La maledizione della baby sitter (e i composti di baby)

Mary_Poppins_la maledizione di baby sitterNel 1933, nel pieno della politica linguistica del fascismo che metteva al bando i forestierismi, Paolo Monelli aveva raccolto 500 esotismi (perlopiù francesi) che condannava dispensando gli equivalenti italiani attraverso il famigerato libro Barbaro dominio. In quest’opera se la prendeva con il termine inglese nurse e con il francese bonne (che poco dopo era attaccato anche dal linguista Bruno Migliorini), usati al posto di bambinaia.

Per la cronaca, agli inizi del Novecento circolava in proposito anche un’alternativa tedesca, Fräulein, letteralmente signorina, ma con un’accezione di bambinaia o di istruttrice di lingua e formazione teutonica. L’espressione baby sitter, invece, non era ancora stata importata, ma esisteva già una sorta di “maledizione” destinata a far preferire gli equivalenti stranieri alle espressioni italiane di bambinaia, balia, governante o tata.

Bonne è oggi una parola disusata; nurse, al contrario, rimane, e riecheggia in derivati come nursing (in italiano assistenza infermieristica) e nursery, il locale attrezzato per la custodia di neonati e bambini molto piccoli che in italiano si dice nido (es. asilo nido), reparto o ricovero dei neonati o neonatale (per es. la nursery o nido degli ospedali dove si custodiscono i neonati dopo il parto) o in generale locale riservato ai bambini, attrezzato per la loro custodia e vigilanza.

L’espressione babysitter (altre volte baby sitter o anche baby-sitter) è arrivata negli anni Cinquanta, e non da sola, i composti di baby si sono da allora moltiplicati in un modo che vale la pena di analizzare nei dettagli, per comprendere come l’italiano stia evolvendo attraverso un’anglicizzazione sempre più massiccia e incontrollata.

baby sitter tata bambinaia nurse
Le frequenze di baby sitter, tata, bambinaia e nurse nel corpus italiano di GoogleBooks Ngram Viewer (1950-2008)

 

L’esplosione dei baby

Nel 1956, la pellicola di Elia Kazan Baby doll, la bambola viva (letteralmente la bambola-neonata) ha reso popolare questo indumento femminile, e proprio attraverso le espressioni dei film, negli anni Sessanta baby è diventato un modo di dire usato anche in modo autonomo (Hey baby!). Intanto si è cominciato a parlare anche del baby boom, l’incremento delle nascite a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, e baby sitter ha incrementato la sua frequenza anche durante gli anni Settanta e Ottanta.

Nel 1983, lo Zingarelli annoverava tra i suoi lemmi solo 3 anglicismi di questa famiglia: baby, baby-doll e baby-sitter, oltre al semiadattamento babysitteraggio.

Nel 1990, nel Devoto-Oli, accanto a quest’ultimo adattamento veniva registrata anche la versione non adattata, baby-sitting, e poi si aggiungeva baby boom, un’espressione ormai stabilizzata. Le parole che contenevano baby erano in totale 6: c’era anche baby market, che però è poi scomparso dai dizionari più recenti, perché non ha avuto fortuna.

Ma per un aglicismo uscito, moltissimi altri della famiglia sono entrati, e nel Devoto-Oli 2017 sono 13: baby (che dopo essere stato anticipato dai composti è diventato un lemma autonomo che il Devoto-Oli e il Vocabolario di base di De Mauro annoverano tra le parole fondamentali della nostra lingua), baby bonus, baby boom, baby boomer, baby criminalità, baby doll, baby gang, baby-parking, babysitteraggio, babysitting, baby sitter, baby soldato e baby talk.

Lo Zingarelli 2017 nel complesso è più parco nell’accogliere questi composti, e ne ammette solo 9, ma tra questi ne annovera 2 che mancano sul Devoto-Oli: baby pensionato e baby killer.

E siccome vocabolario che vai e lemma che trovi, nel Gabrielli la famiglia baby sale a 18 componenti, e si trovano anche babycalciatore, babycampione, babyconsumatore, babycriminale, babydelinquente, babydelinquenza, babypensione e babyspacciatore.

Sul vocabolario  Treccani dei neologismi in Rete vengono registrati anche baby-cantante, baby-lavoratore, baby-paziente, baby-divo, baby-modella, baby azzurro (riferito alla nazionale di calcio), calcio-baby (il calcio giovanile), babygiocatore, baby-atleta, baby-consigliere, baby-discoteca, baby-carnevale, baby-consumista, baby fenomeno e baby-lavoro. Tra le varianti criminose ci sono inoltre baby-ladro, baby-bandito, baby-pirata, baby-estorsore, baby-kamikaze, baby-boss, baby scippatore, baby-prostituta e baby-prostituto, baby-escort e anche baby cliente, e poi baby-accattone. E per finire, ma forse non si finisce affatto, nel 2013 ecco comparire il royal baby, l’erede al trono appena nato.

