La “sostituzione etnica” non riguarda i migranti, ma il globish

Di Antonio Zoppetti

L’argomento che nei giorni scorsi è impazzato sui mezzi di informazione è quello della “sostituzione etnica” invocata dall’onorevole Lollobrigida. Come nel caso della legge sulla lingua italiana di Rampelli il dibattito che si è visto è superficiale, avvilente e ideologizzato, più che lucido e critico.

Le uscite che ammiccano alla sostituzione etnica non sono nuove – come ha ricordato su il Manifesto Roberto Ciccarelli (19/4/23) – hanno precedenti in dichiarazioni di Salvini del 2015 e in altre del 2016 di Giorgia Meloni che accusò il governo Renzi di prove tecniche “generali di sostituzione etnica in Italia”. Questa espressione infelice si lega alla teoria del complotto di un presunto “piano Kalergi” che favorirebbe l’immigrazione in Europa dall’Africa e dall’Asia con lo scopo di rimpiazzarne la popolazione. Una teoria che è sostenuta negli ambienti più estremi nella destra e tra i negazionisti dell’olocausto, ma che Lollobrigida dice di non conoscere.

Personalmente sono convinto che una sostituzione etnica sia in atto e sia innegabile, ma questa sostituzione non ha a che fare con gli immigrati dai Paesi poveri, bensì con l’importazione dei modelli culturali e linguistici dei Paesi dominanti e cioè quelli dell’anglosfera.

Razzismo, etnicismo e linguicismo

I gruppi etnici sono caratterizzati dal possedere una cultura e una lingua comune, che non hanno a che fare né con il colore della pelle né con il concetto sempre più messo in discussione di “razza”. La parola “razza” compare nella Costituzione italiana (art. 3: “Senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) e in quasi tutte le dichiarazioni dei diritti umani introdotte da analoghi principi. Da qualche tempo, un ampio movimento di opinione vorrebbe mettere al bando questa parola, e questo modo di pensare è sostenuto anche da un gruppo di biologi riduzionisti che abbandonando le storiche distinzioni tra fenotipo e genotipo, preferiscono ricondurre tutto ai geni, e sostengono che le “razze” non esistono dal punto di vista genetico. Ma non è negando o risemantizzando la parola “razza” che si possono eliminare le diversità o il razzismo. E per quello che mi riguarda le razze (e le diversità) esistono – comunque le si voglia chiamare – ed è per questo che bisogna gridare forte che sono una ricchezza, sono tutte sullo stesso piano, che bisogna tutelare quelle discriminate e condannare chiunque pensi che alcune siano superiori o inferiori.
E lo stesso vale per le culture e le lingue, che sono fenomeni completamente slegati dalla questione dei geni o dell’aspetto fisico, ma spesso ugualmente discriminate e gerarchizzate in una visione che le pone su piani diversi.
Oggi l’espressione “Terzo mondo” è considerata politicamente scorretta e si tende a sostituirla con “Paesi in via di sviluppo”, un’espressione decisamente peggiore e totalitaria, perché lo “sviluppo” a cui li si vuole condurre è quello occidentale, dunque tutto conduce a un modo di pensare che utilizza delle categorie di stampo colonialista, dove dietro la parola “Occidente” c’è il modello culturale ed economico degli Stati Uniti e dietro il politicamente corretto c’è il politicamente americano. Questa visione etnicista è stata apertamente sostenuta in più occasioni, per esempio dalla consigliera per gli affari esteri di George W. Bush Condoleezza Rice che aveva dichiarato: “Il resto del mondo trarrà un vantaggio migliore dagli Stati Uniti che perseguono i propri interessi, poiché i valori americani sono universali” [cfr. Robert Phillipson, English-Only Europe?: Challenging Language Policy, Routledge, Londra 2003].
Ma questo atteggiamento neocolonialista non è confinabile all’interno di una visione conservatrice, appare al contrario molto più esteso, radicato e trasversale. Si ritrova anche all’epoca del democratico Bill Clinton e nelle parole di un ex funzionario della sua amministrazione, David Rothkopf: “Gli Americani non devono negare il fatto che, tra tutte le nazioni della storia del mondo, la loro è la più giusta, la più tollerante, la più desiderosa di rimettersi in discussione e di migliorarsi continuamente, il miglior modello per l’avvenire”[“In Praise of Cultural Imperialism?”, in Foreign Policy, n. 107, estate 1997, citato in Serge Latouche, Mondializzazione e decrescita. L’alternativa africana, Dedalo 2009, pp.73-74].
È la stessa concezione espressa nel 2001 da Berlusconi: ”Io credo che noi dobbiamo essere consapevoli della superiorità della nostra civiltà. Una civiltà che costituisce un sistema di valori e principi che ha dato luogo ad un largo benessere nelle popolazioni dei paesi che la praticano. Una civiltà che garantisce il rispetto dei diritti umani, religiosi e politici. Rispetto che certamente non esiste nei Paesi islamici”.

E allora la vera “sostituzione etnica” che si vuole realizzare non è affatto un complotto, ma esiste, anche se non ha nulla a che fare con il piano Kalergi, ma con un piano di stampo neocolonialista che punta a esportare i valori “occidentali” in tutto il mondo. E passando dalle razze e dalle etnie alle lingue, voler fare dell’inglese la lingua planetaria è un pezzo importante di questo disegno. Ma per citare le parole della finlandese Tove Skutnabb-Kangas, tutto ciò si può riassumere con la parola “linguicismo”. Come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo è la discriminazione in base alla lingua madre, che porta a giudizi sulla competenza o non competenza nelle lingue ufficiali o internazionali. Questo riduzionismo monolinguistico, secondo la studiosa, non è solo ingiusto, ma è un “cancro” a cui va contrapposto il riconoscimento dei diritti linguistici. L’autrice si scaglia soprattutto contro le associazioni che proclamano i diritti fondamentali dell’uomo, dove i diritti della lingua sono assenti o poco considerati (a parte le belle dichiarazioni d’intenti), in particolare quello di ricevere un’istruzione nella propria lingua madre. Mentre i Paesi occidentali si presentano come paladini dei diritti umani e delle minoranze e hanno creato il mito per cui loro stessi li rispettano, “in relazione ai diritti all’istruzione linguistica, questo è semplicemente falso, l’Occidente e responsabile del genocidio linguistico e culturale nel mondo” [“I diritti umani e le ingiustizie linguistiche. Un futuro per la diversita? Teorie, esperienze e strumenti”, in Come si e ristretto il mondo, a cura di Francesco Susi, Amando Editore, Roma 1999 (pp. 85-114), p. 99].

La sostituzione delle lingue etniche con l’inglese, la lingua madre dei popoli dominanti, porta alla morte delle lingue minori, come è avvenuto e avviene in Africa e come ha denunciato lo scrittore Ngũgĩ wa Thiongo raccontando la storia dell’imposizione dell’inglese nelle scuole coloniali africane [Decolonizzare la mente, Jaka Book, Milano 2015]. Nel 1992 l’Unesco aveva stimato che il 90% delle quasi 6.000 lingue parlate nel mondo erano a rischio estinzione nell’arco di un paio di generazioni [Cfr. Joe Lo Bianco, “Language, Place and Learning”, pascal International Observatory 2007], e come ha scritto il tunisino Claude Hagège, in questo “olocausto che fluisce senza sosta, apparentemente nell’indifferenza generale” la principale minaccia è proprio l’inglese, che “svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle lingue”[Morte e rinascita delle lingue. Diversita linguistica come patrimonio dell’umanita, Feltrinelli, Milano 2002, p. 7]. Ma mentre le lingue minori rischiano l’estinzione, anche quelle più forti regrediscono. La strada aperta dal Politecnico di Milano di insegnare in inglese e di estromettere la lingua italiana dalla formazione universitaria – una via perseguita anche da altri atenei – va in questa direzione. Come il disegno che striscia in modo silenzioso e surrettizio di fare dell’inglese la lingua dell’Ue, invece di promuovere il plurilinguismo che vive solo sulla carta, ma non nella prassi. L’imposizione del globalese che si fa strada nel lavoro, nella scienza e in sempre più realtà entra però in conflitto con le lingue etniche locali, e gli anglicismi che esplodono in ogni idioma, e che in Italia raggiungono l’apoteosi, sono gli effetti collaterali di questa sostituzione che non è più solo lessicale, ma culturale: dunque è questa la vera sostituzione “etnica” in atto.

La sostituzione linguistica

Tra le ultime voci aggiunte sul Dizionario AAA (Alternative Agli Anglicismi) ci sono lemmi come service learning, overconfidence o jumpscare. L’approccio pedagogico alla formazione civile, che potemmo chiamare educazione civica, esaltato persino dalle scuole cattoliche è chiamato in inglese, service learning, mentre l’eccessiva sicurezza di sé (la sicumera che porta a giudizi e comportamenti improvvidi) è l’overconfidence, e la tecnica cinematografica dello spaventare all’improvviso è il jumpascare. Queste parole astruse diventano la terminologia preferita e diffusa dagli addetti ai lavori e dai giornali. E di esempi di questo tipo se ne possono fare a bizzeffe.

L’altro giorno leggevo che il fenomeno di dormire con il proprio animale è detto co-sleeping, una riconcettualizzazione che ripete le categorie in inglese, dove l’unica cosa che mi ha stupito è che non sia stata usata la parola “pet”, visto che dilaga (a quando il prestito di “necessità” con inversione sintattica del pet co-sleeping?). Invece di parlare di “prestiti linguistici”, sarebbe ora di chiamare le cose con il loro nome. Questi non sono “prestiti” sono trapianti lessicali che spesso si affermano e fanno piazza pulita dell’italiano.

Non è questa una sostituzione lessicale – e prima ancora concettuale – che spazza via le nostre parole etniche per rimpiazzarle con le parole-concetti in inglese? Possibile che la nostra classe dirigente non se ne renda conto e anzi non faccia altro che favorire questi fenomeni ogni giorno più diffusi? Possibile che non veda che è questa l’unica sostituzione “etnica” in atto?

Vivo a Milano, in una strada al confine tra la zona densamente popolata di musulmani di via Padova e un altro quartiere a forte presenza ispanica, non distante dalle vie dietro Porta Venezia, dove si sono concentrati molti immigrati africani. Avevo un ufficio nella Chinatown meneghina, come è soprannominato il quartiere intorno a via Paolo Sarpi, e mi sposto prevalentemente con i mezzi pubblici dove, soprattutto la sera, la percentuale di stranieri è molto alta. Spesso si sentono parlate arabe, orientali, e poi altre di difficile collocazione, andando a orecchio, ma a occhio sembrerebbero di albanesi, rumeni, turchi e altri ancora. Penso alla babele delle lingue che si ascoltano in metropolitana e per la città, e mi domando quale impatto abbia sull’italiano tutto questo pullulare di stranieri. Nessuno. Gli italiani non conoscono una parola di arabo o di cinese. L’unico terreno di scambio linguistico è quello gastronomico. Wanton fritti, kebap, sushi e sashimi, falafel, lo zighinì degli eritrei. Cose così, c’è poco altro. L’italiano è impermeabile alle lingue degli immigrati, risente invece dei modelli culturali ed economici statunitensi (ugualmente extracomunitari), che non sono presenti sul territorio a questo modo, ci arrivano in altre forme.

L’inglese e ormai usato per marcare il territorio milanese, dove in questi giorni si svolge la design week, e sul Corriere, sotto l’etichetta “Style”, si può leggere degli “eventi Audi alla design week per capire cos’è la circular economy”, della “concept car Groundsphere”, del “full electric”, e dell’”automotive” che cambia pelle. Ma a cambiare la pelle è la nostra lingua.

L’itanglese è una realtà che si assorbe attraverso la comunicazione cittadina fatta dei gate delle stazioni, del biglietto contactless dei mezzi pubblici, del bike sharing, degli open day delle scuole prima del back to school… Queste sostituzioni lessicali sono diffuse dai giornali, dalla pubblicità, dal mondo del lavoro, della scienza e della tecnica… e si riverberano inevitabilmente nelle bocche della gente negli uffici, in metropolitana, nei locali. Sulle insegne dei negozi sempre più raramente si leggono denominazioni come barbiere o parrucchiere, come se ci si vergognasse dell’italiano, e ormai tutti scrivono Hair Style. La messa in piega e qualcosa da vecchie signore cotonate, per essere moderni i nuovi parrucchieri che si sentono Hair Style Artist la chiamano brushing; il trucco è make-up, le truccatrici make up artist e chi fa le unghie nail artist.


Se vogliano fare un parallelo tra l’immigrazione delle persone e quello delle parole (ma è un accostamento pericoloso e poco calzante) dovremmo tenere a mente una cosa molto importante, che la nostra intellighenzia di collaborazionisti dell’inglese dalla mente colonizzata non sembra in grado di capire.

Nessuna parola o persona è “straniera” per la sua origine o provenienza, ma per non essere integrata. Dal punto di vista lessicale le parole straniere sono quelle non adattate, che non si amalgamano con il tessuto linguistico del nostro idioma, con i nostri suoni e il nostro modo di scrivere, e dunque rimangono dei “corpi estranei” per dirla con Arrigo Castellani. Ben venga l’interferenza di ogni lingua, se passa per l’adattamento e ci arricchisce. Ma quando il numero degli anglicismi crudi – e solo quelli – diventa abnorme per numero, frequenza d’uso e profondità, anche la nostra lingua va in frantumi. Allo stesso modo ben vengano gli emigrati di ogni Paese, etnia e colore. Sono una ricchezza e una risorsa che ci arricchisce, proprio perché si integrano, imparano l’italiano e dunque sono italiani, al contrario di troppi intellettuali colonizzati che sono nativi, come provenienza, ma hanno in testa solo l’angloamericano e preferiscono trasformare la nostra lingua in qualcosa d’altro, attraverso una sostituzione lessicale che fa dell’anglosfera l’etnia superiore.

Sarebbe ora di riflettere su queste cose e di cominciare a raccontare una storia che non è ancora stata raccontata, forse perché non si ha il coraggio di affrontarla. E visto che nessuno lo fa, ho provato a farlo in un lavoro uscito oggi (Lo tsunami degli anglicismi, edizioni goWare disponibile in formato digitale e cartaceo).

Buone notizie e qualche argine all’itanglese

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: il recuperare le parole storiche della nostra lingua – attingendo, perché no?, anche dal patrimonio dialettale – per donare loro nuovi significati moderni e attuali. Lo si può fare attraverso la ricombinazione inedita di radici italiane, invece che importare dall’inglese come unica strategia per descrivere le novità del contemporaneo.

Questo è uno dei temi su cui traduttori, linguisti, autori e intellettuali si sono confrontati nei giorni scorsi al Festival dell’italiano e delle lingue d’Italia di Siena, all’interno della manifestazione “Parole in cammino”. Ma il tema delle alternative e delle traduzioni italiane davanti all’inglese, nell’ultima settimana, è rimbalzato anche sulle pagine di tutti i giornali per esempio a proposito della sostituzione di doggy bag con rimpiattino, o di revenge porn con pornovendetta avvalorato dal Gruppo incipit dell’Accademia della Crusca.


Rimpiattino, il doggy bag italiano

La notizia della creazione del neologismo è dell’anno scorso, a dire il vero, ma è rimbalzata sul Corriere di qualche giorno fa perché nella capitale il rimpiattino è diventato un fatto.

Tutto è nato da un concorso della Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) che insieme a Comieco aveva lanciato un’iniziativa contro lo spreco alimentare nei bar e ristoranti. Davanti a una parola mancante, in italiano, per designare il doggy bag, le associazioni hanno indetto una gara tra i ristoratori per trovare una soluzione creativa. L’alternativa vincente è stata quella del Duke’s Bar&Restaurant di Lorenzo Farina di Roma che (nonostante il nome anglicizzatissimo) ha proposto un meraviglioso “rimpiattino” che si appoggia a piatto e ammicca al neologismo impiattare, ormai in voga, in uso e accettabile anche secondo la Crusca: “Si tratta di una formazione corretta e analoga, come abbiamo detto, a molte altre dell’italiano; la diffusione piuttosto ampia e l’accoglimento nei dizionari più recenti confermano inoltre la sua crescente vitalità”.

rimpiattino

Ma poiché il problema non è quello di inventare una parola, bensì di riuscire a diffonderla, la novità è che il rimpiattino non è più solo un nome: è una realtà, un oggetto concreto (e molto bello) che è stato messo in produzione, è disponibile nei locali, e si chiama così, come scritto chiaramente sulla confezione. Un cliente può quindi domandare un rimpiattino, per portarsi via ciò che non ha consumato, senza ricorrere all’inglese doggy bag, senza usare parole più ampie (iperonimi) come busta, confezione o sacchetto e senza ricorrere a perifrasi e giri di parole.

E questa è la prima buona nuova.

 


Traduzioni creative. Fra lingua e dialetto

Al convegno “Traduzione creative. Tra lingua e dialetto” che si è tenuto nella cornice mozzafiato della Biblioteca degli Intronati di Siena (7 aprile 2019) si è discusso anche di un altro concorso: “Parole in cammino”, ideato da Massimo Arcangeli, che invita tutti a proporre nuove traduzioni “creative”, invece che “funzionali”, per le “parole mancanti” (come le chiama la traduttrice Simona Mambrini), attingendo anche dal patrimonio dei nostri dialetti.

siena 7 aprile 2019 parole in cammino
Un’immagine dalla Biblioteca degli Intronati, durante l’intervento che ho fatto insieme a Fabio Pedone e Simona Mambrini.

A proposito degli “intraducibili”, la traduttrice Ilide Carmignani ha distinto acutamente le parole che non si riescono a fare corrispondere perché sottintendono “universi concettuali” differenti tra due lingue, da quelle che non hanno corrispondenti, e Simona Mambrini ha ricordato che di fatto tutto è traducibile, il punto sta semmai nel farlo con una parola sola, ma quando non si riesce si può sempre ricorrere a spiegazioni e perifrasi. La traduzione è perciò anche l’arte di riuscire a creare neologismi, coniazioni e riconiazioni efficaci e, per dirla con Fabio Pedone, valentissimo traduttore di Joyce, il processo di “invenzione” dei neologismi non solo si appoggia al patrimonio linguistico storico, ma spesso è una “reinvenzione” delle parole che allarga i significati precedenti. Quando D’Annnunzio ha utilizzato “velivolo” per indicare l’aeroplano ha operato un’invenzione e allo stesso tempo una reinvenzione: precedentemente la parola indicava le navi leggere che si muovevano con le vele (su i legni velivoli le molte robe imponemmo, Pindemonte), ma dopo la nascita dell’aeroplano è diventata una “macchina volante”. Il gioco del tradurre è molto affine a questo reinventare, secondo Pedone: i traducenti creativi partono spesso da radici e concetti preesistenti, e il bello è che producono risultati imprevisti e imprevedibili, in un gioco di rimbalzi per cui i traducenti proposti con certi significati vanno oltre gli intenti di chi li ha pensati, e producono risemantizzazioni inaspettate che a loro volta possono portare a ulteriori neoconiazioni.

Nel concorso “Parole in cammino”  sono proposte due tipologie di parole straniere da tradurre:
♦ quelle che coinvolgono per esempio la traduzione di testi letterari, che riguardano tutte le lingue e si scontrano con il problema delle “parole mancanti” e dei differenti “universi concettuali”;
♦ e poi gli anglicismi che circolano senza alternative nella lingua italiana, oppure di cui esisterebbero i traducenti, anche se non sono in uso o suonano meno evocativi.

Nel primo elenco c’è per esempio lo spagnolo ensimismarse. Come si potrebbe rendere in italiano? Deriva da “en sí mismo” cioè “in sé stesso” e vuol dire astrarsi, immergersi nei propri pensieri, e in certi contesti, mi aveva suggerito Gabriele Valle, è possibile renderlo con l’italiano raccogliersi.
In altri contesti letterari non è invece così semplice rendere la valenza spagnola di “estoy ensimismado”, e Simona Mambrini ha ricordato che esiste una coniazione di Dante che è molto efficace e che si potrebbe forse recuperare e riproporre: il verbo immiarsi (o inmiarsi) che deriva da mio/me, col prefisso in (Già non attendere’ io tua dimanda, / s’io m’intuassi, come tu t’inmii, Par. IX, 80-81).

Questi tentativi di trovare parole italiane in uso (dialetti compresi), o di recuperare parole del passato con nuove valenze e allargamento di significato, sono molto utili anche per il secondo elenco in concorso, gli anglicismi. Purtroppo, sempre più spesso i neologismi della nostra lingua tendono a coincidere con parole inglesi non adattate, e per vari motivi l’italiano fatica a creare parole nuove autoctone per esprimere la modernità. Naturalmente non c’è nulla di sbagliato o di pericoloso nell’importare le parole straniere; per citare le parole di Antonella Cavallo, i forestierismi possono essere una ricchezza, ma non bisogna dimenticare che possono anche rappresentare un impoverimento, dipende dai casi, dai contesti e, mi permetto di aggiungere, dal ricorso all’inglese in modo eccessivo o esclusivo.

E allora, tornando al concorso, come tradurre per esempio una parola come doodle?
Dire che è un prestito di necessità è troppo facile, dire che è intraducibile è sciocco, sarebbe più corretto ammettere “l’impotenza del traduttore” o la “pigrizia” che è alla base del successo degli anglicismi, come ha ricordato Leonardo Luccone in un intervento al Festival.
Doodle letteralmente è uno scarabocchio, ma attraverso Google è divenuto il sinonimo della variazione del logotipo quasi in un esercizio di stile grafico. Davanti a questo apparente “intraducibile”, la soluzione più bella è arrivata da Andrea Cortellessa che ha proposto di recuperare girigogolo (giro + arzigogolo) che non solo è una parola esistente (utilizzata da Manzoni o da Aldo Palazzeschi: Lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizzi stampato in Scherzi di gioventù, 1956) e registrata dai dizionari, ma che trovo geniale perché contiene l’assonanza gogolo-google.

Per fare un altro esempio fuori concorso, davanti a una parola come hangover, che indica i postumi di una sbronza, invece di dire che è “intraducibile” in una parola potremmo attingere all’esempio dello spagnolo che utilizza “resaca” e dire risacca, come suggerisce Ilide Carmignani, una metafora suggestiva per passare dal ritorno del moto ondoso ai ritorni di altra natura… Ma oltre a guardare alle lingue a noi più vicine e affini dell’inglese, non dobbiamo dimenticare che a volte la soluzione va ricercata dentro di noi, anche se forse stiamo perdendo le nostre radici, al punto che non ci ricordiamo più che esiste la parola spranghetta, che si trova nei Promessi sposi (Cap. XV: “E, tra la sorpresa,e il non esser desto bene, e la spranghetta di quel vino che sapete, rimase un momento come incantato”), nelle poesie di Francesco Redi (Quando il Vino è gentilissimo, Digerìscesi prestissimo, E per lui mai non molesta La spranghetta nella testa), e sui dizionari. È vero che lo Zingarelli la definisce “in disuso”, però ho notato che circola anche in alcuni libri del nuovo Millennio (per es. nella traduzione di N. Rainò di: Leena Lehtolainen, Il mio primo omicidio, Fanucci 2010, in quella di Bruno Just Lazzari di: Frédéric Dard, Facce da funerale, e/o editore 2015, e in altre taduzioni oltre che in Andrea De Benedetti, Carlo Pestelli, ¡La lingua feliz! Curiosità, bizzarrie e segreti: tutto quello che avreste voluto sapere sulla lingua spagnola, Utet 2018).

E allora perché non recuperarla?
Rimane il problema che forse spranghetta non è comprensibile a tutti, ma anche hangover è comprensibile solo a una parte della popolazione italiana, benché (come tutti gli anglicismi) ricorra spesso sui giornali. Insomma, la traduzione implica sempre una scelta, ma anche davanti ai significati opachi dovemmo uscire dal circolo vizioso di dirlo solo in inglese: se non recuperiamo con orgoglio le nostre parole e non ce ne riappropriamo non entreranno mai in uso e rimarranno sempre più oscure e obsolete.

E questa è la seconda buona notizia: attraverso “Parole in cammino” la questione dei traducenti creativi è stata portata alla luce in modo divulgativo, con una gara che continuerà in altri festival e culminerà a maggio con la premiazione delle migliori soluzioni al festival “ANTICOntemporaneo” a Cassino e a Montecassino (le proposte vanno inviate a questo indirizzo: inpuntadilingua@gmail.com). E il gioco è rivolto a tutti, non solo ai traduttori e agli addetti ai lavori. Questa è la cosa importante, può partecipare la gente, si possono inviare soluzioni popolari e dialettali, perché il linguaggio è troppo importante per lasciare che se ne occupino solo i professori di glottologia, per citare Ferdinand de Saussure, ma anche per citare Stefano Jossa, che dal Festival di Siena ha rivendicato con orgoglio che bisogna smettere di ritenere che solo i linguisti possano scrivere della lingua o che solo i critici letterari si possano occupare di letteratura, perché il futuro (e anche il presente) è fatto di interdisciplinarità, e la lingua è anche “corruzione” (senza accezioni negative), cioè contaminazione, scambio e circolazione di parole anche dalle altre lingue. Personalmente approvo il suo inno alla pluralità, anche se constato con amarezza che proprio l’inglese, a mio avviso, sta uccidendo il pluralismo attraverso un predominio economico, culturale e linguistico che sfiora il colonialismo.


Pornovendetta e revenge porn

Davanti all’eccesso dell’inglese, la terza buona notizia, sul fronte culturale e mediatico, riguarda il nuovo comunicato del Gruppo incipit dell’Accademia della Crusca che il 4 aprile 2019 ha finalmente preso posizione su revenge porn sancendo l’alternativa pornovendetta, equivalente che avevo da tempo segnalato e incluso nel mio dizionario AAA delle Alternative Agli Anglicismi, visto che circola da qualche tempo, ma che adesso è avvalorato da chi ha più autorità di me ed è stato ripreso da tutta la stampa. E questo non può che favorire la libertà di scelta nel parlare, e contribuire a spezzare la stereotipia del monolinguismo basato sugli anglicismi.

Non so quanto i giornali utilizzeranno davvero l’italiano pornovendetta; passata l’ondata di articoli di questi giorni, è probabile che continueranno nella loro strategia di usare prevalentemente gli anglicismi. E infatti c’è anche chi ha subito criticato le posizioni della Crusca, per esempio un articolo apparso qualche giorno fa su il Post che ha il pregio di aggiungere un ulteriore traducente, “diffamazione pornografica” (avere a disposizione tanti sinonimi invece di una sola parola è una ricchezza), ma che taccia l’equivalente “pornovendetta” di non essere “corretto” con argomenti che trovo piuttosto deliranti. Porno-vendetta ricalca molto bene l’espressione inglese revenge porn con la giusta inversione dell’elemento specificato (determinante). Non mi pare invece troppo sensato proporre di eliminare la parola “vendetta” che implicherebbe una colpa oggettiva della vittima. Nel diffondere questo tipo di immagini private e intime, purtroppo, l’elemento della vendetta non è trascurabile nei fatti di cronaca: la vittima è umiliata e punita, “rea” magari di avere interrotto una relazione, con una pubblicazione di immagini che, una volta in Rete, diventa virale e sfugge a ogni controllo. Questo è l’aspetto più inquietante della “vendetta”: la replicabilità del digitale marchia come l’acido, e la vendetta porno, una volta messa in atto, diventa spesso impossibile da fermare producendo danni indelebili e potenzialmente inarginabili. Naturalmente, in caso di furto delle immagini ci possono essere altre motivazioni che più che alla vendetta appartengono al ricatto, alla diffamazione per fini politici come è accaduto per una politica del movimento Cinquestelle… ma dire che si tratta di un’espressione “impropria” in inglese e anche in italiano, è un approccio razionalistico che non tiene conto dell’uso che si è imposto così da tempo, in inglese e anche in italiano. Sarebbe un po’ come dire che è improprio dire velivolo perché l’aereo non ha le vele, ma per fortuna la lingua è metafora ed è fatta di rimbalzi imprevedibili, non segue certo la logica di chi vorrebbe inventarla a tavolino con schemini “simpLicistici”.

