L’italiano cede il passo all’inglese sul piano interno e anche internazionale

Di Antonio Zoppetti

Nelle ultime settimane l’itanglese dei giornali ha raggiunto dei picchi notevoli anche grazie a una serie di manifestazioni tutte italiane, tranne che nella lingua.

A Vinitaly, di cui è già pronta la campagna per la prossima edizione, gli amanti del vino sono definiti Wine Lover, c’è il Design Award, e gli appuntamenti internazionali, di cui il sito invita al save the date, sono in inglese: tutto si chiama Around the World, e oltre alle date, anche le città come Belgrado sono tradotte in inglese.

Le motivazioni di queste scelte sono legate a un voler essere “internazionali” puntando sulla lingua inglese rivolta all’esterno e all’itanglese sul piano interno. Eppure, nei ristoranti di lusso dei Paesi anglofoni, da New York a Melbourne, i menù propongono il “vino”, perché questa è la parola italiana che evoca la nostra eccellenza nel mondo, e non Wine.
È bizzarro avere a che fare con i tanti che sono pronti a spiegarci che è giusto e “necessario” introdurre in inglese ciò che arriva dagli Stati Uniti perché è normale che le culture esportino nella propria lingua i settori dove sono forti. Ma questi stessi personaggi, quando si tratta di esportare i nostri punti di forza – dal Made in Italy all’Italian Design – sono pronti a spiegarci anche tutto il contrario, e cioè che è giusto e necessario usare l’inglese, perché è la lingua internazionale. Il risultato è che non c’è che l’inglese in questo curioso import-export basato su due pesi e due misure.

Quale altro Paese storpia il proprio nome in inglese, invece che esportarlo nella propria lingua? La scelta di Vinitaly al posto per esempio di Vinitalia è come chiamare Pirandello Louis invece di Luigi, riscrivere con “Italy’s Brothers” l’inno nazionale, proclamare il Green, il White e il Red i colori della nostra bandiera, magari con la scusa di una standardizzazione internazionale dei Pantone.

Passando dal Wine al Food, che dire della manifestazione Woman in Food, abbreviata in Wif?

Mentre fortissime pressioni sociali, spesso proprio in nome del politically correct, spingono per educare tutti all’inclusione o alla femminilizzazione delle cariche, perché “ogni parola ha le sue conseguenze” e dunque è giusto e normale intervenire sull’uso per cambiare il modo cui ci siamo sempre espressi, in questi stessi ambienti riformatori che introducono la sorellanza accanto alla fratellanza, non c’è invece alcuna attenzione per l’anglicizzazione della nostra lingua, e tra Cook e food stylist, l’inglese viene ostentato come se ci fosse da andarne fieri. Su questo aspetto guai a intervenire! Guai a parlare di politica e pianificazione linguistica, sul fronte dell’itanglese, perché invece che guardare a cosa si fa oggi in Francia in Spagna, in Svizzera e nelle moderne democrazie, i nostri intellettuali sembra che sappiano guardare solo ai tempi del fascismo, quando le parole straniere vennero messe al bando e sono pronti a spiegarci che la lingua non si può di certo imporre dall’alto. Di nuovo si adottano due pesi e due misure, la pianificazione linguistica è perseguita su alcune questioni e negata per altre. E allora abbasso la discriminazione della donna, ma viva la discriminazione dell’italiano, degli italiani e delle italiane!

Mentre a Milano impazza quello che un tempo era il Salone del mobile, la parola d’ordine è una sola: rinominarlo con la Week Design, in attesa forse che anche il Fuorisalone divenga l’OutDesign. Il “renaming” è imposto dall’alto e i giornali sono i cani da guardia di questo revisionismo linguistico che hanno il compito di diffondere: Week, Week e se non basta: Weekend!

Intanto, nella nostra demenza culturale, abbiamo pensato di anglicizzare anche il logo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, per presentarci così, in inglese, a tutto il mondo, senza riflettere sull’impatto, fuori dai Paesi anglofoni, di questa scelta miope, perché siamo convinti che anche tutti gli altri siano – come noi – una provincia degli Usa. Dunque, invece di tradurre e puntare al plurilinguismo nel presentarci in Francia, Spagna, Germania e ovunque, ci presentiamo direttamente in inglese come fossimo un Paese anglofono.

In una recente pubblicità rivolta alla Francia (Histoire d’or à l’italienne) promossa dal nostro Ministero e dall’Italian Trade Agency (nome tipicamente italiota) è successo un bel pasticcio, perché le associazioni francesi si sono inviperite proprio perché il nostro inglese viola le loro leggi.

L’irriducibile Daniel De Poli, che da anni si batte contro l’anglicizzazione del francese – tempo fa mi ha segnalato il caso della condanna all’Aeroporto di Metz-Nancy-Lorraine – mi ha subito scritto facendo presente:

“Le menzioni in inglese Ministry of Foreign Affairs and International Cooperation e Italian Trade Agency sono illegali, perché contravvengono all’articolo 3 della legge del 4 agosto 1994 (legge Toubon) che recita:
Qualsiasi iscrizione o annuncio affisso o fatto sulla pubblica via, in un luogo aperto al pubblico o su un mezzo di trasporto pubblico e destinato all’informazione del pubblico deve essere formulato in francese (art. 3).
Per di più, l’uso dell’inglese negli annunci pubblicitari dovrebbe essere evitato poiché molti francesi non capiscono o fraintendono la lingua inglese. Una menzione in francese ha molto più impatto perché è immediatamente comprensibile. Penso quindi che sarebbe auspicabile attivarsi affinché le prossime menzioni siano scritte in francese in Francia, per esempio traducendo in francese, invece che in inglese: Ministère des Affaires étrangères et de la Coopération internationale e Agence italienne pour le commerce extérieur.
Infine, vorrei sottolineare che questo tipo di reato – l’uso illegale dell’inglese – dà luogo ad azioni legali da parte dell’associazione di difesa della lingua francese Francophonie Avenir, che spesso hanno portato a delle condanne. Lo stesso governo di Emmanuel Macron è stato perseguito in diversi casi (casi 3, 4, 5 e 7), e il 20 ottobre 2022 c’è stata la condanna per un uso illegale del marchio Health Data Hub.”

Naturalmente, Daniel De Poli non ha scritto solo a me, ma si è rivolto alle associazioni per la tutela del francese e anche alle nostre istituzioni diffidandole, per il futuro, di presentarsi in Francia come un Paese anglofono. E la sommessa risposta di cortesia che ha ottenuto è la seguente:

Egregio Sig. De Poli,
la ringraziamo per l’attenzione mostrata verso le attività della nostra Agenzia e per la Sua cortese segnalazione, ricca di spunti informativi.
Siamo a conoscenza dei contenuti e delle prescrizioni della Legge n. 94-665 del 4 agosto 1994, che applichiamo con attenzione nelle nostre attività promozionali volte a sostenere le aziende italiane che desiderano operare sul mercato francese. Le menzioni in inglese cui fa riferimento riguardano in effetti la versione internazionale del logo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale della Repubblica Italiana e il logo stesso dell’Agenzia ICE, oggi Italian Trade Agency.
Alla luce di quanto da lei segnalato, ci riserviamo quindi di approfondire e verificare le modalità più corrette per esporre i loghi ufficiali del Ministero e dell’Agenzia in eventuali futuri annunci destinati al pubblico francese.

Cordiali saluti…”.

Davanti all’ammissione, a mio avviso sconcertante, che la versione “internazionale” del logo non è all’insegna del plurilinguismo ma concepita solo in inglese, non ho molto da aggiungere, a parte vergognarmi e dolermi profondamente della nostra provinciale pochezza che ci sta trasformando in una “colonia” anche dal punto di vista linguistico, oltre che economico, politico, militare e culturale. Voglio però riportare un’altra segnalazione arrivata da Daniele Imperi che mi pare un’ottima conclusione per farci riflettere su dove stiamo andando.

