanto accade in Francia e Spagna.

Ho già mostrato la grande differenza tra il francese e l’italiano che si evince dall’analisi della Wikipedia, dal fatto che c’è la legge Toubon e che esiste una politica linguistica. La sensibilità verso l’italiano sembra più spiccata anche in Svizzera che da noi, e le politiche linguistiche che in Italia sono un tabù esistono in tanti Paesi, persino in Cina.

Nel caso dello spagnolo, la differenza è ancora più evidente, ma su questo tema non potrei aggiungere molto al saggio di Gabriele Valle, “L’esempio della sorella minore”: è lo studio comparativo più esaustivo e inoppugnabile in circolazione.

L’orgoglio ispanico

Non resta che invidiare la fierezza e l’orgoglio degli spagnoli che sanno ancora tradurre e adattare le parole – come accade nelle lingue sane – che da noi vengono spacciate per necessarie o intraducibili, solo perché la nostra classe dirigente non le vuole o non le sa italianizzare e preferisce inseguire la strategia comunicativa di dire le cose in inglese.
E così, mentre noi diciamo baby sitter in spagnolo si dice canguro, una bellissima metafora che non ha bisogno di spiegazioni nel suo sapere evocare il concetto, e mentre noi sin dagli anni Sessanta andiamo fieri di indossare i jeans (che parola intraducibile, anche se deriva dall’italiano!) in Spagna li chiamano vaqueros. E infatti lo spanglish, al contrario dell’itanglese, non è il cedimento dello spagnolo davanti agli anglicismi, viceversa è un ibrido dove è lo spagnolo a irrompere e a ritornare nell’angloamericano delle comunità ispaniche d’oltreoceano.

Quando una parola inglese si impone nel mondo spagnolo di solito la si pronuncia alla spagnola, come nel caso di wi-fi (pronunciato alla francese anche in Francia) ricordato anche dal presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini nel suo recente intervento agli Stati generali della lingua italiana.

Da noi no. Ci vergogniamo a storpiare l’inglese. E così noi utilizziamo un verbo come whatsappare  mantenendo la sacralità inviolabile della radice inglese, e gli spagnoli adattano in wasapear, come nota Serena Casagrande  (“Gli anglicismi nella lingua spagnola: quando e come usarli”) a cui rubo una citazione:

Ogni lingua ha qualcosa che la rende unica, porta con sé un’espressività diversa da quella delle altre lingue. Diventare parlanti esclusivi di una lingua globale a discapito della diversità ci farà prima o poi perdere il contatto con le nostre radici linguistiche e con la cultura di cui ogni lingua è il veicolo principale.

In Italia “il contatto con le nostre radici” in troppi casi è perduto, e come mi ha fatto notare Gabriele Valle, un libro spagnolo come quello di Alicia Giménez-Bartlett: Mi querido asesino en serie, (Destino, 2017) nella traduzione italiana di Sellerio diventa Mio caro serial killer… perché “assassino seriale” da noi non si può più proporre: serial killer è diventato simbolicamente un prestito sterminatore.

mio caro serial killer

E se guardiamo le classifiche dei libri su Amazon in spagnolo possiamo leggere:
“Clasificación en los más vendidos de Amazon” mentre da noi “i più venduti” cede il posto all’immancabile bestseller: “Posizione nella classifica Bestseller di Amazon”.

Una tesi di laurea di Cinzia Filannino

Su questi confronti, segnalo la tesi fresca di discussione di Cinzia Filannino: “Gli anglicismi nella stampa. Italia, Spagna e Francia: tre realtà a confronto”, l’ho trovata molto esaustiva (chi volesse vederne un video riassuntivo molto semplice e divulgativo lo può fare sul Tubo).

Questo lavoro si basa sull’analisi di alcune parole della politica presenti sul Corriere della Sera, che sono state confrontate con le occorrenze di El País e de Le Monde. Per esempio Jobs Act che sul Corriere della Sera compare in 2.320 articoli, dal 2014 a oggi, ma analizzando un campione di 10 articoli, solamente in 3 il termine viene tradotto o spiegato. Al contrario, “nel quotidiano El País, tutti gli articoli contengono il termine accostato alla traduzione o alla spiegazione anche quando si tratta di articoli scritti dagli stessi giornalisti a distanza di mesi (…). Per quanto riguarda il quotidiano francese Le Monde, gli articoli che parlano della riforma italiana sono 30. Su un campione di 10 articoli, il termine Jobs Act e le sue varianti sono affiancate dalla spiegazione o dalla traduzione in 8 articoli”.

Un altro esempio: stepchild adoption:

“L’espressione è citata in 288 articoli del Corriere della Sera. Su un campione di 10 articoli analizzati, l’espressione è stata tradotta e spiegata in 4 articoli su 10 (…). Digitando nella barra di ricerca dei siti di entrambi i quotidiani spagnolo e francese, stepchild adoption non compare in nessun articolo in riferimento all’Italia. Quello che è presente sotto questa voce riguarda i Paesi anglofoni, mentre quando si parla dell’istituto giuridico italiano gli articoli contengono la perifrasi usata sia per indicare il nome dell’istituto giuridico sia il tipo di adozione” e cioè la adopción del hijo del cónyuge.

Coniuge e consorte, due belle parole applicabili sia al maschile sia al femminile (dunque rispettose anche della non discriminazione del genere) che sembra che il Gruppo Incipit dell’Accademia della Crusca non abbia preso in considerazione nel condannare l’espressione inglese proponendo come alternative adozione del figlio del partner (non commento il paradosso di sostituire un anglicismo con un altro, ma provo un senso di vergogna e non posso che constatare la grande differenza di spessore e di stile delle accademie spagnole) o adozione del configlio (un bel neologismo coniato da Francesco Sabatini).

Tornando alla tesi di Cinzia Filannino, il totale degli articoli che ha analizzato nel dettaglio è 50 per l’Italia, 30 per la Spagna e 38 per la Francia. La motivazione del minor numero di articoli nei giornali francesi e spagnoli è disarmante:

“Mi ero riproposta di analizzare dieci articoli per ogni termine e per ciascuno dei Paesi presi in considerazione per il confronto, ma non è stato possibile in quanto gli argomenti scelti non venivano trattati nei quotidiani stranieri o presentavano pochi articoli a riguardo. Avendo scelto il quotidiano italiano come partenza per l’indagine, non era possibile fare in altro modo.”

In sintesi:

El País ha affiancato ai termini analizzati la spiegazione o la traduzione 28 volte su 30; in due casi, in quello di stepchild adoption e caregiver, l’anglicismo non era presente se non esclusivamente nella sua traduzione o eventuale spiegazione. Le Monde ha tradotto gli anglicismi 32 volte su 38. Come nel caso del quotidiano El País, gli articoli in riferimento alla stepchild adoption e al caregiver contenevano la traduzione senza termine inglese.”

Nella tabella questi numeri sono riportati nei dettagli.

Tabella_p59_tesi_Filannino
Cinzia Filannino: “Gli anglicismi nella stampa. Italia, Spagna e Francia: tre realtà a confronto”, 2018, p. 59: la percentuale di traduzioni/spiegazioni degli anglicismi che ricorrono negli articoli.

“Si può trarre la conclusione che nel Corriere della Sera, e di conseguenza nella lingua italiana, si tende a usare un gran numero di anglicismi che, quasi sempre, non vengono affiancati dalla traduzione o dalla spiegazione. Lo spagnolo è la lingua che traduce di più; il francese si trova nel mezzo.”

Sono le stesse conclusioni che, partendo da altri dati, ho sostenuto anche nel mio saggio. Le stesse che chiunque abbia un minino di onestà intellettuale non può che riconoscere, invece di negare arrampicandosi sui vetri.

E in Germania?

In Diciamolo in italiano, scherzosamente, ho usato una metafora calcistica nel fare i miei confronti tra l’italiano e le lingue dei Paesi vicini. Il risultato? Italia-Spagna 0 a 2, Italia-Francia 0 a 1. Solo nel caso di Italia-Germania ho registrato uno 0 a 0: anche il tedesco è invaso dagli anglicismi, con un paio di differenze da non trascurare, però. Per prima cosa si tratta di due lingue dello stesso ceppo per cui molte parole inglesi si mimetizzano, non costituiscono corpi estranei che violano le regole di grafia e pronuncia e passano quasi inosservati.

Inoltre, la reattività dei tedeschi è maggiore della nostra:

“Da un sondaggio del 2016 è emerso che quasi il 71% dei tedeschi è fortemente infastidito dall’abuso degli anglicismi nella comunicazione quotidiana. Ad avvalorare questo sentore c’è per esempio il caso delle ferrovie tedesche Deutsche Bahn, che proprio per il loro uso eccessivo di parole inglesi sono state accusate di parlare il “Bahnglisch” o di ostacolare la comprensione, e da qualche anno sono state costrette ad attuare una revisione del loro linguaggio. Davanti alle proteste dei cittadini, il capo dell’azienda, Rüdiger Gruber, si era impegnato già nel 2010 a restituire alle stazioni tedesche la loro impronta “germanica” e a far tornare servicepunkte quelli che erano diventati i service point. Nel 2013 l’azienda ha poi deciso di rivedere totalmente la terminologia non tedesca con cui si rivolge ai viaggiatori decidendo di eliminare parole come highlights, hotlines o bonus, per ricorrere alle alternative locali, e ha così fornito ai dipendenti un glossario di circa 2.200 termini sul tema degli anglicismi, proprio per evitarli nella comunicazione e sostituirli nell’uso quotidiano della lingua.”

Antonio Zoppetti, Diciamolo in italiano. Gli abusi dell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla, Hoepli 2017, pp. 24-25.

Da noi, invece, le Ferrovie di Stato usano un linguaggio sempre più anglicizzato che impongono a tutti.
Dunque siamo ultimi nel torneo: lo 0 a 0 con la Germania è una partita che abbiamo perso ai rigori, in definitiva. E spero che queste metafore calcistiche servano a riscuotere il nostro orgoglio italiano, che fuori dal calcio, sembra venire sempre meno.

Il 4% delle parole del linguaggio comune è in inglese

La prima delle tante riflessioni e statistiche che si possono trarre dal Dizionario delle Alternative Agli Anglicismi (AAA) riguarda la quantità degli anglicismi presenti nel linguaggio comune, cioè quelle parole che una persona di buona cultura dovrebbe conoscere o comprendere all’interno di un discorso (anche se non le usa attivamente), perché non sono tecnicismi o parole di settore specialistiche, e si ritrovano normalmente per esempio sui mezzi di informazione, senza necessità di spiegazioni.

Non mi risulta che esistano studi o calcoli recenti sulla questione, ma se qualcuno ne fosse a conoscenza lo invito a segnalarli.

Il linguaggio comune secondo Tullio De Mauro

Faccio riferimento al modello di Tullio De Mauro, il (grandissimo) linguista che negava che gli anglicismi costituissero un problema per la lingua italiana.