Baby è diventato un prefissoide che si può appiccicare a qualunque cosa. E in tutta questa anglofilia insensata, va detto che l’uso dell’anglicismo nella lingua italiana spesso non corrisponde affatto ai significati che circolano in inglese. Baby significa neonato, ma da noi diventa un modo per indicare una porzione alcolica ridotta, e come sinonimo di piccolo si ricompone in una serie di parole macedonia affiancando termini italiani, ma anche inglesi, che sono una nostra invenzione, come baby-boss o baby-killer, che in inglese sono espressioni sconosciute (si parla di teenager o juvenile gang leader, o di underage killer e juvenile murderer/killer).

Ma chi se ne frega? L’importante è che suoni inglese, non che sia veramente inglese.

baby
La frequenza di baby nel corpus italiano di Ngram Viewer (1900-2008).

 

Perché preferiamo i suoni inglesi?

In questo contesto, l’affermazione di babysitter si è ormai radicata in modo sempre maggiore.

Negli anni Ottanta il linguista neopurista Arrigo Castellani che proponeva alternative italiane come  fubbia (fumo + nebbia) al posto di smog (smoke + fog), ha coniato guardabimbi al posto di babysitter (cfr. Arrigo Castellani, “Morbus Anglicus”, in Studi linguistici italiani, n. 13, 1987, Salerno Editrice, Roma, pp. 137-153), una parola di immediata comprensibilità e perfetta dal punto di vista della sua struttura, ma che non ha mai attecchito, perché la strada di proporre alternative a tavolino imposte dall’alto nella speranza che i parlanti la utilizzino non è una buona strategia.

“Nel pronunziare o nel sentir pronunziare una lingua straniera, ci piacciono più di tutto quei suoni che non sono propri della nostra”, notava Leopardi.

Giacomo Leopardi, Zibaldone, 17 ottobre 1821, p. [1938].

Anche Ivan Klajn (autore del primo importante studio sugli anglicismi nell’italiano: Influssi inglesi nella lingua italiana, Olschki, Firenze 1972) insisteva sul forte richiamo di ciò che è straniero, soprattutto nelle attività commerciali. E davanti alle proposte di Arrigo Castellani di adattare o tradurre certe espressioni, Anna Laura e Giulio Lepschy osservavano che era proprio per il loro suono e fascino esotico se gli anglicismi erano preferiti (Anna e Giulio Lepschy, “L’italiano visto dall’estero”, in Lettera dall’Italia, anno V, n. 20, ottobre-dicembre 1990, pp. 53-54).

Ed eccola la maledizione di babysitter, simbolo di ciò che succede con moltissimi altri anglicismi: li preferiamo agli equivalenti nostrani anche quando esistono (tata, bambinaia, balia, governante, “guardabimbi”), figuriamoci quando non esistono: l’alibi del prestito di necessità (che ritengo essere una notizia falsa, bufala o fake news, come è di moda dire adesso) apre le porte a ogni genere di anglicismo. Il problema è la quantità eccessiva che ci sta travolgendo e sta completamente ridisegnando il lessico dei nostri sostantivi.

Quando un anglicismo entra nell’italiano si fa posto tra le alternative e ne soffoca alcune accezioni preesistenti, in modo insensato da un punto di vista logico.

“Vi sono delle situazioni in cui un prestito considerato di lusso assume le vesti di un prestito di necessità in quanto il significato denota una differenza simbolica e semantica ormai affermata. È, ad esempio, il caso della baby-sitter. L’anglicismo in questione indica una persona, che custodisce i bambini durante l’assenza dei genitori, con la connotazione verso le persone piuttosto giovani, mentre ‘bambinaia’ connota una persona, di solito avanzata negli anni, che si occupa dei bambini per professione.”

(Anna Grochowska, “La pastasciutta non e più trendy? Anglicismi di lusso nell’italiano contemporaneo” in Annales Univerisitatis Mariae Curie Sklodowska, Lublin, Polonia 2010, Vol. XXVIII. z.2 sectio FF, pp. 49-50).

Ma tutto ciò non ha alcun senso, e in inglese non è affatto così. Questo è il risultato dell’acclimatamento dell’anglicismo che è avvenuto in Italia, perché in inglese non esiste questa accezione. Ed ecco che la maledizione della baby sitter porta a uno strano fenomeno: l’anglicismo assume una connotazione che non ha in inglese, diventa un termine più moderno ed elastico, mentre gli equivalenti italiani vengono considerati come parole rigide e immutabili (e se una lingua non evolve muore): bambinaia evoca, immotivatamente, il “vecchio” e non gode dell’elasticità moderna di baby sitter.