Si tratta di una schermata presa dal profilo Instagram dei nostri Oscar Mondadori. A prima vista sembra un libro in inglese, ma invece è in “italiano”, a partire dal titolo non tradotto, sino alle indicazioni del genere (Contemporary romance), dei contenuti (What’s Inside?), e delle spiegazioni (Doppio PoV, Single mom…). Questo sarebbe il nuovo “italiano”, per certi linguisti che ci spiegano come la nostra lingua sia “vitale” e vispa, o per quelli che ci spiegano che l’anglicizzazione è tutta un’illusione ottica… La realtà è che questo è itanglese, il nuovo modello linguistico della cancel culture diffusa e imposta dall’alto a partire dalle nostre istituzioni, dai nostri mezzi di informazione, e dalla nostra classe dirigente che ha rinunciato all’italiano.

Finanziamenti pubblici ai giornali: 28 milioni di euro per aiutare l’anglicizzazione?

Di Antonio Zoppetti

Il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha da poco pubblicato il resoconto del finanziamento pubblico erogato ai giornali e l’elenco delle testate cartacee che hanno ricevuto i fondi straordinari per le copie vendute nel 2021 (un grazie a Carlo Vurachi che mi ha segnalato la notizia). Si tratta di 28 milioni di euro, a fronte delle richieste che ammontavano a 38 milioni [cfr. Andrea Falla “Dallo Stato 28 milioni ai giornali (cartacei): ecco chi ha preso i contributi per l’editoria”, Today 2/4/2024].

Non voglio entrare nel merito se questi finanziamenti siano giusti o meno, voglio porre sul tavolo un’altra questione che vado dicendo almeno dal 2017, quando scrivevo:

“Poiché i giornali ricevono un notevole contributo dallo Stato, che poi sono i soldi di noi cittadini, non sarebbe una cattiva idea quella di chiedere loro un codice di autoregolamentazione, come è avvenuto spontaneamente in Spagna, in cui si sforzino a evitare gli anglicismi inutili, per esempio, e a contribuire a tradurli. Non in modo coercitivo, certo, però si potrebbero per esempio legare i finanziamenti pubblici a un impegno a diffondere un uso corretto della lingua italiana, visto il ruolo fondamentale della stampa. L’intervento dello Stato per arginare l’entrata negli anglicismi sul fronte della lingua ufficiale avrebbe sicuramente delle ricadute anche in altri ambiti, come quello della pubblicità, dei linguaggi settoriali e dell’aziendalese. E soprattutto richiamerebbe l’attenzione sul problema, e agirebbe sulla consapevolezza dei parlanti.” (Diciamolo in italiano. Gli abusi nell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla, Hoepli Milano, p. 183).

Un rapporto di “comparazione” poco chiaro

Provo a riprendere la questione in modo più dettagliato partendo dal rapporto “Il sostegno all’editoria nei principali Paesi d’Europa. Politiche di sostegno pubblico a confronto” (a cura del Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri), nella cui Prefazione si legge:

“L’Unesco per sottolineare l’importanza, in un sistema democratico, della libera informazione, suole richiamare una icastica affermazione dell’economista statunitense Joseph Stiglitz: ‘L’informazione è un bene pubblico […] e in quanto bene pubblico ha bisogno del sostegno pubblico’. La lapidaria evidenza di questo concetto sembrerebbe non lasciare spazio a grandi dibattiti, nondimeno in Italia negli ultimi tempi si è imposta una corrente di pensiero tesa a ‘delegittimare’ le misure di sostegno pubblico al sistema dell’informazione, articolata essenzialmente su due diverse argomentazioni: da un lato, che l’afflusso di risorse pubbliche al sistema editoriale rappresenterebbe un condizionamento per chi dovrebbe essere libero di svolgere la funzione di watch dog a tutela della democrazia e del pluralismo delle opinioni; dall’altro, che la spesa volta a sostenere il pluralismo dell’informazione non potrebbe essere considerata essenziale, in quanto estranea all’ambito tipico delle attività di carattere pubblicistico.
Per verificare la bontà o meno di questa impostazione, è risultato quasi inevitabile e doveroso per il Dipartimento dell’Informazione e dell’Editoria volgere lo sguardo verso altri paesi europei in chiave comparativa, al fine di verificare se il complesso sistema italiano che supporta l’informazione, in modo diretto e indiretto, costituisse una nostra peculiarità ovvero se invece trovasse una corrispondenza in altri paesi europei di consolidata tradizione democratica.”

– La prima considerazione è che anche la lingua italiana “è un bene pubblico” e non si capisce perché in quanto bene pubblico non abbia anch’essa bisogno del “sostegno pubblico”: anche questa lapidaria sentenza non dovrebbe lasciare spazio a grandi dibattiti, “nondimeno in Italia negli ultimi tempi si è imposta una corrente di pensiero” tesa a delegittimare l’italiano e a cancellarlo per sostituirlo con l’inglese. E infatti, in un documento istituzionale come questo, la funzione del “cane da guardia” è stata sostituita dall’espressione inglese watch dog. Perché? Forse perché abbiamo un/a presidente del Consiglio che si è definito/a underdog? Forse perché (hot dog e doggy-bag a parte) è arrivato il momento di sostituire cane con dog come si fa con i dog sitter e le gare di agility dog? A chi è destinata questa comunicazione? E che scopo ha? Di certo l’espressione non è trasparente, non si rivolge alle masse, che al contrario si vogliono “educare” attraverso la sostituzione dell’italiano con l’inglese. E soprattutto non è rispettosa del nostro patrimonio linguistico.

– La seconda considerazione è che non si può ridurre chi critica questi finanziamenti a chi ne mette in risalto “l’essenzialità” o il “condizionamento” dei watch dog, ci sono critiche di ben altro carattere che riguardano i criteri di queste erogazioni.
I meccanismi sono complicati, ma per semplificare, ci sono finanziamenti indiretti (per es. riduzione di Iva e costi di spedizione) e diretti, e questi ultimi sono distribuiti con vari criteri molto discutibili. Il punto dolente riguarda le testate che sono pubblicate da cooperative o società “senza fini di lucro”, un requisito che viene aggirato, come spiegato chiaramente in un articolo de Il Post [“I giornali che ricevono i contributi pubblici (seconda rata del 2022)”]:

“I criteri per accedere ai contributi possono essere in buona parte soddisfatti attraverso la creazione di strutture formali (cooperative, soprattutto) che non cambiano la natura societaria delle aziende giornalistiche, la differenza di condizione tra alcune testate che vengono finanziate e altre che invece no è inesistente, e questo crea una discriminazione di fatto alla libera concorrenza. Prendete la vivace competizione che si sta sviluppando tra i quotidiani italiani di destra, con Libero che cerca di rincorrere i recenti successi della Verità, e un gran lavoro di entrambi nel convincere gli inserzionisti a preferire l’uno o l’altro: bene, in questa competizione lo Stato – e le persone che pagano le tasse, e il canone Rai – dà a Libero cinque milioni e mezzo di euro che la Verità non riceve.”

Tra le altre critiche che riguardano le modalità di erogazione ci sono per esempio il fatto che i finanziamenti siano previsti solo per i giornali cartacei con esclusione delle testate solo digitali (ecco un’altra discriminazione), o anche che alcuni meccanismi di rimborso si basino sulle tirature e le vendite dei giornali, con la conseguenza che sono avvantaggiate non le piccole testate indipendenti, ma quelle già affermate. Dunque criticare i meccanismi non equivale a metterne in discussione il principio.

Terza considerazione: il titolo del rapporto parla di una comparazione tra la situazione italiana e i “principali paesi europei”, ma questa comparazione è fatta solo con 8 paesi, tra cui c’è il Regno Unito che è uscito dall’Europa e poco in linea con il titolo. E non c’è una riga che spieghi come e perché sono stati inclusi nella comparazione non i paesi europei, ma alcuni paesi europei, dove per esempio colpisce che non sia stata inclusa almeno la Spagna. Qual è il criterio di questa comparazione “europea”? Scegliere come parametro di riferimento una rosa arbitraria – magari di comodo – non è un grande indizio di “scientificità”.

Fatte queste premesse, partiamo proprio dalla grande esclusa, la Spagna.

I giornali in Spagna e Francia

La Reale Accademia Spagnola collabora con le analoghe accademie presenti in una ventina di Paesi dove il castigliano è lingua ufficiale non solo per mantenere l’omogeneità della lingua a livello globale, ma anche proprio per diffondere e creare le alternative in spagnolo agli anglicismi.