Secondo questo modello, ci sono circa 7.000 parole definite di base, cioè quelle che chiunque conosce e usa e che costituiscono le parole più frequenti (il linguaggio di base a sua volta è composto da circa 2.000 parole fondamentali, 2.300 di alta disponibilità e 2.750 di alto uso). Accanto a queste ci sono poi circa 40.000 parole che costituiscono il linguaggio comune, quelle che tutti conoscono, anche se non è detto che le usino attivamente.

Oltre a queste 47.000 parole (7.000 di base + 40.000 comuni), ci sono poi le altre (nei dizionari monovolume oscillano tra 50.000 e 100.00) che appartengono a linguaggi tecnici e settoriali, e non sono comprensibili a tutti: l’avvocato conosce i suoi tecnicismi ma non quelli del medico, che a sua volte non condivide quelli dell’avvocato e così via.

Nel negare l’anglicizzazione della lingua italiana, uno dei punti di forza di De Mauro (e dei negazionisti che continuano a ripetere queste stesse cose) era nell’escludere gli anglicismi dal linguaggio di base e da quello comune per relegarli nella sfera dei tecnicismi di settore. In questo modo l’italiano sembra salvo e l’itanglese lontano.

Ma questa teoria non è più sostenibile, come ho cercato di dimostrare nei miei lavori.

E allora il punto è: quanti sono, oggi, gli anglicismi nel linguaggio comune?


Perché le marche di De Mauro non sono più attuali

Nelle Avvertenze al dizionario Nuovo De Mauro (che risale al 2001)  il criterio usato nel marcare le parole è ben specificato:

CO: comune; sono così marcati i vocaboli che sono usati e compresi indipendentemente dalla professione o mestiere che si esercita o dalla collocazione regionale e che sono generalmente noti a chiunque abbia un livello mediosuperiore di istruzione;

TS: tecnico-specialistico; sono così marcati vocaboli legati a un uso marcatamente o esclusivamente tecnico o scientifico e noti soprattutto in rapporto a particolari attività, tecnologie, scienze;

Ma seguendo questo criterio, se cerchiamo “mouse” , vediamo che è marcato come TS dell’informatica, cioè come fosse un tecnicismo, e così “password“,  “scanner” (TS elettronica/medicina), “chat” (TS informatica), “hacker” (TS informatica), “laser” (TS fisica)  e altre centinaia e centinaia di anglicismi che sono invece alla portata di tutti.

Se la teoria che fa degli anglicismi termini di settore si basa su queste marche, molto semplicemente è priva di fondamento!

Nel 2018 non si può più sostenere che parole come queste siano fuori dal linguaggio comune. A dire il vero non era sostenibile nemmeno nel 2001, come ho provato a dimostrare nel mio libro, ma in ogni caso una lingua è viva e queste categorie si spostano velocemente: se non vengono aggiornate continuamente, rischiano di diventare presto obsolete e di restituire una fotografia della nostra lingua che non è reale.

Non sono il solo a manifestare perplessità davanti alle marche utilizzate nei dizionari di De Mauro. Nel 2015 Claudio Giovanardi notava che la distinzione delle fasce sembra arbitraria e contestabile, che i confini tra i livelli sono sfumati, che tra le parole fondamentali c’era software ma non hardware, offline ma non online, e non si spiegava l’assenza di parole popolari come big, mouse, news, jogging, day, wow, mobbing, stalking, ticket e selfie.

Claudio Giovanardi, “Un bilancio delle proposte di traduzioni degli anglicismi 10 anni dopo” in Claudio Marazzini e Alessio Petralli (a cura di), La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi, Accademia della Crusca/goWare 2015, pp. 64-85 (e-book, formato epub).

Prima di lui, nel 2008, Andrea Bistarelli scriveva che le marche d’uso appaiono discutibili specialmente in casi come e-mail, che all’epoca era ancora classificata come tecnicismo informatico (TS).

Andrea Bistarelli, “L’interferenza dell’inglese sull’italiano. Un’analisi quantitativa e qualitativa” in inTRAlinea. Online translation journal, Volume 10, 2008, www.intralinea.org/archive/article/1644.

E allora come stanno le cose?


Gli anglicismi comuni in AAA

Nel classificare i circa 3.550 anglicismi inseriti in AAA ho provato a utilizzare marche (o categorie) un po’ più attuali. La categoria che include 155 Anglicismi fondamentali, per esempio, raccoglie gli anglicismi inseriti nel Nuovo vocabolario di base di Tullio De Mauro (circa 129 parole, quindi l’1,7%) integrati con quelli delle 10.000 parole fondamentali secondo il Devoto-Oli 2017 e delle 5.485 dello Zingarelli 2017 (se le parole fondamentali fossero 10.000, 155 costituirebbe l’1,55%).

I 1922 Anglicismi comuni, invece, sono una raccolta empirica e basata sul buon senso, ancora in via di revisione. Sicuramente sono stati inseriti un centinaio di anglicismi che potrebbero essere messi in discussione (qualcuno potrebbe obiettare che siano davvero comuni), ma il problema principale non è nell’inserimento di parole dubbie, ma nelle lacune: ci sono centinaia di parole che non sono state marcate così, per non calcare la mano portando acqua al mio mulino, per esempio curvy, cyber sex, account executivepre-shave (il prebarba contrapposto ad after-shave, che si trova normalmente nelle pubblicità o nei negozi)… che non sono certo “tecnicismi”.

In sintesi: anche se i criteri di demarcazione non sono sempre oggettivabili, gli ordini di grandezza che ne escono sono abbastanza affidabili, ritengo. E 1.900 anglicismi comuni, confrontati con le 47.000 parole che secondo De Mauro formano il linguaggio comune, costituiscono il 4%.

Dunque il 4% delle parole comuni è in inglese! E questo è un dato nuovo, pesante, accaduto negli ultimi 30 anni e destinato ad aumentare. Non è un caso che circa la metà dei neologismi del nuovo Millennio sia inglese, da quanto si ricava dallo spoglio di Devoto Oli e Zingarelli.

Concludendo: l’inglese non si traduce, non si adatta, non si coniano nuove parole ma si prende in prestito direttamente senza nessuno sforzo di dirlo in italiano… E allora come si fa ancora a negare che l’italiano si sta anglicizzando? Su quali basi? Su quali numeri?

E cosa accadrà fra 20 o 30 anni se non si spezza questa moda assurda e deleteria di dirlo in inglese?

Ai posteri la non così ardua sentenza.

La presenza di anglicismi e altri forestierismi dallo spoglio del Devoto Oli

I linguisti che si dichiarano “non preoccupati” per la presenza degli anglicismi nella lingua italiana hanno una visione “statica” del fenomeno. Se si mostra loro che un dizionario come il Devoto Oli registra attualmente circa 3.500 parole inglesi, rispondono che comunque rappresentano solo il 2 o 3% di tutte le voci presenti in un vocabolario. Ma questo modo di annacquare gli anglicismi e di spalmarli su tutti i lemmi di un dizionario (quelli monovolume raccolgono dalle 100.000 alle 150.000 voci) non è un criterio utile per comprendere come stanno le cose, per molte ragioni.

Occorre un’analisi lessicale storica e per categorie grammaticali

Per prima cosa i dizionari registrano molte voci arcaiche, disusate, poetiche… e queste andrebbero tolte dai conteggi delle percentuali degli anglicismi, che sono invece parole moderne. Ma, soprattutto, va detto che per oltre il 90% dei casi, le parole inglesi sono sostantivi e in maniera minore aggettivi e un’infiltrazione concentrata in questi ambiti non può essere trascurata.

Se si analizzano per esempio i verbi, il Devoto Oli  ne registra circa 10.000 e tra questi ce ne sono solo un centinaio costituiti da semiadattamenti come googlare, downloadare, backuppare… che complessivamente non rappresentano una percentuale preoccupante e tale da modificare il nostro sistema verbale: si attestano intorno all’1% dei verbi.

Nello stesso dizionario, al contrario, i sostantivi registrati sono più o meno 65.000 (cifra che include circa 900 francesismi e 3.000 anglicismi) e se si escludono le voci “morte” il loro numero scende ben al di sotto di 60.000.

Comunque sia, considerando circa 3.000 sostantivi inglesi su un totale di 60.000, ecco che la percentuale dei sostantivi inglesi diventa circa del 5%, che comincia a essere un numero molto invadente, soprattutto perché, se si vanno a guardare i neologismi del Nuovo millennio, gli anglicismi rappresentano ben la metà delle parole nuove!

E allora conviene passare da una visione statica a una dinamica: bisogna cioè analizzare il fenomeno dell’inglese che penetra nella nostra lingua non come un’istantanea, ma come un flusso che cresce in modo esponenziale, ed è per questo che è preoccupante.


L’aumento degli anglicismi dall’Ottocento a oggi

L’entrata delle parole inglesi è un fenomeno che comincia a diventare massiccio dal secondo dopoguerra. Dal grafico costruito sulla base dello spoglio di Zingarelli, Devoto Oli e Sabatini Coletti si può capire meglio come stanno le cose: nella prima colonna gli anglicismi datati prima dell’Ottocento, nella seconda quelli dell’Ottocento e nella terza quelli del Novecento.

 

GRAFICO 4.1
Le datazioni e il numero degli anglicismi non adattati di Zingarelli, Devoto Oli e Sabatini Coletti sino al Novecento (A. Zoppetti, Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 81).

Davanti a questi dati non si può fare finta di niente e rispondere che l’influsso dell’inglese è ancora poca cosa: la nave imbarca acqua, e bisogna capire come arginare la falla invece di dire che ci sono solo 2 o 3 dita, se non si vuole finire con l’andare a fondo!

Per comprendere meglio i numeri, è utile fare un confronto tra forestierismi analizzando anche i francesismi e gli ispanismi, che rappresentano le due lingue che storicamente ci hanno maggiormente influenzati (al quarto posto ci sono i germanismi, mentre il contributo delle altre lingue si attesta su valori molto più insignificanti). Dalle datazioni che si ricavano dal Devoto Oli, risulta che fino all’Ottocento era il francese a costituire la lingua con un maggiore apporto di forestierismi non adattati, e che dopo la seconda metà del Novecento è successo qualcosa di anomalo e grave che non ha precedenti storici!

Va precisato che i numeri che emergono dalle datazioni digitali sono grezzi, in altre parole hanno margini di errore stimabili intorno al 10% rispetto a quelli che si possono ottenere da analisi raffinate e più ponderate. Più nel dettaglio, nelle analisi grezze, quando una parola non ha indicata una data precisa, ma solo un riferimento al secolo, può capitare che una stessa voce compaia sia nella prima metà del Novecento sia nella seconda (è il caso di “access provider”, per esempio), il che spiega perché la somma dei forestierismi di prima e seconda metà del Novecento non corrisponda esattamente al numero degli anglicismi dell’intero Novecento, ma si tratta di un margine di errore trascurabile, visti gli ordini di grandezza. Ecco perché dal Devoto Oli risulta che nell’Ottocento sono entrati 187 anglicismi (contro i 244 francesismi e i 75 ispanismi) di cui 42 nella prima metà del secolo (contro 79 dal francese e 36 dallo spagnolo) e 152 nella seconda metà (contro 173 dal francese e 53 dallo spagnolo).