Dai “prestiti” alle reti di parole: l’inglese sempre più “smart”

Ho più volte argomentato come non sia possibile comprendere l’interferenza dell’inglese sull’italiano attraverso categorie ingenue come quelle del “prestito linguistico”, un’etichetta che tutti gli studiosi criticano, ma che nessuno sembra volere abbandonare (cfr. Interferenza linguistica: dal prestito all’emulazione).

prestiti linguisiti inglese
Immagine tratta dal sito growell

Quando poi questo approccio si spinge a una classificazione astratta che distingue i prestiti “di lusso” e “di necessità” (uno schema obsoleto che risale alle riflessioni del 1913 dello svizzero Ernst Tappolet) ci si allontana ancor più dalla realtà (cfr. Prestiti di lusso e di necessità; una distinzione che non sta in piedi).

Per comprendere i meccanismi della sempre più crescente anglicizzazione della nostra lingua occorrono nuovi modelli interpretativi. Le parole inglesi che circolano nell’italiano non sono riconducibili alla somma di singoli “prestiti” o voci importate, sono una rete di parole tra loro interconnesse che si espande nel nostro lessico in modo sempre più ampio e profondo, e bisogna considerare non solo i singoli anglicismi, ma soprattutto le relazioni tra gli anglicismi. Occorre studiare e quantificare il fenomeno in modo storico, statistico e concreto, invece di applicare schemini teorici, astratti e avulsi dalla realtà.

Smart, per esempio, è un anglicismo abbastanza “infestante” per la nostra lingua, e i suoi composti si stanno moltiplicando notevolmente. Oggi, nel suo circolare nella lingua italiana, indica prevalentemente qualcosa di intelligente in quanto basato sulle nuove tecnologie. Definirlo un semplice “prestito” e magari accapigliarsi inutilmente sul suo essere “necessario” o “di lusso”, oppure utile, inutile o sostituibile, è un approccio che non porta da nessuna parte, e soprattutto non tiene conto del suo aspetto storico e delle sue relazioni con le altre parole.


Il caso “smart”, la sua storia e la sua famiglia

smart setIn inglese non significa solo intelligente, ha anche altre accezioni che rimandano a qualcosa di elegante. Nel 1962, stando alle datazioni dei dizionari, l’anglicismo cominciò a circolare in italiano con questo secondo significato attraverso l’espressione smart set per indicare la buona società, il bel mondo, i personaggi che frequentano un ambiente (set) raffinato (smart).

Accanto a questa espressione c’era già qualcosa di equivalente almeno dal 1960, cioè la café society, la gente che conta, ma nel 1965 sono arrivate anche altre espressioni inglesi per definire concetti simili: la jet society detta anche jet set, letteralmente la gente che si può permettere di spostarsi in aereo, magari il proprio aereo privato, dunque l’alta società internazionale, anche se questo significato inglese, nel circolare in italiano, non è sempre fedele. Spesso l’espressione viene impiegata come sinonimo e variante di high society (1966), l’alta società, senza troppe distinzioni. Tutti questi equivalenti e variazioni sul tema, espressi in inglese, testimoniano come già a partire agli anni Sessanta l’inglese stava diventando cool, dopo l’epoca del francese, e cioè si impiegava per apparire trendy, e sentirsi sempre più in (in altri termini abbiamo cominciato a prenderlo incool). Il “lusso”, se di lusso si può parlare, o la “moda”, come preferiva il linguista Carlo Tagliavini, non stava nei singoli prestiti, quanto nel ricorso all’inglese per distinguersi e ricorrere a espressioni che suonavano di maggior prestigio e fascino. La gente che conta si prestava bene a essere espressa in inglese, poco importa se attraverso café society,  high society, jet society o smart set. Quest’ultima espressione in seguito è un po’ decaduta, in favore delle altre, e si è usata sempre meno. Smart è perciò rimasto nel limbo, come un “prestito” di poco successo, per qualche decennio. Ma invece di cadere nel dimenticatoio, negli anni Novanta è risorto, non in modo isolato, ma attraverso locuzioni come smart drink e smart drug che hanno cominciato a circolare rispettivamente con il significato di bibita energetica, stimolante, in grado di attivare le energie psicofisiche, e di droghe intelligenti, cioè quelle sostanze nootrope che stimolano l’attività mentale e che si basano su principi psicoattivi legali o che aggirano i divieti delle leggi.

NB: La comprensibilità di smart drink, a sua volta, si appoggiava al preesistente e consolidato drink, ma anche a locuzioni come soft drink, long drink ed energy drink che erano comprensibili e diffuse.

Nel 1994 sono poi arrivate le smart card, le carte elettroniche o magnetiche “intelligenti” perché dotate di un microprocessore che le rende di volta in volta un identificativo per servizi a pagamento.

NB: A sua volta, card non è un prestito isolato, circola da solo e anche in moltissimi in composti come credit card, businnes card, card collection – cioè le figurine –, e-card, fidelity card, inlay card, memory card, sim card, social card, wild card

automobile SmartNel 1996 arriva lo smartphone, il telefono intelligente, spacciato come “prestito di necessità” da chi non sa fare altro che compiacersi nel ripetere l’inglese a pappagallo, ma che avremmo potuto adattare per esempio in smarfono, o magari reinventare con furbofonino, una riformulazione che inizialmente circolava come un’alternativa, anche se non ha mai attecchito, davanti al “dio” inglese. Nello stesso anno, a rendere popolare la diffusione di smart ha poi contribuito un accidente extralinguistico: è arrivata la denominazione commerciale dell’omonima diffusissima automobile della Mercedes, tecnicamente acronimo di Swatch-Mercedes ART, ma giocata sul significato di smart inglese: raffinato, intelligente, ormai sempre più divenuto sinonimo di tecnologico, ed entrato nella disponibilità di tutti.

Quest’ultima è oggi l’accezione prevalente: smart è qualcosa di intelligente e tecnologico allo stesso tempo (intelligente perché tecnologizzato).

In questo modo, nel 2007 si è cominciato a parlare di smart grid, cioè le reti intelligenti (ma grid = griglia non è un prestito isolato, si appoggia ai già circolanti grid computing, 2002; grid girl, le  ragazze immagine delle squadre o team automobilistici, alle griglie di partenza, 2003); nel 2008 sono arrivate le smart city (ma city si ritrova anche in city airport, city bike, city card, city magazine, city manager, city safety, city tax…); nel 2009 gli smartglass (gli occhiali potenziati, ma anche i vetri fotocromatici); nel 2010 la smart tv; nel 2013 gli smartwatch (e la popolarità di watch, era a sua volta in relazione con il celebre marchio di orologi Swatch) e anche lo smart working (ma il lavoro era già virato verso l’inglese work attraverso e-work, e-worker, worhaolic, work in progress, workshop, workstation, co-working…).

A questo punto le cose sono più chiare: smart ormai vive di vita autonoma, anche da solo (es. “Dati sanitari e startup. Così l’assistenza è smart”, Corriere della Sera 27/03/2019), perché è stato veicolato da tutte queste relazioni tra anglicismi, e si è ritagliato il suo significato specifico, si è acclimatato o sedimentato in italiano con un’accezione un po’ diversa dal significato originario inglese. Liquidare questa storia dicendo che è un semplice “prestito”, cui si ricorre per mancanza di proprie parole (necessità) o per “lusso”, è riduttivo, miope e falso.

L’anglicizzazione dell’italiano si basa su storie come questa, non sui singoli prestiti isolati. Di esempi se ne possono fare migliaia, e in altri articoli ho già ricostruito la storia dei composti di baby, che è ormai un prefissoide che genera innumerevoli espressioni e riconiazioni all’italiana, ma vale anche per la storia di room, quella di manager, oppure di food… E mentre l’economia sta diventando economy, dobbiamo cominciare a studiare non le singole parole in inglese, ma le relazioni tra di loro e in che modo la rete degli anglicismi sta colonizzando il nostro lessico.


Due terzi degli anglicismi sono locuzioni o parole composte

Uno dei dati più eclatanti che si ricavano dalla raccolta degli oltre 3.600 anglicismi che ho classificato nel dizionario delle alternative AAA è che circa i due terzi delle espressioni inglesi entrate nella nostra lingua sono locuzioni (a oggi ne ho raccolte 1.395) – come access point, baby boom, car sharing e via dicendo – oppure parole composte da due radici che per la maggior parte sono a loro volta prolifiche. Per esempio, tra i composti di back si trovano: backup, background, backgammon, backdoor, backstage, back to school, back cover, back end, back office, flashback, playback e altre ancora.
Il punto è che anche le radici dei secondi elementi di queste espressioni si ricombinano quasi sempre con altre parole, e nel caso dell’ultimo esempio (playback) a sua volta play – oltre a vivere da solo (il tasto play, l’avvio o accensione) – si ritrova in fair play, long play, playboy, playgirl, playlist, playmaker, playoff, playstation, plug and play… senza contare che è la radice di parole sempre più frequenti come per esempio player.

Scorrendo le liste degli anglicismi – nel dizionario AAA, ma anche nei normali dizionari digitali – salta all’occhio in modo palese che non sono “prestiti” isolati, ma sono in larga parte raggruppabili in famiglie e si ricombinano in modo sempre più ampio dando vita anche a moltissimi semiadattamenti che di solito sfuggono ai conteggi automatici dei dizionari digitali. Da computer si passa a computerizzare, computerizzato, computerizzazione… parole che si aggiungono agli anglicismi crudi, e che violano le nostre regole di pronuncia e di scrittura. Allo stesso modo sono in aumento verbi come whatsappare, twittare, googlare, friendzonare, stalkerare e altri derivati in “ista” (fashionista, deskista, surfista), “ato” (glitterato, flashato, pixelato), “ismo” (scoutismo, gangsterismo, snobismo) e molti altri modi ancora (instagrammabile, hobbystica, holliwoodiano, killeraggio, rockettaro, scooterino…).

L’interferenza dell’inglese, in altri termini, non può essere paragonata all’interferenza delle altre lingue, né per numero, né per profondità. Se scorriamo la lista dei circa 1.000 francesismi non adattati riportati dai dizionari, ci accorgiamo che, salvo casi sporadici, non esistono né famiglie di parole, né ricombinazioni di radici che violano le nostre regole, né derivazioni semiadattate; al contrario, fuori dai forestierismi crudi, prevalgono gli innumerevoli adattamenti, italianizzazioni o calchi che terminano per esempio in -ismo, -ista, -aggio (illuminismo, materialista, libertinaggio), -zione (rifrazione, presunzione), -izzare (razionalizzare, scandalizzare) e -ficare (elettrificare). Queste derivazioni da radici francesi sono perciò ben assimilate, e rendono l’origine francese irriconoscibile, al di là dell’etimo storico. Ho già mostrato le profonde differenze tra l’interferenza dell’inglese e quella del francese, e questa ulteriore diversità è indicativa per comprendere che l’invasione dell’inglese è più grave e molto più estesa.

Lo stesso vale per lo spagnolo, per il tedesco, per il giapponese e per le numericamente irrilevanti parole di provenienza da altre lingue: in nessun caso si registra qualcosa di equiparabile a quanto avviene nel caso dell’inglese. La categoria del “prestito linguistico”, nonostante i suoi limiti, può essere utile per comprendere l’interferenza delle altre lingue, ma nel caso degli anglicismi siamo in presenza di qualcosa di devastante, che va oltre e non si può ricondurre alla somma dei prestiti. È un fenomeno di emulazione e di ricombinazione molto più complesso e di ben altra portata.

Mentre molti linguisti continuano a liquidare tutto con la categoria dei prestiti, magari discutendo se una singola parola sia di lusso o di necessità, non si accorgono della valanga che sta precipitando sulla nostra lingua e che ci seppellirà, se non cambiamo atteggiamento.

 

PS
Per chi sarà al Festival della lingua italiana di Siena (5-7 aprile 2019) parlerò di questi temi:
il 6 aprile alle ore 17 presso la Libreria Palomar insieme a Stefano Jossa: “La LINGUA italiana. Bella e da difendere?” (introduce Massimo Marinotti, coordina Leonardo Luccone);
il 7 aprile alle ore 10.15 presso la Biblioteca degli Intronati insieme a Fabio Pedone: “In punta di LINGUA. Traduzione e creatività” (modera Simona Mambrini).

parole in cammino siena

Qui il programma completo.

 

Gioco-concorso: traduzioni creative e dialetti (“Parole in cammino” Siena, 5-7 aprile 2019)

italia
Immagine tratta da RaiPlay

Un tempo i dialetti erano visti come un ostacolo per la lingua italiana. Eppure c’è chi ha definito l’italiano un dialetto che si è imposto su tutti gli altri grazie ai modelli letterari di Dante, Petrarca e Boccaccio. Nella cosiddetta questione della lingua – e cioè: qual è l’italiano? – per secoli i puristi si sono scontrati con autori che rivendicavano invece un italiano più aperto. I primi erano ostili a neologismi, forestierismi e parole dialettali non basate sul toscano e sulla lingua delle “tre corone fiorentine”. Gli altri li ammettevano in nome dell’evoluzione e della modernità, per non cristallizzare l’italiano nella “lingua dei morti”. Ma queste controversie, nate già con Dante, e che si sono protratte fino alla soluzione manzoniana dei Promessi sposi (lo sciacquare i panni in Arno nel fiorentino vivo) e anche dopo, riguardavano l’italiano letterario, la lingua scritta, perché nella vita di tutti i giorni ognuno parlava nel proprio dialetto e l’italiano era una sorta di registro linguistico elevato che si utilizzava per le comunicazioni inter-regionali.

 


Dialetti: da un ostacolo per la lingua italiana a una ricchezza

L’italiano parlato è una conquista nata nel Novecento soprattutto con l’epoca del sonoro, la radio, il cinema e poi la televisione. Solo allora si è posta la questione dell’unificazione della lingua parlata.
L’estromissione dei dialetti dall’insegnamento avvenne già nei primi anni del regime fascista, quando era molto diffuso tra i maestri. Il fascismo tentò di regolamentare fortemente la lingua, vista come uno strumento di coesione del popolo e del nazionalismo e il dialetto, in un’epoca in cui l’italiano doveva essere ancora unificato, era considerato come un ostacolo all’affermazione della lingua nazionale. Questo atteggiamento è durato anche dopo, e ancora ai tempi delle emigrazioni degli anni Cinquanta e Sessanta, parlare il dialetto era percepito come un segno di ignoranza, il modo di esprimersi di chi non sapeva parlare l’italiano. In questo periodo in molti luoghi accadde un nuovo fenomeno: il dialetto usato da sempre in ambito familiare cominciò a cedere il posto all’italiano nel rivolgersi alle nuove generazioni. A Milano, per esempio, ricordo che quando ero bambino i miei genitori parlavano in dialetto con i miei nonni e con gli altri familiari. Ma tutti, nel rivolgersi a noi bambini si esprimevano in italiano. In questo modo il mio bilinguisimo dialettale si è spezzato, e personalmente sono in grado di comprendere il milanese, ma non sono in grado di replicarlo e parlarlo. In questo modo alcuni dialetti sono scomparsi o quasi. Il milanese si è perduto e non è più praticato se non da gruppi molto ristretti. In altre aree geografiche, e anche in Lombardia fuori dalle metropoli, la tradizione del dialetto è invece ancora viva.

Oggi, unificato l’italiano parlato, la questione dei dialetti è completamente cambiata. Non sono più un segno di ignoranza e un ostacolo, non sono più il simbolo del non saper parlare in modo corretto, sono al contrario una ricchezza. In sintesi, sono vissuti come un arricchimento culturale che non sostituisce l’italiano, ma si aggiunge come una seconda lingua e non riguarda più soltanto i ceti bassi e poco alfabetizzati, è un patrimonio culturale di chi cerca di conservare e riscoprire le tradizioni locali.

Le varietà regionali sono attualmente uno degli elementi più vivi della nostra lingua, sempre più policentrica e sempre meno toscana. Già da tempo il mescolamento delle culture ha comportato il confluire di molti termini dialettali nell’italiano. Dal siciliano sono arrivate parole come intrallazzo, picciotto o zagara, dal napoletano vongola, mozzarella, scugnizzo o fesso, dal romanesco abbuffata, abbacchio, sbafo, iella, caciara o borgata, dal lombardo balera, barbone, lavello o panettone, dal piemontese fonduta, gianduia, grissino e ramazza

Visto che ormai la metà dei neologismi è in inglese e che l’italiano sempre meno capace di evolvere con parole autonome, i dialetti costituiscono un patrimonio e un bacino di parole nuove molto interessante. Qualcuno li ha definiti “prestiti interni”.

Fatte queste premesse, ci si può porre una domanda: e se guardassimo ai dialetti come a una risorsa cui attingere davanti alle parole mancanti, spesso importate dall’inglese?

Davanti a una parola che non c’è, oltre a importarla da un’altra lingua in modo crudo, è anche possibile italianizzarla e adattarla, tradurla e ricorrere a un calco, creare un neologismo e reinventarla. Ma c’è anche un’ulteriore soluzione: recuperare i dialetti e provare ad attingere dal patrimonio linguistico regionale.

Un gioco e un concorso: “In punta di lingua. Traduzione e creatività”

parole in cammino siena

Durante un incontro a “Più libri più liberi” (Roma, 5-9 dicembre 2018), Massimo Arcangeli buttò lì l’idea di coinvolgere i dialetti nella traduzione di parole apparentemente intraducibili provenienti dalle più diverse lingue. La traduttrice Andreina Lombardi rispose immediatamente a quello stimolo e propose la traduzione di aftselakhis (yiddish) con il napoletano cazzimma.

Oggi questa idea è stata ripresa e trasformata in una nuova iniziativa per il Festival della lingua italiana, “Parole in cammino” (Siena, 5-7 aprile 2019), arricchita da due proposte “collaterali”:

comprendere un certo numero di anglicismi nell’elenco delle parole da tradurre attraverso traducenti dialettali, oltre che italiani;
provare a rendere nell’idioma nazionale alcune parole ed espressioni dei vari dialetti.

Invito tutti a partecipare giocosamente a questo concorso.

Domenica 7 aprile, in un incontro a Siena nell’ambito della manifestazione, commenterò le soluzioni pervenute insieme a Fabio Pedone e Simona Mambrini.
Lo stesso giorno partirà anche la seconda fase dell’iniziativa: la traduzione in italiano di parole ed espressioni dialettali della penisola che non hanno ancora un equivalente. Nel mese di maggio, il progetto culminerà a Cassino e a Montecassino, con la premiazione delle migliori soluzioni nella cornice del festival “ANTICOntemporaneo”.

Partecipa al gioco-concorso!

Per chi vuole partecipare e giocare, queste sono le parole inglesi di cui è possibile proporre un traducente:

avatar
comfort food
coming out
contactless
cool
default
doodle
fake news
flat tax
location
mobbing
mood
must
(to) scroll
smart card
spoiler
stalker
startup
touchpad
.

E queste sono altre parole che provengono da altre lingue:

Aftselakhis (sostantivo, yiddish): l’impulso o il bisogno di fare esattamente la cosa che qualcuno ci proibisce di fare, con lo scopo di farlo arrabbiare.
Fremdschäm (sostantivo, tedesco): la vergogna che si prova per qualcuno.
Fylleangst (sostantivo, norvegese): la paura di aver detto o fatto qualcosa di stupido di cui non ci si ricorda, e che ci assale il giorno dopo una tremenda sbronza.
Geborgenheit (sostantivo, tedesco): la sensazione di essere al sicuro, al calduccio, come in un nido o nel ventre materno.
Gjensynsglede (sostantivo, norvegese): la gioia di rivedere qualcuno dopo molto tempo.
Koselig (aggettivo, norvegese): si usa per descrivere un’atmosfera piacevole, rilassante, e per definire ciò che ci fa sentire bene, che è accogliente, dà calore, in qualche modo ci “coccola”.
Μάγκας (sostantivo, greco moderno): l’uomo del popolo, sicuro di sé fino all’arroganza. Si distingue dagli altri nel comportamento, nelle movenze e nell’abbigliamento. È un uomo con esperienza ed è ammirato dagli altri; è un duro ma è anche un giusto, non approfitta dei deboli e non si fa sopraffare dai prepotenti. Si usa colloquialmente anche come formula di saluto.
Nombrilisme (sostantivo, francese): l’atteggiamento egocentrico di chi pone sempre se stesso al centro dell’attenzione (letteralmente: l’atteggiamento di chi si contempla l’ombelico).
Rubberneck(er) (sostantivo, inglese): il curioso che guarda con morbosità qualcosa di sconveniente o indiscreto, spinto da un impulso irrefrenabile (il termine è diverso da “guardone”, e anche da “curioso”).
Schadenfreude (sostantivo, tedesco): la gioia maligna che si prova per la sfortuna altrui.
Sehnsucht (sostantivo, tedesco): esprime un desiderio doloroso, come la nostalgia, ma di qualcosa che non è stato e forse mai sarà. È il desiderio collegato al doloroso struggimento che si prova nel non poterne raggiungere l’oggetto. “Sehnsucht” viene da “sehnen” (‘anelare’, ‘sognare’, ‘avere voglia’) e “Sucht”, un sostantivo che indica propriamente il desiderio irrefrenabile, la smania, la sete di brama, il vizio (e quindi la dipendenza: dal cibo, dalla droga, dall’alcol). Letteralmente è un “desiderio del desiderio”.
Sisu (sostantivo, finlandese): è il particolare atteggiamento mentale, tipicamente associato al popolo finlandese, connotato da un misto di forza di volontà, coraggio, tenacia e razionalità. La parola deriva da sisus, che significa ‘intimo’ o ‘interiore’.
Sobremesa (sostantivo, spagnolo): le chiacchiere che s’imbastiscono davanti a una tavola ancora imbandita, tirando per le lunghe la fine del pranzo.
Solochvåra (verbo, svedese): è formato dalle parole “sol” (‘sole’) e “vår” (‘primavera’), e significa illudere una donna corteggiandola in modo serrato al solo fine di estorcerle del denaro.

Nulla è intraducibile, tutt’al più è intradotto, e cioè non lo si vuole o riesce a tradurre!

Le proposte vanno inviate a questo indirizzo: inpuntadilingua@gmail.com.

Questa iniziativa è realizzata in collaborazione con l’associazione di traduttori StradeLab e con l’associazione Twitteratura e Betwyll.

Le profonde differenze tra l’interferenza di francese e inglese

Davanti all’odierna anglicizzazione dell’italiano, circola un luogo comune molto in voga tra i “negazionisti” non preoccupati per la sorte della nostra lingua. È un argomento che si sente spesso e qualche giorno fa, davanti alle preoccupazioni che esprimevo, mi è stato riproposto al Tg2 Italia da Dario Salvatori: ciò che oggi accade con l’inglese in passato è già accaduto con il francese.

Fino ai primi del Novecento era infatti il francese a essere la lingua di moda, il modello culturale internazionale di prestigio cui guardavamo e da cui importavamo. Eppure, nonostante gli allarmismi del passato, la lingua italiana è sopravvissuta e ha saputo ben sopportare e superare questa “invasione”. Dunque anche oggi, davanti al massiccio ricorso all’inglese, non c’è da preoccuparsi troppo. Si tratta di una “moda” che passerà: con il tempo l’italiano avrà la meglio e, come è avvenuto in passato, assimilerà o abbandonerà i sempre più numerosi forestierismi non adattati.

Questa tesi non è però fondata sui fatti. Tra il fenomeno accaduto all’epoca del francese e ciò che accade oggi con l’inglese ci sono delle differenze profonde a abissali, e ogni paragone da cui trarre rassicuranti previsioni sul futuro non mi pare fondato.

 

1) Il numero degli anglicismi di oggi non è paragonabile a quello dei francesismi di ieri

La prima importante differenza sta nei numeri, e non è una cosa da poco, né da sottovalutare. Basta sfogliare i dizionari di inizio Novecento per rendersene conto: non registravano affatto migliaia di francesismi.
Naturalmente, i criteri dei vocabolari dell’epoca erano molto più “puristici” e molto meno aperti ad accogliere i forestierismi, rispetto a oggi. Ma anche sfogliando gli elenchi dei “barbarismi” banditi in epoca fascista risulta evidente che il fenomeno non è paragonabile da un punto di vista quantitativo. Nel “Bollettino di informazioni della Reale Accademia d’Italia”, che aveva lo scopo di stilare le parole straniere “vietate” affiancate dai sostitutivi italiani indicati dal regime, le parole bandite erano in totale circa 500 (l’elenco fu anche pubblicato sul Corriere della Sera del 21 giugno 1941), e comprendevano soprattutto francesismi, ma anche anglicismi e parole di altre lingue. Era una questione di principio e di orgoglio nazionale, più che di effettivo pericolo per la nostra lingua.

Andando a scartabellare opere ancora più specialistiche, si può citare la più celebre: Barbaro dominio. Processo a 500 parole esotiche di Paolo Monelli (Hoepli 1933), dove i numeri erano gli stessi. Successivamente questo lavoro fu ampliato in una seconda edizione del 1943: Seicentocinquanta esotismi esaminati, combattuti e banditi dalla lingua. Ma ancora una volta, questi numeri non riguardavano solo il francese, i gallicismi in queste opere erano poco più della metà, e dunque erano circa il 10% delle circa 3.500 parole inglesi accolte nei dizionari monovolume del nuovo Millennio. Perciò c’è una bella differenza, almeno di un ordine grandezza! Lo si può vedere nel grafico che ho provato a ricostruire sulla base delle marche e delle datazioni del Devoto Oli 2017.

Anglicismi entrati storicamente
Le datazioni e il numero di francesismi, ispanismi e anglicismi non adattati nel Devoto Oli 2017.

 

2) La rapidità di penetrazione dell’inglese non ha precedenti storici

In questo confronto tra ciò che è accaduto oggi e ciò che accadeva all’inizio del secolo scorso non bisogna poi trascurare la rapidità dell’aumento delle parole inglesi: tutto è avvenuto nell’arco di 80 anni.

L’interferenza del francese, al contrario, è stato un fenomeno plurisecolare, che ci ha influenzati sin dalle origini del volgare, quando si guardava agli esempi letterari della lingua d’oil, l’antenata dell’odierno francese, che finì per affermarsi a Parigi e avere la meglio su quella d’oc, il provenzale diffuso al sud della Francia che si ritrova anche nel linguaggio di Dante. Di lingua francese erano anche i Normanni che ancor prima si erano stanziati nell’Italia meridionale e in Sicilia. Poi, su questi antichi sostrati si sono innestati migliaia di francesismi successivi (ma perlopiù adattati, non “crudi”), che risalgono sia alle epoche in cui siamo stati invasi militarmente e dominati politicamente, sia al periodo in cui la Francia era la nazione più importante di tutta l’Europa e la sua egemonia culturale e linguistica era un punto di riferimento per tutti: l’Illuminismo, la Rivoluzione, l’età napoleonica e la Belle Époque terminata con lo scoppio della Prima guerra mondiale.