E così, nel 2005, quando a Madrid è stato presentato il Dizionario panispanico dei dubbi (Diccionario panhispánico de dudas) alla presenza dei responsabili di quasi tutti i giornali più importanti di lingua spagnola, fu sottoscritto un accordo, come ha ben evidenziato Gabriele Valle, in cui si dichiarava:

“Consci della responsabilità che nell’uso della lingua ci impone il potere di influenza dei mezzi di comunicazione, ci impegniamo ad adottare come norma fondamentale di riferimento quella che è stata fissata da tutte le accademie nel Dizionario panispanico dei dubbi, e incoraggiamo altri mezzi affinché aderiscano a questa iniziativa” [“Lʼesempio della sorella minore. Sulla questione degli anglicismi: l’italiano e lo spagnolo a confronto”, p. 757].

E lo stesso autore ricorda che la Fundación del Español Urgente, un’istituzione senza fini di lucro nata da un accordo tra un’agenzia stampa e una banca, costituisce attraverso il suo sito un servizio di consulenza linguistica che è diventato un punto di riferimento per i giornalisti che si rivolgono proprio a queste risorse per trovare le traduzioni agli anglicismi.

Quanto alla Francia, sarebbe doveroso ricordare che mentre i mezzi di informazione italiani diffondono anglicismi che in Francia non esistono oppure sono deprecati, Le Figaro sforna innumerevoli pezzi che condannano l’inglese e riprendono le direttive della Commissione per l’arricchimento della lingua francese che invita a usare per esempio infox al posto di fake news. E lì ci sono delle leggi da rispettare a proposito della lingua, che è il francese – come è stato scritto nell’articolo 2 della Costituzione – e non si possono introdurre parole straniere nel linguaggio istituzionale. Le indicazioni dell’Accademia francese si intrecciano dunque con le iniziative statali e sono affiancate dalle indicazioni terminologiche regolarmente pubblicate da oltre trent’anni sul Journal officiel (la Gazzetta Ufficiale francese), mentre opere come il Grande Dizionario Terminologico del Quebec traducono gli anglicismi anche più tecnici, e rappresentano un punto di riferimento che noi non abbiamo, ma che i giornalisti francesi mediamente rispettano e tendono a seguire.

La situazione degli anglicismi sui giornali italiani, francesi, spagnoli e tedeschi (e anche quella dei forestierismi in totale sui giornali anglofoni) è stata studiata in modo esemplare da Peter Doubt sul sito Campagna per salvare l’italiano, da cui rubo una delle tante tabelle comparative con il conteggio degli anglicismi nella settimana dal 15 al 21 gennaio 2022 su 5 testate a campione.

In conclusione: i giornali francesi e spagnoli hanno un ruolo sociale importante anche dal punto di vista linguistico. Se il finanziamento pubblico ai giornali è una garanzia per il pluralismo e la democrazia e ha bisogno di un sostegno pubblico, lo stesso vale per la lingua italiana, oggi calpestata soprattutto dai mezzi di informazione, che un tempo hanno contribuito enormemente a unificare ma che dagli anni Duemila stanno trasformando in itanglese.

E allora, la mia modesta proposta è che i criteri di erogazione di questi finanziamenti dovrebbero essere legati anche al rispetto del nostro patrimonio linguistico, e si potrebbero per esempio sottrarre delle quote per ogni anglicismo introdotto al posto di un equivalente italiano, per esempio watch dog. Un algoritmo potrebbe facilmente calcolare la percentuale delle parole inglesi e detrarla dalle quote spettanti (se è il 2% ci sarà un taglio ai finanziamenti del 2%), con meccanismi correttivi moltiplicatori per cui qualora lo stesso anglicismo comparisse nel titolo varrebbe come 10 anglicismi, nell’occhiello 5 e via dicendo. I soldi trattenuti in questo modo potrebbero finire in un fondo destinato alla promozione della lingua italiana, per realizzare campagne pubblicitarie, borse di studio, iniziative su tutto il territorio. E se qualcuno pensa che questa sia una limitazione alla libertà di espressione dovrebbe tenere presente che i giornalisti hanno anche una funzione pubblica e didattica, nell’esercitare la loro libertà, e se viene meno è giusto che vengano meno anche i finanziamenti pubblici.

—————————————-

Un’ultima notizia, a proposito della questione degli anglicismi:

su YouTube è appena uscito il documentario L’idioma superiore, di Matteo Marcucci, che ha intervistato e messo a confronto le posizioni del presidente della Crusca Paolo D’Achille, del giornalista e conduttore di RaiNews24 Lorenzo di Las Plassas, e anche le mie.

Inclusività e anglicizzazione: la nuova lingua che si vuole imporre dall’alto

Di Antonio Zoppetti

Il Consiglio di amministrazione dell’Università di Trento ha varato da pochi giorni il Regolamento generale di Ateneo scritto con il “femminile sovraesteso”, come l’hanno chiamato, cioè cambiando l’uso storico dell’italiano e introducendo il femminile inclusivo. Tutte le cariche sono state femminilizzate, anche se includono il personale maschile, perché si sottintende la parola “persona”: la presidente, la rettrice, la segretaria, le componenti del Nucleo di valutazione, la direttrice del Sistema bibliotecario di Ateneo, le professoresse, la candidata, la decana…

“Una scelta che ha una valenza fortemente simbolica e che segue altre decisioni in questo senso intraprese dall’Ateneo a partire dal 2017 con l’approvazione del vademecum ‘Per un uso del linguaggio rispettoso delle differenze’”, si legge nel comunicato stampa che si può trovare sulla loro “pressroom” (ufficio stampa forse non è rispettoso delle differenze):

Questa provocazione – che fa però parte del linguaggio istituzionale e ha dunque la sua ufficialità – vuole fare riflettere sul sacrosanto problema della discriminazione femminile, anche se considerare il maschile inclusivo “discriminante” è una presa di posizione politica piuttosto discutibile, non condivisa e che non si fa alcun problema a entrare a gamba tesa sull’uso storico dell’italiano e la sua norma. Personalmente preferirei che le donne avessero delle reali pari opportunità sul lavoro, che fossero pagate come gli uomini e che avessero la possibilità di fare carriera e magari anche di diventare “rettrici” universitarie, visto che al momento sembra che ce ne siano solo 12 in Italia (fonte: Lorenza Ferraiuolo, “Università, Giovanna Spatari è la prima rettrice del Sud Italia”, Fortune Italia, 28/11/2023).

Se poi si vogliono far chiamare “rettori” o “rettrici” credo che dovrebbe essere una loro scelta, e vorrei ricordare che la maggior parte delle donne che sono avvocati, notai o architetti preferiscono il maschile inclusivo, dunque femminilizzarle a forza e volerle “educare” è un atto che non pare troppo “rispettoso delle differenze”. La verità è che questa inclusività esclude… ma comunque la si pensi, non resta che constatare che le fortissime pressioni sociali che spingono per cambiare l’uso in nome dell’inclusività sono le stesse che vogliono cambiare l’uso introducendo l’inglese. Basta contare gli anglicismi presenti sulla pagina principale del sito dell’Ateneo di Trento per vedere come sono “rispettosi” della lingua italiana: ci sono le call, gli hackathon, la reception del Rettorato, le news e le newsletter, gli open days (con la s del plurale), una challenge, la brand identity, il fundraising, lo staff, la categoria “people“…

Anche la Treccani nel 2022 ha deciso di registrare i femminili di nomi e aggettivi prima del maschile, e contemporaneamente ha deciso anche di introdurre il modulo Whistleblowing (proprio sopra la Cookie Policy e la Privacy Policy) invece delle Segnalazioni come si legge all’interno del documento.

Come ho ribadito anche la scorsa settimana al dibattito di Pordenone su dove va la lingua italiana – che è stato archiviato su YouTube se qualcuno è interessato – mentre in Italia sono state emanate raccomandazioni sulla femminilizzazione delle cariche in cui è stata coinvolta la Crusca, sugli anglicismi ci si volta dall’altra parte. E il paradosso è che si usano due pesi e due misure: sull’inclusività si interviene senza remore per educare tutti a parlare in un certo modo, ma davanti ai troppi anglicismi si risponde che sull’uso non si può di certo intervenire perché la lingua arriverebbe “dal basso”. Al contrario si diffondono dall’alto e del fatto che non siano trasparenti o rispettosi del nostro patrimonio linguistico storico o che creino fratture e barriere sociali sembra che non importi niente a nessuno.