Questo equilibrio si spezza nella prima metà del Novecento quando, con il finire dell’epoca della Belle époque, entrano 747 anglicismi (contro 366 francesismi e 6 ispanismi), per poi impazzire definitivamente nella seconda metà del Novecento con 2.077 parole inglesi non adattate (contro 296 francesi e 32 spagnole).

Nel Nuovo millennio (al 2017) gli anglicismi accolti sono 509 (contro 12 francesismi e 5 ispanismi) e nel grafico ho provato a ricostruire la situazione in modo visivo.

Anglicismi entrati storicamente
Le datazioni e il numero di francesismi, ispanismi e anglicismi non adattati nel Devoto Oli 2017.

Per la cronaca: i neologismi del nuovo Millennio sono in tutto 1.049, dunque la metà di essi sono parole inglesi. Ma passando dai dati grezzi a ricerche raffinate, le cose stanno anche peggio, perché sotto gli anglicismi non sono incluse parole semiadattate come i verbi switchare, spoilerare e via dicendo, né le altre parole derivate dall’inglese (selfone, customizzazione, fashionista…) che farebbero salire di non poco le statistiche e porterebbero il numero degli anglicismi del Duemila a essere maggiore di quello dei neologismi autoctoni che riusciamo a produrre.

E allora qual è il destino del lessico italiano davanti a questi dati?
Quale sarà l’italiano del futuro se le cose non cambiano?

La mia previsione è che sarà itanglese. In sintesi: la struttura dell’italiano, la sintassi e i verbi saranno sostanzialmente quelli di ieri e di oggi, mentre i sostantivi saranno in percentuale sempre più ampia parole inglesi, dalle regole ortografiche e fonetiche diverse dall’italiano storico. La nostra lingua sarà sempre più inadatta a descrivere le cose nuove, che si diranno in inglese, soprattutto negli ambiti tecnologici, scientifici e lavorativi.

Si può ancora definire “italiano” un simile idioma? Per gli anglopuristi probabilmente sì, per me no. In gioco c’è l’identità dell’italiano del futuro!

Chi definisce i forestierismi come dei “doni” e li vede come un arricchimento dovrebbe guardare il fenomeno dell’inglese nel suo divenire. Allora si renderebbe conto che il problema non è nel purismo o nel neopurismo, ma è semplicemente nel loro numero! L’esplosione dell’inglese è impazzita e non ha più controllo: sette secoli di influenza del francese hanno generato migliaia e migliaia di francesismi italianizzati, ma meno di 1.000 francesismi non adattati. Invece, in soli 70 anni, nell’arco cioè di una sola generazione, abbiamo importato 3.000 parole inglesi (e solo un ulteriore migliaio di parole inglesi italianizzate)! Non siamo più capaci di tradurre e di adattare, non sappiamo (o non vogliamo) creare neologismi al posto degli anglicismi e spesso preferiamo usare l’inglese anche in presenza di parole italiane che in questo modo regrediscono.

Una lingua è in grado di sopportare una proliferazione così massiccia e rapida senza snaturarsi e perdere la propria identità?

Anglicismi in Francia e in Italia: non c’è partita

A Milano, la capitale dell’itanglese, il servizio delle biciclette condivise si chiama BikeMi, e sul sito dedicato la parola bicicletta è assente (si parla solo di bici come sinonimo secondario in fondo, nell’ultima riga) dando per scontato che si chiami servizio di bike sharing. La stessa filosofia adottata sul sito del comune sulla pagina intitolata Bike sharing.

Sulla Wikipedia francese, al contrario di quella italiana, se si cerca bike sharing si viene dirottati alla pagina vélos en libre-service, come si dice in francese, e lo stesso accade per il car sharing che rimanda ad autopartage, così come internet provider è una voce inesistente, perché in francese si dice fournisseur d’accès à Internet.

Ma per fare un confronto tra la situazione degli anglicismi in Francia e in Italia non basta fare qualche esempio, perché si possono scegliere gli esempi favorevoli alle proprie tesi in qualunque direzione, occorre invece fare confronti più sistematici.

Gli anglicismi sono più frequenti in Francia solo in pochi casi

In un curioso articolo dell’Accademia francese, Dominique Fernandez esalta la creatività linguistica italiana e scrive che, anche se siamo un Paese sottomesso agli Stati Uniti (a proposito: in Francia si chiamano EU = États-Unis e non USA come in originale e in italiano), noi diciamo calcio invece di football, campeggio invece di camping (che però in Francia si pronuncia alla francese), panino imbottito invece di sandwich e giro della morte invece di looping.

Queste osservazioni riguardano la frequenza delle parole. Ed è vero: si tratta di esempi in cui gli anglicismi sono preferiti dai francesi, come si evince anche dai grafici Ngram Viewer che, alla faccia di chi nega siano affidabili, funzionano anche nei (non frequenti) casi in cui l’Italia è messa meglio dei Paesi vicini:

football e camping in italiano e francese
La frequenza di football in Francia è estremamente più alta che in Italia, e anche camping è molto più utilizzato che da noi.

È risaputo che in Francia si dica preferibilmente football, e la conferma dei dati del servizio di GoogleBooks arriva anche dalla comparazione tra le frequenze della parola su Le Monde (ricorreva 18.655 volte al 30/5/2017) e su La Stampa (7.846 volte).

Gli esempi fatti dall’Accademia francese sono perciò veri, ma non dimostrano che la situazione da noi sia più rosea, e soprattutto sono vecchi: appartengono al passato. Football, e in generale molta della terminologia calcistica e sportiva (non tutta però) era stata già italianizzata con un certo successo ai tempi del fascismo (la cui politica linguistica fu molto più complessa della semplice messa al bando dei forestierismi, e rappresenta un modello da studiare, oltre che da biasimare in modo chiaro e forte come una via da non ripercorrere). A quell’epoca d’Annunzio inventò la parola tramezzino come alternativa a sandwich, ma purtroppo la creatività linguistica italiana oggi non esiste più e invece di creare alternative alle parole inglesi le importiamo in modo succubo. Infatti, la metà dei neologismi del Nuovo millennio di Zingarelli e Devoto Oli sono in inglese (più precisamente: dalle ricerche grezze sono meno della metà, ma se si aggiungono i derivati semiadattati come whatsappare, downoladare, googleare… superano il 50%). E davanti a questo dato viene da chiedersi quale sia il futuro dell’italiano, se non cambia il vento.


Un confronto all’americana

Ho già pubblicato una comparazione tra francese e italiano, a proposito degli anglicismi, ma voglio aggiungere qualche dato inedito, visto che c’è chi continua a negare che l’italiano sia messo peggio.

Basta cercare sulla Wikipedia francese e italiana gli anglicismi con la lettera A.

VOCE

ITALIANO

FRANCESE

abstract

voce esistente

voce non esistente

ace (tennis)

voce esistente
NOTA: riportata senza alternative italiane

voce esistente
NOTA: esiste l’alternativa as

access point

voce esistente
NOTA: senza alternative italiane

voce non esistente, esiste invece: point d’accès sans fil

account

voce esistente

voce non esistente

account manager

voce esistente  senza alternative

voce non esistente

advergame

 

voce esistente
NOTA: non è riportata l’alternativa per es. di videogioco promozionale o gioco pubblicitario

voce esistente
NOTA: è riportata l’alternativa francese jeu vidéo publicitaire

adware

voce esistente
NOTA: il corrispondente indicato  (“software sovvenzionato da pubblicità”) non è in italiano né adeguato

voce esistente
NOTA: ci sono ben 2 alternative: logiciel publicitaire o publiciel

aids

voce esistente

voce non esistente
NOTA: si è reinderizzati automaticamente alla voce francese sida

airbag

voce esistente
NOTA: viene indicata l’alternativa di cuscino salvavita che però non è in uso

voce esistente
NOTA: vengono indicate le alternative di coussin gonflable (o coussin gonflable de sécurité) in uso

aka

voce esistente

voce esistente

all inclusive

voce esistente
(con traduzione)

voce non esistente
si è reinderizzati automaticamente alla voce fancese tout inclus

angel investor

voce esistente

si rimanda all’espressione inglese equivalente business angel (dunque come fosse una voce esistente)

antidoping

 

si è reindirizzati all’anglicismo doping
NOTA: si riporta l’alternativa drogaggio ma non dopaggio

voce non esistente (in francese antidoping è il nome di un complesso musicale) e la voce doping non esiste: si è reindirizzati a dopage

antitrust

voce esistente
NOTA: è riportata l’alternativa anti-monopolio, che non è una voce (l’alternativa italiana è reindirizzata sull’anglicismo)

voce definita come anglicismo con rimando alla voce francese droit de la concurrence

apartheid

voce esistente

voce esistente

assist

voce esistente
senza alternativa

voce non esistente

autofocus

voce esistente

voce esistente

 

In sintesi: su 17 anglicismi con la A presenti nella Wikipedia italiana, solo 8 esistono anche in quella francese. In generale, a parte il caso di apartheid, tutti gli anglicismi in francese hanno un corrispettivo autoctono, mentre solo 8 di quelli in italiano riportano equivalenti o traduzioni utilizzabili.

Queste percentuali non cambiano se si procede a cercare gli anglicismi con le altre lettere dell’alfabeto. Ma se qualcuno volesse ancora negare l’evidenza e sostenere il contrario, lo invito a fornire un elenco di anglicismi in francese con la A che non esistono in italiano.

 

Perché queste differenze oggettive?

A fare la differenza non c’è solo la politica linguistica francese e la legge Toubon, c’è anche il fatto che in Francia, come in Spagna, le accademie creano le alternative agli anglicismi, che raccomandano e pubblicizzano.

È interessante dare uno sguardo alle proposte francesi del 2018 (e vedere il video promozionale in proposito):

smartphone (che da noi è a volte spacciato per “prestito di necessità”) è affiancato da mobile multifunction;
net neutralityneutralité de l’internet;
smart tvtéleviseur connecté;
blockchainchaîne de blocs;
deep webtoile profonde;
peer-to-peerpair à pair;
back officearrière-guichet;
thumbnailimagette;
e le fake news che da noi circolano come fosse l’unica espressione possibile (notizie false o bufale? Che vergogna! Che parole antiche!) in Francia si sono trasformate anche in infox (info = informazione + faux = falso).

Naturalmente, va detto che non tutte le alternative prodotte hanno successo, alcune funzionano, altre meno. Ma complessivamente il numero e la frequenza degli anglicismi sono arginati, rispetto all’Italia, e anche quando una proposta sostitutiva non entra nell’uso esiste almeno la possibilità dei parlanti di scegliere, che da noi manca.

E allora la libertà è più tutelata dalla legge Toubon, che alcuni vendono come qualcosa che impedisce ai francesi di parlare come vogliono, ma che offre la possibilità di dirlo in francese, o in Italia, dove si fanno circolare solo gli anglicismi?