Nel caso del’inglese, invece, fino alla seconda metà dell’Ottocento gli anglicismi erano quasi assenti dalla nostra lingua. Solo alla fine del secolo hanno cominciato a penetrare in modo non preoccupante. Se nelle opere come Barbaro dominio erano ancora molto contenuti rispetto al francese, ciò che è avvenuto dopo la Liberazione non ha precedenti, nella storia della nostra lingua.

Di seguito riporto una tabella tratta da Diciamolo in italiano con l’entrata per epoca degli anglicismi non adattati secondo le marche di tre importanti dizionari. Nella prima colonna quelli prima dell’Ottocento, nella seconda quelli del XIX secolo, e nella terza quelli del XX secolo (ma il Sabatini-Coletti, DISC, utilizzato si ferma al 1997).

aumento anglicismi in zingarelli devoto oli sabatini coletti
Gli anglicismi non adattati entrati per epoca (fonte: Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 81). Tra parentesi sono riportati i numeri grezzi che si ricavano da ognuna delle tre opere.

In sintesi, nel corso del Novecento sarebbero entrati 2.000/2.300 anglicismi, stando ai vocabolari monovolume, ma i dizionari che si occupano specificatamente di parole straniere indicano cifre ancora più alte. E la gran parte di questi sono entrati nella seconda metà del secolo!


3) Il francese è stato italianizzato, l’inglese non si italianizza

Nel corso dei secoli abbiamo importato e adattato dal francese un numero di parole enorme, per esempio la maggior parte dei calchi che terminano in -ismo, -ista, -aggio (illuminismo, materialista, libertinaggio), -zione (emozione, rifrazione, presunzione), -izzare (razionalizzare, scandalizzare) e -ficare (elettrificare). Persino i colori blu e marrone sono adattamenti di bleu (da noi c’era il celeste o il turchino) e marron (il colore della castagna). I meno di 1.000 francesismi non adattati registrati nei dizionari contemporanei, dunque, sono solo la punta del “banco di ghiaccio” (o dell’iceberg, se preferite), perché tutto il resto è ormai assimilato e italianizzato al punto che l’etimo francese è persino scomparso dai dizionari, in qualche caso, per esempio in quello di “precisazione” che ai tempi di Leopardi “muoveva le risa”, nel suo apparire brutta e barbara.

Il prossimo grafico mostra il rapporto tra forestierismi adattati e non adattati secondo le marche del Devoto Oli 1990, e come si può notare, mentre per il francese (ma anche per lo spagnolo e il tedesco) il rapporto tra parole adattate e non adattate appare “sano”, e cioè per la maggior parte sono state adattate, nel caso dell’inglese è invece assolutamente sbilanciato e “malato”: le parole crude sono molto di più di quelle italianizzate!

forestierismi adattati e non del devoto oli
Le parole straniere adattate e non adattate nel Devoto Oli 1990 (fonte: Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 86).

Come si può notare facilmente, nel 1990 l’interferenza del francese era ancora superiore, complessivamente,  a quella dell’inglese, anche se il numero degli anglicismi non adattati era di gran lunga maggiore. Negli anni seguenti, però, i rapporti che si ricavano dalle analisi etimologiche si sono invertiti, e se si guarda il grafico successivo ricostruito sulle marche del Gradit 1999 (il dizionario a volumi curato da Tullio De Mauro), la situazione si è ribaltata: nel 1999 l’interferenza dell’inglese ha superato quella plurisecolare del francese! E i francesismi erano per il 70,5% adattati, contro solo il 31,6% degli anglo-americanismi, che per il 68,4% mantenevano la propria forma inglese.

forestierismi adattati e non nel GRADIT
Le parole straniere adattate e non adattate nel Gradit 1999 (fonte: Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 87). In numeri assoluti: 6.292 anglicismi (1.989 adattati + 4.303 non adattati), 4.982 francesismi (3.517 ad. + 1.465 non ad.), 1.055 ispanismi (792 ad. + 263 non ad.), 648 germanismi (360 ad. + 288 non ad.).

La crescita dell’inglese è aumentata ancora di più nell’edizione del Gradit del 2007, tanto che lo stesso De Mauro (a quei tempi ancora fermo sulle sue posizioni “negazioniste”) aveva dovuto ammettere:

Il confronto con i dati registrati nella prima edizione del GRADIT mostra che negli ultimi anni gli anglismi hanno scalzato il tradizionale primato dei francesismi e continuano a crescere con intensità, insediandosi, come più oltre vedremo, anche nel vocabolario fondamentale.

[Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia repubblicana: dal 1946 ai nostri giorni, Laterza, Bari-Roma 2016, p. 136].

Di seguito un grafico che raffronta gli anglicismi del Gradit 1999 e del 2007, da cui si evince sia l’aumento delle parole sia la crescita della sproporzione tra adattati e non adattati.

aumento anglicismi nel Gradit
Le parole straniere adattate e non adattate nel Gradit 1999 (fonte: Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 88).

Secondo Arrigo Castellani (cfr. “Morbus anglicus”, 1987) la ragione di questa differenza tra l’adattamento del francese e il non adattamento dell’inglese risiedeva anche nell’affinità strutturale delle due lingue:

L’influsso del francese sull’italiano nel periodo che ha preceduto la valanga anglo-americana è stato indubbiamente forte. Ma le parole ed espressioni francesi sono state per lo più assimilate senza grossi traumi, data la vicinanza tra le due lingue. La maggior parte dei gallicismi moderni dell’italiano sono fusi col resto della lingua, non si riconoscono più.

Questa affinità è indubbia, visto che il francese è lingua neolatina molto più vicina alla nostra, ma non credo sia una ragione sufficiente. Nulla, infatti, ci vieterebbe di italianizzare l’inglese e dire per esempio smarfono anziché smartphone o guglare invece che googlare, né di creare calchi e traduzioni invece che ricorrere all’inglese crudo. Nulla ci vieterebbe anche di pronunciare all’italiana parole come club o summit, come abbiamo sempre fatto, e come fanno normalmente in Francia (dove si dice “futbòl” e “campìng”) o in Spagna (dove si dice “uìfi” al posto di wi-fi e “puzle” al posto di “pasol”). E allora le ragioni dei mancati adattamenti non credo si possano spiegare solo con l’affinità tra le lingue. Il punto è che ci vergogniamo di storpiare l’inglese,  che consideriamo “sacro” e superiore alla nostra lingua, e dobbiamo ostentarlo. Ormai pronunciamo sempre più spesso USA all’americana, mentre in Spagna e Francia si chiamano EU (rispettivamente Estados Unidos e États-Unis), così come avviene per le altre sigle: gli ufo sono ovni (Oggetti Volanti Non Identificati) e l’aids è sida (Sindrome da ImmunoDeficienza Acquisita).

Ma c’è di peggio. Non solo importiamo senza adattare, non solo pronunciamo all’americana, viceversa facciamo diventare inglesi le nostre parole (un adattamento al contrario!), e così diciamo tutor e vision invece di tutore e visione, in televisione passa comedy invece di commedia, nelle pubblicità limited edition invece di edizioni limitate, nell’informatica downloadiamo invece di scaricare, in politica il presidente del consiglio diventa premier, nel linguaggio istituzionale si varano act e si introducono tax, sui giornali killer e pusher sostituiscono assassino e spacciatore, e parole come elaboratore e calcolatore le abbiamo messe in cantina perché ormai si dice solo computer. Tutto questo non dipende dall’affinità delle lingue, le cause sono ben altre. E il risultato è che ormai la metà dei neologismi del nuovo Millennio si esprime in inglese crudo e la nostra lingua non sa più coniare nuove parole sue per esprimere le cose nuove.


4) il francese era un fenomeno elitario, l’inglese è di massa

C’è poi un’altra grande differenza tra l’interferenza ai tempi del francese e quella di oggi dell’inglese, come aveva già osservato acutamente Arrigo Castellani:

“Il francese ha agito sulla lingua della borghesia”, mentre oggi il fenomeno è di massa, “la differenza è principalmente qui”.

Castellani aveva ragione, nel 1987, a scrivere queste cose, ma oggi si deve dire molto di più, alla luce di quanto è accaduto e sta accadendo.

Sia il francese di ieri sia l’inglese di oggi hanno una comune radice sociolinguistica elitaria, sono cioè un modo di esprimersi che distingue la nostra classe dirigente che si pone attraverso i forestierismi su un altro piano, rispetto alle masse. Ma con l’avvento della Rete la distinzione tra masse e professionisti ha cessato di essere nettamente separabile. Se da una parte il ricorso all’inglese, e il suo abuso scriteriato, oggi caratterizza il linguaggio dei mezzi di informazione o della politica, dall’altra parte le masse si sono appropriate della Rete e hanno prodotto milioni di pagine scritte dalla gente comune che imita e prosegue gli stessi modelli attraverso siti personali che funzionano da “ripetitori” (blog, riviste in rete e giornalettismi, reti sociali, tronisti virtuali e persone comuni che diventano influenti/influencer). Questo fenomeno sociale si basa sull’emulazione dello stesso stile e linguaggio dei mezzi di informazione ufficiali, che a loro volta ricalcano il linguaggio della Rete in un circolo vizioso. Tutto ciò contribuisce all’emergere di una nuova lingua, ormai diventata itanglese, in cui i modelli dall’alto si fondono con quelli dal basso. Mentre dall’alto accade che si anglicizzi il linguaggio istituzionale, quello del lavoro, della scienza, della tecnica, dell’economia, dell’informatica (e questo nel caso del francese non è mai accaduto), dal basso arriva la “lingua dell’ok”, quella popolare, del rock e della musica, dei fumetti (oggi sempre più comic, strip, cartoon, graphic novel), dei videogiochi, dei film i cui titoli non si traducono più, dei prodotti di largo consumo… E su questo terreno si innesta anche la forte pressione dell’espansione delle multinazionali e dei mercati che esportano la propria nomenclatura insieme alle loro merci in un nuovo colonialismo, anche linguistico, basato sull’angloamericano.

Tutto ciò non è liquidabile come una semplice moda passeggera, e non è paragonabile nemmeno lontanamente a quanto avveniva nei primi del Novecento. A quei tempi il francese aveva raggiunto il clou, era chic e à la page, con il suo particolare charme. Era la lingua d’élite, del bon ton, del savoire-faire, e tra i tantissimi vocaboli non adattati ci ha trasmesso molti di quelli legati al costume (da toilette a bidet), alla gastronomia (bignè, ragù, omelette) o alla moda (collant, décolleté, foulard, gilet, papillon, tailleur). Ma fuori dalla moda (che però oggi si esprime sempre più in inglese) il francese non ha mai colonizzato interi settori come oggi accade con l’inglese nell’informatica, nel lavoro, nell’economia, nella scienza, nella tecnologia, nella musica…

Quello che sta accadendo alla nostra lingua non è un fenomeno superficiale e di moda, è una strategia dell’evoluzione dell’italiano che ci sta portando verso l’itanglese.

Chi pensa che se siamo sopravvissuti alla moda del francese sopravvivremo anche alla moda dell’inglese lo fa senza cognizione di causa e racconta una favola che non si fonda sui fatti. Chi si basa su questi ragionamenti induttivi rischia di fare la fine del tacchino di Russell, che poiché ogni giorno riceveva da mangiare all’ora di pranzo, era convinto che sarebbe avvenuto sempre così. Ma il giorno del Ringraziamento, all’ora di pranzo,  fu il tacchino a trovarsi sul desco di chi lo aveva sempre nutrito.

Anglicismi e neologismi

Per descrivere le cose nuove e per rendere conto delle nuove esigenze, una lingua viva deve evolvere e coniare nuove parole. In questi cambiamenti, l’evoluzione può attingere dal proprio patrimonio linguistico autonomo oppure trarre spunto da parole straniere (alloglotte).

albero delle parole
Immagine tratta da: https://mauropresini.wordpress.com/2015/12/23/gatti-e-bigatti/

Venendo per esempio ai neologismi del nuovo Millennio una parola come autoeditoria è una coniazione autonoma per indicare il fenomeno dell’autopubblicazione dei libri con le nuove tecnologie, mentre una parola come badante, dal verbo badare, si trasforma in un sostantivo per indicare una nuova figura professionale.

Se invece si guarda fuori dall’italiano non è affatto necessario importare in modo “crudo” senza adattamenti, i modelli si possono anche “tradurre” attraverso calchi, cioè parole che ricalcano modelli stranieri, che possono essere strutturali (o formali) come pallacanestro da basketball, fine settimana da weekend, grattacielo da skyscraper o ancora bistecca da beefsteak. In altri casi i calchi sono detti semantici, quando una parola acquisisce un nuovo significato per l’influsso di un forestierismo, per esempio angolo diventa anche sinonimo di calcio d’angolo sul modello di corner, realizzare assume anche il significato di comprendere qualcosa, e non solo di costruire, per influsso di to realise, e singolo diventa anche scapolo, e non più solo unico, per l’influenza di single.

Queste strategie implicano l’italianizzazione delle nuove voci, che pur sotto l’interferenza dell’inglese, mantengono l’identità della nostra lingua: non violano il nostro modo di pronunciare e scrivere i lessemi secondo le nostre regole, in altre parole non sono “corpi estranei” come li chiamava Arrigo Castellani.

Naturalmente c’è anche la possibilità di importare una parola straniera non adattata, integrale o cruda, cioè così com’è, per esempio self publishing invece di autoeditoria o caregiver (assistente familiare) così simile a badante, da cui eravamo partiti.

Quando, davanti all’esplosione incontrollata delle parole inglesi, ci dicono che l’evoluzione della lingua è un fenomeno normale, che le lingue evolvono anche grazie all’interferenza degli altri idiomi, che da sempre l’italiano ha attinto dal francese, dallo spagnolo, dall’arabo e da ogni altra lingua, dobbiamo stare attenti: ci vogliono prendere per il naso o forse per qualche altra parte del corpo più in basso. Queste affermazioni sono delle banalità, per chi si occupa di linguistica, e soprattutto sono degli schemini teorici che non hanno alcun senso se non si quantificano.

Il punto è un altro. Per fare una riflessione seria, dobbiamo chiederci: come sta evolvendo l’italiano? Quanti sono tra i neologismi quelli “crudi” e quanti quelli italianizzati? Quante sono le parole nuove costruite sui modelli italiani? Quanti sono gli anglicismi rispetto ai francesismi, ispanismi, germanismi, nipponismi e via dicendo?

Questo è il nocciolo. E, purtroppo, se andiamo a vedere come stanno le cose scopriamo che l’italiano è gravemente malato, perché è sempre meno in grado di coniare parole sue, è sempre meno in grado di tradurre, produrre calchi e adattare. L’evoluzione dell’italiano del nuovo Millennio pare proprio che si basi su una strategia suicida per cui la soluzione prevalente è sempre la stessa: importare dall’inglese senza adattare. Se i neologismi finiscono per coincidere sempre più con gli anglicismi, ecco che si finisce inevitabilmente nell’itanglese: una struttura apparentemente italiana dalla quantità di parole inglesi sempre più fitta e massiccia.

Neologismi e anglicismi negli studi di Adamo-Della Valle

Sui neologismi è doveroso citare i contributi di Giovanni Adamo e Valeria Della Valle che dal 1998 lavorano al progetto dell’Osservatorio neologico della lingua italiana, in collaborazione con l’Istituto per il lessico intellettuale europeo e la storia delle idee del CNR.
Giovanni adamo Valeria della valle neologismi quotidiani Olschki

Il fine dei loro lavori è quello di studiare l’innovazione lessicale della lingua italiana attraverso l’analisi dei quotidiani e dei periodici: viene esaminato il lessico dei giornali con lo scopo di raccogliere tutte le nuove parole non registrate dai dizionari. Un primo risultato di questo studio (Neologismi quotidiani. Un dizionario a cavallo del millennio, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2003) ha analizzato poco più di 5.000 neologie tra il 1998 e il 2003, di cui 683 erano parole inglesi, cioè circa il 13%. Questo risultato, però, si riferiva agli anglicismi integrali e non teneva conto “dei lemmi ‘misti’, ovvero delle parole italiane in cui si trova un «elemento formante» inglese”. Insomma, conteggiando anche queste parole le percentuali salirebbero ulteriormente.

Anche se si potrebbe non essere d’accordo, le conclusioni di Valeria Della Valle non erano preoccupate davanti a questi numeri, e infatti, nel 2004, dichiarava:

Dal materiale esaminato (5.059 nuove formazioni lessicali, per un totale di 10.710 contesti giornalistici) non si possono trarre, superficialmente, segnali di particolare allarme: se è vero che si ricorre spesso alla lingua inglese, è anche vero che i neologismi registrati sono, nella maggioranza dei casi, formati attraverso i procedimenti tradizionali di derivazione e composizione della nostra lingua.

[Scuola e cultura, Istituto Comprensivo Muro Leccese, anno II, n.2 aprile/maggio/giugno 2004 p. 9].

Della Valle ha sempre palesato posizioni non allarmate davanti all’interferenza dell’inglese, ma nel 2018 questa serafica tranquillità sembra proprio che sia venuta meno anche da parte sua, visto che nell’ultimo aggiornamento del lavoro, basato sullo spoglio dei giornali dal 2008 e il 2018, le cose sono cambiate: tra le circa 3.500 nuove parole incluse in Neologismi. Parole nuove dai giornali 2008 – 2018, edito da Treccani, il predominio dell’inglese è aumentato in modo preoccupante, una parola su 5 è in inglese:

Tra il 2008 e il 2018, sui giornali italiani sono più che raddoppiati, rispetto al decennio precedente, i neologismi inglesi: nel nostro modo di parlare sono apparse 15 nuove parole composte da ‘food’ e solo 2 da ‘cibo’; hanno fatto il loro ingresso 17 termini con ‘gender’ contro 13 con ‘genere’, stessa cosa per ‘smart’, che ha la meglio sulla sua traduzione italiana, ‘intelligente’. Sul totale dei neologismi italiani, i termini inglesi sono schizzati dal 10 al 20,11 percento [rispetto all’aggiornamento del 2006]. ‘Un elemento molto preoccupante a nostro modo di vedere’, ha ammesso Valeria Della Valle.

[Il fatto quotidiano, “Da ‘mafiarsi’ a ‘dichiarazionite’ e ‘viralizzare’: ecco tutti i neologismi apparsi sui giornali negli ultimi 10 anni“, Ilaria Lonigro, 2/12/2018].

In conclusione, sembra che  proprio attraverso lo studio dell’interferenza dell’inglese, la professoressa abbia cambiato idea e sia passata da una posizione “negazionista” a una preoccupata, esattamente come hanno fatto Luca Serianni e persino Tullio De Mauro.
Queste preoccupazioni, anno dopo anno, stanno ormai coinvolgendo tutti i glottologi più seri, che cambiano idea semplicemente studiando cosa sta succedendo. Le posizioni “negazioniste”, che sino agli anni Duemila rappresentavano il pensiero dominante tra i linguisti, perdono terreno e gli studiosi che si rifiutano di vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti sono sempre meno, e presto scompariranno davanti all’insostenibilità delle argomentazioni su cui si sono arroccati senza via di uscita. Anche perché, purtroppo, il dato che emerge dagli studi di Adamo-Della Valle – un neologismo su 5 è in inglese – è ancora poca cosa rispetto alla realtà ben più grave che emerge dallo spoglio dei dizionari.


La distinzione tra neologismi occasionali e duraturi

Bisogna fare molta attenzione a distinguere le cose: tra i neologismi tratti dalla stampa, la percentuale delle parole effimere o “usa e getta” (cioè gli occasionalismi non destinati ad affermarsi in modo stabile e a entrare nei dizionari) è molto alta. Parole come “spelacchio” per indicare l’albero di Natale del comune di Roma del 2017, oppure “antirenziano”, si esauriscono con l’uscita di scena delle situazioni o dei personaggi in questione. Solo alcune di queste neologie giornalistiche sono destinate ad avere fortuna e a essere registrate nei vocabolari futuri.

«Forse dei 3.505 neologismi ne rimarrà la metà, forse di meno» ha spiegato Valeria Della Valle.

[Avvenire, “Lingua. Petaloso, asinocrazia, webete, azzardopatia: le nuove parole dell’italiano”, Giacomo Gambassi, 6/12/2018].

Le parole che sono incluse nei dizionari, al contrario, a volte impiegano anche un decennio prima di essere inserite, perché vengono di solito accolte solo dopo che hanno manifestato una presumibile stabilità. E infatti, da un mio confronto tra i circa 1.600 anglicismi presenti nel Devoto Oli del 1990 e i circa 3.500 del 2017 è emerso che soltanto 67 sono usciti in questo lasso di tempo (cfr. Diciamolo in italiano. Gli abusi nell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla, Hoepli, 2017, pp. 95-99). I “negazionisti” convinti che l’inglese non sia un problema allarmante che si appellano alla presunta obsolescenza delle parole inglesi, perciò, parlano senza cognizione di causa. L’obsolescenza e la loro scomparsa non riguarda le voci dei dizionari, ma soltanto la nuvola di anglicismi non registrati che ci avvolge (soprattutto sulla stampa) è che è di ordine di grandezza superiore al numero di quelli registrati che hanno invece la loro stabilità.

Fatta questa precisazione, non resta che conteggiare i neologismi e gli anglicismi presenti nei dizionari, e il dato sconcertante è che la metà dei neologismi è in inglese crudo.


Zingarelli e Devoto Oli: gli anglicismi sono il 50% dei neologismi del nuovo Millennio

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Devoto Oli, edizione digitale del 2017: a sinistra i neologismi del nuovo Millennio e a destra gli anglicismi del nuovo Millennio.

Dallo spoglio dell’edizione digitale del Devoto Oli del 2017 si può vedere facilmente che le parole comparse nel nuovo Millennio sono 1.049, e di queste ben 509 sono in inglese crudo, dunque circa il 50% (una media di circa 30 anglicismi nuovi all’anno). Ma si tratta di un dato grezzo: se si va più a fondo si scopre che il problema principale di questi 509 anglicismi sono le lacune. A queste parole “crude” bisognerebbe infatti aggiungere molti semiadattamenti o parole miste che costituiscono di fatto “corpi estranei” inglesi: per esempio non compare antimobbing, così come sono assenti molte parole come whatsappare, bloggare, twittare e ritwittare… Insomma, con una ricerca più accurata e manuale emerge come gli anglicismi superino il 50% dei neologismi.

zingarelli neologismi anglicismi
Zingarelli, edizione digitale del 2017: a sinistra i neologismi del nuovo Millennio e a destra gli anglicismi del nuovo Millennio.

Le percentuali non cambiano di molto se si analizza l’edizione digitale dello Zingarelli 2017: le parole datate dal 2000 in poi sono 412 di cui 178 in inglese puro, cioè il 43,2%. Ma ancora una volta in queste estrazioni automatiche ci sono molte lacune che attraverso analisi più minuziose fanno salire le percentuali: la parola numero 17 (a sinistra), antiglobal, non esce automaticamente tra gli anglicismi a destra, anche se di fatto lo è, e oltre ai casi del Devoto Oli anche da questo elenco sono assenti molte parole da fashionista o googlare, che se prendiamo invece in considerazione fanno lievitare ulteriormente le percentuali.

Semplificando, si può tranquillamente affermare che la metà dei neologismi del Duemila è in inglese crudo. E chi dice che attingere dalle lingue straniere è un fenomeno che c’è sempre stato e “normale” dovrebbe invece riflettere sui numeri, più che sugli schemini astratti: non è affatto normale, è un segnale di allarme gravissimo. E infatti, i francesismi del nuovo Millennio sono solo 5 per lo Zingarelli (contro 6 ispanismi, 1 germanismo e 3 parole giapponesi) e 12 per il Devoto Oli (che registra 5 ispanismi e 0 germanismi). La sproporzione è evidente: queste ultime sì che sono percentuali “normali” e che non destano alcuna preoccupazione, l’interferenza dell’inglese è invece una vera e propria colonizzazione lessicale che sta soffocando e facendo regredire la nostra lingua come una piaga.

Se si analizzano gli anglicismi nei linguaggi di settore, ancora più preoccupante è la perdita di un lessico in italiano in molti ambiti, a cominciare dall’informatica, dove per lo Zingarelli ci sono ben 232 anglicismi su 737 parole marcate a questo modo, e per il Devoto 0li 417 su 980. E allora è ancora possibile parlare di informatica in italiano o siamo costretti a usare l’itanglese? Questo è il bel risultato che nel giro di un solo ventennio ci ha portato la strategia di importare anglicismi crudi e basta, grazie all’espansione delle multinazionali, ai terminologi sul loro libro paga che affermano come fosse una verità (e non la loro pessima strategia) che “i termini non si traducono” e a chi crede che “essere internazionali” equivalga a parlare la neolingua globale dei mercati, l’angloamericano, invece che guardare agli esempi davvero internazionali per esempio di Paesi come la Francia e la Spagna che non si vergognano certo della propria lingua né di tradurre e adattare.

Fuori dall’informatica, le cose non sono molto diverse in settori come il mondo del lavoro, l’economia, la tecnologia e persino la scienza, come ha denunciato Maria Luisa Villa:

Possiamo “permetterci di abbandonare l’italiano come lingua viva nella comunità nazionale, consegnando il dibattito sui temi della scienza a un linguaggio diverso da quello primario? Non abbiamo invece il compito di preservare l’uso dell’italiano scientifico per permettere un livello di comprensione pubblica sufficiente perché tutti possano godere dei diritti, ed esercitare i doveri di buon cittadino?”.

[Maria Luisa Villa, L’inglese non basta. Una lingua per la società, Bruno Mondadori, 2013., p. 7].

Cosa sarà dell’italiano fra 50 anni se tutto ciò che è nuovo si esprime in inglese crudo e si rinuncia a tradurre, adattare e coniare nuove parole italiane? Cosa accadrà alla nostra lingua se questa è la strategia evolutiva che abbiamo adottato?

La risposta a queste domande retoriche è facile, ma forse è bene ricordare gli ammonimenti di importanti linguisti, come Gian Luigi Beccaria:

“Se puntiamo su una lingua diversa dalla materna come lingua delle tecnoscienze, assisteremo a un nostro rapido declino come società colta. L’italiano, decapitato di una sua grossa parte, decadrà sempre più a lingua familiare, affettiva, dialettale, straordinariamente adatta magari per scrivere poesia ma incapace di parlare ai non specialisti di economia o di architettura o di medicina”.

[Gian Luigi Beccaria, Andrea Graziosi, Lingua madre. Italiano e inglese nel mondo globale, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 116].

O come Luca Serianni:

“Una lingua che rinunciasse a esprimersi in aree culturalmente centrali, come la scienza e la tecnologia, sarebbe destinata a diventare nell’arco di pochi anni un rispettabilissimo dialetto: adatto alla comunicazione quotidiana e alla poesia, ma inadeguato a cimentarsi con la complessità del presente e con l’astrazione propria dei processi intellettuali”.

[Luca Serianni, “Conclusioni e prospettive per una neologia consapevole”, Firenze, Società Dante Alighieri, durante il convegno del 25 febbraio 2015].