L’imposizione manipolatoria dell’inglese nella comunicazione pubblica

Di Antonio Zoppetti

Durante l’Occupazione, mille parole tedesche sono spuntate sui muri di Parigi e di altre città francesi. È iniziato qui il mio orrore per le lingue dominanti e l’amore per quelle che si volevano eradicare. Visto che oggi, in quegli stessi luoghi, conto più parole americane che non parole destinate ai nazisti all’epoca, cerco di difendere la lingua francese, che ormai è quella dei poveri e degli assoggettati. E constato che, di padre in figlio, i collaborazionisti di questa importazione si reclutano nella stessa classe, la cosiddetta élite.
(Michel Serres, Contro i bei tempi andati, Bollati Boringhieri, 2018).

Ogni volta che prendo un Frecciarossa vengo travolto da nuovi anglicismi imposti agli utenti in modo voluto e prepotente. I clienti, che un tempo per definizione avevano sempre ragione, si sono trasformati in utenti da manipolare; e la prima regola della comunicazione trasparente, che una volta presupponeva l’adozione di un linguaggio adatto e comprensibile per il destinatario, è stata sostituita dalle nuove prassi che impongono a tutti la lingua decisa dagli strateghi della comunicazione con il risultato che è il destinatario che deve per forza di cose assoggettarsi alla terminologia decisa dal mittente.

La lingua è potere. Attraverso le parole si può controllare il destinatario, intimidirlo, trasformare chi non è d’accordo in chi non ha capito, e soprattutto educarlo. La lingua della comunicazione pubblica, cittadina e istituzionale ci martella a suon di anglicismi in modo sistematico e ben preordinato. E la sensazione è davvero quella di vivere in un Paese occupato.

Cronaca di un viaggio nell’itanglese

Alle 9 esco di casa per raggiungere la stazione. Passo davanti all’insegna di un Italian Bakery aperto non da molto accanto all’Italian Hair Line. Si tratta banalmente di un fornaio e di un parrucchiere in un’area semiperiferica o semicentrale (dipende dai punti di vista) di Milano, in un quartiere popolare dove non ci sono turisti. Queste attività commerciali che si elevano attraverso l’inglese magari con il pretesto di voler essere internazionali hanno come clientela gli italiani che scendono nel negozio sotto casa, o se sono di passaggio sono attirati dalle pizzette nelle vetrine, ma dubito che mediamente sappiano cosa significhi “bakery”.

Alle 9 e 15 sono in metropolitana. A quell’ora l’affluenza è media, c’è persino qualche posto a sedere. Mi guardo intorno. Ci sono studenti, gente comune, e una buona fetta di “stranieri” di varia provenienza. Cinesi, ispanici, altri che parlano in qualche lingua che non identifico, e che dall’aspetto potrebbero essere arabi, rumeni, slavi… ma non vedo inglesi o americani. Eppure la comunicazione è bilingue a base inglese, nella cartellonistica e soprattutto negli annunci sonori. A ogni fermata l’inglese ti penetra come un mantra: prossima fermata Loreto, next stop Loreto
La porta della carrozza è interamente coperta da una pubblicità con scritte in inglese e, in piccolo, un motto italiano che specifica di cosa si stia parlando, ma anche la logica degli altri pannelli pubblicitari segue quasi sempre lo stesso andazzo.

Alle 9 e 30 attraverso il “gate” della stazione (a Milano non ci sono le porte, solo i gate), mi dirigo verso il mio binario e mi sento sollevato perché penso a come è bello che ci sia ancora il “binario”, anche se mi assale l’angoscia che la prossima volta a qualcuno sarà venuto in mente di chiamarlo tracks o alla peggio binary, perché binario è un po’ troppo italiano. Su Italo hanno già sostituito ufficialmente il “capotreno” con il train manager, nella comunicazione ai passeggeri e anche nei contratti di lavoro.
Intanto devo preoccuparmi di fare il “Self Check In” del mio “ticketless”, perché le Ferrovie hanno deciso che la “convalida” “del “biglietto digitale” si debba chiamare in inglese. È la globalizzazione bellezza! È la nuova terminologia imposta alla gente, e se qualcuno si perde e non capisce, il personale gli spiega tutto nella terminologia che hanno deciso gli strateghi della “comunication”. Cartellonistica e annunci sono solo in italiano e inglese. Il mantra dell’inglese sonoro, come nella metropolitana, ritorna ad anglificare la mente e il cuore dei passeggeri. Un tempo c’erano i corsi di lingua da apprendere durante il sonno, adesso lo si può fare anche nel dormiveglia in treno, il corso d’inglese è compreso nel prezzo del biglietto. Il plurilinguismo non esiste, è stato cancellato.
Guardo i nuovi schermi informativi in italiano-itanglese o inglese, e ripenso ai vecchi cartellini che invitavano a non sporgersi dai finestrini, a non gettare oggetti e a non fumare in quattro lingue: italiano, inglese, francese e tedesco. Oggi le altre lingue sono state buttate via. Che gli stranieri imparino l’inglese, e se no, si arrangino. L’inglese è la nuova lingua da imporre. Punto. Lo si fa nella sua interezza come lingua “internazionale” della comunicazione cittadina e ferroviaria, e attraverso gli anglicismi che vengono introdotti in italiano al posto delle nostre parole storiche.

Un annuncio spiega che per ogni reclamo è possibile usare il “webform” sul sito Trenitalia oppure il modulo cartaceo. “Webform” è il nuovo anglicismo introdotto, o forse sono io che non l’avevo mai sentito declamare prima, comunque sia fa parte ormai della terminologia ufficiale della colonia Italia. Mi domando perché un modulo digitale sia indicato come webform mentre se la stessa cosa è cartacea diventa “modulo”. La risposta è che tutto ciò che è nuovo o riguarda l’informatica viene riproposto in inglese: “webform” è ripetuto anche nella traduzione in inglese, e arriva da lì. Gli strateghi hanno pensato bene di introdurlo invece di tradurlo.

Due ore dopo il treno è in forte ritardo. Capisco che ho ormai perso la coincidenza che da Mestre mi dovrebbe portare a Pordenone. La gente è spazientita. Arriva l’annuncio ufficiale e rimango incredulo di fronte a quelle parole, soprattutto quando vengo informato anche attraverso un messaggino:

“A causa di un guasto … il tempo di viaggio del treno Frecciarossa XXX è superiore di circa 30 minuti rispetto al programmato … Distinti saluti, Customer care…”

Nulla è lasciato al caso. Gli strateghi della comunicazione devono aver pensato di eliminare la parola “ritardo” che probabilmente suscita “vibrazioni negative” per l’azienda (e incentivano la richiesta dei rimborsi), dunque preferiscono usare la locuzione manipolatoria “il tempo di viaggio è superiore di 30 minuti”. Nove parole contro una: ri-tar-do. In compenso non si firmano Assistenza clienti, ma Customer Care, e in questo modo la presa per il culo del passeggero è conclusa. Gli strateghi della comunicazione – gli stessi che magari sono pronti a spiegarci che il ricorso all’inglese è motivato anche al fatto che gli anglicismi sono più sintetici rispetto all’italiano – hanno le idee chiare: la sinteticità è un valore solo per giustificare gli anglicismi, ma se si deve occultare il ritardo qualunque cosa va bene.

La lingua è un fiume che va dove vuole?

Qualche ora dopo sono finalmente al mio dibattito su dove sta andando la lingua italiana. Il mio interlocutore è un convinto seguace del “liberismo” linguistico, sostiene che la lingua è un fiume che va dove vuole, non è possibile controllarla.

Chiedo: ma “la lingua è un fiume che va dove vuole chi?”. La gente e il popolo? Mi pare che vada dove vuole chi è nelle condizioni di imporla al popolino a cui non resta che ripetere self check in e gli altri 4000 anglicismi che ci arrivano prevalentemente dall’alto, dall’espansione delle multinazionali e della loro lingua, dalla nuova cultura coloniale dove sembra esserci solo l’inglese e dai collaborazionisti dell’inglese che si annidano proprio nelle élite. Il punto è che l’acqua “va dove vuole” nella natura selvaggia, altrimenti viene incanalata per farla scorrere sotto i ponti delle città, nei sistemi di irrigazione, mentre si costruiscono gli argini proprio per orientarne i flussi, e quando le acque tracimano è perché è mancata la manutenzione, sono stati trascurati o fatti male.