L’informatica e l’itanglese

Sono tanti i linguaggi di settore in cui l’itanglese è ormai una realtà.

Oltre al linguaggio della moda, uno dei più contaminati è quello dell’informatica.

La manutenzione del computer (fino agli anni Novanta si diceva calcolatore o elaboratore, ma oggi è sempre meno possibile) o qualche problema con virus e antivirus, è qualcosa che riguarda tutti. Cercando informazioni in Rete, si finisce in siti che spiegano le cose perlopiù in questi termini:

“Oggigiorno, purtroppo, oltre ai cosiddetti virus, esistono numerose altre varianti di infezioni che possono creare problemi ad un qualsiasi computer collegato ad Internet: spyware, adware, dialer, rootkit, trojan, worm, keylogger, hijacker, e chi più ne ha più ne metta.”

Fonte: https://www.informaticapertutti.com/i-10-migliori-anti-malware-free

Quello che mi colpisce maggiormente, negli articoli di settore come questo (che però volenti o nolenti riguardano tutti, non solo gli addetti ai lavori), è l’elenco di nomi dei programmi maligni: 8 anglicismi seguiti da un “chi più ne ha più ne metta”, ma purché siano in inglese, si potrebbe aggiungere (non ce ne è uno in italiano).

La rinuncia a parlare in italiano e a ripetere a pappagallo tutto ciò che viene da oltreoceano con le stesse parole è evidente. Virus è una parola latina, anche se nel significato informatico ci arriva dall’inglese, e tralasciandola, ci sono 10 anglicismi su 38 parole (il 26,3%).

Ma questo modo di calcolare le percentuali è poco indicativo, come si può capire meglio con qualche altro esempio: se eslcudiamo dai conteggi le parole ripetute, le congiunzioni o le preposizioni (per non “salvare” la nostra lingua conteggiando le “e” o i “di”), le prcentuali salgono.

Qual è la percentuale di anglicismi in un articolo di informatica?

Cercando cosa sia uno spyware – che per la cronaca in italiano è semplicemente un programma spia –, frugando in Rete si nota subito che fornire l’alternativa italiana è qualcosa che non viene nemmeno in mente agli autori della maggior parte degli articoli. Al massimo si spiega la pronuncia in inglese, ma quasi mai si fanno circolare le alternative. Un esempio concreto:

“Che cos’è lo spyware?
Lo spyware (si pronuncia spàiuer) non è un virus ma più che altro una particolare tipologia di software malevolo, cioè di malware, progettata con il solo scopo di raccogliere senza il tuo consenso il maggior numero di informazioni possibili quando navighi su Internet, tipo siti web visitati, indirizzi email, password, dati di home banking, numeri di carte di credito, e così via dicendo. Questo con il solo scopo di inviare successivamente tali preziose informazioni a qualcuno che le userà per trarne profitto in qualche modo.

Come hai fatto a prenderlo? 
Esistono principalmente due modalità attraverso le quali puoi averlo contratto:
– la prima, avviene quando, navigando su particolari siti web, o accetti volutamente di installare determinati plugin e/o estensioni per il tuo browser preferito, oppure perché, più semplicemente, vengono sfruttate delle vulnerabilità già presenti nel tuo browser non aggiornato;
– la seconda, invece, avviene inconsapevolmente quando installi programmi e/o giochi gratuiti, di tipo freeware o shareware, scaricati da determinati siti Internet, ma anche da altre fonti quali, ad esempio, software di P2P.”

Fonte: https://www.informaticapertutti.com/come-eliminare-spyware-e-malware-dal-pc/

Questo breve testo è formato da 176 parole, di cui 18 anglicismi (considerando home banking come una sola parola), cioè il 10,2% delle occorrenze.

Detto così sembra una percentuale preoccupante, ma le cose stanno molto peggio, perché non è questo il modo migliore di stabilire le percentuali: per un calcolo sensato, non basta contare le occorrenze a questo modo, bisogna invece lemmatizzare, cioè andare a vedere quanti sono i lemmi, cioè le “parole madre”. Per es. la parola “siti” ricorre 3 volte ed è riconducibile al lemma “sito” (dunque si tratta di una sola parola madre, o lemma, che ha 3 occorrenze). Se non si compiono questi passaggi le cose si annacquano, perché la presenza di un solo anglicismo (invariabile) non va confrontata con le tutte occorrenze delle parole flesse, ma con le parole lemmatizzate (per es.: è, era, sarà vanno tutte ricondotte al lemma essere). Inoltre, ha poco senso anche includere nei conteggi la presenza di innumerevoli preposizioni come di (che ricorre 11 volte, ma si tratta di una parola sola). E allora le percentuali aumentano…

C’è un’altra cosa che sarebbe utile considerare per comprendere come stanno esattamente le cose: fare delle comparazioni grammaticali.

Come ho già detto, l’inglese sta colonizzando il nostro lessico non in ogni sua parte, sta intaccando soprattutto i sostantivi e, in maniera minore gli aggettivi, mentre i verbi o le altre parti del discorso non sono in pericolo.

In sintesi se, nell’articolo citato, si prova a calcolare la frequenza dei sostantivi in inglese rispetto a quelli italiani, si può avere un’idea della reale penetrazione degli anglicismi. Se si estraggono solo i nomi (dunque non si conteggiano parole come freeware o shareware usate in funzione di aggettivo) si ottiene una lista di 40 occorrenze (ho eliminato la parola latina virus, né italiana né inglese) di cui 16 sono parole inglesi (il 40%), mentre se le parole vengono lemmatizzate si ottiene una lista di 29 lemmi di cui 11 sono anglicismi (il 37,9%). In ordine alfabetico:

browser, browser
carte
consenso
credito
dati
email
estensioni
indirizzi
informazioni,  informazioni
Internet, Internet
fonti
giochi
home banking
malware

modalità
numero, numeri
P2P
password
plugin
profitto
programmi
pronuncia
scopo, scopo
siti, siti, siti
software
, software
spyware,
spyware
tipologia
vulnerabilità
web, web

Queste sono le percentuali: più di un terzo dei sostantivi di questo articolo campione è in inglese.  Questo è l’itanglese. Questa è la realtà.

Come (e quanto) entrano gli anglicismi nell’italiano: analisi di “manager”

L’analisi storica dei dizionari è molto utile per capire con quali modalità, e con quale penetrazione sempre maggiore, gli anglicismi entrano e si radicano nella nostra lingua. Naturalmente questo è solo uno dei parametri per comprendere cosa sta accadendo all’italiano, insieme all’analisi della frequenza delle parole che è oggi possibile grazie alla Rete, agli archivi digitali dei giornali e a nuovi strumenti di misurazione della lingua. Le mie ricerche e analisi partono da queste fonti che vengono incrociate e valutate attentamente, badando anche alla coerenza dei risultati che emergono.

A titolo di esempio, per mostrare come sto procedendo nel documentare le mie affermazioni, voglio proporre la storia della parola manager.

Premessa: manager è un anglicismo che deriva dall’italiano maneggiare.

Fino al Settecento non avevamo alcun rapporto culturale diretto con l’Inghilterra. Anche gli italianismi che si ritrovano nell’inglese sino al Cinquecento riguardano solo i termini della finanza, tanto che ancora oggi a Londra c’e la Lombard Street, perche lombard indicava i commercianti del Nord Italia, e termini come cash, bank e bankrupt derivano, per mediazione del francese, dall’italiano cassa, banca e bancarotta. Esattamente come è successo per manager.

Il verbo italiano maneggiare era presente già nell’italiano del Trecento, ma si riferiva al governare i cavalli, e oggi di questa antica accezione rimane solo il termine maneggio. Con il tempo,  maneggiare ha cominciato a riferirsi non più solo ai cavalli, ma anche al denaro (nel dialetto milanese il “manegiun” cioè maneggione è chi maneggia i soldi) e il termine è passato nell’inglese antico generando to manage, che alla fine dell’Ottocento (1895 secondo il Devoto Oli e 1888 secondo lo Zingarelli) è ritornato nell’italiano attraverso management e manager, connessi con il dirigere le aziende.

Ma la frequenza di manager, sino al 1960, era praticamente nulla nella nostra lingua, come si evince dai grafici di Ngram Viewer (in generale non molto affidabili per le occorrenze basse, ma piuttosto significativi e coerenti con tutti gli altri parametri analizzati nel caso di parole di alta frequenza).

 

fequenza di MANAGER in italiano
La frequenza di manager nel corpus italiano di GoogleBooks dal 1940 al 2008

 

Per la cronaca: un confronto con quanto accade in Francia (dove esistono una politica linguistica e una serie di leggi a tutela della lingua francese) e in Spagna (dove l’orgoglio nazionale e il lavoro di una ventina di accademie rendono superflue le leggi a tutela dello spagnolo) può essere indicativo.

 

fequenza di MANAGER in italiano francese e spagnolo
La frequenza di manager in italiano, francese e spagnolo

 

1995-2017: il raddoppio delle locuzioni con “manager”

Nel 1995, un secolo dopo la datazione di manager del Devoto Oli, sullo stesso vocabolario le locuzioni composte da questa parola, erano diventate 8 (7 lemmi + 1 accezione) e precisamente:

manager, area manager, brand manager, credit manager, general manager, marketing manager (che però non era un lemma a sé bensì si trovava come locuzione sotto la voce marketing), sales manager e top manager.

Nel 2017, lo spoglio dello stesso dizionario restituisce invece 17 parole (16 lemmi + 1 accezione) dunque un raddoppio in circa 20 anni, e cioè (in grassetto le nuove entrate):

manager, area manager, brand manager, city manager, community manager, content manager, credit manager, energy manager, general manager, marketing manager (sempre sotto la voce marketing), mobility manager, product manager, project manager, sales manager, risk manager, security manager, top manager.

Un confronto con lo spoglio dello Zingarelli 2017 si arricchisce di altre 2 registrazioni: facility manager e money manger: se sommiamo anche queste voci le locuzioni diventano 19.

 

La nuvola di anglicismi fuori dai dizionari

Quanto registrato dai dizionari è però una fotografia molto diversa da quello che accade nel linguaggio di tutti i giorni. I dizionari registrano le parole che si sono affermate e che presumibilmente non sono occasionalismi effimeri, cioè parole che si usano per un certo periodo ma che poi possono decadere e passare di moda.

Per avere un quadro di ciò che avviene nel linguaggio di tutti i giorni può allora essere utile cercare manager in Rete, attraverso Google, nelle notizie dei giornali e soprattutto negli annunci di lavoro. E qui la situazione si complica terribilmente, perché viviamo immersi in una nuvola di anglicismi diffusi nella stampa e nel linguaggio aziendale e non registrati dai dizionari davvero molto alta.