Childfree e childless

Gentile Michela Andreozzi,

sul Corriere di ieri leggo che vorrebbe aprire un concorso per trovare un neologismo italiano per spiegare la differenza tra chi come lei si definisce childfree, consapevolmente senza figli, e chi invece è childless, cioè non ha figli suo malgrado.

Mi piacerebbe tanto partecipare a questo concorso, ma ci sono molti ma…

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La questione non è tanto che in italiano ci manchino le parole, il punto è che ci piace dirle in inglese.

Una donna che non ha uno spirito materno – o un uomo apaterno, non paterno, visto che questa scelta riguarda anche l’universo maschile – potrebbe essere benissimo definita come amaterna o non materna. E una donna che non ha figli suo malgrado potrebbe essere semplicemente una mamma mancata, che potremmo dire spiritosamente mammancata se proprio c’è la necessità di esprimere questo stato d’animo con una parola nuova.

Sono consapevole che queste alternative suonino ridicole. E proprio questo è il cuore della faccenda.

Si potrebbero inventare tantissime altre parole più evocative delle mie, ma probabilmente suonerebbero brutte, insolite, per il semplice fatto che le parole devono entrare nell’uso, non solo esistere, e come notava già Leopardi le parole che muovono le risa sono quelle che non siamo abituati a sentire. Solo l’abitudine ce le fa apparire belle o brutte.

La questione che lei pone è analoga a quella dei single.

Single per scelta.
Di chi? Tua o degli altri?

Questa è l’immancabile battuta che si sente ripetere chi si dichiara single, orgogliosamente oppure con la malcelata disperazione di una zitella. Anche in questo caso manca una parola per esprimere questa differenza non troppo sottile. Ma forse non si sente l’esigenza di coniarla.

Perché ricorriamo all’inglese?
Un tempo chi non era sposato era signorino e signorina, parole oggi cancellate anche dal linguaggio burocratico-amministrativo. C’era scapolo, nubile, celibe… Chi le usa più nel linguaggio di tutti i giorni? Al massimo circola singolo, inizialmente un falso amico, che per influsso dell’inglese ha cominciato a designare non più solo ciò che è unico, ma anche chi è single.

Ecco, tornando alla genitorialità mancata e non voluta, anche se avessimo parole italiane per esprimere questa differenza, mi permetta di dubitare che queste parole sarebbero preferite all’inglese.  Mi permetta di dubitare anche che dirle in inglese risolva tutto, perché un italiano medio non capisce affatto la distinzione tra childfree e childless, che infatti necessita di una spiegazione per risultare comprensibile.

Essere senza prole per scelta e trovarcisi nostro malgrado è come trovarsi senza parole (italiane) per scelta (perché si preferisce dirle in inglese), ed essere senza parole nostro malgrado, perché non ci sono. A volte usare locuzioni più lunghe può essere un buon inizio. In fondo childfree e childless, anche se si scrivono attaccate, in inglese sono parole composte: child + free o less. Questo è un aspetto dell’inglese che i linguisti hanno trascurato e non hanno mai approfondito né colto, probabilmente. Eppure basta consultare i dizionari: quasi la metà degli anglicismi in italiano sono locuzioni o parole composte, non sono affatto “prestiti isolati” come nel caso di tutti gli altri forestierismi. E per questo si moltiplicano e si intrecciano con un effetto domino sempre più contagioso. Se oggi si stanno imponendo nell’italiano è perché le loro radici circolano in tanti altri composti e locuzioni che si ricombinano tra loro in tutti i modi.

Less (= senza) ricorre in cordless e wireless (rispettivamente apparecchi o connessioni senza fili), in ticketless (biglietto digitale, telematico, virtuale), in homeless (senzatetto)…  e free lo troviamo nei prodotti carbon free (privi di emissioni di carbonio), fat free, gluten free (senza grassi e senza glutine) e nei duty free (zone franche o negozi esentasse).

Questo è l’inglese che straripa nella nostra lingua sempre più incontrollato. Crediamo che gli anglicismi siano dei “prestiti” cui attingere quando non abbiamo le parole, e dunque qualche linguista definirebbe childfree e childlessprestiti di necessità“, usando categorie ridicole e obsolete di più di cent’anni fa che non sono in grado di dare una spiegazione al fenomeno dell’itanglese. Ma la realtà è un’altra. Gli anglicismi costituiscono una rete che si allarga nel nostro lessico, una lingua nella lingua, che spesso fa morire le parole italiane anche quando ci sono. È su questo sostrato che poi diventa impossibile proporre alternative italiane.

Chi dice più pluriomicida davanti a serial killer? E calcolatore/elaboratore davanti a computer? Stanziamento o tetto di spesa invece di budget? E notizie false invece di fake news? Questi sono prestiti sterminatori. Parole che sono entrate in modo dirompente e da “prestiti di lusso” si sono trasformati in “prestiti di necessità”, non perché ci manchino le parole, ma perché i parlanti – come lei che nell’articolo dice di avere fatto coming out, invece che per esempio una pubblica ammissione o dichiarazione – le vogliono dire in inglese.

In questo contesto, pensare di creare neologismi italiani suona utopistico. Il punto non è saperli creare, ma usarli! E invece, stando ai dati di Zingarelli e Devoto Oli, praticamente la metà dei neologismi del Nuovo millennio sono in inglese. Vero o presunto non importa. Basta che suoni inglese. Come i no vax, che in inglese sono gli anti-vaxxer, ma da noi si dice no vax perché abbiamo interiorizzato una regola: no global, no comment, no cost, no limits, no logo… dunque: vaccino si dice vax? E allora un bel no vax viene ormai spontaneo. Non ci mancano le parole in questo caso, ma invece di antivaccinisti preferiamo usare un inglese maccheronico.

Che cosa ne sarà della nostra lingua se andiamo avanti così? Diventerà la lingua dei morti, incapace di esprimere tutto ciò che è nuovo, che diremo in simil-inglese.

Venendo a childfree, l’unica possibilità è che chi si identifica in modo orgoglioso in questo concetto dovrebbe in modo altrettanto orgoglioso proporre un’alternativa italiana. In Francia circolano espressioni orgogliose come “Sans enfant par choix” o la “Fête des Non-Parents”. Da noi si potrebbe parlare di consapevolezza della procreazione, la scelta non procreativa è un fenomeno della società di oggi che merita di essere detto in italiano. Che ne dice delle posizioni dei non genitorialisti? Dei senza prole? Senza figli per scelta? Prole-scettici? Non bambinisti? Senza eredi? Senzabimbi? Solitari? Antiprole? Amaterni e apaterni?

Sono consapevole che le mie proposte non saranno soddisfacenti per vincere il suo concorso. Le propongo perciò di inventare lei una parola o un’espressione italiana che le piace di più e che sente di poter rivendicare con orgoglio. E la prossima volta che la intervisteranno su un giornale la gridi forte. Forse anche i giornalisti la ripeteranno. Forse si diffonderà. Non importa quale parola, l’unica cosa che importa è che si propaghi. La lingua italiana evolve o involve a questo modo. Non bisogna aspettare che qualche linguista ci dica qual è la parola adatta. Creare neologismi non è compito dei linguisti, caso mai dei giornalisti, e anche degli uomini di spettacolo come lei, di chi ha la possibilità di rivolgersi a un largo pubblico e di farsi ascoltare da tante persone.

La lingua la facciamo tutti noi parlanti e la fanno i mezzi di informazione. Il problema non è quello di inventare neologismi, il problema è smettere di preferire l’inglese. Dobbiamo cessare di vergognarci di dirlo in italiano e spezzare la convinzione che dirlo in inglese sia moderno e figo, mentre invece molto spesso è semplicemente deleterio e ridicolo.

Anglicismi: dai singoli “prestiti” a una rete di parole interconnesse che colonizza interi settori

Interpretare i forestierismi come “prestiti” è una semplificazione ingenua che può andare bene quando il numero delle parole coinvolte è molto limitato. Nel caso del giapponese, per esempio, ci sono poco più di 50 vocaboli non adattati accolti nei dizionari, come:

aikido, anime, banzai, bonsai, emoji, futon, geisha, haiku, harakiri, hentai, hikikomori, judo, judoka, jujitsu, kabuki, kamikaze, karaoke, karate, katana, kendo, manga, mikado, origami, reiki, samurai, sashimi, shiatsu, sudoku, sumo, surimi, sushi, tatami, tofu, tsunami, wasabi, yen.

A parte qualche altra parola meno popolare e altri termini che derivano dal giapponese ma sono stati italianizzati (chimono, saké, soia, tempura…), non c’è molto altro da dire: considerare queste parole come “prestiti” tutto sommato è una classificazione che regge. Quando invece le importazioni sono circa 3.500, come nel caso dell’inglese, la teoria dei prestiti si rivela una categoria inadeguata e insufficiente per spiegare cosa sta accadendo, perché l’interferenza linguistica diventa un fenomeno ben più profondo, complesso e di tutt’altra portata.


Da una singola voce alle famiglie di anglicismi: un fenomeno trascurato

Se si analizza come sono entrati gli anglicismi da un punto di vista storico, è evidente che in larga parte non sono affatto prestiti isolati, ma si tratta di intere famiglie di parole che entrano e prolificano con diverse modalità.

Alcune volte si afferma e si diffonde un “prestito” che inizialmente è isolato, ma per la sua popolarità, con il tempo permette l’entrata di molte locuzioni collegate, come è avvenuto nel caso di → manager che ha poi portato al diffondersi di decine e decine di locuzioni come sales manager, top manager, area manager, brand manager, general manager, marketing manager

Altre volte succede il contrario: prima entra qualche parola composta, come tea-room o living room, e con il passare degli anni queste locuzioni si moltiplicano (press room, showroom, control room…) fino a che la parola madre, → room, anche se non è un lemma a sé dei dizionari, finisce lo stesso per entrare nella disponibilità di tutti.

Questo fenomeno è davvero trascurato dagli studiosi, ma mi pare fondamentale per rendere conto dell’interferenza linguistica in modo adeguato. Per fare un altro esempio di questi “prestiti” che creano una rete di vocaboli tra loro interconnessi, si può analizzare il caso di food, arrivato negli anni Ottanta attraverso fast food. Nel Devoto Oli del 1990 era l’unica occorrenza dell’anglicismo, ma oggi food designa l’intero settore dell’alimentazione e, nella grande distribuzione, il non food indica addirittura il settore non alimentare. Nel frattempo, infatti, sono comparsi i food corner (aree di ristorazione), il junk food (cibo spazzatura, 1987) o trash food (2001), lo slow food (marchio registrato italiano, 1989), il pet food (cibo per gli animali, 1992), lo street food (cibo di strada, 2000), il finger food (cibo al cartoccio, 2001), il comfort food (cibo consolatorio, 2002) e il food design (2006). Insomma, si è passati da 1 lemma (fast food, 1982) a 12: siamo andati oltre la decuplicazione in poco più di 30 anni. Ma la storia è destinata ad aumentare, visto che, fuori dai dizionari, tra gli anglicismi in circolazione si registra il food porn, e tra le notizie dei giornali si trovano i fattorini del food delivery, il social food e i food blogger, e poi gli eventi o le aziende food

Questa proliferazione di parole composte, naturalmente, non riguarda solo food, le stesse considerazioni valgono per gli altri elementi degli esempi: street (street food ma anche street art, street artist, street culture, street parade, street style), design (food design, fashion design, game design, graphic design, industrial design, interior design), pet (pet food, pet therapy, pet friendly, pet sitter) e via dicendo.

Espressioni come pet sitter, dog sitter o cat sitter, a loro volta, sono possibili perché sono state precedute da baby sitter (cfr. → “La maledizione della baby sitter e i composti di baby”), che non è un prestito isolato e “innocente”, è diventato un modello che ha permesso l’entrata di questi neologismi che circolano ormai senza alternative italiane, visto che si appoggiano a un’espressione divenuta estremamente popolare.

La parola baby, a sua volta, è stata assimilata nell’italiano e ha prodotto innumerevoli composti diventando un suffissoide che genera una quantità impressionante di altre parole e di accezioni che in inglese non esistono, sono dunque pseudoanglicismi. Il secondo elemento, sitter, non è particolarmente diffuso e prolifico, però è illuminante per esemplificare la proliferazione delle parole in -er. È evidente che, se sono centinaia, si finisce per interiorizzare nella nostra lingua una struttura inglese. Se chi fa design è un designer, chi uccide è un killer, chi fa surf è surfer, chi ferma il pallone è stopper, chi perseguita è uno stalker, uno spacciatore è un pusher, un controllore è controller, poi succede che un decodificatore è detto decoder, che un acquirente diventa uno shopper, e che da blog, chat, rock, rap, spam si ricavino blogger, chatter, rocker, spammer e non bloggatore, chattatore, rockettaro, rappatore e spammatore.

A questo punto dovrebbe essere più evidente che abbiamo a che fare non con singoli prestiti isolati, come nel caso del giapponese, ma con una rete di parole che con il tempo si allarga.

La rete di anglicismi in –ing

Torniamo a baby sitter. Tra le altre diramazioni ci sono anche baby parking, visto che parking era già diffuso, e babysitting una variazione in –ing che si è affiancata alla derivazione più italiana di babysitteraggio. Le parole in –ing (che includono gerundi ma anche participi e aggettivi) sono centinaia e centinaia.

Dopo lo stalking e il mobbing (in inglese poco usato), nel linguaggio della giurisprudenza questo “modello” si è diffuso portando nelle sentenze parole come grooming (adescamento dei minori), bossing (i soprusi del capoufficio, pseudoanglicismo) o straining (definito dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 3977 del 19/02/2018 una forma attenuata di mobbing).

Se c’è il job sharing e il car sharing ecco che allora si può introdurre anche il bike sharing, il file sharing, il video sharing, la sharing economy (visto che c’è la new economy, la net economy, la old economy, la green economy e l’economy class); se arriva il bird watching e si afferma invece di osservazione ornitologica, si apre la strada a whale watching (per le balene), fish watching (per i pesci), skywatching (per il cielo) e bio watching.

In informatica c’è il mail bombing, il mailing e le mailing list. Ci sono l’hosting e l’housing, il data processing e il batch processing,  il  debugging, l’editing, l’engineering, il morphing, il multitasking, lo spamming e il caricamento diventa loading, grazie alle mancate traduzioni delle interfacce dei programmi informatici.

Nello sport c’è il dribbling e il pressing, il doping, il trekking, il walking, il running, il footing e il jogging, il bungee jumping (salto con l’elastico) e il base jumping (paracadutismo da fermi), il canyoning (torrentismo), lo spinning che poi genera l’hydrospinning e l’acquaspinning,  mentre dal bodybuilding si esce dallo sport con il body painting e il body sculpturing (liposuzione).

La desinenza in -ing porta da brand a branding, si trova in brainstorming, bookcrossing, booking e overbooking negli alberghi; da bank si genera banking e dunque banking online, home banking, mobile banking, internet banking, e-banking, phone-banking, remote banking, e poi c’è il trading, l’e-trading o trading online e il day trading, visto che c’è già la base dell’insider trading. Dallo shopping si arriva all’e-shopping passando per i shopping center; e poi il coaching,  il counselling, le cohousing, il couponing, il coworking, il couchsurfing, il crowdfunding e il crowdsourcing. C’è il marketing, il merchandising, il naming, il  networking, il problem solving, il caravanning, il casting, il broadcasting, il podcasting e il webcasting e persino nel mondo del porno spopolano parole come pissing o squirting.

E ancora lifting e restyling, roaming, scouting, scrolling, self publishing, spelling, storytelling, stretching, timing , screening… la messa in piega dei capelli è brushing, e davanti alle desinenze in –ing appiccicate alle parole inglesi di alta disponibilità non c’è da stupirsi se dressing da condimento per le insalate, in italiano viene usato nel gergo della moda con il significato errato di abbigliamento (dress è abito, ma l’abbigliamento sarebbe clothing).

Ho scelto solo qualche esempio tra i più diffusi, ma questo elenco in –ing continua, perché nei dizionari se ne trovano molti di più dalla A di aquaplaning alla Z di zapping. Il che significa semplicemente che in italiano ci siamo abituati alle desinenze in –ing e le stiamo interiorizzando come fossero normali.

In conclusione: l’interferenza dell’inglese non si può ridurre né spiegare come una semplice raccolta di prestiti isolati. Siamo in presenza di una rete e una struttura alloglotta che entra nel nostro lessico e prolifera. Si tratta di un fenomeno nuovo, di massa, dalla portata potenzialmente devastante, che non ha precedenti in alcuna epoca passata e che non ha eguali nemmeno quando il francese rappresentava la lingua di moda che ci influenzava con moltissimi “prestiti” non adattati. Si tratta di un fenomeno dalla velocità sconcertante: in 70 anni, nell’arco di una sola generazione, abbiamo importato un numero di anglicismi interconessi e sempre più fitti che stanno cambiando il volto dell’italiano con suoni estranei alla nostra tradizione, con nuove regole aliene alla nostra grammatica.

Gli anglicismi non sono parole isolate, sono semi che attecchiscono in modo virale perché al contrario di ciò che avviene in altri Paesi in Italia non abbiamo anticorpi e da noi trovano il clima favorevole per moltiplicarsi a dismisura e incontrastati. Queste parole stanno colonizzando intere aree di settore, come l’informatica, la moda, il lavoro, molti ambiti dell’economia, dello sport, delle leggi, della politica… È il segnale che il lessico dell’italiano storico è destinato a cambiare, ad anglicizzarsi sempre maggiormente e corre seriamente il rischio di trasformarsi in itanglese, perdendo la propria  identità.

La presenza di anglicismi e altri forestierismi dallo spoglio del Devoto Oli

I linguisti che si dichiarano “non preoccupati” per la presenza degli anglicismi nella lingua italiana hanno una visione “statica” del fenomeno. Se si mostra loro che un dizionario come il Devoto Oli registra attualmente circa 3.500 parole inglesi, rispondono che comunque rappresentano solo il 2 o 3% di tutte le voci presenti in un vocabolario. Ma questo modo di annacquare gli anglicismi e di spalmarli su tutti i lemmi di un dizionario (quelli monovolume raccolgono dalle 100.000 alle 150.000 voci) non è un criterio utile per comprendere come stanno le cose, per molte ragioni.

Occorre un’analisi lessicale storica e per categorie grammaticali

Per prima cosa i dizionari registrano molte voci arcaiche, disusate, poetiche… e queste andrebbero tolte dai conteggi delle percentuali degli anglicismi, che sono invece parole moderne. Ma, soprattutto, va detto che per oltre il 90% dei casi, le parole inglesi sono sostantivi e in maniera minore aggettivi e un’infiltrazione concentrata in questi ambiti non può essere trascurata.

Se si analizzano per esempio i verbi, il Devoto Oli  ne registra circa 10.000 e tra questi ce ne sono solo un centinaio costituiti da semiadattamenti come googlare, downloadare, backuppare… che complessivamente non rappresentano una percentuale preoccupante e tale da modificare il nostro sistema verbale: si attestano intorno all’1% dei verbi.

Nello stesso dizionario, al contrario, i sostantivi registrati sono più o meno 65.000 (cifra che include circa 900 francesismi e 3.000 anglicismi) e se si escludono le voci “morte” il loro numero scende ben al di sotto di 60.000.

Comunque sia, considerando circa 3.000 sostantivi inglesi su un totale di 60.000, ecco che la percentuale dei sostantivi inglesi diventa circa del 5%, che comincia a essere un numero molto invadente, soprattutto perché, se si vanno a guardare i neologismi del Nuovo millennio, gli anglicismi rappresentano ben la metà delle parole nuove!

E allora conviene passare da una visione statica a una dinamica: bisogna cioè analizzare il fenomeno dell’inglese che penetra nella nostra lingua non come un’istantanea, ma come un flusso che cresce in modo esponenziale, ed è per questo che è preoccupante.


L’aumento degli anglicismi dall’Ottocento a oggi

L’entrata delle parole inglesi è un fenomeno che comincia a diventare massiccio dal secondo dopoguerra. Dal grafico costruito sulla base dello spoglio di Zingarelli, Devoto Oli e Sabatini Coletti si può capire meglio come stanno le cose: nella prima colonna gli anglicismi datati prima dell’Ottocento, nella seconda quelli dell’Ottocento e nella terza quelli del Novecento.

 

GRAFICO 4.1
Le datazioni e il numero degli anglicismi non adattati di Zingarelli, Devoto Oli e Sabatini Coletti sino al Novecento (A. Zoppetti, Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 81).

Davanti a questi dati non si può fare finta di niente e rispondere che l’influsso dell’inglese è ancora poca cosa: la nave imbarca acqua, e bisogna capire come arginare la falla invece di dire che ci sono solo 2 o 3 dita, se non si vuole finire con l’andare a fondo!

Per comprendere meglio i numeri, è utile fare un confronto tra forestierismi analizzando anche i francesismi e gli ispanismi, che rappresentano le due lingue che storicamente ci hanno maggiormente influenzati (al quarto posto ci sono i germanismi, mentre il contributo delle altre lingue si attesta su valori molto più insignificanti). Dalle datazioni che si ricavano dal Devoto Oli, risulta che fino all’Ottocento era il francese a costituire la lingua con un maggiore apporto di forestierismi non adattati, e che dopo la seconda metà del Novecento è successo qualcosa di anomalo e grave che non ha precedenti storici!

Va precisato che i numeri che emergono dalle datazioni digitali sono grezzi, in altre parole hanno margini di errore stimabili intorno al 10% rispetto a quelli che si possono ottenere da analisi raffinate e più ponderate. Più nel dettaglio, nelle analisi grezze, quando una parola non ha indicata una data precisa, ma solo un riferimento al secolo, può capitare che una stessa voce compaia sia nella prima metà del Novecento sia nella seconda (è il caso di “access provider”, per esempio), il che spiega perché la somma dei forestierismi di prima e seconda metà del Novecento non corrisponda esattamente al numero degli anglicismi dell’intero Novecento, ma si tratta di un margine di errore trascurabile, visti gli ordini di grandezza. Ecco perché dal Devoto Oli risulta che nell’Ottocento sono entrati 187 anglicismi (contro i 244 francesismi e i 75 ispanismi) di cui 42 nella prima metà del secolo (contro 79 dal francese e 36 dallo spagnolo) e 152 nella seconda metà (contro 173 dal francese e 53 dallo spagnolo).

Questo equilibrio si spezza nella prima metà del Novecento quando, con il finire dell’epoca della Belle époque, entrano 747 anglicismi (contro 366 francesismi e 6 ispanismi), per poi impazzire definitivamente nella seconda metà del Novecento con 2.077 parole inglesi non adattate (contro 296 francesi e 32 spagnole).

Nel Nuovo millennio (al 2017) gli anglicismi accolti sono 509 (contro 12 francesismi e 5 ispanismi) e nel grafico ho provato a ricostruire la situazione in modo visivo.

Anglicismi entrati storicamente
Le datazioni e il numero di francesismi, ispanismi e anglicismi non adattati nel Devoto Oli 2017.

Per la cronaca: i neologismi del nuovo Millennio sono in tutto 1.049, dunque la metà di essi sono parole inglesi. Ma passando dai dati grezzi a ricerche raffinate, le cose stanno anche peggio, perché sotto gli anglicismi non sono incluse parole semiadattate come i verbi switchare, spoilerare e via dicendo, né le altre parole derivate dall’inglese (selfone, customizzazione, fashionista…) che farebbero salire di non poco le statistiche e porterebbero il numero degli anglicismi del Duemila a essere maggiore di quello dei neologismi autoctoni che riusciamo a produrre.

E allora qual è il destino del lessico italiano davanti a questi dati?
Quale sarà l’italiano del futuro se le cose non cambiano?

La mia previsione è che sarà itanglese. In sintesi: la struttura dell’italiano, la sintassi e i verbi saranno sostanzialmente quelli di ieri e di oggi, mentre i sostantivi saranno in percentuale sempre più ampia parole inglesi, dalle regole ortografiche e fonetiche diverse dall’italiano storico. La nostra lingua sarà sempre più inadatta a descrivere le cose nuove, che si diranno in inglese, soprattutto negli ambiti tecnologici, scientifici e lavorativi.

Si può ancora definire “italiano” un simile idioma? Per gli anglopuristi probabilmente sì, per me no. In gioco c’è l’identità dell’italiano del futuro!

Chi definisce i forestierismi come dei “doni” e li vede come un arricchimento dovrebbe guardare il fenomeno dell’inglese nel suo divenire. Allora si renderebbe conto che il problema non è nel purismo o nel neopurismo, ma è semplicemente nel loro numero! L’esplosione dell’inglese è impazzita e non ha più controllo: sette secoli di influenza del francese hanno generato migliaia e migliaia di francesismi italianizzati, ma meno di 1.000 francesismi non adattati. Invece, in soli 70 anni, nell’arco cioè di una sola generazione, abbiamo importato 3.000 parole inglesi (e solo un ulteriore migliaio di parole inglesi italianizzate)! Non siamo più capaci di tradurre e di adattare, non sappiamo (o non vogliamo) creare neologismi al posto degli anglicismi e spesso preferiamo usare l’inglese anche in presenza di parole italiane che in questo modo regrediscono.

Una lingua è in grado di sopportare una proliferazione così massiccia e rapida senza snaturarsi e perdere la propria identità?

Puristi, neopuristi e anglopuristi

Ogni volta che mi trovo a spiegare e difendere le mie tesi su anglicismi e itanglese è sempre la stessa storia: devo affannarmi a precisare che non sono affatto un “purista”.

Difendere la lingua italiana davanti all’eccesso di anglicismi che caratterizza il nuovo Millennio non ha niente a che vedere con il purismo, riguarda invece la tutela di ciò che è locale davanti alla globalizzazione. È un problema di ecologia linguistica di fronte all’espansione delle multinazionali americane che, come effetto collaterale, insieme ai loro prodotti impongono in tutto il mondo anche il loro linguaggio. Quello che è in gioco è il pluralismo linguistico internazionale, che come la biodiversità è una ricchezza, non un segno di arretratezza; ma è minacciato da una fortissima mentalità monolinguista basata sull’angloamericano.

L’epoca del purismo è morta e sepolta, e oggi le cose vanno lette con ben altre categorie che devono rendere conto del presente e del futuro invece di guardare al passato.

Che cos’è il purismo?

Il purismo si può fare risalire alle posizioni di Pietro Bembo (XVI secolo), un esponente di spicco dei cosiddetti “ciceroniani” che, impregnato del mito dell’età dell’oro, considerava il latino la massima perfezione della lingua: i modelli più alti e irraggiungibili erano per lui Virgilio per la poesia e Cicerone per la prosa. Il punto di partenza delle Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua era che il latino si fosse corrotto nel volgare a contatto gli idiomi degli stranieri arrivati con le invasioni, e che il modello dell’italiano ideale si dovesse rintracciare nella letteratura del Trecento più vicina al latino e cioè la poesia di Francesco Petrarca e la prosa di Giovanni Boccaccio (Dante era invece considerato come un poeta privo di “decoro”).
Alla fine del Cinquecento, sorse a Firenze l’accademia della Crusca che sposava questo principio e aveva come scopo quello di separare il “fior di farina”, cioè la buona lingua costituita dal fiorentino trecentesco, dalla “crusca” in senso dispregiativo, le male parole impure e poco digeribili che proliferavano: il lessico dialettale, i neologismi e i forestierismi. Nel 1612 vide così la luce il Vocabolario degli Accademici della Crusca, un’opera senza precedenti nelle altre lingue europee, che pur possedevano già la loro precisa identità. Va detto che al di là degli intenti puristici stretti, il vocabolario fu nei fatti molto più aperto, soprattutto nelle successive edizioni. Infatti Dante fu rivalutato e la prima edizione dell’opera partì proprio dallo spoglio degli scritti delle “tre corone”: le parole “lecite” della lingua italiana erano dunque quelle usate da Dante, Petrarca e Boccaccio.