L’idea che orientare la lingua sia un’imposizione autoritaria è tipica italiana, perché prevale lo stereotipo che l’unico modello di politica linguistica a cui guardare sia quello del fascismo. Mi viene fatto notare che anche se da un punto di vista razionale una parola come “covid” che indica una malattia, e non un virus (il coronavirus), dovrebbe essere femminile, e nonostante inizialmente l’allora presidente della Crusca avesse consigliato di usare il genere più appropriato, nell’uso si è imposto il maschile. Questa non è però la prova dell’ingovernabilità della lingua, ma del fatto che da noi mancano delle istituzioni che la regolamentino in modo ufficiale. Infatti anche in Francia si è posta la questione, e il giorno dopo che l’Accademia francese ha spiegato la correttezza del femminile, tutti si sono adeguati e hanno scritto così, non perché l’accademia sia un organo che obbliga la gente a parlare in un certo modo, tutto il contrario: la gente – e i giornali – riconoscono questo ruolo di consulenza che accettano e seguono, contenti che esistano delle prescrizioni e delle uniformazioni su cui modellarsi. Da noi questo ruolo appartiene ai mezzi di informazione che si muovono in modo caotico, istintivo e spesso pasticciato (oltre a preferire l’inglese). C’è insomma una bella differenza tra autoritarismo e autorevolezza, tra imposizione forzata e spontaneo riconoscimento di un punto di riferimento normativo necessario per conservare l’integrità e l’identità linguistica.

E allora è più sensato seguire l’autorevolezza di un’accademia o lasciare che la lingua la facciano i giornali o le ferrovie? Se questi ultimi introducono l’inglese al posto dell’italiano non è anche questa un’imposizione?

Mentre nell’italietta provinciale pensiamo che lo tsunami anglicus sia inarginabile, all’estero gli argini si costruiscono e funzionano, magari non sempre, ma complessivamente l’anglicizzazione del francese o dello spagnolo non è certo paragonabile alla nostra. Il liberismo linguistico, che io chiamo invece anarchismo metodologico, presuppone che sulla lingua non si debba intervenire, il che è una presa di posizione politica (più che linguistica) comprensibile ma anche discutibile. Per giustificarla si dice che tanto non è possibile imporre alla gente come parlare. Ma basta prendere un Frecciarossa per constatare che non è affatto così. La verità è che la lingua è un meccanismo di imitazione per cui la gente segue i modelli che arrivano dai centri di irradiazione linguistici, e questi ci stanno presentando un ben preciso modello di newlingua che di liberale non ha proprio nulla. Vige la legge del più forte, e non voler tutelare l’italiano davanti alla glottofagia dell’inglese significa essere complici della sua distruzione, che qualcuno scambia per una “normale” evoluzione e pensa pure che arrivi dal basso, come se l’attuale “dittatura dell’inglese” fosse qualcosa di “democratico”.

A me pare invece che siamo in presenza di un cambio di paradigma conflittuale dove una minoranza di collaborazionisti che occupano i centri di irradiazione della lingua – dalle istituzioni ai mezzi di informazione – sta educando le masse e imponendo la lingua dei padroni. A questo modello dominante bisognerebbe contrapporne un altro, che purtroppo non si vede tra gli intellettuali, ma è invece presente e sentito in larghe fasce della popolazione che non ne possono più degli anglicismi e si trovano tagliate fuori.

L’itanglese come modello linguistico (e la “diglossia lessicale”)

Di Antonio Zoppetti

Sabato leggevo sul Corriere un articolo che parla della “competition” nel Movimento 5 stelle tra Conte e la segreteria, in cui la nuova Presidente della Sardegna diviene “neogovernatrice”, nonché “testimonial” delle intese con il Partito democratico.

Perché una competizione è diventata competition? Forse perché i concorrenti e i competitori sono diventati competitor? Forse perché la disputa – esercizio retorico molto diffuso già nella accademie italiane cinquecentesche – e il dibattito sono stati buttati via per parlare del debate venduto come una novità delle nuove strutture che si definiscono Academy invece di Accademie? Forse perché non si dice più missione, visione, tutore e persino luogo ma si dice mission, vision, tutor e location?

I linguisti con le fette di hot dog sugli occhi etichettano questa cancellazione dell’italiano sostituito dall’inglese attraverso il concetto dei “prestiti di lusso”, cioè di parole inglesi “prese in prestito” nonostante abbiano vocaboli nostrani del tutto equivalenti. Una definizione miope che non tiene conto del fatto che molte parole trapiantate in italiano inizialmente come un “lusso” (vedi computer e calcolatore) in men che non si dica si sono trasformate in una “necessità” perché le alternative italiane sentite come “vecchie” sono regredite e sono state abbandonate. Per chiamare le cose con il loro nome questi trapianti linguistici che fanno piazza pulita del nostro lessico storico sono dei cambi di significante, un fenomeno grave e deleterio se si verifica con questa intensità e con le attuali proporzioni.

La sostituzione dei significanti e le connotazioni

Una parola possiede un significato (a volte anche ben più di uno, per essere precisi) e un significante, cioè la forma e il suono della parola che designa qualcosa. Quando sostituiamo il significante italiano — che segue l’indole ortografica e di pronuncia della lingua del bel paese dove il sì suonava — con quello inglese, più che con un “prestito” abbiamo a che fare con un “trapianto”, cioè una sostituzione lessicale che segue l’indole di un’altra lingua, e non si amalgama con il nostro sistema linguistico, che va così in frantumi. Questi presunti “prestiti linguistici” non solo non si possono restituire, ma soprattutto non privano la lingua “prestante” delle parole “prestate”, dunque sono dei trapianti che esportano il lessico delle lingue egemoni all’interno di altri sistemi linguistici che vengono in questo modo colonizzati e creolizzati.

Gli anglicismi sono dei cavalli di Troia che penetrando nell’italiano e lo riducono a lingua inferiore. Accanto ai significati delle parole c’è infatti un altro elemento da tenere presente: la loro connotazione, e cioè il modo di designare un oggetto o un concetto che si porta con sé ciò che evoca. Scegliere di dire “culo”, “sedere”, “lato B”, “deretano” o “fondoschiena”, per esempio, non ha a che fare con ciò che si designa (è la medesima cosa), ma la prima opzione appartiene a un registro triviale, mentre le altre suonano più accettabili a seconda dei contesti.

Quando un giornalista introduce “competition” al posto del corrispettivo italiano – per il momento ancora virgolettato, visto che non è ancora entrato in uso – sta compiendo uno strappo lessicale che dona al significante inglese una connotazione più prestigiosa dell’italiano, che finisce non solo per regredire nell’uso da un punto di vista statistico, ma soprattutto di regredire nella sua connotazione, perché l’inglese è introdotto come qualcosa di più prestigioso e di più evocativo, e i nostri termini finiscono per diventare come delle “parolacce”. Se questo uso prenderà piede, finirà che competition cesserà presto di essere un sinonimo equivalente per trasformarsi in un vocabolo di rango superiore, come è successo a “testimonial” che è ormai percepito come più consono di “testimone”, che si sarebbe detto nell’italiano storico. Queste sostituzioni di significante non sono dei “prestiti” anche perché i loro significati spesso divergono da quelli inglesi, e un “testimonial” in inglese si riferisce di solito a una persona comune che avvalora qualcosa, mentre quando la stessa funzione di “garante” e “promotore” (in italiano anche padrino/madrina, sostenitore, patrocinatore, avallante…) avviene attraverso il coinvolgimento di un volto famoso si parla di endorser. E allora cosa si “prende in prestito”? Un suono, più che un significato, o se vogliamo un significante. E in questa sostituzione finisce che l’inglese “testimonial” sbaragli tutte le nostre parole storiche che vengono abbandonate. Chi parlerebbe di avallante invece di testimonial, ormai?