Di seguito riporto alcune tra le locuzioni più diffuse non presenti nei dizionari ma che si trovano in Rete e nelle notizie dei giornali in lingua italiana:

country manager
station manager
temporary export manager
junior business development manager
real estate development manager
digital ecobrand manager
business control manager
department manager
net manager…

La faccenda si aggrava cercando manager nelle offerte di lavoro dei siti specializzati, dove tra le figure ricercate si trovano per esempio (provare per credere):

account manager
engineering manager
project engineering manager
delivery manager
SEO manager
store manager
temporary supply chain manager
district manager
academy manager
restaurant manager
network project manager
maintenance manager
transport manager
store manager fashion luxury
IT manager
quality manager
export manager
finance manager
technical supervior manager
sub-agenti team manager
transport manager support
program manager
site manager/capocantiere
technical manager tlc di cantiere
yield manager / revenue manager
application manager…

Qui mi fermo, non per mancanza di altri esempi (e ce ne sono), ma perché ormai vivono di vita propria e manager si ricombina con le più disparate altre parole inglesi, al punto che non è più possibile registrare tutte le locuzioni e gli occasionalismi. Tra questi ci sono di sicuro molti lemmi dei dizionari del futuro. Ma purtroppo questa è la lingua che, fuori dai dizionari, si parla nel presente.

PS
Molte di queste locuzioni mi risultano oscure e incomprensibili, ma so per certo che un content manager non è un “dirigente contento” (magari di avere un lavoro), ma chi gestisce i contenuti.

L’itanglese è la lingua del mondo del lavoro di oggi, non solo di domani

Il mondo del lavoro è qualcosa di terribilmente concreto, che riguarda tutti, adesso, oltre che domani. E il linguaggio aziendale è diventato questo: itanglese allo stato puro, dove la trasparenza non esiste, non è chiaro (forse volutamente) quali siano di preciso i ruoli ricercati, quali le mansioni, e tutto si ricombina spesso in neoconiazioni estemporanee a scapito dei significati.

Ai “linguisiti” che continuano a ripetere che nella lingua italiana non sta accadendo nulla di pericoloso, e che quello che vado denunciando è il solito grido di allarme privo di fondamento come se ne son già visti in passato rispondo che non si può più negare: se i numeri e i conteggi che ho pubblicato non sono veri li smentiscano numeri alla mano, se ne sono capaci. Altrimenti tacciano. Perché, davanti ai fatti, continuare a ripetere “secondo me non è vero” è esattamente come dire “secondo me la terra è piatta”.

 

 

Interferenza linguistica [4] Tutti i tipi di forestierismi

Una lingua viva cambia continuamente e si evolve con il mutare dei tempi, ed è un bene che lo faccia, altrimenti perderebbe la sua capacità di descrivere il presente e morirebbe.

Questa evoluzione consiste non solo nella capacità di creare neologismi, ma anche di assorbire gli influssi che vengono da fuori. Nel corso della storia, l’italiano si è sempre arricchito di parole straniere, dal francese, dallo spagnolo, dall’arabo e da ogni altra lingua.

E allora dov’è il problema degli anglicismi?

La risposta è semplice:
♦ il loro numero sproporzionato e
♦ la loro frequenza d’uso sempre più ampia,
due fattori innegabili che stanno stravolgendo il nostro lessico e trasformando l’italiano in itanglese.

Dopo avere mostrato l’inconsistenza e l’inutilità delle classificazioni dei forestierismi in
prestiti di lusso e di necessità,
prestiti insostituibili, utili e superflui
prima di introdurre un diverso criterio di classificazione che sia più utile, misurabile e oggettivo, vale la pena di riassumere le possibilità logiche e storiche che permettono a una lingua di evolvere.

1) Importare un forestierismo senza adattamento per colmare una lacuna linguistica
non è la sola scelta possibile, come ci vorrebbe far  credere chi parla di prestiti di “necessità”, “insostituibili” o addirittura “intraducibili”. Si può anche:
2) creare un neologismo (autoctono = italiano, e non alloglotta = importato, per es. apericena di fronte a happy hour);
3) adattare al suono italiano (cioè italianizzare, es. bondaggio da bondage);
4) tradurrre (es. mi piace al posto di like);
5) usare una parola già esistente ampliandola di nuovi significati (es. sito, per influsso di site inglese, nell’era di Internet subisce un allargamento di significato, da luogo fisico a luogo virtuale in Rete).

Il problema è che queste alternative oggi non sono più praticate, sembrano essere decadute, e il risultato è che l’evoluzione (o involuzione a seconda dei punti di vista) dell’italiano procede quasi esclusivamente attraverso l’importazione non adattata di anglicismi che sono perlopiù impiegati e preferiti anche in presenza di alternative italiane (che di conseguenza tendono a regredire e a diventare obsolete).

I neologismi del nuovo Millennio sono in prevalenza anglicismi

Dallo spoglio del Devoto Oli 2017 risultano 1.049 parole datate XXI secolo, di cui 509 (quasi la metà) sono parole inglesi. Se includiamo anche le parole semiadattate dall’inglese come customizzare, downloadare, googlare, hackerare, switchare, twittare e ritwittare, whatsappare  e qualche altra decina, vediamo che ben più della metà dei neologismi sono inglesi.

Un confronto con le altre lingue è significativo. Nel nuovo Millennio sono entrate:
14 parole dal giapponese,
12 parole dal francese,
5 parole dallo spagnolo
0 parole dal russo e dal tedesco.

E i neologismi italiani di che tipo sono?
Sfogliando l’elenco delle nuove parole italiane (come ecovettura, enopirateria, grillino, pizzata, squillino, tesoretto…) salta all’occhio in modo evidente che la maggior parte riguardano questioni “interne”, e sono quasi del tutto assenti i termini per indicare le cose nuove (che sono quasi sempre inglesi con qualche eccezione come geolocalizazzione o teleprenotazione).

Tra le pochissime eccezioni di neoconiazioni italiane al posto degli anglicismi si può segnalare la comparsa di apericena al posto di happy hour, ma non c’è molto altro (colanzo al posto di brunch, benché presente sui mezzi di informazione, non è stato registrato).

In conclusione: complessivamente l’italiano non è in grado di inventare neologismi per adeguarsi ai cambiamenti e stare al passo con i tempi o con l’innovazione tecnico-scientifica, e nella grandissima maggioranza dei casi evolve ricorrendo solo a termini inglesi. Se questa tendenza non si spezza, presto diventerà una lingua incapace di esprimere il contemporaneo che si potrà dire soltanto in itanglese.

Adattare e italianizzare? Per carità! Che vergogna!

La tendenza a italianizzare le parole è un fenomeno antico e un tempo istintivo. Londra (London) e il Tamigi (Thames), per esempio, mentre Nuova York, dove l’aggettivo serviva a distinguere la città americana dall’omonima inglese, è ormai New York sin dalla fine dell’Ottocento. Se una volta si aggiustavano al nostro suono (in modo esagerato) persino alcuni nomi propri (Tommaso Moro invece di Thomas More) oggi non lo si fa più, e tende a scomparire anche l’adattamento dei nomi comuni che fino al secolo scorso era abbastanza diffuso e normale (rivoltella da revolver, pigiama da pyjamas, gincana da gymkhana e gol da goal).

Tra i neologismi del Devoto Oli 2017 non si trovano adattamenti e italianizzazioni, con l’eccezione di blogosfera sul modello dell’inglese blogosphere e poco altro. I pochi adattamenti di oggi, di solito provengono dal basso, ma appartengono esclusivamente al gergo parlato della Rete e sono ironici o scherzosi, oltre che sporadici e fuori dai testi ufficiali, per es. ti lovvo, facciabuco o faccialibro al posto di Facebook, il tubo invece di YouTube, o lo scherzoso topo invece di mouse. Viceversa, oggi i mezzi di informazione si vergognano di “storpiare” la purezza dell’inglese, che invece preferiscono statisticamente (leader al posto di capo, pusher per spacciatore, fake news per bufale…) e ostentano più che possono.

In conclusione: italianizzare e adattare l’inglese ai nostri suoni è oggi un fenomeno sempre più raro, al contrario di quanto avviene per es. nella lingua spagnola. Se continueremo a vergognarci di questa strategia che storicamente ha generato numerosi adattamenti, l’importazione delle parole inglesi non adattate o le loro reinvenzioni all’italiana (baby gang, fidaty card…) si amplierà in modo sempre più profondo.

Traduzioni e calchi? Sembra sia meglio evitarlo…

Le traduzioni dei forestierismi sono definite dai linguisti calchi strutturali o formali, perché ricalcano la struttura originaria di una parola con elementi autoctoni che ne riproducono forma e significato.

Possono essere rovesciati per meglio rispondere alla logica italiana (key word diventa parola chiave, brain drain diventa fuga di cervelli, basket-ball diventa pallacanestro) oppure perfetti quando l’ordine delle parole è mantenuto come nell’inglese (pubbliche relazioni e public relations, videogioco e videogame, supermercato e supermarket), ma in tutti i casi si tratta di adattamenti invisibili che non sono percepiti come corpi estranei.

Ma, ancora una volta, esaminando i neologismi del Duemila del Devoto Oli 2017 queste traduzioni non ci sono, e le uniche registrate sono mi piace al posto di like, riferito alla funzione delle reti sociali, e la bomba tagliamargherite che ricalca fedelmente l’anglicismo daisy cutter.

In conclusione: anche la traduzione (o il calco) delle parole inglesi è sempre più in declino, con il conseguente ricorrere agli anglicismi non integrati. Continuiamo a preferire l’inglese, e per es. la frequenza di parole come hater o influencer è molto più alta delle traduzioni come odiatore o influente anche se questi esempi sono al confine con gli allargamenti di significato.

Calchi semantici e allargamenti di significato

I linguisti chiamano calchi semantici l’estensione del significato di parole che già esistono, ma che si arricchiscono di una nuova accezione per l’influsso di un forestierismo.

Per esempio realizzare, che originariamente voleva dire solo rendere reale (“ho realizzato un prototipo”), per l’interferenza di to realize oggi si impiega anche nel senso di rendersi conto, accorgersi (“ho realizzato di aver sbagliato strada”). E così radicale, un tempo interpretato alla francese come sinonimo di liberale, diventa sempre più spesso estremista, all’inglese; digitale, derivato da dito (“le impronte digitali”), per l’effetto dell’informatica si trasforma in un dato registrato con la logica binaria del calcolatore (in inglese digit è cifra); basico, in chimica il contrario di acido, passa a significare di base; e intrigante (cioè avvezzo a compiere intrighi, trame e congiure) si capovolge in stuzzicante e coinvolgente. Altre volte questi anglicismi camuffati derivano da quelli che si chiamano falsi amici, cioè parole dal suono simile ma dal significato differente, per esempio singolo (unico) diventa celibe o scapolo per l’analogia con single; autorità (colui che detiene il potere) diventa un organismo di controllo (l’autorità della privacy, per l’influsso di autorithy), mentre il baco informatico (in inglese bug, cioè cimice) è una traduzione approssimativa, basata sulla somiglianza fonetica.