Gli oppositori al purismo aperti agli internazionalismi

Molti autori si opposero alle posizioni di Bembo e della Crusca, e rivendicarono la dignità degli altri dialetti e i contributi di altre lingue. L’obiezione più forte era che, staccandosi dal linguaggio vivo, il rischio era quello di parlare la “lingua dei morti” del Trecento. Intanto, nel corso del Cinquecento e del Seicento, sia davanti alle importazioni di nuove “cose” che arrivavano dal Nuovo mondo e dall’epoca delle grandi esplorazioni, sia davanti ai progressi tecnici e scientifici, le parole “nuove” erano sempre di più. E così, nel Settecento, Alessandro Verri, dalle pagine del Caffè, lanciò la celebre “Rinunzia al Vocabolario della Crusca”, un vero e proprio manifesto contro il purismo e il conservatorismo linguistico in nome della modernità:

“Se il Mondo fosse stato sempre regolato dai Grammatici” non avremmo né case, né carrozze, né industria.

La conclusione fu la “solenne rinunzia” alla pretesa purezza della toscana favella:

“Se italianizzando le parole francesi, tedesche, inglesi, turche, greche, arabe, sclavone, noi potremo rendere meglio le nostre idee, non ci asterremo di farlo.”

 

Vorrei fare notare la parola “italianizzando”, una parola chiave per comprendere la natura di queste critiche. Se i puristi condannavano i neologismi e le parole di origine straniera in nome del toscano, va detto che tutti i più aperti sostenitori della modernità, da Machiavelli a Muratori, da Leopardi a Verri, non pensavano affatto di importare migliaia di parole straniere senza italianizzarle!

E allora cosa accomuna le posizioni dei più accesi puristi fustigatori dei barbarismi e quelle dei più aperti e moderni sostenitori di francesismi, anglicismi e internazionalismi di ogni epoca?

Il fatto che nessuno si sognava di fare entrare nel nostro lessico migliaia di forestierismi non adattati.


Dal purismo all’anglopurismo

Nel corso del Novecento, caduta la supremazia del toscano e raggiunta l’unità linguistica dell’italiano parlato, oltre a quello letterario, si è diffuso un atteggiamento moderato definito neopurista, rappresentato per esempio da Bruno Migliorini, che non respingeva a priori i forestierismi, ma valutava caso per caso cercando di adattare le innovazioni alla struttura fonologica e morfologica della nostra lingua con molta tolleranza. E il criterio di sostituire gli esotismi solo quando è possibile o di adattarli (regista invece di regisseur, clic invece di click) sarebbe un criterio auspicabile anche oggi. Ma le soluzioni avanzate ancora negli anni Ottanta da Arrigo Castellani, che proponeva invano adattamenti come fubbia (fumo + nebbia) al posto di smog (smoke + fog) o di guardabimbi per baby sitter appartengono ormai al passato e ci fanno sorridere.

Se un tempo i puristi, nel loro difendere e conservare la lingua italiana classica, rappresentavano contemporaneamente un ostacolo all’evoluzione linguistica, oggi chi sta portando l’italiano a chiudersi in sé stesso per diventare la lingua dei morti è rappresentato proprio dai più aperti sostenitori degli anglicismi che vedono come un segno di modernità e di internazionalizzazione.

Vorrei chiamare questa posizione “anglopurismo”.

Gli anglopuristi si vergognano di italianizzare le parole inglesi, come fosse un segno di ignoranza verso la lingua originale di cui siamo ormai succubi, dunque sono ostili di fronte a soluzioni come rosbif al posto di roast beef, surfista al posto di surfer, blogghista/bloggatore per blogger, scaut per scout o sciampo per shampoo. E in questo modo si apre la strada a migliaia di parole che entrano senza adattamenti violando il nostro sistema ortografico e morfologico con termini che si scrivono e leggono con altre modalità, e dunque rimangono corpi estranei. Il che non è un male in sé, lo diventa quando il loro numero è tale da costituire una rete di parole sempre più fitta che si espande nel nostro lessico portando addirittura all’interiorizzazione di nuove regole estranee alla nostra lingua.

Con il falso alibi dei prestiti di necessità, gli anglopuristi non perdono occasione di introdurre parole inglesi con la scusa che non esisterebbero equivalenti italiani. Questi signori non concepiscono che, quando anche un corrispondente non esistesse, un forestierismo si può anche adattare, tradurre o sostituire con neologismi e nuove creazioni italiane, l’unica soluzione che renderebbe la nostra lingua nuovamente una lingua viva. Gli anglopuristi storcono il naso davanti alle pochissime soluzioni di questo tipo che si stanno diffondendo, come apericena al posto di happy hour, o colanzo al posto di brunch. E davanti a cinguettio invece di tweet si oppongono dicendo che la soluzione italiana non è rispettosa del significato inglese! E più in generale considerano queste parole “brutte” rispetto a quelle inglesi.

Tra gli anglopuristi si annidano anche coloro che sostengono che gli anglicismi spesso non hanno proprio il medesimo significato degli equivalenti italiani: shopping non è proprio come fare compere, dicono, confondendo il risultato dell’acclimatamento della parola che ha assunto in italiano (= fare acquisiti di lusso o per la persona) con il significato inglese, dove anche andare al supermercato è considerato shopping. Curiosamente, questi angloentusiasti non hanno nulla da dire nei confronti di parole come mobbing, che considerano qualcosa di “necessario” e di insostituibile anche se in inglese si usa poco e si ricorre quasi sempre ad altre espressioni come victimization, persecution, harassment, workplace bullying (bullismo sul lavoro), oppure si parla meno tecnicamente di abuse e intimidation.

Soprattutto, gli anglopuristi si rifiutano di allargare il significato di parole storiche e farle evolvere, ampliandole, alla realtà di oggi. E così dichiarano che selfie non è esattamente come autoscatto, è un’altra cosa. Sul sito dell’accademia della Crusca, per esempio, questa tesi è divulgata con una presa di posizione ideologica molto discutibile. Si dice che selfie non è un “prestito di lusso” (come si possano nel nuovo Millennio usare ancora queste categorie obsolete rimane per me un mistero) e che non è “un sinonimo perfetto di autoscatto”.
Però, gli esempi tratti dai giornali a chiusura dell’articolo mostrano chiaramente che non è affatto così: i giornali usano autoscatto con la stessa accezione, esattamente come, nel Devoto Oli 2018, selfie è indicato come termine sostituibile da autoscatto.

I nuovi puristi dell’inglese uccidono l’italiano

Eccolo il nocciolo dell’anglopurismo: si vuole relegare l’italiano alla lingua dei morti, autoscatto viene classificato come parola storica, nei suoi significati del passato, quando esisteva il filo per l’autoscatto o il comando a tempo. Non si vuole allargare il significato di autoscatto in senso moderno e farne una parola adatta per le nuove tecnologie, la si vuole far morire! È in questo modo che gli anglopuristi uccidono l’italiano.

Calcolatore o elaboratore? Roba vecchia! Oggi c’è il computer e basta.

E cat sitter? È un prestito di necessità, evidentemente, dicono. Certo, esiste la parola gattaro, un neologismo degli anni Ottanta, ma si riferisce a chi cura i gatti randagi per passione, non a chi intraprende questa nuova professione che si può dire solo in inglese!

Quello che vorrei chiedere agli anglopuristi è perché la parola gattaro non può evolvere in senso moderno anche per designare una nuova professione.

Perché volete relegare l’italiano alla sua storia invece di farlo evolvere? Perché la metà dei neologismi del nuovo millennio è in inglese? Cose ne sarà della nostra lingua, fra trent’anni, se continuiamo a questo modo?

L’italiano si ridurrà a esprimere il vecchio, e tutto ciò che è nuovo si dirà in inglese.
Quando, nel 1962, durante la crisi tra Cuba e Stati Uniti, si coniò l’espressione hawks e doves, in italiano è stata tradotta con falchi e colombe. Oggi, se Trump parla di fake news, tutti gli apparati mediatici ripetono l’espressione in lingua originale, e le notizie false o le bufale sembra che abbiano un altro significato o un’altra sfumatura.

E allora, è più “purista” chi spera in un italiano che si sappia reinventare e arricchirsi di neologismi, nuove creazioni e adattamenti, visto che è una lingua viva, o chi lo vuole ingessare nel vocabolario storico preferendo ricorrere a parole tecniche in lingua originale senza alterarlo?

Da quale delle due prospettive ne uscirà un italiano che rischia di risultare presto la lingua dei morti?

La politica linguistica francese: impariamo dalla legge Toubon [1]

Se in Svizzera si investe sulla tutela e la promozione dell’italiano, e se da loro si dice l’ora delle domande al posto di question time, la lezione che ci arriva dalla Francia è ancora più significativa, per comprendere cosa significhi avere una politica linguistica e a cosa possa servire.

La storia della politica linguistica  francese

Nel 1965, De Gaulle commissionò a René Étiemble (autore di Parlez-vous franglais?) un rapporto sullo stato della situazione e fu così istituita una commissione per la terminologia dell’amministrazione per individuare le lacune del vocabolario e proporre nuove parole da sostituire ai termini stranieri.
Dopo questo passo arrivarono i primi provvedimenti legislativi: il decreto del primo ministro Jacques Chaba-Delmas, nel 1972, seguito durante il governo Chirac, nel 1975, da una legge firmata Valérie Giscard d’Estaing. Nel 1984 furono invece i socialisti, visto che la difesa della lingua non è né di destra né di sinistra, a presentare un progetto di legge per vietare i forestierismi nelle pubblicità o nelle denominazioni dei contratti di lavoro, e non certo per sciovinismo, ma per “difendere l’integrità della lingua francese” sancita dalla loro Costituzione: l’articolo 2 recita che “la lingua della Repubblica è il francese”. Nel 1985, dopo l’istituzione di una nuova commissione (attraverso un decreto del primo ministro Pierre Mauroy) fu pubblicato un arricchimento ufficiale del vocabolario con una lista di termini proposti da utilizzare nell’amministrazione e nelle professioni, per esempio cadreur (cameraman), distribution artistique (cast), contrôle (check out), conteneur ( container).

La legge Toubon

Nel 1994 è arrivata la legge Toubon, che rende obbligatorio l’uso del francese non solo in ogni atto governativo, ma anche nelle scuole di Stato, nei luoghi di lavoro e nelle contrattazioni commerciali. Per rispetto alla lingua francese e ai francesi, oltre che per la trasparenza della comunicazione, nel linguaggio istituzionale non si possono introdurre anglicismi al posto di termini francesi, e nessun politico può – né si sognerebbe mai – di introdurre act al posto di leggi, tax al posto di tasse, né di riempirsi la bocca di anglicismi ostentati come question time, spending review, stepchild adoption, voluntary disclosure e tutte queste simili porcherie.

Inoltre, sul lavoro è vietato usare termini stranieri, proprio in nome della trasparenza. Non appena un’azienda si stabilisce nel territorio francese, tutti, i contratti e i documenti, inclusi i programmi informatici, in francese logiciel (e non software), devono essere disponibili in francese. Alcune aziende come la General Electric Medical Systems sono state condannate e multate per non aver tradotto in francese le istruzioni dei propri prodotti.

E “Alcune società sono state severamente sanzionate negli ultimi anni dai tribunali per l’uso illegale dell’inglese. Ad esempio, la società americana GEMS, nel marzo 2006, è stata multata di 570.000 euro per aver trasmesso documenti in inglese senza traduzione ai suoi impiegati francesi. Allo stesso modo per Danone”.

Cfr. Itanglese: due punti di vista dall’estero.

 

Le false opinioni dei linguisti italiani

I provvedimenti francesi da noi hanno sempre suscitato perplessità, perché il nostro unico esempio di politica linguistica è stato quello del fascismo, e parlare di queste cose rischia di scatenare reazioni emotive e di pancia, come se l’unica politica linguistica possibile fosse quella del passato.

Nel 1993 Tullio De Mauro così salutava la notizia della legge Toubon:

Mi si chiede di commentare la legge del Toubon. La prima reazione è che si tratti di uno scherzo. Ma fonti autorevoli dicono di no. Il Toubon fa sul serio. Bisogna rassegnarsi (…) Monsieur Toubon crede di potere arrestare ciò impedendo ai francesi di dire jeans o Chinatown.

Tullio De Mauro, “La legge del Toubon…”, La Repubblica, 22 ottobre 1993.

Naturalmente la legge in questione non proibisce ai francesi di dire jeans, questa è un’affermazione falsa e tendenziosa, e usare la lingua francese nei contesti istituzionali è un segno di civiltà che dovremmo imitare invece che schernire. Ognuno parla come vuole, naturalmente, ma per poter esercitare una scelta bisogna che le alternative esistano e circolino. Da noi nessuno le propone e le fa circolare.

Le posizioni di questo tipo di “liberismo linguistico” di De Mauro si basano su quanto diceva anche Gian Carlo Oli: la lingua non va difesa va studiata. Il che è verissimo per un linguista, ma presuppone che una lingua sia in salute. Invece le lingue si possono ammalare e anche morire. Secondo Claude Hagège, ne muoiono ben 25 all’anno, nel mondo, e se oggi quelle vive sono circa 5.000, fra un secolo saranno la metà, se non cambia qualcosa. E la principale minaccia è proprio l’inglese, che

svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle lingue.”

Claude Hagège, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano 2002, p. 7.

E allora cosa succede se, studiando, si scopre che l’italiano è in pericolo?

Quando ho cominciato a occuparmi di anglicismi la pensavo come De Mauro e Oli, non credevo che l’inglese rappresentasse un problema. Ma poi, andando a studiare e a contare ciò che sta accadendo, mi sono accorto che non era così. E se l’italiano è ammalato bisogna intervenire, come cittadini più che come linguisti.

Da tempo si sta facendo strada il concetto di ecologia linguistica. Da tempo la globalizzazione e il monolinguismo stereotipato che conduce all’inglese rappresenta un pericolo per le lingue locali. In Francia e in Spagna lo hanno capito e hanno adottato provvedimenti. In Italia no. E quel che è peggio, importanti linguisti fanno circolare in proposito notizie false, che è ora di smontare, numeri alla mano…

[continua]

La maledizione della baby sitter (e i composti di baby)

Mary_Poppins_la maledizione di baby sitterNel 1933, nel pieno della politica linguistica del fascismo che metteva al bando i forestierismi, Paolo Monelli aveva raccolto 500 esotismi (perlopiù francesi) che condannava dispensando gli equivalenti italiani attraverso il famigerato libro Barbaro dominio. In quest’opera se la prendeva con il termine inglese nurse e con il francese bonne (che poco dopo era attaccato anche dal linguista Bruno Migliorini), usati al posto di bambinaia.

Per la cronaca, agli inizi del Novecento circolava in proposito anche un’alternativa tedesca, Fräulein, letteralmente signorina, ma con un’accezione di bambinaia o di istruttrice di lingua e formazione teutonica. L’espressione baby sitter, invece, non era ancora stata importata, ma esisteva già una sorta di “maledizione” destinata a far preferire gli equivalenti stranieri alle espressioni italiane di bambinaia, balia, governante o tata.

Bonne è oggi una parola disusata; nurse, al contrario, rimane, e riecheggia in derivati come nursing (in italiano assistenza infermieristica) e nursery, il locale attrezzato per la custodia di neonati e bambini molto piccoli che in italiano si dice nido (es. asilo nido), reparto o ricovero dei neonati o neonatale (per es. la nursery o nido degli ospedali dove si custodiscono i neonati dopo il parto) o in generale locale riservato ai bambini, attrezzato per la loro custodia e vigilanza.

L’espressione babysitter (altre volte baby sitter o anche baby-sitter) è arrivata negli anni Cinquanta, e non da sola, i composti di baby si sono da allora moltiplicati in un modo che vale la pena di analizzare nei dettagli, per comprendere come l’italiano stia evolvendo attraverso un’anglicizzazione sempre più massiccia e incontrollata.

baby sitter tata bambinaia nurse
Le frequenze di baby sitter, tata, bambinaia e nurse nel corpus italiano di GoogleBooks Ngram Viewer (1950-2008)

 

L’esplosione dei baby

Nel 1956, la pellicola di Elia Kazan Baby doll, la bambola viva (letteralmente la bambola-neonata) ha reso popolare questo indumento femminile, e proprio attraverso le espressioni dei film, negli anni Sessanta baby è diventato un modo di dire usato anche in modo autonomo (Hey baby!). Intanto si è cominciato a parlare anche del baby boom, l’incremento delle nascite a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, e baby sitter ha incrementato la sua frequenza anche durante gli anni Settanta e Ottanta.

Nel 1983, lo Zingarelli annoverava tra i suoi lemmi solo 3 anglicismi di questa famiglia: baby, baby-doll e baby-sitter, oltre al semiadattamento babysitteraggio.

Nel 1990, nel Devoto-Oli, accanto a quest’ultimo adattamento veniva registrata anche la versione non adattata, baby-sitting, e poi si aggiungeva baby boom, un’espressione ormai stabilizzata. Le parole che contenevano baby erano in totale 6: c’era anche baby market, che però è poi scomparso dai dizionari più recenti, perché non ha avuto fortuna.

Ma per un aglicismo uscito, moltissimi altri della famiglia sono entrati, e nel Devoto-Oli 2017 sono 13: baby (che dopo essere stato anticipato dai composti è diventato un lemma autonomo che il Devoto-Oli e il Vocabolario di base di De Mauro annoverano tra le parole fondamentali della nostra lingua), baby bonus, baby boom, baby boomer, baby criminalità, baby doll, baby gang, baby-parking, babysitteraggio, babysitting, baby sitter, baby soldato e baby talk.

Lo Zingarelli 2017 nel complesso è più parco nell’accogliere questi composti, e ne ammette solo 9, ma tra questi ne annovera 2 che mancano sul Devoto-Oli: baby pensionato e baby killer.

E siccome vocabolario che vai e lemma che trovi, nel Gabrielli la famiglia baby sale a 18 componenti, e si trovano anche babycalciatore, babycampione, babyconsumatore, babycriminale, babydelinquente, babydelinquenza, babypensione e babyspacciatore.

Sul vocabolario  Treccani dei neologismi in Rete vengono registrati anche baby-cantante, baby-lavoratore, baby-paziente, baby-divo, baby-modella, baby azzurro (riferito alla nazionale di calcio), calcio-baby (il calcio giovanile), babygiocatore, baby-atleta, baby-consigliere, baby-discoteca, baby-carnevale, baby-consumista, baby fenomeno e baby-lavoro. Tra le varianti criminose ci sono inoltre baby-ladro, baby-bandito, baby-pirata, baby-estorsore, baby-kamikaze, baby-boss, baby scippatore, baby-prostituta e baby-prostituto, baby-escort e anche baby cliente, e poi baby-accattone. E per finire, ma forse non si finisce affatto, nel 2013 ecco comparire il royal baby, l’erede al trono appena nato.

Baby è diventato un prefissoide che si può appiccicare a qualunque cosa. E in tutta questa anglofilia insensata, va detto che l’uso dell’anglicismo nella lingua italiana spesso non corrisponde affatto ai significati che circolano in inglese. Baby significa neonato, ma da noi diventa un modo per indicare una porzione alcolica ridotta, e come sinonimo di piccolo si ricompone in una serie di parole macedonia affiancando termini italiani, ma anche inglesi, che sono una nostra invenzione, come baby-boss o baby-killer, che in inglese sono espressioni sconosciute (si parla di teenager o juvenile gang leader, o di underage killer e juvenile murderer/killer).

Ma chi se ne frega? L’importante è che suoni inglese, non che sia veramente inglese.

baby
La frequenza di baby nel corpus italiano di Ngram Viewer (1900-2008).

 

Perché preferiamo i suoni inglesi?

In questo contesto, l’affermazione di babysitter si è ormai radicata in modo sempre maggiore.

Negli anni Ottanta il linguista neopurista Arrigo Castellani che proponeva alternative italiane come  fubbia (fumo + nebbia) al posto di smog (smoke + fog), ha coniato guardabimbi al posto di babysitter (cfr. Arrigo Castellani, “Morbus Anglicus”, in Studi linguistici italiani, n. 13, 1987, Salerno Editrice, Roma, pp. 137-153), una parola di immediata comprensibilità e perfetta dal punto di vista della sua struttura, ma che non ha mai attecchito, perché la strada di proporre alternative a tavolino imposte dall’alto nella speranza che i parlanti la utilizzino non è una buona strategia.

“Nel pronunziare o nel sentir pronunziare una lingua straniera, ci piacciono più di tutto quei suoni che non sono propri della nostra”, notava Leopardi.

Giacomo Leopardi, Zibaldone, 17 ottobre 1821, p. [1938].

Anche Ivan Klajn (autore del primo importante studio sugli anglicismi nell’italiano: Influssi inglesi nella lingua italiana, Olschki, Firenze 1972) insisteva sul forte richiamo di ciò che è straniero, soprattutto nelle attività commerciali. E davanti alle proposte di Arrigo Castellani di adattare o tradurre certe espressioni, Anna Laura e Giulio Lepschy osservavano che era proprio per il loro suono e fascino esotico se gli anglicismi erano preferiti (Anna e Giulio Lepschy, “L’italiano visto dall’estero”, in Lettera dall’Italia, anno V, n. 20, ottobre-dicembre 1990, pp. 53-54).

Ed eccola la maledizione di babysitter, simbolo di ciò che succede con moltissimi altri anglicismi: li preferiamo agli equivalenti nostrani anche quando esistono (tata, bambinaia, balia, governante, “guardabimbi”), figuriamoci quando non esistono: l’alibi del prestito di necessità (che ritengo essere una notizia falsa, bufala o fake news, come è di moda dire adesso) apre le porte a ogni genere di anglicismo. Il problema è la quantità eccessiva che ci sta travolgendo e sta completamente ridisegnando il lessico dei nostri sostantivi.

Quando un anglicismo entra nell’italiano si fa posto tra le alternative e ne soffoca alcune accezioni preesistenti, in modo insensato da un punto di vista logico.

“Vi sono delle situazioni in cui un prestito considerato di lusso assume le vesti di un prestito di necessità in quanto il significato denota una differenza simbolica e semantica ormai affermata. È, ad esempio, il caso della baby-sitter. L’anglicismo in questione indica una persona, che custodisce i bambini durante l’assenza dei genitori, con la connotazione verso le persone piuttosto giovani, mentre ‘bambinaia’ connota una persona, di solito avanzata negli anni, che si occupa dei bambini per professione.”

(Anna Grochowska, “La pastasciutta non e più trendy? Anglicismi di lusso nell’italiano contemporaneo” in Annales Univerisitatis Mariae Curie Sklodowska, Lublin, Polonia 2010, Vol. XXVIII. z.2 sectio FF, pp. 49-50).

Ma tutto ciò non ha alcun senso, e in inglese non è affatto così. Questo è il risultato dell’acclimatamento dell’anglicismo che è avvenuto in Italia, perché in inglese non esiste questa accezione. Ed ecco che la maledizione della baby sitter porta a uno strano fenomeno: l’anglicismo assume una connotazione che non ha in inglese, diventa un termine più moderno ed elastico, mentre gli equivalenti italiani vengono considerati come parole rigide e immutabili (e se una lingua non evolve muore): bambinaia evoca, immotivatamente, il “vecchio” e non gode dell’elasticità moderna di baby sitter.

Così come per autoscatto, lo si vuole far diventare immobile e relegato ai vecchi sistemi di fotografia con un dispositivo a tempo o peggio ancora con il filo per l’autoscatto, mentre selfie, etimologicamente identico, si carica di una modernità per cui alcuni studiosi (come Vera Gheno dell’accademia della Crusca) sostengono che sia una parola più ampia e utile dell’equivalente italiano (ma non è di questo parere il Devoto Oli di Serianni e Trifone, per fortuna). Questo è vero solo perché a selfie si concede il diritto di evolvere, mentre si vuole mantenere cristallizzato autoscatto nel suo significato storico, senza la possibilità di allargare il suo uso e di abbracciare le nuove tecnologie, che si preferiscono invece esprimere in inglese.

Questa è la “maledizione di baby sitter”, una mentalità che dilaga e avvolge tutto il nostro accogliere senza criteri circa 3.500 anglicismi nei nostri vocabolari  (sono tanti, sono una lingua nella lingua!). E a chi dice che bisogna guardare alle parole incipienti e che è ridicolo rimettere in discussione termini entrati da decenni e ormai affermati, rispondo che il problema degli anglicismi è nella rete che formano e che si espande nel nostro lessico. Non c’è solo la moltiplicazione dei baby, c’è anche il fatto, nuovissimo, che sul modello di baby sitter sono nate nuove parole per nuove professioni come quella del dog sitter, del cat sitter o del pet sitter. Basta andare sul sito di un’associazione che tenta di creare un albo per queste nuove attività che devono avere certi requisiti formativi e non possono essere lasciate all’improvvisazione, per vedere che la rinuncia a dirlo in italiano è data per scontata. Nessuno sembra nemmeno porsi il problema di dare a queste professioni un nome italiano. Dog, cat e pet sitter si stanno affermando senza alternative. Ma non sono prestiti “di necessità”, sono prestiti “di incapacità” e “di moda”.

Se Arrigo Castellani fosse vivo forse proporrebbe un guardagatti, un governacani o un curapelosi. Ma tanto davanti a queste soluzioni l’italiano medio ride, insieme al linguista medio, anche se forse bisognerebbe piangere davanti alla constatazione del nostro senso di inferiorità verso tutto ciò che americano e che ciò che è nuovo è meglio dirlo in inglese.

E così, parola dopo parola, la metà dei neologismi del nuovo Millennio è ormai in inglese. E l’italiano, incapace di creare nuove parole in modo autonomo, è destinato a diventare la lingua dell’arcaico, sempre più inadatto a esprimere il quotidiano e il futuro.

 

PS
In Spagna, al posto di baby-sitter si dice niñera e anche canguro, una parola che richiama attraverso una metafora un senso di protezione e un’ironia meravigliose, che non hanno bisogno di spiegazioni. Se la maledizione di baby sitter implica dirlo in una lingua straniera, mi piacerebbe imparare dagli spagnoli.

Interferenza linguistica [5] Una classificazione dei forestierismi misurabile

L’interferenza linguistica dell’inglese sulla sintassi italiana

L’interferenza linguistica è un concetto più ampio della semplice presenza dei forestierismi. Alcuni studiosi hanno analizzato l’impatto dell’inglese sulla nostra sintassi, che ha portato per esempio al diffondersi di espressioni come vota per il tal partito invece di vota il tal partito, per l’influenza dell’inglese vote for. Anche frasi come chi ha comprato cosa?, chi è andato dove? (le interrogative con il doppio referente) non appartengono all’italiano storico ma sorgono sul modello di who’s who? E ancora, i costrutti come: fatto da e per donne, pronto a, ma ancora lontano da, venire, e la forma congiunzione/disgiunzione e/o (libri e/o riviste) derivano dall’interferenza dell’angloamericano. Così come la tendenza a usare frasi come pensa positivo invece di positivamente (gli aggettivi riferiti al verbo invece dell’avverbio) e l’accostamento di due nomi come aereo spia, batterio-killer, oppure l’inversione all’inglese di qualche accostamento tra aggettivo e nome: baby-spacciatore invece di spacciatore baby, il papa-pensiero, o le espressioni con il no anteposto sul modello di non profit e no global.
Si può ricondurre all’inglese il diffondersi di stare seguito dal gerundio per indicare qualcosa che “sta per avvenire” e non qualcosa di statico che perdura in un certo periodo di tempo. In altre parole, se in passato si trovavano espressioni come sto mangiando, che esprime un’azione statica che si svolge nel presente, in tempi recenti si sono diffusi modi dire come non mi sto ricordando se o sta succedendo che per esprimere una trasformazione e un processo, come nella progressive form inglese.