La diglossia lessicale

Mentre l’inglese nella sua interezza si impone come la nuova lingua superiore della cultura, della scienza, della formazione universitaria, dell’aviazione, della marina, del lavoro, delle organizzazioni internazionali… gli anglicismi penetrano nelle lingue nazionali – ma in Italia il fenomeno ha ordini di grandezza superiori che all’estero – con analoghi meccanismi di prestigio che li rendono parole di rango superiore. La diglosssia – cioè la presenza di due lingue che non godono dello stesso status sociale – si riflette in un’analoga “diglossia lessicale” che regala agli anglicismi un maggior prestigio. Tutto ciò non può che portare alla regressione del vocabolario italiano e alla sua deriva verso l’itanglese, un fenomeno che va ormai oltre il trapianto dei “prestiti”, perché si sta configurando come una newlingua che include gli pseudonglicsmi, le parole ibride, l’effetto domino con cui prolificano le radici inglesi che si ricombinano tra loro in tutti i modi (fast food, street food, comfort food, food delivery, food designer, pet food…). Oltre a ciò aumentano anche le interferenze “invisibili” che portano a parlare di governatori (che non esistono nel nostro ordinamento), di visionario inteso come lungimirante invece di di “portatore di visioni distorte”, di cose basiche che non sono il contrario di quelle acide, ma indicano ciò che è fondamentale e via dicendo.

Se queste interferenze “invisibili” dovute ai falsi amici si possono considerare come un fenomeno “normale” nella storia dell’interferenza linguistica dell’italiano davanti per esempio al francese o allo spagnolo (sono già avvenute e comunque non generano un italiano strutturalmente diverso da quello storico), le altre sono una novità che non si era mia vista. Una novità che spezza la continuità storica dell’italiano, esce dalla norma della nostra grammatica e produce una nuova lingua con le sue nuove regole che non è più relegata solo nella sfera lessicale dei linguaggi specialistici o gergali, ma si fa strada penetrando nella lingua comune.

L’itanglese diviene perciò un modello linguistico superiore e da seguire. Una ben precisa scelta stilistica che si ricerca in modo consapevole.

L’itanglese come modello linguistico e stilistico

Torniamo al sommario da cui eravamo partiti: “La competion tra la segreteria e Conte. La neogovernatrice testimonial delle intese”.
Sono 12 parole che diventano 11 se togliamo il nome proprio “Conte”. Se poi si tolgono articoli, congiunzioni e preposizioni, rimangono 5 parole portanti: competition, segreteria, neogovernatrice, testimonial e intese, 2 in italiano, 2 in inglese e una che è un ammiccamento all’inglese, visto che Alessandra Todde tecnicamente è Presidente della Regione Sardegna e non “(neo)governatrice”. Ma ormai nella nostra ridicola sudditanza culturale vogliamo fare gli americani anche scimmiottando le denominazioni della politica d’oltreoceano, per cui anche il Presidente del Consiglio è sempre più spesso denominato informalmente “premier”.

In un altro pezzo del Corriere che avevo già citato nell’ultimo articolo, “Intelligenza artificiale e sviluppo sostenibile: la scelta degli atenei”, c’era una pubblicità della RCS Academy, che come lingua di insegnamento, più che l’italiano, ha scelto invece l’itanglese:

Appuntamento online il 14 marzo con l’Open Day di Rcs Academy, giornata di incontri con docenti ed ex-alunni per conoscere l’offerta formativa (master full time e part time, master online e corsi on demand) che copre diverse aree di specializzazione: Giornalismo Comunicazione e Marketing, Economia Sostenibilità HR e Innovazione, Arte Cultura e Turismo, Moda Lusso e Design, Food & Beverage, Sport, Healthcare & Pharma.
Indirizzati a giovani e a imprenditori in cerca di aggiornamento, anche i corsi che spaziano dal master in Luxury Tourism Management all’MBA in Business Management, Innovation e AI.

Per la cronaca: quest’ultima comunicazione pubblicitaria infilata in un pezzo che dovrebbe essere un articolo giornalistico è composta da 92 parole di cui 32 in inglese! E siccome vocaboli come “14” o “Rcs” andrebbero tolti dai conteggi (non sono né italiani né inglesi) risulta che oltre il 30% delle occorrenze di una simile comunicazione è composta da anglicismi (anche se qualcuno continua a negare che siano un fenomeno dilagante e ci racconta che è tutta un’illusione ottica, che va tutto bene e che è tutto “normale”).

Analizziamo le parole in inglese impiegate.
Online: quando l’espressione inglese è stata trapiantata, invece di “in linea” come avremmo potuto dire e come dicono i francesi, per i linguisti con problemi di vista era forse un “prestito di lusso”, ma presto si è rivelato un “prestito sterminatore” che ha ucciso l’equivalente italiano ormai sempre meno proponibile.

Open Day: scritto preferibilmente con le iniziali maiuscole, si è imposto facendo tabula rasa di “giornata aperta”, “porte aperte” o “ingresso aperto”, si è conquistato la sua specificità e oggi è considerato “necessario” perché si è ricavato la sua nicchia di tecnicismo della prassi delle nuove scuole-aziende all’americana.

Rcs Academy: scelta di una denominazione coloniale che spezza la continuità storica delle accademie italiane che sono sorte nel Cinquecento insegnando in italiano (al contrario delle università dove si insegnava in latino). Oggi l’aggancio è all’anglosfera, non alla nostra storia, e infatti la lingua di insegnamento è l’itanglese.

Master: inizialmente era un corso di specializzazione, perfezionamento o post-universitario, ma dal lusso alla necessità ci è voluto poco: oggi ci sono solo i master, ennesimo prestito sterminatore che ci ha sottratto i vocaboli nostrani.

Full time e part time: tempo pieno e orario ridotto o mezza giornata… addio! Vecchiume nella veterolingua sostituita dalla newlingua.

On demand: perché ostinarsi a dire su richiesta? L’inglese è diventato un tecnicismo insostituibile e necessario (soprattutto per le menti colonizzate).

Marketing: ormai intoccabile e necessario, nessuno lo può più mettere in discussione. Le patetiche disquisizioni sull’alternativa mercatistica, per esempio, appartengono a un passato lontano e sepolto, la questione è chiusa da un pezzo: si dice solo in inglese. Anche se in fondo sono solo tecniche di vendita, nulla di nuovo sotto il sole.

Design: come sopra, ma con un’aggravante, perché la parola deriva dal prestigiosissimo “disegno industriale” italiano, che gli anglofoni (non essendo deficienti) hanno tradotto nella loro lingua: industrial design; ma noi (che invece deficiamo parecchio) lo ripetiamo ormai solo con il restyling linguistico d’oltreoceano che è diventato uno dei più importanti plus del Made in Italy (anche plus sarebbe latino, ma ormai si sente dire solo quasi esclusivamente “plas”).

Food & Beverage, Healthcare & Pharma: le nuove categorie coloniali prevedono l’inglese anche nei settori dove l’italiano un tempo dominava, l’ambito dell’alimentazione si chiama ormai Food, e a quanto pare quello delle bevande “beverage” (nel caso dei vini meglio parlare di wine, con la stessa [il]logica). E come altro legare le nuove categorie se non con una bella “e commerciale”? Ciò vale anche per l’assistenza sanitaria & il settore farmaceutico, ovviamente.

Sport: anglicismo ottocentesco ormai insostituibile. Solo gli spagnoli parlano di “deporte”; noi avevamo “diporto”, ma l’abbiamo buttato via, invece di recuperarlo.

Luxury Tourism Management: luxury è “prestito di lusso”, ancora, come tourism; managment invece è già diventato di necessità e gestione, amministrazione o persino gerenza (parola ormai desueta) non le usa più nessuno, l’inglese è superiore, si sa.

HR, MBA, AI: le sigle seguono le nuove regole della collocazione all’americana, oltre al lessico inglese. Human Resources è meglio di risorse umane, MBA sta per Master in Business Administration e qualunque traduzione in italiano non avrebbe lo stesso prestigio. L’intelligenza artificiale IA per il momento combatte con AI in una “competition” che presto vedrà l’inglese affermarsi come la soluzione prevalente. Sulla stupidità naturale degli italiani vale la pena di scommetterci.

Queste scelte linguistiche sono ponderate e volute da chi sta imponendo l’inglese agli italiani. Questo è il modello linguistico della formazione (e della s-formazione dell’italiano) ricercata dai nuovi centri di irradiazione della lingua che guardano solo all’anglosfera, tutto il resto sembra non esistere.