Così come per autoscatto, lo si vuole far diventare immobile e relegato ai vecchi sistemi di fotografia con un dispositivo a tempo o peggio ancora con il filo per l’autoscatto, mentre selfie, etimologicamente identico, si carica di una modernità per cui alcuni studiosi (come Vera Gheno dell’accademia della Crusca) sostengono che sia una parola più ampia e utile dell’equivalente italiano (ma non è di questo parere il Devoto Oli di Serianni e Trifone, per fortuna). Questo è vero solo perché a selfie si concede il diritto di evolvere, mentre si vuole mantenere cristallizzato autoscatto nel suo significato storico, senza la possibilità di allargare il suo uso e di abbracciare le nuove tecnologie, che si preferiscono invece esprimere in inglese.

Questa è la “maledizione di baby sitter”, una mentalità che dilaga e avvolge tutto il nostro accogliere senza criteri circa 3.500 anglicismi nei nostri vocabolari  (sono tanti, sono una lingua nella lingua!). E a chi dice che bisogna guardare alle parole incipienti e che è ridicolo rimettere in discussione termini entrati da decenni e ormai affermati, rispondo che il problema degli anglicismi è nella rete che formano e che si espande nel nostro lessico. Non c’è solo la moltiplicazione dei baby, c’è anche il fatto, nuovissimo, che sul modello di baby sitter sono nate nuove parole per nuove professioni come quella del dog sitter, del cat sitter o del pet sitter. Basta andare sul sito di un’associazione che tenta di creare un albo per queste nuove attività che devono avere certi requisiti formativi e non possono essere lasciate all’improvvisazione, per vedere che la rinuncia a dirlo in italiano è data per scontata. Nessuno sembra nemmeno porsi il problema di dare a queste professioni un nome italiano. Dog, cat e pet sitter si stanno affermando senza alternative. Ma non sono prestiti “di necessità”, sono prestiti “di incapacità” e “di moda”.

Se Arrigo Castellani fosse vivo forse proporrebbe un guardagatti, un governacani o un curapelosi. Ma tanto davanti a queste soluzioni l’italiano medio ride, insieme al linguista medio, anche se forse bisognerebbe piangere davanti alla constatazione del nostro senso di inferiorità verso tutto ciò che americano e che ciò che è nuovo è meglio dirlo in inglese.

E così, parola dopo parola, la metà dei neologismi del nuovo Millennio è ormai in inglese. E l’italiano, incapace di creare nuove parole in modo autonomo, è destinato a diventare la lingua dell’arcaico, sempre più inadatto a esprimere il quotidiano e il futuro.

 

PS
In Spagna, al posto di baby-sitter si dice niñera e anche canguro, una parola che richiama attraverso una metafora un senso di protezione e un’ironia meravigliose, che non hanno bisogno di spiegazioni. Se la maledizione di baby sitter implica dirlo in una lingua straniera, mi piacerebbe imparare dagli spagnoli.

Un pensiero su “La maledizione della baby sitter (e i composti di baby)

  1. Eccezionale panoramica come sempre ^_^
    Ricordo tempo fa una traduttrice scrupolosa che chiedeva come poter rendere in italiano “babycall”, finendo per dover ammettere che nessuna delle possibili traduzioni (di cui non ne ricordo neanche una) era accettabile, in quanto era facile che il lettore non capisse a cosa ci si riferiva.
    Studiando il fenomeno di traduzione italiana di Star Wars per cui Artù divenne Pinotto, mi sono imbattuto nella leggenda falsa secondo cui il direttore del doppiaggio dell’epoca traducesse esageratamente in italiano perché convinto che gli spettatori nostrani del 1977 fossero totalmente digiuni di inglese, quindi incapaci di coglierne le sfumature. (Niente di tutto questo è vero, ma è una leggenda ancora oggi attestata e considerata verissima.) Quel direttore del doppiaggio qualche mese prima aveva portato nei nostri cinema “Il maratoneta”, dove Dustin Hoffman viene chiamato dal proprio fratello maggiore con il soprannome babe. Proprio perché l’italiano usa così tanto baby e così poco babe un direttore del doppiaggio invasivo avrebbe dovuto fare qualcosa, invece per tutto il film Roy Scheider chiama Hoffman bèib. Come si potrebbe infatti tradurre un nomignolo del genere perché poi si adatti al labiale degli attori? Anche chi è ritenuto “traduttore esagerato” deve cedere davanti alla maledizione del baby 😛

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