Ma a parte questi e altri simili fenomeni, va detto forte e chiaro che l’influenza dell’inglese sulla sintassi è ben poca cosa, e non scalfisce l’impianto della nostra lingua.

L’interferenza linguistica dell’inglese sul lessico italiano

Il problema dell’eccesso dell’inglese riguarda solo il lessico, e cioè il nostro vocabolario, e per essere più precisi ha intaccato l’insieme di nomi e aggettivi, mentre i verbi e le altre parti del discorso non ne risentono in modo preoccupante.

Se accanto alle nostre preposizioni semplici di, a, da, in, con, su, per, tra, fra si aggiungono for, from e by, per esempio, non significa affatto che un quarto delle preposizioni sono ormai in inglese e l’invasione è proclamata, perché se in un libro quelle italiane ricorrono migliaia di volte, quelle inglesi hanno un’occorrenza magari di una volta sola o poco più, dunque la loro presenza è assolutamente trascurabile.

Anche i verbi sono in buona sostanza al riparo da ogni conclusione catastrofista, perché vista la differente struttura di italiano e inglese, non possiamo includere e utilizzare forme come to drink, per esempio, che infatti sostantivizziamo in drink. A parte casi rarissimi (come vote for o enjoy), l’interferenza dell’inglese sui verbi passa per una parziale italianizzazione, prendiamo cioè la radice alloglotta e la trasformiamo in verbo applicando le regole della coniugazione in –are, per es. filmare o speakerare.

Mentre filmare è un anglicismo invisibile, perfettamente integrato e indistinguibile dai verbi italiani (se non nella sua storia che deriva da film), speakerare è invece un semiadattamento che, nella radice, viola il nostro sistema ortografico e di dizione. I verbi come downloadare, googleare, whatsappare, spoilerare e via dicendo possono risultare o meno fastidiosi, ma non costituiscono un pericolo per la nostra lingua per il semplice fatto che il loro numero è limitato e sopportabile: se ne contano 2 o 300 nei vocabolari, e poiché i verbi registrati mediamente da un dizionario monovolume come il Devoto Oli sono all’incirca 10.000, la percentuale è bassa, anche se il loro uso è frequente e anche se molti di essi sono neologismi di cui non abbiamo alternative.

Lo stesso non si può dire dei sostantivi, visto che il 90% degli anglicismi sono nomi (e in misura minore locuzioni e aggettivi): ammettere circa 3.000 sostantivi inglesi non adattati, su circa 60.000 sostantivi presenti in un dizionario (escluse le parole arcaiche, rare o desuete) comincia a rappresentare una percentuale che porta conseguenze significative: quasi il 5% dei nomi è in inglese non adattato, e soprattutto la loro frequenza è mediamente alta, non sono più prevalentemente tecnicismi come 30 o 40 anni fa, sono molto spesso parole entrate nel linguaggio comune che si ritrovano sui giornali e nell’uso quotidiano.

Forestierismi “invisibili” e “corpi estranei”

Se le classificazioni dei forestierismi in prestiti di lusso e di necessità, e prestiti insostituibili, utili e superflui presentano molti limiti concettuali, non sono proficue e soprattutto sono soggettive e non misurabili, un criterio di classificazione più oggettivo e utile per misurare l’interferenza dell’inglese può essere quello di distinguere i termini stranieri in invisibili e in corpi estranei.

I forestierismi invisibili sono quelli che, pur non avendo un etimo e una provenienza autoctona, non violano il nostro sistema morfosintattico né nella grafia né nella pronuncia, e dunque (visto che l’epoca del purismo è una storia chiusa) non costituiscono alcun problema per la nostra lingua. Per es. l’allargamento di significato di realizzare = “rendersi conto” (per l’interferenza di to realize) anziché di “costruire qualcosa” fa parte della normale evoluzione di una lingua viva, anche se può piacere o non piacere.

In modo analogo, l’entrata di parole come spa, lo stabilimento termale (dal nome della città termale belga Spa), gringo (dallo spagnolo), sauna (dal finnico), mascara (un anglicismo di ritorno: dall’italiano maschera la parola ci è ritornata con il significato di trucco per “mascherare”) non è un problema: si scrivono come si leggono e non rappresentano alcuna violazione “del bel paese là dove ‘l sì suona”.

Per non passare per puristi né per intransigenti, tra questi forestierismi invisibili si possono annoverare anche quelli come bar, film, sport, che pur terminando in consonante (e quindi rappresentando una discontinuità rispetto alla tendenza di terminare le parole in vocale, come notava Arrigo Castellani), non costituiscono un problema troppo preoccupante. Negli ultimi anni, infatti, queste parole sono molto aumentate, soprattutto a causa degli anglicismi, ma non solo, in fondo i suoni in consonante finale appartengono anche alle voci poetiche storiche (“Nel mezzo del cammin di nostra vita) e a molti dialetti soprattutto del Nord. Anche parole come tsunami (giapponese) o glasnost (russo) e simili si possono considerare abbastanza invisibili, nonostante la loro combinazione ortografica fuori dai nostri canoni, visto che si leggono e scrivono all’italiana. E volendo essere aperti, tra i forestierismi invisibili (o quasi) si possono includere anche parole che contengono le cosiddette lettere straniere come k, y o j, se non violano la nostra pronuncia, per es. sudoku, yoyo o kaputt. Anche se in questi casi siamo al confine con i corpi estranei: una parola come curvy è ancora ammissibile tra i “quasi invisibili”, se pronunciata con la u, mentre diventa un corpo estraneo se si pronuncia con la a, all’inglese. Esattamente come computer, mouse, abat-jour, leitmotiv… e tutti gli esotismi che si scrivono e leggono con regole estranee all’italiano.

Venendo perciò ai corpi estranei, va premesso che queste parole non sono un male in sé: la loro presenza è un fenomeno normale in ogni epoca e in ogni lingua. Il punto è la loro quantità. Un centinaio di ispanismi o di germanismi registrati nei dizionari, e persino quasi un migliaio di francesismi non integrati, non sono pericolosi per il nostro lessico.

Al contrario, l’attuale presenza di circa 3.500 anglicismi, entrati nell’italiano non attraverso substrati linguistici secolari, ma negli ultimi 70 anni, e con una tendenza di crescita in aumento come numero e come frequenza, sta snaturando la nostra lingua.

Dai casi isolati a una rete di anglicismi interconessi che si espande nel nostro lessico e porta all’interiorizzazione di regole estranee

Questa penetrazione lessicale (anche se non ha intaccato le strutture fondamentali dell’italiano = la sintassi)  è così estesa che ha portato ormai all’interiorizzazione di nuove regole lessicali nei parlanti: per es. preferiamo dire blogger, anziché bloggatore (seguendo la nostra consuetudine lessicale), sul modello di stalker, stopper e le altre centinaia di parole con questa desinenza inglese a cui ormai ci siamo assuefatti, come ci siamo abituati  alle desinenze in –ing (advertising, mobbing, jogging…).

Ma c’è di più, il numero incontrollato di anglicismi forma ormai una rete di radici inglesi e di parole “appicicose” che si ricombinano tra di loro con un effetto domino:

day si ricombina con gli altri elementi alloglotti e genera open day, day after, election day, day by day, day hospital…

act si diffonde in jobs act, student act, Africa act, food act, green act….

Questa rete sempre più fitta di corpi estranei si allarga di giorno in giorno e si espande nel nostro lessico autonomamente ricombinandosi non solo in locuzioni inglesi ortodosse, ma addirittura in pseudoanglicismi e ricombinazioni all’italiana che sono vere e proprie nostre reinvenzioni dal suono inglese: il beauty case, le baby gang, la barwoman

Esistono centinaia di queste “famiglie” di parole “appiccicose” che si concatenano tra loro formando più di un migliaio di espressioni anglicizzate di uso comune che si espandono sempre più, per es.:

back è presente in anglicismi diffusi nella nostra lingua come backup, background, backgammon, backdoor, backstage flashback o playback… -> play a sua volta si ritrova in player, playlist, playoff, playstation, long play, playboy… -> boy circola in cowboy, boyfriend, boy scout, game boy, toy boy, teddy boy, golden boy… e così via.

In conclusione: quando il numero di forestierismi in una lingua supera i livelli di guardia, ecco che nasce sia un’interiorizzazione di regole estranee alla lingua che le ospita, sia una interconnessione autonoma  tra le parole alloglotte che sfugge a ogni controllo. Questo processo sta portando l’italiano verso l’itanglese, ed è il primo passo che, con il tempo, può portare verso la creolizzazione. Se non si spezza questa moda assurda e deleteria di preferire gli anglicismi ai termini italiani, se non si ricomincia a tradurre e ad adattare, se la nostra lingua non si riappropria della capacità di evolvere autonomamente attraverso la coniazione di neologismi, il futuro dell’italiano è seriamente a rischio.

Interferenza linguistica [4] Tutti i tipi di forestierismi

Una lingua viva cambia continuamente e si evolve con il mutare dei tempi, ed è un bene che lo faccia, altrimenti perderebbe la sua capacità di descrivere il presente e morirebbe.

Questa evoluzione consiste non solo nella capacità di creare neologismi, ma anche di assorbire gli influssi che vengono da fuori. Nel corso della storia, l’italiano si è sempre arricchito di parole straniere, dal francese, dallo spagnolo, dall’arabo e da ogni altra lingua.

E allora dov’è il problema degli anglicismi?

La risposta è semplice:
♦ il loro numero sproporzionato e
♦ la loro frequenza d’uso sempre più ampia,
due fattori innegabili che stanno stravolgendo il nostro lessico e trasformando l’italiano in itanglese.

Dopo avere mostrato l’inconsistenza e l’inutilità delle classificazioni dei forestierismi in
prestiti di lusso e di necessità,
prestiti insostituibili, utili e superflui
prima di introdurre un diverso criterio di classificazione che sia più utile, misurabile e oggettivo, vale la pena di riassumere le possibilità logiche e storiche che permettono a una lingua di evolvere.

1) Importare un forestierismo senza adattamento per colmare una lacuna linguistica
non è la sola scelta possibile, come ci vorrebbe far  credere chi parla di prestiti di “necessità”, “insostituibili” o addirittura “intraducibili”. Si può anche:
2) creare un neologismo (autoctono = italiano, e non alloglotta = importato, per es. apericena di fronte a happy hour);
3) adattare al suono italiano (cioè italianizzare, es. bondaggio da bondage);
4) tradurrre (es. mi piace al posto di like);
5) usare una parola già esistente ampliandola di nuovi significati (es. sito, per influsso di site inglese, nell’era di Internet subisce un allargamento di significato, da luogo fisico a luogo virtuale in Rete).

Il problema è che queste alternative oggi non sono più praticate, sembrano essere decadute, e il risultato è che l’evoluzione (o involuzione a seconda dei punti di vista) dell’italiano procede quasi esclusivamente attraverso l’importazione non adattata di anglicismi che sono perlopiù impiegati e preferiti anche in presenza di alternative italiane (che di conseguenza tendono a regredire e a diventare obsolete).

I neologismi del nuovo Millennio sono in prevalenza anglicismi

Dallo spoglio del Devoto Oli 2017 risultano 1.049 parole datate XXI secolo, di cui 509 (quasi la metà) sono parole inglesi. Se includiamo anche le parole semiadattate dall’inglese come customizzare, downloadare, googlare, hackerare, switchare, twittare e ritwittare, whatsappare  e qualche altra decina, vediamo che ben più della metà dei neologismi sono inglesi.

Un confronto con le altre lingue è significativo. Nel nuovo Millennio sono entrate:
14 parole dal giapponese,
12 parole dal francese,
5 parole dallo spagnolo
0 parole dal russo e dal tedesco.

E i neologismi italiani di che tipo sono?
Sfogliando l’elenco delle nuove parole italiane (come ecovettura, enopirateria, grillino, pizzata, squillino, tesoretto…) salta all’occhio in modo evidente che la maggior parte riguardano questioni “interne”, e sono quasi del tutto assenti i termini per indicare le cose nuove (che sono quasi sempre inglesi con qualche eccezione come geolocalizazzione o teleprenotazione).

Tra le pochissime eccezioni di neoconiazioni italiane al posto degli anglicismi si può segnalare la comparsa di apericena al posto di happy hour, ma non c’è molto altro (colanzo al posto di brunch, benché presente sui mezzi di informazione, non è stato registrato).

In conclusione: complessivamente l’italiano non è in grado di inventare neologismi per adeguarsi ai cambiamenti e stare al passo con i tempi o con l’innovazione tecnico-scientifica, e nella grandissima maggioranza dei casi evolve ricorrendo solo a termini inglesi. Se questa tendenza non si spezza, presto diventerà una lingua incapace di esprimere il contemporaneo che si potrà dire soltanto in itanglese.

Adattare e italianizzare? Per carità! Che vergogna!

La tendenza a italianizzare le parole è un fenomeno antico e un tempo istintivo. Londra (London) e il Tamigi (Thames), per esempio, mentre Nuova York, dove l’aggettivo serviva a distinguere la città americana dall’omonima inglese, è ormai New York sin dalla fine dell’Ottocento. Se una volta si aggiustavano al nostro suono (in modo esagerato) persino alcuni nomi propri (Tommaso Moro invece di Thomas More) oggi non lo si fa più, e tende a scomparire anche l’adattamento dei nomi comuni che fino al secolo scorso era abbastanza diffuso e normale (rivoltella da revolver, pigiama da pyjamas, gincana da gymkhana e gol da goal).

Tra i neologismi del Devoto Oli 2017 non si trovano adattamenti e italianizzazioni, con l’eccezione di blogosfera sul modello dell’inglese blogosphere e poco altro. I pochi adattamenti di oggi, di solito provengono dal basso, ma appartengono esclusivamente al gergo parlato della Rete e sono ironici o scherzosi, oltre che sporadici e fuori dai testi ufficiali, per es. ti lovvo, facciabuco o faccialibro al posto di Facebook, il tubo invece di YouTube, o lo scherzoso topo invece di mouse. Viceversa, oggi i mezzi di informazione si vergognano di “storpiare” la purezza dell’inglese, che invece preferiscono statisticamente (leader al posto di capo, pusher per spacciatore, fake news per bufale…) e ostentano più che possono.

In conclusione: italianizzare e adattare l’inglese ai nostri suoni è oggi un fenomeno sempre più raro, al contrario di quanto avviene per es. nella lingua spagnola. Se continueremo a vergognarci di questa strategia che storicamente ha generato numerosi adattamenti, l’importazione delle parole inglesi non adattate o le loro reinvenzioni all’italiana (baby gang, fidaty card…) si amplierà in modo sempre più profondo.

Traduzioni e calchi? Sembra sia meglio evitarlo…

Le traduzioni dei forestierismi sono definite dai linguisti calchi strutturali o formali, perché ricalcano la struttura originaria di una parola con elementi autoctoni che ne riproducono forma e significato.

Possono essere rovesciati per meglio rispondere alla logica italiana (key word diventa parola chiave, brain drain diventa fuga di cervelli, basket-ball diventa pallacanestro) oppure perfetti quando l’ordine delle parole è mantenuto come nell’inglese (pubbliche relazioni e public relations, videogioco e videogame, supermercato e supermarket), ma in tutti i casi si tratta di adattamenti invisibili che non sono percepiti come corpi estranei.

Ma, ancora una volta, esaminando i neologismi del Duemila del Devoto Oli 2017 queste traduzioni non ci sono, e le uniche registrate sono mi piace al posto di like, riferito alla funzione delle reti sociali, e la bomba tagliamargherite che ricalca fedelmente l’anglicismo daisy cutter.

In conclusione: anche la traduzione (o il calco) delle parole inglesi è sempre più in declino, con il conseguente ricorrere agli anglicismi non integrati. Continuiamo a preferire l’inglese, e per es. la frequenza di parole come hater o influencer è molto più alta delle traduzioni come odiatore o influente anche se questi esempi sono al confine con gli allargamenti di significato.

Calchi semantici e allargamenti di significato

I linguisti chiamano calchi semantici l’estensione del significato di parole che già esistono, ma che si arricchiscono di una nuova accezione per l’influsso di un forestierismo.

Per esempio realizzare, che originariamente voleva dire solo rendere reale (“ho realizzato un prototipo”), per l’interferenza di to realize oggi si impiega anche nel senso di rendersi conto, accorgersi (“ho realizzato di aver sbagliato strada”). E così radicale, un tempo interpretato alla francese come sinonimo di liberale, diventa sempre più spesso estremista, all’inglese; digitale, derivato da dito (“le impronte digitali”), per l’effetto dell’informatica si trasforma in un dato registrato con la logica binaria del calcolatore (in inglese digit è cifra); basico, in chimica il contrario di acido, passa a significare di base; e intrigante (cioè avvezzo a compiere intrighi, trame e congiure) si capovolge in stuzzicante e coinvolgente. Altre volte questi anglicismi camuffati derivano da quelli che si chiamano falsi amici, cioè parole dal suono simile ma dal significato differente, per esempio singolo (unico) diventa celibe o scapolo per l’analogia con single; autorità (colui che detiene il potere) diventa un organismo di controllo (l’autorità della privacy, per l’influsso di autorithy), mentre il baco informatico (in inglese bug, cioè cimice) è una traduzione approssimativa, basata sulla somiglianza fonetica.

Se guardiamo il significato di parole esistenti come odiatore o influente nel Devoto Oli 2017 vediamo che mancano gli allargamenti di significato che invece hanno assunto i corrispondenti hater e inluencer, parole del tutto equivalenti che però nell’acclimatarsi in italiano hanno assunto l’accezione riferita alla Rete, che invece non è indicata per i corrispettivi italiani, il che, a mio avviso, è una grossa lacuna del dizionario che inserisce gli anglicismi, ma non ritocca le voci autoctone. Esattamente come la definizione generica di autoscatto è ferma al dispositivo per fotografare sé stessi, mentre selfie, del tutto equivalente, include i riferimenti alla Rete e alle nuove tecnologie.

In conclusione: sembra proprio che nell’italiano del nuovo Millennio gli allargamenti di significato siano abbastanza diffusi per l’effetto dei falsi amici (realizzare, singolo, radicale…) ma siano abbastanza rari ed evitati nel caso dei corrispondenti italiani autonomi (odiatore, influente, autoscatto…).

Se non si creano neologismi, se non si italianizzano le parole, se non si traduce, se non si allargano i significati delle nostre parole… l’unica evoluzione dell’italiano passa per l’importazione dell’inglese e il futuro della nostra lingua sarà l’itanglese.

E tornando ai criteri di classificazione dei forestierismi, credo che un buon approccio sia quello di dividerli in forestierismi compatibili e integrabili con il nostro sistema morfosintattico e forestierismi che lo violano, dunque corpi estranei, che non sono un problema in sé (l’epoca del purismo è finita) ma diventano un problema quando il loro numero e la loro frequenza è tale da snaturare il nostro lessico.

(continua)

Interferenza linguistica [3] – Forestierismi insostituibili, utili e superflui: una distinzione che non porta a nulla

Se classificare i forestierismi attraverso le categorie di “prestiti di necessità” e “di lusso” è un criterio che non funziona, anche la sua variante che propone una tripartizione in forestierismi insostituibili, utili, e superflui, non è convincente, è poco utile e soprattutto soggettiva e per nulla scientifica. Questo approccio è stato impiegato per esempio da Giovanni Adamo e Valeria Della Valle in Le parole del lessico italiano (Carocci Roma, 2008) ed è ispirato a un criterio di buon senso e generico, ma che non trova un’applicazione praticabile.

I forestierismi “insostituibili” (come quelli “di necessità”) non esistono da un punto di vista logico: nulla è insostituibile (= che non è possibile sostituire), al massimo sono “insostituiti”, cioè non sono stati sostituiti per altri motivi che non dipendono da un’impossibilità logica, ma dall’uso storico e da altre variabili sociali. Tra questi “insostituibili” ci sarebbero per es. bar, che all’epoca del fascismo avrebbero voluto sostituire con alternative come “mescita” o “qui si beve” (dunque sono perfettamente sostituibili in senso logico) che non hanno mai attecchito e che oggi suonano ridicole ma soprattutto richiamano spettri del passato di cui non possiamo che vergognarci. Oppure computer, che oggi è sempre meno sostituibile, ma fino agli anni Novanta era normalmente sostituito da calcolatore, elaboratore e altre varianti decadute.

Anche il concetto di “utili” è molto discutibile, tra questi ci sarebbero parole come email o autobus che corrispondono a “formule denominative” cui ci adeguiamo senza sforzi, di uso internazionale, ma “l’utilità” di scegliere gli anglicismi invece di posta o di torpedone, ancora una volta è soggettiva e non risponde ad alcun criterio misurabile e quantitativo. Quanto ai forestierismi “superflui” è un’altra etichetta di cui mi sfugge l’applicazione: leader o meeting sono parole perfettamente superflue visto che abbiamo capo, riunione e tantissime sinonimie, eppure sono molto diffusi e comprensibili a tutti, sono nell’uso e dunque il loro essere “superflui” non implica certo che non si debbano usare.

Applicando questa classificazione ai casi singoli si vede benissimo quanto sia poco produttiva: non è possibile dividere i forestierismi in queste tre categorie in modo oggettivo e condiviso, e chi lo fa ogni volta suscita un vespaio di opinioni differenti. Una parola come smartphone è insostituibile, utile o superflua? E selfie? O shopping, babysitter e privacy? Come per le antinomie della ragione di Kant, davanti a queste domande la gente comune e gli studiosi non raggiungeranno mai un accordo che possa portare a liste rigorose e oggettive.

Questo criterio, come quello di dividere i forestierismi con etichette estetiche, in belli ed evocativi oppure orribili e insopportabili, non produce nulla di fertile o di quantificabile, è poco più di un’opinione che dipende dalla sensibilità personale e dai momenti storici. E per di più è una categorizzazione che, proprio perché è fumosa, viene spesso utilizata per giustificare la volontà di usare un anglicismo spacciandolo come insostituibile, intraducibile o necessario. Invece, per citare Roberto Gusmani:

Ogni lingua ha a disposizione due mezzi di innovazione: quella autonoma che si riallaccia al  patrimonio della stessa lingua e quella alloglotta: la via scelta di volta in volta è determinata da un complesso di fattori variabili” che, aggiungo io, non dipendono certo dall’utile, il superfluo o l’insostituibile.

[Roberto Gusmani, Saggi sull’interferenza linguistica, 2° edizione accresciuta, Le Lettere, Firenze, 1986, p. 14].

Allora, in questo panorama di approcci che mi paiono poco proficui, voglio introdurre anche io un criterio per dividere i forestierismi, esotismi o comunque si voglia dire, in categorie, che però ha il vantaggio di essere perfettamente misurabile e oggettivo, oltre ad avere un’applicazione pratica utile.

Ma prima di farlo è necessario definire esattamente cosa sia un forestierismo e quali tipologie di forestierismi esistano…

(continua)

Interferenza linguistica [2] – Prestiti di lusso e di necessità: una distinzione che non sta in piedi

Se la definizione di “prestito linguistico” ha i suoi limiti, la classificazione dei forestierismi in “prestiti di necessità” e di “lusso” fa acqua da tutte le parti.

Questa distinzione risale almeno alle considerazioni del 1913 dello svizzero Ernst Tappolet, ma continua a essere riproposta anche oggi da studiosi seri ed è piuttosto diffusa in moltissimi testi di linguistica. Parte dal presupposto (a mio avviso improponibile) che ci siano parole che importiamo perché non ne abbiamo di nostre per descrivere qualcosa che prima non c’era – per esempio boomerang –, e altre che invece sarebbero una scelta, e quindi un doppione di lusso anche in presenza di un equivalente indigeno, per esempio bodyguard invece di guardia del corpo. Ma è una prospettiva molto debole e difficilmente difendibile.

Un altro linguista svizzero, Reto Bezzola, già nel 1925 preferiva distinguere i “prestiti di comodità“, che non vengono tradotti per pigrizia e perché è più facile usare una parola straniera che inventarla, e quelli che hanno semmai un “valore affettivo” superiore ai nostrani.  Altri autori hanno mostrato che importiamo i forestierismi più che altro per moda (Carlo Tagliavini preferiva parlare di “prestiti di moda”), fascino o prestigio. Se la stessa nozione di “prestito” è molto discutibile, quella di “necessità” è ridicola, e come ha osservato il linguista Paolo Zolli, non esiste:

“Ogni lingua possiede i mezzi per indicare nuovi oggetti o nuovi concetti senza ricorrere a parole straniere, tant’è vero che se il francese ha accolto la voce tomate (di origine azteca), l’italiano per denominare lo stesso prodotto ha preferito servirsi della perifrasi pomodoro.”

Paolo Zolli (1976), Le parole straniere, seconda edizione a cura di F. Ursini, Zanichelli, Bologna, 1991, p. 3.

Nel XVI secolo, all’epoca dei grandi viaggiatori e della scoperta di nuovi mondi da parte degli europei, furono importate moltissime cose nuove (animali, piante, frutti, alimenti…) e queste cose ebbero nomi nuovi. Se francesi, inglesi, spagnoli e tedeschi usarono la voce tomate per indicare i pomodori, in Italia si affermò la metafora del pomo d’oro, che con il tempo fu sempre più percepito come una parola tutta attaccata. Viceversa, se in italiano o in spagnolo si è affermata la radice di derivazione amerinda patata, i francesi l’hanno chiamata pomme de terre, cioè mela di terra.

Questi due esempi storici sono molto significativi: dov’è la “necessità” di importare una voce così com’è senza adattamenti?

Non esistono prestiti di necessità, né parole insostituibili o intraducibili

I cosiddetti “prestiti di necessità” non hanno alcun fondamento, né storico né logico. Davanti a un termine che non c’è, oltre a

♦ 1) importare un forestierismo senza adattamento

è anche possibile:

♦ 2) creare un neologismo (come pomodoro),
♦ 3) italianizzare e adattare (come rivoltella sul calco di revolver),
♦ 4) usare una parola già esistente ampliandola di nuovi significati (navigare indica oggi non solo l’andar per mare, ma anche l’andare in Rete).

Affermare che ci sono parole “insostituibili” o “intraducibili”, come nel caso del prestito “di necessità”, è un’altra presa di posizione senza fondamento: presuppone che le alternative 2, 3 e 4 non esistano e che la sola via possibile, la 1, sia quella di importare una parola straniera così com’è, ma questa presa di posizione contiene una teoria e una visione del mondo che si vuole imporre.