Se guardiamo il significato di parole esistenti come odiatore o influente nel Devoto Oli 2017 vediamo che mancano gli allargamenti di significato che invece hanno assunto i corrispondenti hater e inluencer, parole del tutto equivalenti che però nell’acclimatarsi in italiano hanno assunto l’accezione riferita alla Rete, che invece non è indicata per i corrispettivi italiani, il che, a mio avviso, è una grossa lacuna del dizionario che inserisce gli anglicismi, ma non ritocca le voci autoctone. Esattamente come la definizione generica di autoscatto è ferma al dispositivo per fotografare sé stessi, mentre selfie, del tutto equivalente, include i riferimenti alla Rete e alle nuove tecnologie.

In conclusione: sembra proprio che nell’italiano del nuovo Millennio gli allargamenti di significato siano abbastanza diffusi per l’effetto dei falsi amici (realizzare, singolo, radicale…) ma siano abbastanza rari ed evitati nel caso dei corrispondenti italiani autonomi (odiatore, influente, autoscatto…).

Se non si creano neologismi, se non si italianizzano le parole, se non si traduce, se non si allargano i significati delle nostre parole… l’unica evoluzione dell’italiano passa per l’importazione dell’inglese e il futuro della nostra lingua sarà l’itanglese.

E tornando ai criteri di classificazione dei forestierismi, credo che un buon approccio sia quello di dividerli in forestierismi compatibili e integrabili con il nostro sistema morfosintattico e forestierismi che lo violano, dunque corpi estranei, che non sono un problema in sé (l’epoca del purismo è finita) ma diventano un problema quando il loro numero e la loro frequenza è tale da snaturare il nostro lessico.

(continua)

2017: più di metà delle parole dell’anno sono in inglese

Qualche giorno fa la Repubblica ha lanciato il sondaggio aperto ai lettori per individuare la parola dell’anno 2017, cioè quella che dovrebbe risultare maggiormente impressa nell’immaginario collettivo degli italiani. Si tratta di un giochetto che ammicca per esempio alla tradizione dell’Oxford Dictionary che quest’anno ha eletto come parola dell’anno youthquake, il terremoto dei giovani, e cioè il ritorno alla loro spinta propulsiva nella politica e nel mobilitarsi.

La cosa interessante del sondaggio di Repubblica è che si può votare tra una rosa di 15 parole già selezionate dal giornale come le più gettonate, e che tra queste 7 sono inglesi (tra cui fake news, come prevedibile) e 6 italiane (una è in latino, ius solis, e un’altra araba, intifada). Mi pare inquietante, ma allo stesso tempo significativo, che più di metà delle potenziali parole dell’anno siano in inglese. Questo la dice lunga sulla pervasività degli anglicismi e sulla loro frequenza, ma anche su dove sta andando la lingua italiana: anno dopo anno scivola inesorabilmente verso l’itanglese.

Possibile che più della metà delle parole più importanti del 2017 siano inglesi?

Certo, e i dati che si ricavano dai neologismi del nuovo Millennio registrati dai dizionari vanno nella stessa direzione: la metà sono anglicsmi. Nel Devoto Oli 2017 sono registrate 1.049 parole datate negli anni Duemila, e 509 sono inglesi, cioè quasi la metà. Se a queste si aggiungono gli anglicismi parzialmente adattati come whatsappare, googlare, spoilerare… la metà si supera decisamente. L’analisi dello Zingarelli 2017 restituisce dati leggermente più bassi ma simili: 178 parole inglesi su 412 parole datate XXI secolo, cui bisogna aggiungere i verbi  semiadattati.

Questo è lo specchio dell’italiano del Duemila, c’è poco da fare e poco da contestare.

Tornando alla Repubblica e alla parola dell’anno, ecco la rosa delle 15 parole più significative da votare:

■ biotestamento
curvy (perché non dire maggiorata, prosperosa, giunonica, tutta curve, curvilinea…?)
■ fake news (perché non dire bufale, false notizie, falsi…?)
■ femminicidio
■ hater (perché non dire odiatori, insultatori, provocatori, seminatori di zizzania, avvelenati…?)
■ impresentabile
■ influencer (perché non dire influenti, importanti, autorevoli, trascinatori…?)
■ intifada
■ ius soli

■ omofobia
■ paradise paper (perché non dire lista degli evasori e paradisi fiscali…?)
■ sexgate (perché non dire scandali sessuali…?)
■ spelacchio
■ vaccino
■ voucher (perché non dire tagliando, buono, cedola, ricevuta…?)

 

Comunque la pensiate… Auguri e buon Natale a tutti.

Aderisci alla compagna:

Io gli auguri li faccio in italiano!

(perché dire Merry Christmas, Happy christmas, Merry Xmas and happy new year e tutte queste analoghe formule aliene e insensate?)

Fake news è l’anglicismo dell’anno?

 

Ogni anno, nei dizionari, vengono registrati numerosi nuovi anglicismi, ma non è facile stabilire esattamente quanti siano, perché le cose variano a seconda dei vocabolari e dei criteri lessicografici che vengono impiegati.

Ogni anno entrano nella nostra lingua dai 30 ai 74 anglicismi

Da un confronto tra gli anglicismi registrati nel Devoto Oli 1990 e quello del 2017, per esempio, si è passati da circa 1.600 a 3.500, il che porta a una media di 74 all’anno (se guardiamo ai dati grezzi). Dal confronto tra lo Zingarelli 1995 e 2017, invece, da circa 1.800 si passa a 2.750, e quindi la media è di 43 all’anno. L’analisi del Gabrielli 2011 e quello del 2015, vede invece un aumento da 2.428 a 2.547, e quindi una media di 30 all’anno (come ho provato a ricostruire nel grafico).

grafico entrata anglicismi

Queste differenze dipendono anche dai criteri lessicografici impiegati: è possibile fare di ogni anglicismo una voce (o meglio un lemma), come tende a fare il Devoto Oli  che per esempio registra computer art o computer music come voci a sé, oppure registrare queste due espressioni all’interno della voce computer, come fa lo Zingarelli, con il risultato che le locuzioni non sono considerate lemmi a sé stanti e i numeri cambiano.

Un altro modo per indagare sulla questione è quello di lanciare delle ricerche incrociate sugli archivi digitali utilizzando le datazioni, per esempio richiedendo tutti gli anglicismi del nuovo Millennio.

Se cerchiamo gli anglicismi del nuovo Millennio del Devoto Oli vediamo perciò che sono “solo” 509 (una media di 29 l’anno), mentre per lo Zingarelli sono 178 (circa 10 l’anno). Ma le ricerche per datazione non restituiscono dati attendibili: questo criterio di indagine presenta molte lacune, perché le datazioni indicate dai dizionari non corrispondono all’anno in cui il dizionario ha registrato la parola, bensì a quando la parola è comparsa nelle fonti scritte, il che è ben diverso. Per capirci: nel Devoto Oli 2017 le parole account e accountability sono datate rispettivamente 1984 e 1988, ma controllando sull’edizione del 1995 si vede che nessuna delle due era stata ancora registrata. Ciò è avvenuto successivamente. Il motivo è che, per entrare nel dizionario, una parola deve non solo circolare, ma anche stabilizzarsi; non deve essere un occasionalismo passeggero, ma deve avere una diffusione tale da farla ritenere destinata a durare. Per questo motivo alcune parole possono circolare anche per un decennio prima di essere annoverate. E così cd-rom, datato 1988, è stato registrato solo nel 2005, esattamente come blog, datato 2000. Dunque, questo criterio di ricerca fornisce numeri molto più bassi di quelli reali: account, accountability, cd-rom… di fatto sono stati inclusi nel nuovo Millennio, eppure dalle datazioni sembrerebbero essere lemmi del secolo scorso, quando erano in realtà poco più di occasionalismi non ancora stabilizzati.

Fatte queste precisazioni, e al di là delle datazioni indicate, in un dizionario entra una quantità annuale di anglicismi compresa tra 74 (media del Devoto Oli 1990-2017) e 30 del Gabrielli (media calcolata su soli 4 anni), e dunque da 6 a 2,5 al mese. Ma fuori dai dizionari la nuvola delle parole inglese che ci avvolge è più vasta.

Qual è l’anglicismo dell’anno?

Mi chiedevo quale tra gli anglicismi non registrati dai dizionari si sia imposto nel 2017 con maggiore frequenza e pervasività.

Tra i più diffusi e coriacei c’è sicuramente black friday, apparso timidamente da qualche anno, emerso l’anno scorso, ma quest’anno esploso oltre ogni misura sulle vetrine dei negozi, al punto che è ormai impossibile che non venga registrato dai dizionari futuri. Eppure, a pelle, l’anglicismo più pervasivo è un altro: fake news.

L’analisi degli archivi del Corriere della Sera è impressionante: dalle 13 occorrenze del 2016 si è passati a 410 del 2017 (a oggi, ma l’anno non è ancora finito), mentre le ricerche nelle pagine in italiano su Google presentano 68.600 pagine datate 2017 contro 85.100 nell’intervallo tra il 2000 e il 2016 (da spalmare su 16 anni!).

FakeNews

Se sul Corriere cerchiamo invece una delle possibili alternative italiane, per esempio bufale (pur tenendo conto dell’approssimazione dovuta alla sinonimia del termine che in qualche caso potrebbe indicare anche gli animali, invece delle false notizie), si vede che nel 2017 il termine ricorre 178 volte, mentre nel 2016 ricorreva 98 volte. In sintesi: fino all’anno scorso si usavano termini italiani, ma improvvisamente da quest’anno si è cominciato a dirlo in inglese, proprio mentre il tema delle bufale aumentava di rilevanza, soprattutto nei titoli dei giornali.

Questo fenomeno della “stereotipia” del linguaggio mediatico, che usa preferibilmente le stesse espressioni, invece di usare i sinonimi (il concetto di “stereotipia” nei media è stato enunciato da Maurizio Dardano, ne: Il linguaggio dei giornali italiani, Laterza, Bari-Roma, 1986, p. 236) non è dovuto certo alla mancanza di alternative (bufale, falsi, false notizie…) e nemmeno al solito “alibi” per cui l’inglese sarebbe preferito per la sua sinteticità (bufale è più corto di fake news, e in teoria dovrebbe essere più funzionale nei titoli dei giornali, che però preferiscono l’inglese).

I motivi sono altri, per prima cosa la preferenza nasce dal fatto che i giornali partono tutti dalle stesse fonti, per lo più americane, che tendono a ripetere senza porsi il problema di tradurle (per pigrizia o fretta), ma soprattutto perché l’inglese è una moda e suona più evocativo e funzionale alla diffusione delle novità. E se questa moda insensata non cambierà, continueremo a importare anglicismi in modo sempre più massiccio mentre l’italiano si trasformerà progressivamente sempre più in itanglese.

Se qualcuno ha da segnalare altri anglicismi più eclatanti di fake news, esplosi nel 2017, è il benvenuto: il titolo dell’anglicismo dell’anno è aperto!