Le conseguenze di questa strategia sono sotto gli occhi di tutti. Solo che quasi tutti si voltano dall’altra parte e fingono di non vederle.

Università in inglese: aggiornamenti e riflessioni sul caso Rimini

Di Antonio Zoppetti

Ringrazio i circa 400 cittadini che hanno sottoscritto la protesta organizzata da Italofonia.info contro l’abolizione del corso di Economia del turismo all’università di Rimini sostituito da quello erogato solo in inglese. E torno sul tema con qualche aggiornamento e riflessione.

Anche la Crusca ha preso posizione

L’accademia della Crusca, in copia agli appelli, ha appoggiato il nostro grido, ha inserito la questione nel Consiglio direttivo del 22 febbraio 2024, e ha formalizzato una lettera aperta (che si può leggere sul loro sito) indirizzata al rettore dell’università di Bologna, Giovanni Molari, e alla ministra dell’università e della ricerca, Anna Maria Bernini.

Il documento segnala che, stando alla legge, i corsi triennali (come quello del caso riminese) devono avere come obiettivo il pieno possesso dell’italiano, e questo obiettivo non può essere garantito da un corso erogato solo in inglese. Inoltre ricorda la sentenza della corte Costituzionale che ha sancito la “primazia” dell’italiano nell’offerta formativa, e domanda come sia possibile non rispettarla. Nella conclusione afferma che:

“La progressiva eliminazione dell’italiano dall’insegnamento universitario (come pure dalla ricerca) in vista di un futuro monolinguismo inglese costituisce, come ha osservato anche la European Federation of National Institutions for Language (EFNIL), un grave rischio per la sopravvivenza dell’italiano come lingua di cultura, anzitutto, ma anche come lingua tout court, una volta privata di settori fondamentali come i linguaggi tecnici e settoriali.”

La lettera firmata dal presidente Paolo D’Achille non chiede esplicitamente il ripristino del corso in italiano, perché come precisato nella premessa l’accademia non ha alcun titolo ufficiale per intervenire sulle decisioni del Ministero – da cui dipende – né su quelle dell’ateneo in questione, libero di agire in piena autonomia, anche se le decisioni devono essere approvate dal Ministero. Ma pone delle domande e delle pungenti questioni su cui si spera che l’università Alma Mater e la ministra diano almeno una risposta.

L’eco mediatica: sprazzo o cambiamento?

L’intervento dell’accademia, da ieri sera, è stato riportato dalle agenzie e dai giornali, e la speranza è che generi un dibattito serio sulla questione, perché dietro decisioni come quella di Rimini si consuma la cancellazione del diritto allo studio nella nostra lingua madre con una logica che si è già vista nel caso delle scuole coloniali africane, le cui conseguenze sono state ben denunciate da un autore come Ngugi wa Thiong’o in Decolonizzare la mente (Jaca Book, Milano 2015).

Proprio ieri, sulla prima pagina del Corriere.it (che per il momento non riporta la notizia), c’era un pezzo sull’impoverimento culturale dell’università (“Università: studiare senza libri, con l’ok dei prof”); l’Italia, si legge, è in fondo alle classifiche dei giovani laureati: sono il 28% contro l’obiettivo europeo fissato al 40% (solo la Romania è indietro rispetto a noi); il 25% degli iscritti abbandona senza raggiungere la laurea; nei prossimi vent’anni in Italia è previsto un calo di 400mila iscritti; e l’impoverimento culturale dei corsi a distanza rischia di creare un forte indebolimento delle future classe dirigenti. Ma nulla si dice nel pezzo sulla tendenza a insegnare in inglese, che come è emerso nel caso di Rimini rappresenta un ostacolo per gli studenti e un disincentivo a frequentare i corsi erogati. Insegnare in italiano non aiuterebbe? Gli autori del pezzo si sono guardati bene dal tirare fuori simili questioni, ma forse dopo la presa di posizione della Crusca qualcuno farà 2+2.

Nell’articolo a fianco, “Intelligenza artificiale e sviluppo sostenibile: le scelte degli atenei”, si pubblicizzava invece una gran quantità di corsi in inglese che stanno per essere inaugurati, senza che la giornalista spendesse una riflessione su cosa significhi e comporti. Nessun accenno alla “sostenibilità” dell’inglese, insomma, solo propaganda ai corsi in quella lingua: all’università di Trieste c’è la magistrale in “Materials and Chemical Engineering for Nano, Bio, and Sustainable Technologies (in inglese), mentre sono in fase di accreditamento ministeriale anche le lauree magistrali in “Engineering for the energy transition” e “European policies for digital, ecological and social transitions”. All’università di Torino il nuovo corso erogato in inglese si chiama invece “Economics of innovation for sustainable development”, mentre all’università di Parma da settembre 2024 partirà il corso di laurea magistrale in “Global Food Law: Sustainability Challenges and Innovation” (biennale, in inglese).

Questa prassi si aggiunge alle scelte anglomani del Politecnico di Milano, della Bocconi e di sempre più atenei, mentre spuntano i primi segnali per cui la stessa tendenza rischia di allargarsi anche alle scuole secondarie, come nel caso del liceo Avogadro di Torino.
Siamo al punto di non ritorno. O l’anglificazione dell’università si ferma adesso o ne saremo travolti, e poi sarà un po’ tardi per porre rimedio. Bisogna fare in modo che la presa di posizione della Crusca non sia destinata a essere uno sprazzo, ma inneschi una discussione politica seria.

L’economista Michele Gazzola – uno dei sottoscrittori più autorevoli delle lettere di protesta di Italofonia.info – ha ben spiegato ciò che sta avvenendo nelle università al convegno “LaLinguaMadre – La lingua che conviene” (svoltosi il 21 febbraio 2024 nella Sala Capitolare del Senato della Repubblica, a Roma).

La lingua madre: la lingua che conviene

Il problema principale riguarda le famigerate classifiche internazionali che assegnano a ogni ateneo dei punteggi dove uno degli indicatori più importanti è proprio la capacità di attirare gli studenti e i docenti stranieri. Per salire rapidamente nelle classifiche, gli atenei erogano perciò i corsi in inglese fregandosene delle competenze linguistiche o delle esigenze degli studenti italiani; impongono questa lingua, anche se gli italofoni calano, tanto con l’entrata degli stranieri complessivamente aumentano gli iscritti. Questo “turismo universitario”, però, favorisce gli studenti di passaggio che arrivano dall’estero, e ottenuta la laurea tornano a casa loro o vanno altrove (anche perché non parlano italiano), con conseguenze devastanti per il territorio, come lamentano gli albergatori di Rimini. Come se non bastasse, anche gli studenti italiani che studiano in inglese sono incentivati a trasferirsi all’estero, e così la “fuga dei cervelli” – secondo i dati di Gazzola – si incrementa dell’11%.
Per noi tutto ciò rappresenta un costo colossale. Le rette universitarie, infatti, non coprono interamente le ingenti spese dell’università, e lo stato deve intervenire in modo pesante per compensarle. Dunque i soldi delle nostre tasse finiscono per formare in lingua inglese gli studenti che poi andranno all’estero, con la conseguenza che altri Paesi si godranno i frutti della loro formazione fatta a nostre spese.

Questi sono i bei risultati di una classe dirigente miope che lavora per la distruzione dell’italiano e della cultura. A parte le questioni economiche, se si analizza l’aspetto qualitativo e didattico, Gazzola ha citato dei dati molto interessanti per capire il disastro di questo modello. La Libera Università di Bolzano, dove si insegna in italiano, tedesco e inglese, ha condotto delle ricerche da cui emerge che uno studente che studia in una lingua diversa da quella madre ottiene in media un voto inferiore dell’8% rispetto a chi studia nella propria lingua. Dunque apprende meno e peggio.

Ma simili dati arrivano da tutto il mondo. Sul sito Campagna per salvare l’italiano sono stati riportati quelli provenienti dalla Spagna.

Altre statistiche citate da Gazzola che arrivano dalla Svezia mostrano come gli studenti che studiano in islandese, nei questionari danno risposte corrette nel 73% dei casi, ma che questa percentuale precipita drasticamente nel caso di quelli che studiano in inglese.