Una parole come mouse, non è affatto intraducibile, né insostituibile, né di necessità. E infatti tutti lo hanno tradotto topo (souris in francese, raton in spagnolo, Maus in tedesco), ma in italiano nessuno può usare topo (se non in senso gergale parlato e scherzoso) e nessuno si è sognato di utilizzare una parola come per esempio puntatore, o di adattare il termine per es. in maus (si scrive come si legge) perché oggi ci vergogniamo di usare quest’ultima soluzione che una volta era istintiva, e che in Paesi come la Spagna è invece tutt’ora praticata con orgoglio.

Nel caso degli anglicismi, la verità è che non si vogliono tradurre, né adattare, né sostituire con allargamenti nostrani delle nostre parole, ma invece di dirlo ci si nasconde dietro l’alibi della necessità. Il ricorso all’inglese non è in sé condannabile in linea di principio né per purismo. Il vero problema è quello dei numeri: la quantità di anglicismi importata nell’italiano è tale che sta stravolgendo la nostra lingua e ci sta facendo scivolare verso l’itanglese, se non si cambia la mentalità e la moda.

Lusso o complesso di inferiorità?

Definire “prestiti di lusso” le parole di cui abbiamo già un equivalente italiano è una categoria poco stringente. Più che il lusso, le motivazioni sono altre. Preferiamo il suono inglese, consideriamo le parole inglesi come maggiormente evocative, di fascino, di moda e di prestigio. Spesso le reinventiamo (baby killer non esiste nei Paesi anglosassoni) o le ricombiniamo all’italiana (barwoman sul modello di barman, ma in inglese si dice barmaid), le abbreviamo, importiamo solo un significato o ne stravogliamo il significato originario, questo poco importa, l’importante è che suonino inglesi. Più che il lusso in questo fenomeno gioca un complesso di inferiorità culturale. E molte parole che inizialmente potevano essere etichettate come di “lusso” o come dei “doppioni” con il tempo si sono radicate e acclimatate al punto che sono diventate di “necessità” solo perché le alternative italiane hanno smesso di circolare o, peggio ancora, sono diventate obsolete e inutilizzabili. Fino agli anni Novanta si poteva parlare, e si era sempre parlato, di calcolatore o di elaboratore elettronico (anche di cervello elettronico, mentre computatore e ordinatore, registrati nei dizionari anche oggi, non hanno mai circolato troppo), ma oggi si può dire solo computer. Una parola “di lusso” che è finita per diventare “di necessità”, “insostituibile”, “intraducibile”. E che dire di completo, equipaggiamento o accessori di fronte ad outfit? Per quanto tempo potremo ancora utilizzare parole come trucco invece di makeup, parrucchiere invece di hair stylist, tesserino invece di badge e bufale al posto di fake news? Già oggi queste alternative italiane suonano come un modo di parlare attempato.

E allora, di fronte all’interferenza linguistica, sarebbe il caso di abbandonare il modello ingenuo e semplicistico del lusso e della necessità, superandolo come ha fatto Roberto Gusmani che ha ridefinito la questione per esempio con il concetto di integrazione – ossia adattamento e traduzione – e acclimatamento, e cioè quel processo per cui una parola non adattata si innesta tra quelle della lingua che la riceve non come una semplice aggiunta, ma assumendo un nuovo valore, sia rispetto alla lingua di origine, sia rispetto alle altre parole autoctone, che si ridefiniscono e riassestano davanti a un forestierismo. L’entrata di un anglicismo ridefinisce tutta l’area semantica delle parole italiane: non è vero che baby sitter è intraducibile perché rispetto a bambinaia denota una ragazza giovane che non lo fa di professione. Questa distinzione non esiste in inglese. E non è vero che selfie non è proprio la stessa cosa di autoscatto, etimologicamente hanno il medesimo significato, la verità è che per parlare delle nuove tecnologie si preferisce l’inglese e non si vuole ammettere un allargamento di significato di autoscatto in senso moderno, relegando l’alternativa italiana al vecchiume, fino a che non morirà per lasciare posto all’anglicismo.

Classificare un “prestito” come “di necessità”, “intraducibile” o “insostituibile” significa giustificare il ricorso agli anglicismi come un fenomeno necessario, dunque alimentarlo. Lo stesso si può dire della classificazione dei forestierismi in utili, insostituibili o superflui, un approccio poco proficuo, poco convincente e soprattutto molto soggettivo che serve da alibi per fare entrare un numero sempre maggiore di parole inglesi…

(continua)

Interferenza linguistica [1]: forestierismi, esotismi, xenismi, stranierismi, barbarismi o prestiti linguistici?

Ci sono tanti nomi per indicare i termini stranieri che circolano nella lingua italiana, nel gergo dei linguisti si parla per esempio di forestierismi o di esotismi, ma anche di xenismi e stranierismi.

Stranierismo è un termine ottocentesco che a dire il vero oggi non è molto utilizzato; xenismo (la sua occorrenza è così rara che non è documentata da Ngram) contiene la radice greca xénos = straniero e anche ospite, ma il termine arriva dal francese xenisme, non è registrato in alcun dizionario monovolume (Devoto Oli, Zingarelli, Gabrielli, Sabatini Coletti, Nuovo De Mauro), e compare solo nel vocabolario Treccani secondo il quale il significato denoterebbe i forestierismi di natura passeggera: gli xenismi sono parole straniere che circolano per brevi periodi ma non sono destinati a entrare stabilmente nell’uso, sono dunque occasionalismi o addirittura quelli che i linguisti chiamano hapax (legomena) e cioè parole che compaiono una sola volta, documentate da un solo esempio.

Forestierismi ed esotismi sono invece le definizioni che vanno per la maggiore.

In passato c’e chi ha questionato sulle sottili differenze tra esotismo, l’importazione di un “corpo estraneo” esotico che arriva da lontano, e forestierismo, che implicherebbe invece una continuità culturale e un reale scambio di popoli vicini, ma sono distinzioni cervellotiche poco proficue, e si può andare avanti a discutere sulla classificazione di ogni singolo caso senza mai giungere a una conclusione condivisa. Come per il sesso degli angeli. Naturalmente esotismo ha un’accezione non solo linguistica, per cui il suo uso si riferisce anche ad altri ambiti (le cose esotiche in generale).

forestierismi_esotismi_barbarismi_stranierismi
La frequenza delle parole esotismo, forestierismo, barbarismo e stranierismo secondo Ngram (periodo di riferimento: 1900-2008, al singolare e al plurale).

Le parole – e le classificazioni – non sono mai innocenti. Parlare per esempio di barbarismi, come si faceva in passato, oggi implica un giudizio purista intriso di xenofobia, e si riallaccia a certe prese di posizione antiche come quelle del Barbaro dominio di Paolo Monelli o di Mussolini che, volendo dire la sua, nel 1941 dichiarò di preferire barbarismo ed esotismo a forestierismo.

 

I limiti della definizione di “prestito linguistico”

Un’altra delle definizioni attualmente più in voga e quella di prestito linguistico.

Curiosa parola in uso tra i linguisti: la lingua che presta il vocabolo non ne rimane priva, e la lingua che riceve non e obbligata a restituirlo” notava Gian Luigi Beccaria già negli anni Ottanta.

Gian Luigi Beccaria, Italiano. Antico e nuovo, Garzanti, Milano 1988, p. 241.

Se fossero davvero prestiti si potrebbero anche restituire, è stato osservato ironicamente da tanti, e il problema del numero spropositato di anglicismi che sta portando il nostro lessico verso l’itanglese si potrebbe arginare facilmente.
La definizione di voci importate forse è più ragionevole, ma sia la teoria del prestito sia il concetto di importazione hanno qualche limite, visto il gran numero di eccezioni, pseudoesotismi, prestiti apparenti, o comunque li si voglia chiamare.

Un’espressione come vitel tonné, per esempio, suona come francese ma non lo è affatto, il vitello tonnato è una ricetta e un’espressione piemontese: in Francia non esiste né il vitel né il concetto di “tonnare” qualcosa. Il grammelot è un altro esempio di pseudogallicismo, si tratta di una parola che evoca il francese attraverso il suo suono, e Dario Fo, nel suo teatro, usava proprio il potere evocativo dei suoni al posto delle parole.

Venendo all’inglese, gli pseudoanglicismi sono davvero tanti, per esempio slip, pile, smoking… talvolta sono reinvenzioni o coniazioni autoctone che partono da parole inglesi ricombinate in modi che in inglese non esistono, e sono fenomeni internazionali, come autostop (al posto di hitch-hiking), footing (per jogging), recordman (record-holder) e tanti altri. Altre volte sono di matrice italiana come beauty case o autogrill (nome commerciale della Pavesi). Spesso usiamo parole inglesi con significati che non esistono nei Paesi anglosassoni, come mister con il significato di allenatore di calcio, o bomber nel senso di cannoniere. Oppure tronchiamo i termini inglesi (in nome del fatto che l’inglese dovrebbe essere una lingua dalla maggiore sinteticità) e diciamo basket (= cesto) per basketball cioè pallacanestro, spending invece di spending review, strip per striptease o toast anziché toasty, toastie o toasted sandwich; relaxing si trasforma in relax, bisexual in bisex, flirt in inglese è flirtation (o love affair) e un sexy shop sarebbe un sex shop. Molto spesso importiamo solo uno dei tanti significati delle parole in inglese e talvolta gli diamo una valenza che non ha in origine, e così usiamo shopping non come sinonimo di fare la spesa (anche al supermercato, come in inglese) ma come l’andar per vetrine alla ricerca di oggetti di lusso o di abbigliamento, mentre flipper diventa il biliardino elettronico, ma in inglese si dice pinball e i “flippers” sono soltanto le alette che servono a colpire la pallina.

E allora come si spiegano questi fenomeni all’interno della teoria del prestito? Sono prestiti errati? O forse il fenomeno dell’interferenza linguistica è qualcosa di ben più complesso?

Di certo, classificare i forestierismi attraverso le categorie di prestiti di lusso e di necessità, ancora molto in voga anche presso studiosi seri, è ormai improponibile e ridicolo…

(continua)

Anglicismi con la F

Aggiornamento 15 settembre 2018: questa voce è stata ampliata e corretta e si può consultare su AAA.italofonia.info, nel dizionario delle Alternative Agli Anglicismi.

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Il dizionario delle alternative agli anglicismi continua. Di seguito la lista di 199 parole inglesi che cominciano con la lettera F diffuse nella lingua italiana. Ogni anglicismo (o anglismo) è affiancato dalla traduzione, dalle alternative e dai sinonimi italiani, quando sono possibili, e viene spiegato e definito con lo scopo di rendere meno oscure le innumerevoli espressioni inglesi che circolano sui mezzi di informazione e che spesso non sono affatto comprese da tutti. Come per le altre lettere, si tratta di una prima bozza che tutti possono contribuire a correggere, migliorare e accrescere lasciando un commento o contattandomi.

Parole inglesi con la F: alternative italiane, spiegazioni, traduzioni e sinonimi (VI parte del Dizionario degli anglicismi)

(C) 2017-18 – Antonio Zoppetti

♦ fablab è una contrazione dell’inglese fabrication e laboratory, e in italiano si potrebbe indicare più chiaramente come laboratorio, officina (anche opificio, benché sia un termine di bassa frequenza) di fabbricazione digitale, o tecnologico visto che un fablab (registrato dai dizionari al maschile) è caratterizzato da sistemi di produzione informatizzati, basati spesso su stampanti 3D, e fornisce servizi personalizzati di fabbricazione digitale e dunque è una piccola fabbrica digitale.

♦ Facebook è il nome commerciale della più nota rete sociale e non ha certo bisogno di traduzioni. Tuttavia si può segnalare la circolazione scherzosa, in rete, di adattamenti all’italiana come facciabuco e faccialibro che però rappresentano solo un uso gergale, ironico o parodistico.

♦ face contouring, che a volte è decurtato semplicemente in contourig, in italiano è più chiaramente un trucco per il contorno viso, che si può rendere benissimo con contorno viso.

♦ facility management in italiano corrisponde alla gestione (management) di una struttura o servizio (facility) e si riferisce alla gestione, amministrazione o direzione degli immobili (per es. dei locali, degli edifici o dei luoghi di lavoro) oppure dei servizi secondari, cioè quelli a supporto dell’attività primaria dell’azienda (per es. la logistica). L’obiettivo è l’ottimizzazione, la manutenzione, la semplificazione, la massima efficienza, la riduzione dei costi, la tutela dei lavoratori…

♦ facility manager in italiano è il responsabile, direttore, capo (dei) servizi o di una struttura (caposervizi e capostruttura).

♦ fact checking in italiano si può meglio esprimere con verifica dei fatti o controllo delle fonti.

factor in italiano è il cessionario, il beneficiario di una cessione, il soggetto al quale viene ceduto un credito in un contratto di anticipazione crediti (-> factoring).

♦ factoring in italiano corrisponde alla cessione crediti, per esempio da parte di un’azienda che li cede a un’impresa che si occupa della loro riscossione assumendosi il rischio nel caso di insolvenze. Dunque è il trasferimento dei crediti da incassare, l’anticipazione crediti o l’anticipo su fattura da parte di una banca.

factory outlet in italiano è più chiaramente uno spaccio aziendale, un negozio (punto vendita, emporio, mercato) a prezzi di fabbrica.

♦ fading indica qualcosa che si affievolisce e, in elettronica, in italiano corrisponde a evanescenza, mentre nel linguaggio cinematografico si può dire più chiaramente dissolvenza.

♦ fair play, letteralmente gioco corretto o leale, in italiano si può meglio esprimere con lealtà, correttezza, o anche sportività, mentre in senso lato può corrispondere anche alla capacità di trattare gli altri nel modo dovuto, dunque l’essere a modo, il saper fare, il comportarsi nel modo giusto.

♦ fair value, letteralmente valore equo, indica la valutazione equa di un bene o di un servizio, quindi la giusta stima, il valore corretto, oggettivo, neutrale, congruo, di mercato.

♦ fake in italiano è più chiaramente un falso, una contraffazione, una bufala, uno scherzo o una burla, una notizia falsa, una frottola o un imbroglio, e anche utente che usa in rete una falsa identità, quindi un utente fasullo, farlocco.

♦ fake news in italiano sono più chiaramente le bufale, cioè le notizie (o informazioni) false, fasulle, manipolate, prive di autenticità, contraffatte, quindi le frottole spacciate per notizie: un imbroglio.

♦ fallout (to fall = cadere + out = fuori) in italiano si esprime meglio con pioggia o ricaduta radioattiva (riferito agli effetti che seguono l’esplosione di una bomba atomica), e in senso lato si può rendere con ricaduta, per es. riferito agli effetti (di solito positivi) di un’azione come una campagna pubblicitaria o altro.

♦ family business in italiano si può meglio rendere con impresa o società (a conduzione) familiare.

family friendly (cfr. friendly ->) in italiano si riferisce a qualcosa di pensato per o adatto alla famiglia, dunque ideale per la famiglia (per es. un film, un itinerario turistico…).

♦ family panel  in italiano è un campione (rappresentativo) della famiglia, nei sondaggi o nelle statistiche, quindi anche la famiglia tipo, modello.

♦ fan (abbreviazione di fanatic) in italiano si può benissimo esprimere  con sostenitore, ammiratore, appassionato, tifoso (soprattutto in senso sportivo), fanatico.

♦ fan club in italiano si può rendere anche con associazione (circolo, organizzazione, società) di appassionati, sostenitori, ammiratori, tifosi.

♦ fandom (fan = sostenitore + –dom = suffisso per indicare un insieme di persone) in italiano indica l’insieme (la comunità) di appassionati a qualcosa (per es. un genere come la fantascienza, o un personaggio come l’uomo ragno…) quindi indica gli appassionati, i fanatici, chi ha il pallino per un determinato settore.

♦ fanfiction (fan + fiction) in italiano indica una storia (un’opera, una trama) creata dagli appassionati di un genere o di un personaggio.

♦ fantasy in italiano è il genere (letterario o cinematografico) fantastico (lett.  di fantasia).

♦ fanzine, composto da fan + magazine = rivista, in italiano si può esprimere con l’adattamento fanzina, cioè un rivista rivolta agli appassionati (ammiratori o sostenitori) di un genere o di un personaggio.

♦ FAQ (acronimo di frequently asked questions) in italiano sono più chiaramente le domande (più) frequenti o ricorrenti.

♦ farmer market (o farmers’ market, lett. market = mercato dei farmers = contadini)  in italiano si può rendere più precisamente come mercato (diretto, senza intermediari) dei coltivatori, dal coltivatore al consumatore, mercato contadino.

♦ far west
(lett. lontano Ovest) indica i territori e l’epoca dei coloni ottocenteschi delle terre occidentali degli Stati Uniti in cui sono ambientati i film western, ma in senso figurato si usa per indicare le zone senza regole o dalle leggi proprie, spietate o non regolamentate: il far west del web cioè l’assenza di regole, l’anarchia; un clima da far west cioè senza ordine, per es. un territorio in mano alle bande della criminalità: far west a Bitonto (es. tratto dai giornali) cioè sparatoria; rissa da far west, cioè scazzottata selvaggia collettiva

♦ fashion in italiano è la moda, ma a partire dagli anni Settanta del secolo scorso l’anglicismo ha registrato una frequenza di anno in anno sempre più alta, comprendendo un serie di locuzioni molto estesa: es. old-fashion cioè qualcosa di classico, di intramontabile, che non passa di moda; modest fashion, cioè il settore della moda che produce abiti sobri e castigati per es. destinati al mondo musulmano. Come sostantivo, in italiano si può dire benissimo l’alta moda, o l’eleganza, mentre come aggettivo si può rendere perfettamente con di moda, alla moda, in voga, (molto) elegante (per es. un abito fashion), talvolta equivale anche a firmato, griffato. In certi contesti fashion ha anche un valore collettivo, e indica l’insieme delle persone che osservano i dettami della moda, i modaioli, gli eleganti. Oppure può indicare il settore (l’industria) della moda; ♦ fashionable in italiano significa conforme alla moda, elegante; ♦ fashion blog è un blog, un sito personale o una rivista in rete dedicati alla moda, mentre un ♦ fashion blogger è un creatore/curatore di un sito personale dedicato alla moda; ♦ fashion design è la progettazione, ideazione o realizzazione di una collezione di moda, o di una linea di prodotti, mentre un ♦ fashion designer è un disegnatore, un progettatore di abiti di moda, cioè uno stilista; ♦ fashion district è un quartiere della moda, o una zona di negozi di moda a prezzi scontati; ♦ fashion scout è chi scova o lancia nuove mode, un esperto di moda;  ♦ fashion style è uno stile di moda o in voga e anche lo stile della moda, quindi anche più semplicemente la moda; ♦ fashion system è il mondo della moda; ♦ fashion victim (lett. vittima della moda) è chi osserva scrupolosamente la moda, un (incallito) modaiolo, un moda-dipendente, chi non sa rinunciare alla moda; ♦ fashion week è la settimana della moda;

♦ fast food (lett. cibo veloce) è una locuzione internazionale di difficile sostituzione che indica un locale che serve pasti veloci, quindi una (o il settore della) ristorazione veloce, e anche il pasto veloce (rapido, già pronto o al volo ) che viene proposto (cui si contrappone lo slow food, propriamente un marchio italiano basato sul mangiar bene e senza fretta).

♦ fast track è un sistema di tracciamento rapido o facile, e in generale una procedura rapida, accelerata.

♦ fat free in italiano si può meglio dire senza grassi o a basso contenuto di grassi (cfr. free ->).

♦ fatkini (composto di fat = grasso + bikini = costume a due pezzi) in italiano corrisponde a un (costume a) due pezzi per taglie forti.

♦ fault in italiano si può meglio dire fallo, in senso sportivo, per es. nel tennis; nel calcio può anche essere sinonimo per es. di sgambetto.

♦ fearless in italiano si può meglio dire senza paura dunque coraggioso, impavido, temerario

♦ feature in italiano si può meglio dire caratteristica, funzione o funzionalità, aspetto, tratto, anche opzione (gli utenti che utilizzano le feature di un’applicazione).

♦ featuring in italiano corrisponde alla partecipazione di un musicista al concerto (o a un album) di qualcun altro, quindi è una collaborazione musicale, una partecipazione straordinaria, una comparsata musicale o un cameo musicale (per usare un anglicismo mimetizzato).

♦ feed in informatica corrisponde a un tracciamento o abbonamento automatico, che permette di ricevere  i nuovi contenuti pubblicati in rete di un sito quando viene aggiornato.

♦ feedback in senso lato in italiano si può perfettamente esprimere con riscontro, (cenno di) risposta o conferma (aspetto il tuo feedback, cioè fammi sapere), e anche reazione, responso, oppure valutazione, giudizio, commento (positivo o negativo). In senso tecnico o biologico si può esprimere con retroazione o con effetto retroattivo di un’azione o un messaggio che permette la correzione del tiro, quindi anche controazione, reazione, risposta, (segnale di) ritorno.

♦ feeling  (lett. sensazione) in italiano si può dire perfettamente sintonia, empatia, intesa o anche simpatia (tra noi c’è feeling = ce la intendiamo), e anche chimica in senso più fisico.

fellow (propr. compagno) in italiano si può rendere con membro di una società scientifica o di un’accademia, o anche membro interno, associato o socio, e talvolta è sinonimo di borsista, cioè di laureato all’inizio di una carriera scientifica o accademica.

♦ fence nell’ippica indica un ostacolo di solito consistente in un fosso e una siepe da saltare e si può quindi rendere con ostacolo, siepe o fosso.

♦ ferryboat in italiano si dice più chiaramente (nave) traghetto.

♦ festival è diffuso sia in inglese sia in francese (e si può pronunciare anche alla francese) per indicare una festa (popolare), una sagra, o una manifestazione perlopiù di spettacoli, musiche o balli. Più spesso è sinonimo di manifestazione organizzata periodicamente, quindi un appuntamento dedicato (il festival della letteratura di Mantova), o una gara (agonistica) annuale come il festival di Sanremo, del cinema di Venezia… Esiste anche l’italianizzazione festivale di uso poco diffuso.

♦ fetish (propr. feticcio) in italiano come aggettivo corrisponde a feticista o feticistico (una moda, un abito o un oggetto fetish) e come sostantivo si può dire feticismo (es. il mondo del fetish).

♦ fiberglass in italiano è più semplicemente la fibra di vetro.

♦ fiction (propr. finzione o invenzione) può riferirsi a un genere di letteratura, cinema o televisione che si basa sull’invenzione della storia (in contrapposizione per es. al documentario), e indica anche le opere che appartengono a questi generi. A seconda del contesto può perciò indicare un romanzo, o la narrativa nell’editoria, uno sceneggiato in televisione, una pellicola, film o storia a proposito di cinema. Talvolta può indicare una ricostruzione sceneggiata o di fantasia ispirata a fatti realmente avvenuti, e in alcuni casi può essere sinonimo di messinscena, finzione.

♦ fidelity card in italiano è più semplicemente una carta (o una tessera) fedeltà.

♦ fifty-fifty (lett. cinquanta e  cinquanta) indica una ripartizione al 50 percento, in parti uguali, metà per uno (o ciascuno), a mezzo, quindi alla pari.

♦ fighter (lett. combattente, lottatore) in italiano indica di solito un pugile, soprattutto se specializzato nell’attacco, quindi un picchiatore. In senso lato può essere sinonimo anche di guerriero, per es. nella locuzione foreign fighter (->).

♦ file in italiano è un archivio, cioè un insieme di dati archiviati, e in senso lato corrisponde a un incartamento, una pratica, un fascicolo, un cartella di documenti (per es. nel linguaggio burocratico o amministrativo). In informatica corrisponde anche a un documento (per es. aprire o salvare un file) e quindi si può identificare con i contenuti del documento, che possono essere di volta in volta  un testo, un’immagine, un filmato, una traccia musicale, un programma… dunque può essere anche un’applicazione o un eseguibile. file sharing in italiano è la condivisione di archivi (documenti, o dati e quindi di contenuti) in rete con altri utenti (per es. di musiche o film) e anche il programma che consente di scambiare contenuti, quindi l’applicazione, la piattaforma, la procedura o il programma di scambio. file transfer in italiano si può dire più chiaramente trasferimento dati (archivi, documenti o contenuti), e anche la procedura (piattaforma, protocollo, programma o applicazione) di trasferimento, copia o salvataggio (per es. dal cellulare al pc o viceversa).

♦ filibustering in italiano si dice più propriamente ostruzionismo parlamentare.

♦ filler in italiano è un elemento (o una sostanza) riempitivo, un additivo (per es. un filler antirughe in chirurgia estetica).

♦ film letteralmente significa pellicola (nel senso di membrana) e il termine  è inizialmente entrato in italiano con il senso di pellicola cinematografica al femminile (la film), ma verso gli Quaranta del secolo scorso si è trasformato in maschile (il film) ed è stato completamente assimilato per connotare non più solo il supporto ma il contenuto: quindi l’opera cinematografica, il lungometraggio o il cortometraggio, oppure la commedia, il dramma e via dicendo che si possono utilizzare come sinonimie secondarie (ha generato filmare, cioè riprendere con la telecamera, filmato, cioè ripresa cinematografica, video…). ♦ film loop in italiano indica un breve filmato o video che si ripete all’infinito, un tempo era letteralmente un nastro che si riavvolge, che ricomincia, a proiezione continua, ciclico, e con l’avvento del digitale queste alternative vivono ancora in senso figurato. ♦ film-maker in italiano è più precisamente l’autore di un film, quindi può essere anche il regista, il cineasta o il produttore. ♦ film-strip (lett. striscia di pellicola) in italiano si chiama filmina o anche filmino.

♦ final cut (lett. taglio finale) in italiano è il cambio di finale di un film, che si fa nella fase del montaggio o per migliorarlo o per esigenze di mercato, ed è anche il diritto di finale aperto o modificabile, la possibilità di cambiare il finale che si riservano le case di produzione cinematografiche.

♦ finger (lett. dito) 1) in informatica indica un programma di riconoscimento degli utenti, un sistema di identificazione (un identificatore) o di profilazione. 2) Negli aeroporti è anche il corridoio, la passerella o il budello che permette ai passeggeri l’imbarco o lo sbarco, quindi il manicotto d’imbarco. ♦ finger food (lett. cibo da dita) in italiano indica ciò che si mangia con le mani, senza posate, quindi per es. patatine, pizzette, tartine… e vari altri spuntini o stuzzichini che possono essere anche cibi al cartoccio. ♦ finger picking (e anche -> fingerstyle) è una tecnica per suonare la chitarra che in italiano si chiama pizzicato, arpeggio (o diteggiare) e consiste nel pizzicare le corde con i polpastrelli invece che con il plettro. ♦ fingerprint in italiano è l’impronta digitale, e in informatica è un sistema (o programma) di riconoscimento (o identificazione) dei contenuti digitali, per garantirne l’autenticità e la provenienza; in biologia il fingerprint genetico corrisponde all’impronta genetica, al profilo genetico. ♦ fingerprinting in italiano è il riconoscimento o l’identificazione di un utente o di un contenuto. ♦ fingerstyle (lett. stile delle dita) o -> fingerpicking in italiano è il pizzicato, l’arpeggio, il diteggiare le corde di uno strumento musicale come la chitarra senza il plettro ma direttamente con le dita.

♦ finish nell’italiano sportivo è il finale di una gara, quindi la volata, il traguardo, lo scatto finale (cfr. anche fotofinish ->).

♦ firewall (lett. muro di fuoco = fire + wall) in italiano è un programma di protezione informatico dagli accessi non autorizzati, quindi una protezione accessi, un blocca accessi.