 

PS
Le bufale o le notizie false non sono affatto qualcosa di nuovo: una delle più antiche si potrebbe individuare nella battaglia di Qadesh, nel 1200 a.C., che Ramses II presentò come la sua grande vittoria contro gli Ittiti attraverso un’epica pomposa e autocelebrativa rappresentata sui piloni dei maggiori templi egizi, anche se in realtà l’esito della battaglia fu un pareggio, e gli Egizi non ottennero affatto il loro scopo: il controllo della zona rimase ittita.

1972-2017: da 1 ad almeno 65 anglicismi con la “a”

Aggiornamento 15 settembre 2018: questa voce è stata ampliata e corretta e si può consultare su AAA.italofonia.info, nel dizionario delle Alternative Agli Anglicismi.

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Uno dei primi importanti studi sugli anglicismi nell’italiano risale al 1972: Influssi inglesi nella lingua italiana, di Ivan Klajn (Olschki, Firenze).

Nel 1987, quindici anni dopo, Arrigo Castellani, nel suo celebre e inascoltato grido di allarme sul “morbus anglicus”, volendo proporre le sue alternative a una serie di parole inglesi, scriveva:

“Prendiamo a titolo d’esperimento, le voci dell’elenco del Klajn che cominciano per b (non ce ne sono che cominciano per a, tranne il già raro e oggi svanito affatto all right)”

[“Morbus anglicus”, pp. 137-153, in Studi linguistici italiani, n. 13, Salerno Editrice, Roma 1987, p. 144].

E nel 2017 quanti sono gli anglicismi che iniziano con la a?

Dopo aver consultato i principali dizionari monovolume (Devoto Oli, Zingarelli, Gabrielli, Treccani) e qualche altro lavoro specifico (da “300 parole da dire in italiano”, pubblicato sul sito Nuovo e utile di Annamaria Testa a Gabriele Valle, Italiano Urgente. 500 anglicismi tradotti in italiano sul modello dello spagnolo, Reverdito, Trento 2016), e dopo aver scartato gli anglicismi più tecnici e meno frequenti, ne ho individuati più di 65 di cui è possibile fornire alternative italiane (ma i dizionari ne riportano anche di più).

Provo a proporre gli equivalenti nella speranza di aiutare maggiormente la loro circolazione.

Per la cronaca: la percentuale di aumento tra 1 e 65 è del 6.400%, e questo è quanto è accaduto in 45 anni per la sola lettera a.

 

A come Anglicismi e Alternative


(gli equivalenti possono variare a seconda dei contesti)
  • abstract riassunto, sintesi, estratto, sommario.
  • access code codice di accesso.
  • access point punto di accesso.
  • access provider lett. fornitore di accesso, si può rendere con fornitore di rete (o di accesso alla rete).
  • account 1) nel linguaggio della rete: registrazione, profilo, conto (Gabriele Valle nota che in inglese si apre un account = conto, sia in una banca sia presso un fornitore di accesso alla rete, cfr. Italiano Urgente, Reverdito 2016, pp. 53-54). 2) usato impropriamente come abbreviazione di account executive (->); negli annunci di lavoro corrisponde talvolta a procacciatore di clienti/venditore.
  • account executive lett. responsabile di un conto, cioè degli stanziamenti economici del cliente, soprattutto in ambito pubblicitario. Fa parte del linguaggio lavorativo ormai codificato soprattutto in inglese, di difficile resa in italiano soprattutto perché non in uso, ma si può talvolta rendere con un più generico funzionario commerciale.
  • ace colpo (punto o servizio) vincente (nel tennis e nella pallavolo), e anche palla imprendibile (e quindi vincente).
  • acid music (è un genere musicale ormai codificato in inglese) nel linguaggio comune si può rendere con musica acida, ipnotica (soprattutto elettronica), che ha effetti e ritmi quasi “allucinogeni”.
  • acquapark (pseudoanglicismo sul modello di luna park) parco (divertimenti) acquatico.
  • acquascooter (pseudoanglicismo, in inglese jet ski) moto d’acqua.
  • acquaspinning bicicletta in acqua (si potrebbe usare idrocicletta o idrobicicletta adattando l’alternativa inglese hydrobike, ma non è in uso).
  • act si può rendere di volta in volta con: legge, decreto, atto legislativo, proposta di legge. Il jobs act (legge o riforma del lavoro) di matrice renziana ha poi generato tutta una serie di altri act e atti non necessariamente legislativi, traducibili con provvedimenti e simili: digital act (per es. provvedimenti per il digitale), green act (per es. manifesto per l’ecologia), food act (per es. misure o iniziative per la tutela della cucina o della gastronomia italiana), Africa act, student act
  • action movie film d’azione.
  • addicted dipendente (chi ha una dipendenza compulsiva). Non presente come lemma a sé stante nei dizionari, si trova in locuzioni come fashion addicted (dipendente dalla moda o modaiolo compulsivo), shopping addicted (per es. acquirente o compratore seriale).
  • admin abbreviazione informatica per amministratore.
  • advanced avanzato, progredito, evoluto, sviluppato, potenziato, d’avanguardia.
  • advergame videogioco promozionale, gioco pubblicitario (interattivo). Game, lett. gioco, ha in italiano un’accezione che riguarda soprattutto il videogioco.
  • advertisement annuncio pubblicitario, pubblicità, inserzione.
  • advertising pubblicità, strategia pubblicitaria.
  • advisor lett. consulente o consigliere, si può rendere più nel dettaglio con consulente economico o finanziario, consigliere professionale (riferito a persone o aziende).
  • adware lett. programma informatico malevolo che spia e profila per l’invio di pubblicità, si può definire come programma di profilazione pubblicitaria, programma spia.
  • after-shave dopobarba.
  • agreement accordo, intesa, patto.
  • AIDS acronimo inglese per Sindrome da ImmunoDeficienza Acquisita, si potrebbe rendere come avviene in Spagna e Francia con le iniziali nell’ordine italiano: SIDA (Cfr. Gabriele Valle, Italiano Urgente). Da noi SIDA non è in uso, ma per fare circolare questa alternativa personalmente quando uso AIDS cerco sempre di aggiungere: o SIDA, come si dice in spagnolo e francese…
  • airbag pallone salvavita, cuscino salvavita, sacca (d’aria) salvavita.
  • airbus aerobus è un sinonimo più italianizzato; una traduzione letterale potrebbe essere aerocorriera o aerotorpedone (non in uso, però).
  • air show esibizione aerea, spettacolo aereo (acrobatico).
  • air terminal aerostazione, capolinea aereo, stazione terminale di aeroplani.
  • alert allarme, avviso, segnalazione (es. alert fiscali = segnalazioni fiscali, cfr.  Petizione dell’avv. Maurizio Villani).
  • all inclusive tutto compreso, tutto incluso.
  • all in one tutto in uno.
  • all right va bene, d’accordo, tutto a posto.
  • ambient nel gergo musicale indica un preciso genere musicale rilassante, nel linguaggio comune si può rendere con musica rilassante o d’atmosfera.
  • anchor man (femm. anchor woman) conduttore televisivo (carismatico).
  • anti-age antietà.
  • antidoping antidopaggio.
  • anti-trust antimonopolio.
  • antispam e antispammer tecnicismo nell’ambito informatico di difficile sostituzione, nel linguaggio comune si può alternare con programma, filtro o protezione antispazzatura telematica.
  • apartheid segregazione razziale, politica di discriminazione della razza.
  • app applicazione.
  • appeal attrazione, richiamo, fascino.
  • apple pie torta di mele (americana se si vuole fare riferimento alla ricetta d’oltreoceano).
  • applet tecnicamente è un programma di ridotte dimensioni in una pagina web, si può rendere in modo generico per esempio con programmino (in rete).
  • appetizer stuzzichino, antipastino.
  • aquabike (anche acquabike) bicicletta d’acqua e talvolta utilizzato anche per moto d’acqua.
  • aquagym (adattato anche in acquagym) ginnastica d’acqua o acquatica.
  • aquaplaning indica lo slittamento degli pneumatici (sull’asfalto bagnato). Gabriele Valle propone sul modello delle traduzioni spagnole: acquaplanamento o idroplanamento. In senso lato si può rendere con slittamento, scivolone.
  • area manager capoarea, responsabile di un settore, reparto o zona (talvolta anche sostituibile con caporeparto).
  • area test nel linguaggio economico indica una ricerca di mercato in una zona limitata, un campione effettuato su una zona, un’analisi ristretta a un’area, quindi si può rendere a seconda delle circostanze per esempio con area di sondaggio (o di analisi, simulazione), area campione, punti (o zone) di prova (o collaudo), area pilota, analisi di zona, sondaggio (limitato).
  • art director direttore artistico.
  • ASAP (acronimo di As Soon As Possible) al più presto, prima possibile, in men che non si dica, quanto prima.
  • asset (spesso al plurale: gli asset) nel linguaggio economico: bene, patrimonio, risorsa, anche liquidità, credito. In senso lato viene usato anche per indicare i punti di forza, i valori aggiunti, gli elementi portanti di aziende o iniziative.
  • assist passaggio vincente (nei giochi di palla a squadre). In senso figurato un aiuto (facilitazione o anche gancio) determinante.
  • at chiocciola (@).
  • attachment allegato.
  • audience la platea (degli spettatori), il pubblico (in ascolto), i telespettatori (Gabriele Valle suggerisce udienza) o il numero degli spettatori calcolati, il loro totale.
  • audit e auditing revisione (contabile), verifica (di un bilancio), controllo, accertamento.
  • auditor revisore (contabile).
  • augmented reality realtà aumentata (o arricchita, potenziata).
  • austerity austerità, severità economica, rigore (economico).
  • authority autorità (riferito agli organismi e agli enti, più che alle persone: es. autorità per le comunicazioni).
  • autofocus (a) fuoco automatico, messa a fuoco automatica (autofuoco sarebbe un adattamento perfetto per indicare il dispositivo automatico per la messa a fuoco di un obiettivo, ma non è in uso né sui dizionari).
  • autogrill (pseudoanglicismo, nome commerciale della Pavesi) area di servizio, autoservizio, ristoro autostradale.
  • automotive lett. semovente o automobilistico, a seconda dei contesti può indicare il settore automobilistico, l’industria delle auto.
  • award premio.

 

PS
Non so se avrò la forza di continuare questo elenco delle alternative italiane anche per le altre lettere dell’alfabeto, è un lavoro molto oneroso per una persona sola. Intanto è gradita qualunque segnalazione di lacune, imprecisioni, errori da me commessi, altri anglicismi incipienti non registrati dai dizionari o miglioramenti delle alternative proposte. Ogni contributo verrà valutato ed eventualmente inserito con grande piacere.

Anglicismi nei giornali: le statistiche “drogate”

Ho spulciato vari studi che hanno conteggiato il numero di anglicismi presenti nei giornali e, anche a seconda delle testate prese in considerazione, le conclusioni indicano perlopiù che la loro percentuale è compresa tra lo 0,5% e il 2% delle parole. Se le cose stessero davvero così non si tratterebbe di numeri troppo allarmanti. Peccato che questi dati grezzi, presentati a questo modo, non hanno un gran valore, e le cose sono molto diverse da come appaiono: bisogna innazitutto interpretarle.

Cito un paio di esempi tra tanti altri non dissimili:

– Nel 1996 , dallo spoglio delle riviste Chi e Panorama, risultava l’1% di anglicismi nel primo giornale e il 2,3% nel secondo.

[Cfr. Marja Komu, “Anglicismi nella stampa italiana”, tesi di laurea in Filologia romanza, Università di Jyväskylä, maggio 1998, p. 26]

– Nel 2011, l’analisi di 7 differenti giornali rilevava percentuali di anglicismi tra lo 0,65% e l’1,87.

[Paola Deriu, “Gli anglicismi nella stampa italiana del XXI secolo”, in Letterature Straniere &. Quaderni della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Università degli Studi di Cagliari, 2011, n. 13, pp. 165-190]

A pagina 173, l’autrice confrontava i suoi dati con quelli ottenuti da H. Moss nel 1992, sugli stessi giornali, calcolando un aumento che andava dal +0,22% di Panorama, al +0,88% di Sorrisi e canzoni TV.

[Cfr. H. Moss, “The incidence of anglicism in modern Italian: considerations on its overall effect on the language”, in The Italianist: Journal of the Department of Italian Studies, University of Reading, 1992, pp. 129-136]

Questi numeri, di per sé verissimi, sono ottenuti conteggiando tutti gli anglicismi presenti e comparati con il numero totale delle parole prese in analisi, il che non fornisce dati significativi per almeno due motivi, uno metodologico e uno qualitativo.

Il metodo
Chiunque abbia un po’ di dimestichezza con le basi della linguistica computazionale sa che se si analizza la frequenza delle parole all’interno di un determinato corpus letterario, alcune (per esempio le congiunzioni, le preposizioni o agli articoli) ricorrono un’infinità di volte, mentre i sostantivi o gli aggettivi occorrono in modo di gran lunga inferiore. Il numero totale delle parole è insomma un dato grezzo che include forme flesse, numeri, parole straniere di altre lingue e quindi non italiane, nomi propri di persona o aziende che andrebbero tolti dai conteggi… e tutto questo viene comparato con il numero lavorato e pulito degli anglicismi (invariabili, al 90% sostantivi). Se analizziamo per esempio il lessico della Divina Commedia (composta da 13.770 singole parole che, ripetute, compongono un’opera che ne ha in totale 101.499) e lo ordiniamo per frequenza, la parola più usata è e (che ricorre 3.884 volte), seguita da che (2.292), la (2.254) e così via.

[Cfr. Carlo Tagliavini, La Divina Commedia. Testo, concordanze, lessici, rimario, indici, IBM Italia, 1965, p. XX]

Il primo sostantivo che si incontra, invece, è occhi, il più utilizzato, che ricorre solo 213 volte.
In sintesi: un conteggio automatico include migliaia e migliaia di occorrenze di parole come di, perché… che sono necessariamente italiane. Allo stesso modo conteggia le altre forme strutturali della nostra lingua che si ripetono più spesso perché ne sono gli elementi portanti (come gli ausiliari essere e avere, i verbi più diffusi come fare, andare in tutte le loro flessioni….) e sono frequentissime. La presenza di un sostantivo, italiano o straniero, è destinata ad avere percentuali bassissime in questi confronti, e dire che gli anglicismi sono l’1% significa poco. Per capirci, immaginiamo un elenco di 10 anglicismi separati dalla congiunzione e: avrebbe senso concludere che il risultato statistico dell’analisi di questo testo è che grosso modo il 50% dei termini è in inglese e il 50% in italiano? No. In realtà si è in presenza di un testo fatto interamente di termini inglesi separati da una congiunzione italiana, al di là delle percentuali grezze e non significative. Un altro esempio? Un cartello apposto su una vetrina di un negozio chiuso per restaurazione che recitava: “Work in progress per un look ancora più fashion” (lo rubo a Licia Corbolante). E ancora, l’osservazione di Annamaria Testa che riporta la considerazione di un collega: “Ho appena spedito un messaggio a un cliente. Quando l’ho riletto prima di inviarlo, mi sono accorto che di italiano c’erano solo le congiunzioni.”

Ecco perché nelle statistiche non si possono mettere sullo stesso piano parole che appartengono a generi grammaticali differenti: le loro frequenze ricorrono in modo differente e, senza le opportune distinzioni, le percentuali si diluiscono e perdono di senso. Tutti gli studi linguistici concordano sul fatto che gli anglicismi non adattati sono per il 90% sostantivi, e per il resto aggettivi (verbi e altre parti del discorso hanno delle incidenze trascurabili, sono dunque salvi e l’itanglese non li intaccati più di tanto), e allora la percentuale interessante da calcolare è quella di quanti anglicismi si trovano tra i sostantivi o gli aggettivi.

Corriere_4_10_2017
Particolare della prima pagina in rete del Corriere della sera del 4 ottobre 2017 (gli anglicismi sono stati evidenziati).

 

L’analisi qualitativa e la rilevanza delle parole
Se si passa dai conteggi automatici alle analisi più raffinate, non solo si deve contare in modo differente, ma oltre alla frequenza, bisogna anche considerare la posizione di rilevanza dei termini inglesi, che compaiono soprattutto in grande e urlati in bella evidenza nei titoli e nei sottotitoli, come ha ben sottolineato Laura Pinnavaia.

[“I prestiti inglesi nella stampa italiana: una riflessione semantico-testuale”, in MPW. Mots Palabras Words, Studi Linguistici a cura di Elisabetta Lonati, Edizioni Universitarie di Lettere, Economia, Diritto del dipartimento di Scienze del linguaggio e letterature straniere comparate, Università degli studi di Milano, n. 6/2005, p. 52]

Insomma, se gli anglicismi sono il monster da sbattere in prima pagina, nei titoloni e nei sottotitoli, è evidente che li leggeranno tutti e che il loro impatto sui lettori sarà enorme, rispetto a quelli che si possono incontrare nei testi degli articoli.

E allora come stanno le cose?
Fatte queste precisazioni, è meglio fare un esempio concreto per dimostrare in modo pratico che le percentuali degli anglicismi nei giornali non sono affatto l’1% o il 2% delle parole impiegate, il loro numero e la loro rilevanza sono al contrario un fenomeno ben più massiccio e allarmante. Ho provato ad analizzare la prima pagina del Televideo Rai del 4 ottobre 2017, chiamata NEWS FLASH, dove sono riportati i titoli delle notizie:

televideo_4ottobre2017
Si possono trascurare la prima riga della schermata (che contiene solo numeri e date), i numeri di pagina a cui rimandano i titoli, e la pubblicità di una banca in alto a sinistra, che non sono elementi utili e significativi. Il testo che rimane è formato da 69 parole, di cui 10 sono anglicismi (in corsivo) che tradotti in percentuale costituiscono il 14,49% delle parole utilizzate:

Prima news flash
Mafia, 37 arresti nel clan Rinzivillo
Maxi operazione in Italia e Germania
Sequestrati 11 milioni di euro
Filipe IV: garantiremo unità Spagna
Catalogna sleale e irresponsabile
Puigdemont: indipendenza a giorni
Strappo di Mdp: non voteremo DEF
Difesa, sottosegretario Rossi si dimette
dopo notizia su favori al figlio
USA, rientrata compagna killer Las Vegas
accolta da Fbi e subito interrogata
Marsiglia, killer visse in Italia
politica sport

Si può discutere nel considerare euro, USA, Fbi e sport come anglicismi. Eppure, sport è una parola inglese, anche se ormai assimilata senza alternativa al punto che non ce ne rendiamo più conto. Anche euro è di fatto un anglicismo, e ai tempi della sua introduzione c’è stata una battaglia (persa) per italianizzarlo e fare in modo che, come le lire o i dollari, al plurale diventasse gli euri, all’italiana (oggi solo scherzoso e popolare) come in Spagna si dice los euros. Nel 1998 ci fu una presa di posizione dell’accademia della Crusca per questo adattamento e anche Beppe Severgnini si schierò con vigore nello stesso senso, prima di dover rinunciare a ogni ragionamento logico e razionale davanti all’uso che si è imposto in seguito.
Venendo alle sigle, ricordo vecchissimi film in cui Fbi era pronunciato all’italiana, come ancora oggi pronunciamo Cia (qui un aneddoto divertente in proposito), ma da tempo la sua pronuncia ne fa una parola inglese a tutti gli effetti. E lo stesso vale per USA che, al di là della pronuncia oscillante, è una sigla che mantiene le iniziali all’inglese, mentre in spagnolo si dice EE.UU. (Estados Unidos) e in francese EU (États-Unis), così come ISIS è EI (Estado Islámico e État Islamique), UFO è OVNI (Oggetti Volanti Non Identificati), AIDS è SIDA e in generale tutte le sigle si adattano all’ordine delle parole delle rispettive lingue, e non rimangono all’americana come da noi.

Comunque sia, eliminiamo anche le sigle (sia straniere come USA e Fbi, sia italiane come Mdp e DEF) e per fare le cose fatte bene escludiamo dai conteggi anche i numeri (37, 11) che non sono né italiani né stranieri e i nomi propri (Rinzivillo, Las Vegas…), questi sono dei filtri che nelle statistiche sui giornali vengono ignorati, ma senza queste accortezze i dati finiscono per essere annacquati. Eliminiamo anche l’ultima riga che è solo un indice che porta a politica e a sport, le parole prese in esame si riducono così a 49 di cui 7 anglicismi, e cioè il 14,28%. Alla fine le cose non cambiano poi molto:

prima news flash
mafia, arresti nel clan
maxi operazione in e
sequestrati milioni di euro
garantiremo unità spagna
sleale e irresponsabile indipendenza a giorni
strappo di non voteremo
difesa, sottosegretario si dimette
dopo notizia su favori al figlio
rientrata compagna killer
accolta da e subito interrogata
killer visse in

Infine, limitiamoci all’analisi dei solo nomi e aggettivi presenti, le categorie grammaticali dove gli anglicismi effettivamente penetrano e ridefiniscono gli equivalenti italiani:

prima news flash mafia arresti clan maxi operazione milioni euro unità sleale irresponsabile indipendenza giorni strappo difesa sottosegretario notizia favori figlio compagna killer killer

Sono 24 parole, e i 7 anglicismi inclusi rappresentano il 29,16%.

In conclusione
L’ esempio qui sopra è casuale e senza una validità scientifica, ma queste percentuali non sono casi eccezionali o infrequenti. Comunque, gli anglicismi in questa pagina di televideo costituiscono quasi un terzo dei nomi e degli aggettivi utilizzati. La comparazione grammaticale dei termini omologhi – invece della loro diluzione che “salva” la nostra lingua attraverso il conteggio delle congiunzioni o dei nomi propri – mostra che in questi titoli, la penetrazione dell’inglese non riguarda affatto l’1% o il 2% delle parole, ma è di almeno un ordine di grandezza superiore.