♦ firmware (lett. ware = componente + firm = stabile) in italiano è un programma informatico non modificabile, permanente, che corrisponde alle impostazioni di fabbrica per es. di un pc, l’insieme delle istruzioni che lo fanno funzionare, quindi a volte anche il sistema operativo di un dispositivo.

♦ first lady negli Stati Uniti denota la moglie del presidente della repubblica, ma in senso lato può indicare anche la prima donna,  la prima cittadina, riferito alle figure femminili che primeggiano in un determinato settore.

♦ first minute (lett. primo minuto, contrapposto a last minute = ultimo minuto) in italiano si riferisce alle tariffe agevolate per i biglietti acquistati con largo anticipo sulla partenza, quindi una prenotazione con largo anticipo, un biglietto programmato da tempo (per es. un pacchetto o un’offerta a largo anticipo).

♦ fiscal in italiano si dice più chiaramente fiscale (o finanziario) e l’aggettivo si ritrova in varie locuzioni come ♦ fiscal cliff, baratro fiscale, cioè la politica finanziaria di riduzione della spesa pubblica (i tagli) e aumento delle tasse; ♦ fiscal compact, patto di bilancio o fiscale (anche riduzione fiscale) cioè l’accordo tra gli stati membri dell’Unione Europea per il pareggio di bilancio e il rispetto dei parametri per l’abbassamento del debito pubblico; fiscal drag, drenaggio fiscale, cioè il prelievo fiscale o l’aumento delle imposte in base all’inflazione o ad altre misure economiche.

♦ fish eye in italiano è letteralmente un (obiettivo a) occhio di pesce, cioè un tipo di lente grandangolare o grandangolo dal campo visivo molto ampio.

♦ fitness in italiano (sia al maschile sia al femminile) si esprime più chiaramente con benessere, buona forma fisica, (perfetta) forma o salute, l’essere in forma o in salute, e designa anche i programmi per il raggiungimento della buona forma, quindi la ginnastica, l’educazione fisica, gli esercizi, la preparazione fisica o atletica, l’allenamento. In genetica e in biologia è l’idoneità, cioè la misura del successo di adattamento e riproduzione di un individuo: la fitness (cioè idoneità) darwiniana o relativa.

♦ fitting in italiano corrisponde a versatilità, capacità di adattarsi, quindi all’adattamento e si ritrova spesso nel linguaggio dell’abbigliamento (per es. un indumento che calza garantendo un fitting personalizzato, quindi una vestibilità, una capacità di calzare).

♦ fixing nel linguaggio della Borsa è la determinazione del prezzo di chiusura dei titoli, quindi in italiano corrisponde alla quotazione ufficiale o di chiusura e anche il momento in cui la quotazione avviene quindi la chiusura.

♦ flag (lett. bandiera) in informatica è l’indicatore o il marcatore che segnala un cambiamento o un errore, e spesso corrisponde a una casella da selezionare per scegliere tra più opzioni, per es. in un modulo o un formulario, da cui flaggare, cioè selezionare, spuntare, barrare, cliccare.

♦ flame (lett. fiammata, vampata) nel gergo della rete corrisponde a un messaggio offensivo o a un commento provocatorio, quindi un’offesa, una provocazione, un insulto lasciati in rete, e spesso indica anche le reazioni e le code (o discussioni, botta e risposta) che ne seguono, per cui uno scambio offensivo, una rissa virtuale, una polemica in rete.

♦ flap, negli aeroplani, è l’aletta posteriore all’ala che funge da timone, e tecnicamente in italiano si chiama ipersostentatore.

♦ flash 1) in italiano è letteralmente il lampo (di luce) per l’illuminazione fotografica, che un tempo si otteneva con il magnesio, prima dei dispositivi elettrici che generano il lampo elettronico. Indica anche il dispositivo fotografico quindi il lampeggiatore. 2) Nel linguaggio giornalistico un flash è invece una notizia lampo, un aggiornamento tempestivo, in tempo reale (un flash di agenzia cioè una notizia dell’ultim’ora), e anche una comunicazione molto breve e rapida; 3) oppure in senso lato può indicare un ricordo improvviso, per es. ho avuto un flash, cioè un’idea, un’illuminazione (mentale). ♦ flashback (lett. un lampo = flash all’indietro = back) è una tecnica narrativa (nel cinema o nella letteratura) che in italiano si chiama analessi e consiste nell’interruzione della cronologia di una storia per compiere un salto indietro, una retrospettiva (o retrospezione), una rievocazione, un ricordo passato, un passo indietro o come è cominciata. ♦ flash mob (flash = lampomob =  folla) in italiano è un raduno lampo, organizzato di solito in un luogo pubblico attraverso la comunicazione in rete, per inscenare un evento, uno scherzo o una manifestazione fugace cui segue un’altrettanto rapida dispersione dei partecipanti. ♦ flashforward (lett. un lampo = flash in avanti = forward, contrapposto -> a flashback) è una tecnica narrativa e cinematografica  che interrompe la sequenza temporale per anticipare avvenimenti futuri, dunque è un’anticipazione, un salto in avanti, una prefigurazione e talvolta un (elemento di) presagio.

♦ flat in italiano si riferisce a una tariffa fissa, un prezzo fisso, un abbonamento a costo fisso (e non a consumo), quindi forfettario (si trova anche per esteso:  tariffa flat) e si ritrova anche nelle locuzioni ♦ flat rate o ♦ flat (rate) tax, cioè aliquota unica o tassa forfettaria che da qualche tempo i mezzi di informazione hanno cominciato anche a far circolare come tassa piatta, nella sua traduzione letterale: tassa piatta, che si sta diffondendo ed è sempre più documentata.

♦ flatting in italiano è un vernice traslucida o brillantante per mobili o altri materiali.

♦ flexicurity (flexibility = flessibilità + security = sicurezza) in italiano si può dire più chiaramente flessicurezza, un concetto che implica l’equilibrio tra flessibilità del lavoro e rispetto dei diritti.

♦ flickering in italiano si può dire più chiaramente sfarfallio, sfarfallamento o tremolio dell’immagine di uno schermo o dell’intensità luminosa di una lampada.

♦ flight recorder in italiano si può dire più propriamente registratore di volo o scatola nera di un aeroplano.

♦ flip-book in italiano è un libro animato cioè un libretto o blocchetto a cartoni animati o a disegni (o animazioni) scorrevoli  che permette di riprodurre l’effetto ottico delle animazioni sfogliando le pagine rapidamente.

♦ flipper in italiano si dice più precisamente biliardino elettrico (o elettronico). NB: in inglese i flippers sono le pinne cioè le alette che servono a rilanciare la pallina, e flipper è perciò uno pseudoanglicismo internazionale (indica la parte per il tutto) che nei Paesi anglosassoni si dice invece pinball.

♦ flirt in italiano si può rendere perfettamente con storia, avventura, filarino, amoreggiamento, relazione sentimentale o legame solitamente breve, superficiale, senza impegno.

flit in origine era il nome commerciale di un insetticida a nebulizzazione e per antonomasia in italiano indica un qualunque insetticida o disinfestante a spruzzo (ma oggi è di bassa circolazione).

♦ float 1) in italiano è un vetro infrangibile (sottile e resistente per es. dei parabrezza delle automobili, float glass); 2) nel linguaggio economico corrisponde invece a una fluttuazione del mercato (vedi -> floating). ♦ floater nel linguaggio economico-bancario è un’obbligazione a tasso indicizzato. ♦ floating (da to float = galleggiare) nel linguaggio economico-bancario è una fluttuazione (o anche oscillazione).

♦ flop (lett. caduta, tonfo) in italiano si può dire benissimo insuccesso, fallimento, fiasco, talvolta anche tonfo (in senso figurato), buco nell’acqua.

♦ floppy disk (anche decurtato semplicemente in floppy) corrisponde ai vecchi dischi flessibili o dischetti magnetici per la registrazione dei dati, che costituivano i supporti removibili di memoria o di registrazione dei calcolatori.

♦ flow chart in italiano si dice più chiaramente diagramma di flusso o ordinogramma.

♦ fly and drive (lett. vola e guida) è un pacchetto turistico che include il volo e il noleggio di una vettura all’arrivo, quindi è un biglietto aereo con una macchina a nolo, una formula aereo e vettura.

♦ flyby (lett. to fly = volare + by = vicino) in italiano indica un volo di ricognizione di un veicolo spaziale attorno a un pianeta o a un satellite, quindi un sorvolo, una ricognizione (perlustrazione, esplorazione) spaziale o satellitare.

♦ flyer in italiano si dice più precisamente volantino (pubblicitario).

♦ FM (sigla di Frequency Modulation) in italiano, per esteso, si dice più precisamente modulazione di frequenza.

♦ focus è un anglolatinismo che in italiano può indicare 1) l’obiettivo fotografico, la lente o il dispositivo per la messa a fuoco (-> autofocus se è automatico), e anche 2) il nocciolo del discorso, la parte più importante di un enunciato, quindi la rema, il tema (o argomento) principale. ♦ focus goup in italiano è un gruppo di discussione (o di analisi), di solito di esperti, su un determinato tema.

♦ folder (da to fold = piegare) in italiano è più chiaramente 1) una cartella, nel senso informatico, e per esteso può indicare anche 2) un raccoglitore, un album, e anche 3) un volantino pubblicitario, un opuscolo informativo, un pieghevole.

foliage in italiano corrisponde al cambio di colore delle foglie in autunno, al colorarsi delle foglie in autunno, quindi ai colori autunnali, al fenomeno della pigmentazione e del cambio di livrea (o abito) degli alberi, all’ingiallirsi o al rossore delle foglie.

♦ folk in italiano corrisponde a popolare o etnico e designa la cultura popolare in vari ambiti, in special modo riferito a quello musicale: la musica folk, propriamente la musica della protesta contadina e popolare dei Paesi anglosassoni. Ha generato ♦ folklore, italianizzato in folclore, cioè la tradizione popolare, lo studio delle tradizioni popolari, e anche l’aspetto superficiale, folcloristico, anche in senso dispregiativo, ossia la manifestazione più appariscente di alcune culture etniche e tradizioni popolari. La ♦ folk music è la musica folk e in senso lato è la musica etnica; il ♦ folk-rock è invece un genere musicale che fonde folk e rock; un ♦ folk singer è un cantante (interprete) o un autore di ♦ folk song, cioè di canzoni (o canti) popolari anglosassoni .

♦ follower in italiano corrisponde a seguace e nel linguaggio della rete indica un utente registrato ai contenuti di altri utenti, dunque per es. nel caso di Twitter, un abbonato a ogni nuovo cinguettio, o pubblicazione, dunque un lettore, un seguace o seguitore.

♦ follow-up in italiano indica 1) l’assistenza data ai neoassunti per integrarli nelle loro mansioni, dunque è un servizio di addestramento, apprendistato, una sorta di tirocinio, un periodo di pratica o di esperienza formativa, di praticantato; 2) in medicina è un controllo periodico, un richiamo, una visita periodica.

♦ font in italiano si dice più precisamente carattere (tipografico, di stampa, ma anche digitale) o fonte, cioè una serie completa di caratteri, un tipo di carattere (per es. il bodoni, il verdana…).

♦ food in italiano è cibo, e da solo indica anche (il settore de) la ristorazione o (la grande distribuzione) della gastronomia, l’industria alimentare. Il termine è ormai entrato in uso con una alta frequenza e si ritrova in molte locuzioni come fast food (->), junk food o trash food (il cibo spazzatura, solitamente ipercalorico), street food (cioè il cibo di strada), pet food (cioè il cibo confezionato per gli animali domestici), mentre l’espressione non food indica il settore non alimentare della grande distribuzione; ♦ food corner (lett. angolo cibo) è una zona adibita alla ristorazione o al consumo di cibo (per es. all’interno di una fiera o di un grande magazzino); il ♦ food design è l’ideazione o la progettazione di pietanze con un impiattamento o una presentazione decorativi, quindi l’arte dell’impiattare o della presentazione oppure indica il settore degli accessori da cucina, degli utensili firmati o innovativi; un ♦ food designer è un progettista o disegnatore specializzato negli accessori da cucina; ♦ foodie è un amante  della cultura gastronomica, un esperto di cucina, o semplicemente un buongustaio, golosone, ghiottone, una buona forchetta.

♦ football in italiano è il (gioco del) calcio (o del pallone), mentre il ♦ football americano è la variante americana più violenta e coreografica del rugby inglese.

♦ footer in italiano è il testo a piè pagina o l’area di stampa a fondo pagina.

♦ footing è uno pseudoanglicismo internazionale (che risale a fine Ottocento, di coniazione probabilmente francese) che unisce la radice foot = piede alla desinenza –ing, per designare ciò che in inglese è il jogging (e più recentemente il running) cioè la corsa, corsetta o marcia su tragitti di medio e lungo percorso, per allenamento (fare footing equivale ad andare a correre).

♦ footprint (lett. impronta = print del piede = foot) in italiano si dice più propriamente copertura satellitare, l’area coperta dal segnale.

♦ footwear in italiano si dice più precisamente il settore (o l’industria) delle calzature o delle scarpe, e può indicare anche semplicemente una calzatura, una scarpa o un tipo di scarpa.

♦ forcing nel linguaggio sportivo indica un attacco insistente, prolungato, pressante, una pressione continua.

♦ forecast in italiano si dice più chiaramente previsione, stima, pronostico, valutazione, predizione.

♦ foreign fighter (anche al plurale foreign fighters) in italiano si dice più chiaramente combattente straniero (cfr. Zingarelli) o combattente d’esportazione (cfr. Treccani) e indica chi va a combattere in una zona straniera. Recentemente la locuzione si è diffusa quasi esclusivamente riferita a un militante islamico, terrorista di matrice islamica, jihadista armato, o collettivamente alle milizie jihadiste.

♦ forever in italiano si dice più chiaramente per sempre; l’anglicismo è usato perlopiù nel parlato o scherzosamente, es. inter forever o pizza forever, cioè ogni giorno, per sempre

♦ form in italiano si dice più chiaramente modulo, scheda, formulario, foglio da compilare, quindi in alcuni casi anche modulistica o questionario; di solito ha un ambito informatico, si riferisce cioè alla modulistica digitale, telematica o virtuale quindi è la schermata o la pagina da compilare.

♦ format in italiano è più propriamente il formato, il modello, lo schema e può essere riferito nell’editoria per esempio alla gabbia o griglia di un libro, di una rivista, di una pagina o di un sito internet, quindi corrisponde all’aspetto grafico o all’impostazione grafica; nel linguaggio televisivo è invece un modello televisivo, la concezione, l’ideazione, lo schema o il funzionamento di un programma, spesso acquistato all’estero e adattato o localizzato, e dunque anche semplicemente il programma in questione.

forward in italiano si dice più propriamente 1) inoltro, riferito a un messaggio di posta elettronica ricevuto e inoltrato, rigirato o re-inviato ad altri contatti. 2) Nel linguaggio economico-finanziario è anche un contratto di compravendita che prevede il rinvio di consegna e pagamento in una data futura.

♦ fosbury in italiano si può dire anche salto dorsale, di schiena o all’americana, riferito allo stile di salto in alto inventato nel 1968 dallo statunitense  D. Fosbury.

♦ fotofinish (semiadattamento dell’ingl. photofinish) in italiano corrisponde al fotogramma finale dell’arrivo al traguardo, per es. di corridori, cavalli o gare di velocità, per stabilire chi ha vinto nel caso di contestazioni, quindi è un fermo-immagine, la foto o la ripresa dell’arrivo, e anche il dispositivo di rilevamento. In senso esteso è anche il testa a testa finale, l’arrivo sul fil di lana o sul filo del traguardo.

♦ fotofit (in ingl photofit) in italiano è la ricostruzione somatica, (dei tratti) del volto, della fisionomia o dell’aspetto di un ricercato, ottenuta dal montaggio di tratti comuni (occhi, bocca, naso…) combinati in tutti i modi e sottoposti al giudizio dei testimoni per il riconoscimento. È sinonimo anche di fotokit (->).

fotogallery (in ingl photogallery) in italiano è una galleria fotografica, nel linguaggio informatico, quindi una collezione di immagini, una carrellata di fotografie, una serie di foto.

♦ fotokit è un sinonimo di fotofit (->).

♦ fracking in italiano si dice più propriamente fratturazione idraulica o idrofratturazione, una tecnica di estrazione di petrolio o gas naturali che si basa sulla frantumazione delle pareti dei pozzi attraverso getti d’acqua e sostanze chimiche.

♦ frame in italiano si dice più propriamente fotogramma (cinematografico), cioè ogni singola immagine ferma che forma un filmato.

♦ framework in italiano si dice più propriamente intelaiatura, struttura, ossatura, e in informatica è anche un programma o una piattaforma che funziona da interfaccia o da collegamento tra il sistema operativo e i programmi.

♦ franchisee in italiano si dice più propriamente concessionario (di un’affiliazione) o affiliato, ossia chi usufruisce dei diritti concessi in franchising, cioè in un contratto di affiliazione commerciale. ♦ franchising (da franchise = franchigia, privilegio) in italiano si dice più propriamente affiliazione, programma di affiliazione o affiliazione commerciale, e consiste in un contratto di utilizzo del nome, dell’immagine e dei servizi di un’azienda dietro canone, mantenendo le caratteristiche della casa madre (es. un catena di negozi in franchising). franchisor in italiano si dice più propriamente titolare (di un’affiliazione o concessione), cioè chi è proprietario o detiene i diritti di un’affiliazione commerciale.

♦ freak  (propr. anormale, strano) in italiano corrisponde genericamente a emarginato, e anche a mostro o fenomeno da baraccone (come nel celebre film Freaks, Tod Browning 1932). Dagli anni Settanta del secolo scorso il termine ha assunto il significato prevalente di fricchettone, riferito ai modi giovanili di contestazione dell’epoca che si esprimevano con comportamenti e abiti stravaganti, capelli lunghi, uso di droghe…

♦ free in italiano corrisponde sia a libero sia a gratuito, a seconda dei contesti, e quando è un secondo elemento di una locuzione o di una parola ha anche il significato di privo di, senza, libero da, esente, per es. duty free (->) cioè esente da dazi, carbon free (->) cioè senza emissioni di carbonio; fat free (->) senza grassi (o a basso contenuto di grassi), gluten free (->) senza glutine.; ♦ free access in italiano si dice più chiaramente accesso gratuito riferito alla connessione in rete; ♦ free climber in italiano è un arrampicatore o scalatore libero, a mani nude, e il ♦ free climbing è l’arrampicata a mani nude o libera; ♦ free lance in italiano è un libero professionista o un lavoratore o collaboratore indipendente, esterno o autonomo; ♦ freemium (free = gratuito + premium = a pagamento) in italiano corrisponde a una versione gratuita di un prodotto o di un servizio, che può essere una versione di prova o dimostrativa (quindi anche un dimostrativo) con una scadenza, oppure una versione ridotta, limitata o anche di base (con solo alcune funzioni di base, mentre quelle avanzate sono a pagamento); ♦ free press in italiano si può meglio dire stampa a distribuzione gratuita, distribuita (o diffusa) gratuitamente, dunque i giornali, riviste o periodici omaggio, gratuiti; ♦ free rider (lett. chi viaggia gratis)  nel linguaggio economico indica chi trae benefici da un bene o servizio pubblico senza pagare, quindi in senso lato in italiano è uno scroccone, un profittatore, un portoghese o anche un evasore; ♦ free shop è un’abbreviazione non usata nei Paesi anglosassoni che sta per duty free shop (->) cioè un negozio esentasse, che gode dell’esenzione doganale; ♦ free software in italiano indica i programmi informatici liberi, aperti, modificabili dai programmatori, non protetti dai vincoli e le licenze d’uso dei programmi commerciali che per es. non hanno i codici sorgenti modificabili o non possono essere distribuiti gratuitamente; ♦ freestyle (lett. stile libero) nello sport indica le gare in cui i concorrenti sono liberi di usare lo stile che preferiscono e spesso, per es. nello sci, il freestyle è diventato il sinonimo di acrobatico, spettacolare (con salti ed evoluzioni per es. dai trampolini) e con questo significato l’aggettivo è uscito dall’ambito sportivo: un pizzaiolo freestyle = un pizzaiolo acrobatico, oppure un barista freestyle, una danza freestyle♦ freeware (free = libero + software = programma) è il software libero (->), i programmi che possono essere distribuiti talvolta gratuitamente o senza licenze, se non se ne fa un uso commerciale, quindi spesso sono anche programmi gratuiti.

♦ freezer in italiano si dice congelatore o surgelatore.

♦ frequent flyer in italiano indica chi vola frequentemente, quindi di abitudine, i pendolari dell’aereo, i viaggiatori (in aereo) abituali o volatori forti.

♦ friendly letteralmente corrisponde ad amichevole, ma esistono tanti aggettivi italiani che si possono utilizzare in modo più chiaro dell’anglicismo a seconda dei contesti; un programma o un’interfaccia (user) friendly, per esempio, sono amichevoli nel senso di intuitivi, facili (da usare), semplici per gli utenti; così come un prodotto family friendly (->) significa che è adatto alla famiglia, ideale (o pensato) per la famiglia; un ambiente friendly è semplicemente accogliente, confortevole, ben attrezzato per le sue funzioni (per es. bike friendly, cioè attrezzato per le biciclette); come secondo elemento in varie locuzioni friendly si può benissimo dire adatto a, ben disposto verso, per es. un prodotto eco-friendly, cioè (rispettoso dal punto di vista) ecologico, un albergo gay-friendly cioè che è orientato (che accetta volentieri) o aperto alla clientela omosessuale, oppure pet-friendly cioè che è attrezzato per chi viaggia con gli animali (cani, gatti…), in cui è possibile portare gli animali…

♦ friendzone (lett. la zona dell’amico) indica la zona di amicizia, un limbo tra amore e amicizia, un legame non ben definito, ambiguo, dai confini sfumati o una situazione di stallo che spesso si traduce in un rapporto (o un sentimento) sbilanciato, asimmetrico, non ricambiato allo stesso modo, non condiviso da entrambi, in cui uno dei due amici vorrebbe instaurare un legame sentimentale o sessuale e l’altro no. Dunque, a seconda del punto di vista, può essere sia un rapporto di sola amicizia invalicabile (in una canzone di Max Pezzali, prima del recente diffondersi dell’anglicismo, questo tipo di legame era chiamato “la regola dell’amico”), sia un amore a senso unico o non ricambiato e le alternative italiane possibili dipendono dai contesti. Il legame di amicizia può avere esiti diversi: “uscire dalla friendzone” significa passare dalla (semplice) amicizia, o dall’essere solo amici a una relazione amorosa, partendo dal presupposto che prima si diventa amici e poi fidanzati, dunque significa fare evolvere il rapporto di amicizia in una storia di amore (o di sesso: da amici a amici intimi, o da amici a trombamici, per usare una voce gergale del parlato). “Confinare o relegare nella friendzone”, viceversa, significa respingere, dare picche (o il due di picche), dichiarare “ti vedo solo come amico” o “per me sei come un fratello”. L’anglicismo ha generato nel parlato il verbo friendonzonare con questo ultimo significato, e una persona friendzonata è perciò respinta, vista solo come amica, mentre chi friendozona, il friendzonatore è chi respinge, non accetta di andare oltre l’amicizia.

♦ fringe benefit (lett. guadagno marginale, da fringe = frangia) in italiano è un premio di produzione, un incentivo, un beneficio (o indennità) accessorio, un compenso straordinario (o extra), una gratifica, una voce addizionale alla retribuzione che può essere in denaro o sotto forma di altri vantaggi (buoni pasto, automobile, viaggi premio…) o beni che si possono definire redditi in natura.

♦ frisbee è il nome commerciale di un dischetto di plastica che si fa roteare e volare per gioco e sport, quindi un dischetto volante e anche il gioco stesso (dal nome di una società, Frisbye, i cui vassoi tondi per torte o pizze venivano impiegati come gioco e lanciati dagli studenti americani degli anni ’50).

front end in italiano corrisponde all’interfaccia utente dei programmi informatici in rete, quella che vedono i visitatori, contrapposta al back-end (->) cioè l’interfaccia di amministrazione che viene utilizzata dai gestori del sito.

♦ frontman in italiano è il portavoce, il rappresentante di un gruppo (soprattutto musicale), dunque il capo, l’uomo di punta, il personaggio chiave o simbolo di una formazione, l’uomo immagine.

♦ front office in italiano è lo sportello (clienti), l’ufficio aperto al pubblico, dunque anche l’accoglienza, l’assistenza clienti, l’ufficio informazioni

♦ frozen yogurt in italiano è il gelato allo yogurt.

♦ FTP è l’acronimo o sigla di File Transfer Protocol, e in italiano è un protocollo per la trasmissione dati in rete.

♦ fuel in italiano è più propriamente il carburante o il combustibile, e in senso lato anche una riserva di energia che fa funzionare un meccanismo, quindi anche una pila; in particolare le ♦ fuel cell in italiano si chiamano celle (o pile) a combustibile, cioè che permettono di produrre elettricità da sostanze come idrogeno o ossigeno.

♦ full nel gioco del poker corrisponde a una combinazione di un  tris e una coppia, ma l’anglicismo (lett. pieno, totale)  circola in varie altre locuzioni come  ♦ full contact, un tipo di lotta marziale a contatto pieno che non ha un corrispondente in italiano; ♦ full HD (full = totale + HD = high definition) è un formato della tecnologia HDTV (High Definition TeleVision) che corrisponde all’alta risoluzione e si può esprimere con la massima risoluzione per la tv; ♦ full immersion lett. immersione totale) è un metodo di apprendimento intensivo usato spesso per le lingue che corrisponde a un apprendimento immersivo e intensivo (contrapposto agli approcci grammaticali e razionali che richiedono tempi lunghi) e in senso lato è anche un corso accelerato (intensivo) o un periodo di studio a tempo pieno; ♦ fullscreen in italiano si può perfettamente dire a tutto schermo o a schermo pieno (riferito per esempio al formato di un video o alla sua visualizzazione); full optional in italiano si può dire più propriamente fornito (o dotato) di tutti gli accessori, superaccessoriato o anche semplicemente accessoriato; ♦ full text e più precisamente  full text search si può esprimere con ricerca a tutto testo, o ricerca libera (nel testo) e si riferisce ai sistemi di ricerca di una stringa di caratteri che può essere rintracciata in un testo digitale (una modalità contrapposta alle ricerche per parola chiave, o per lemma nel caso di un dizionario); ♦ full-time in italiano si dice più chiaramente  a tempo pieno (detto di un lavoro che occupa l’intera giornata lavorativa) e ♦ full timer è un lavoratore a tempo pieno.

♦ funding in italiano si dice più propriamente  finanziamento. ♦ fundraising in italiano si può dire più chiaramente raccolta fondi, o anche colletta e sottoscrizione (di fondi o denaro)

♦ fusion (lett. fusione) riferito alla musica indica un genere che mescola jazz e rock, e in generale una mescolanza o una contaminazione di generi non solo musicali: la cucina o l’arredamento fusion  cioè ibridi.

♦ future nel linguaggio economico-finanziario è un contratto con consegna a termine o contratto finanziario a termine, una promessa di vendita che prevede un prezzo concordato alla data della stipula e la consegna in una data successiva prestabilita.

♦ fuzzy logic (a volte semplicemente fuzzy) in italiano si può esprimere benissimo con logica sfumata, caratterizzata dal fatto che, oltre a vero e falso, include anche valori intermedi.