Mentre in Italia si dà per scontato che l’inglese debba essere la lingua su cui puntare per la formazione – in una voluta confusione tra ciò che è internazionale e ciò che anglofono – basta vedere cosa sta avvenendo nei Paesi scandinavi per rendersi conto di come stiano davvero le cose. Lì hanno sperimentato l’insegnamento in inglese da tempo, ma stanno facendo retromarcia, perché si sono accorti che l’inglese si trasforma in un processo sottrattivo, non aggiuntivo: insegnare in inglese porta alla regressione delle lingue e della terminologia locali, all’impoverimento dell’istruzione, e alla semplificazione degli argomenti. Lo stesso problema denunciato in Olanda alla Bbc dalla professoressa di linguistica all’Università di Amsterdam Annette de Groot:

“Se usi l’inglese nell’istruzione superiore, l’olandese chiaramente peggiorerà. Si tratta di usarlo o perderlo. L’olandese si deteriorerà e la vitalità della lingua scomparirà. Si chiama bilinguismo squilibrato. Aggiungi un po’ di inglese e perdi un po’ di olandese”.

Se questo vale per i Paesi dove l’inglese è inteso dal 90% della popolazione, in Italia, dove è conosciuto da una minoranza degli italiani, l’impatto è ancora più devastante. E scelte di questo tipo creano barriere sociali, escludono e discriminano chi è italofono, imponendo a tutti la dittatura dell’inglese.

Vedremo se l’intervento della Crusca otterrà una risposta, dai destinatari ma anche dall’intellighenzia del Paese. Gli atenei seguono il proprio profitto, non gli interessi collettivi, né quelli etici di garantire il diritto di studio in italiano. Passano sopra persino a una sentenza della Corte costituzionale e dopo averla aggirata con l’introduzione di qualche sporadico corso in italiano (di solito di importanza marginale, ma che fa numero) sembra che adesso riescano addirittura a calpestarla impunemente. La questione è allora politica.

L’unica speranza è che il Ministero dell’Università e Ricerca intervenga, invece che essere complice della morte dell’italiano. E che si facciano sentire altre le altre voci autorevoli, oltre a quelle della Crusca.

La partita per estromettere l’italiano dall’università e la protesta che parte da Rimini

Tra pochi giorni sarà formalizzata la decisione dell’università di Bologna che ha deciso di sopprimere il corso di Economia del Turismo in italiano che si svolge a Rimini. Dal prossimo anno diventerà “Economics of Tourism and Cities” e si terrà solo in lingua inglese.

Qual è la novità? Il corso in inglese era già stato introdotto e già esisteva: la novità è che viene abolito quello in italiano per insegnare solo in inglese.

Questa decisione ha suscitato le proteste sia dei cittadini, che vogliono studiare nella propria lingua madre visto che è un loro diritto e che pagano le tasse, sia dalle associazioni degli albergatori che spiegano come quell’indirizzo di studi avesse da sempre un fortissimo legame con il territorio. In pratica gli studenti che uscivano da quel corso trovavano subito lavoro nelle realtà alberghiere locali. E l’offerta formativa di quella facoltà richiamava a Rimini moltissimi studenti giovani provenienti da ogni regione d’Italia. La sua cancellazione per passare all’inglese punta soprattutto agli studenti stranieri, che però una volta formati non lavoreranno a Rimini ma torneranno nei propri Paesi, anche perché se non parlano in italiano cosa li può trattenere?

Visto che nessuno o quasi dà voce al malcontento, l’associazione/portale Italofonia ha mobilitato tutti gli Attivisti dell’italiano predisponendo un modulo per inviare una protesta digitale indirizzata all’Università e in copia al Ministero dell’Università e Ricerca, all’accademia della Crusca, e ai giornali locali.

In pochi giorni sono partite centinaia e centinaia di proteste, tanto che il Resto del Carlino ha titolato: “Pioggia di mail all’Università: Salvate il corso in italiano”.

Intanto, la pioggia si fa sempre più fitta, e l’ateneo – spiazzato – ha dovuto rispondere attraverso una dichiarazione che lo stesso giornale ha riassunto in nuovo pezzo: “Corso di laurea in inglese: Una scelta condivisa“.

La risposta non ascolta né tiene conto dei pareri contrari e dei cittadini, annuncia di continuare nella strada intrapresa, e rivolta la frittata sostenendo che si tratterebbe di una “scelta condivisa” (da chi? dai vertici della scuola-azienda che non racconta di come l’associazione Promozione Alberghiera si sia invece espressa in senso contrario, secondo le testimonianze raccolte) appellandosi alle solite tiritere:

Le scelte che riguardano i progetti didattici sono il risultato di un percorso ben definito, lungo e con diversi passaggi. Un corso di laurea ha una gestazione pluriennale. Si tratta di scelte meditate, non certo di decisioni prese dall’oggi al domani. L’inglese è una lingua che apre al mondo. Per il territorio è un’opportunità (…) Dopo un’attenta e ponderata valutazione, abbiamo optato per l’inglese come lingua ufficiale del corso, scelta in linea con l’elevato livello di internazionalizzazione che caratterizza tradizionalmente il campus di Rimini.”

Queste scelte “meditate” seguono gli interessi dell’ateneo, che non coincidono con quello dei cittadini e degli italiani. Attraverso la manipolazione delle parole, la cancellazione dell’italiano e le difficoltà degli studenti si trasformano in un’imprecisata “opportunità per il territorio”. Il concetto di “internalizzazione” cela invece l’insegnamento in inglese e solo in inglese – non nelle lingue straniere e all’insegna del plurilinguismo – e forse si potrebbe meglio parlare di colonizzazione linguistica e di dittatura dell’inglese, visto che questa strana “internalizzazione” a senso unico implica l’anglificazione della formazione dei Paesi non anglofoni. Come se tutti i turisti tedeschi, spagnoli, francesi e gli altri che giungono in Italia si esprimessero normalmente in inglese (altra bufala che non risponde alla realtà).

Dietro questa visione c’è in gioco il diritto di studio nella nostra lingua madre, una partita vitale per l’italiano.

Italofonia ha intervistato un’albergatrice nonché mamma di uno studente che ha spiegato disperata:

Mio figlio e gli altri ragazzini della sua classe non possono più scegliere. Vede, noi siamo a Rimini, qui c’è il cuore del turismo, noi viviamo di turismo, e questa facoltà era molto ambita dai ragazzi di zona.  Ed era già in due lingue, ma separate: un percorso di Economia del Turismo, in italiano, pensato per le esigenze del territorio, e Turismo Internazionale, in inglese. Ora questa scelta è stata tolta. E questo li metterà in difficoltà.

Passando dal punto di vista dei cittadini a quello di un esperto come Michele Gazzola [1], economista dell’Università dell’Ulster che ci ha risposto appoggiando il nostro appello, le motivazioni di queste scelte che portano all’anglificazione della formazione universitaria nascono da un preciso interesse economico.

La parola chiave per comprendere ciò che è in atto da tempo e che nei prossimi vent’anni potrebbe esplodere in modo ancora più profondo è “razionalizzazione”, ci ha scritto Gazzola, che ha così sintetizzato la questione:

Le università hanno prima aperto corsi paralleli in italiano e in inglese, e adesso stanno chiudendo quelli in italiano perché costa troppo averne due uguali, e perché tanto sanno che con un corso in inglese possono coprire sia il mercato nazionale (sempre più piccolo a causa della denatalità) sia quello internazionale. Tanto lo studente italofono non ha scampo, può studiare in italiano solo in Italia (e in pochissimi altri posti all’estero), quindi se lo si priva del corso in italiano non andrà via.

L’ateneo di Bologna, insomma, pensa solo ai propri interessi e a reclutare gli studenti stranieri per fare numero e batter cassa – è il bel modello delle nuove scuole-aziende che hanno come “mission” il profitto — ed è poco interessato al diritto allo studio in italiano. Dietro le motivazioni ufficiali c’è proprio il fatto che il numero degli iscritti non è poi così interessante per l’Università che si vuole allargare a scapito della qualità della didattica e delle esigenze reali degli studenti del nostro Paese.

Il progetto di cancellazione dell’italiano dalla scuola alta

Tutto è iniziato al Politecnico di Torino che nell’anno accademico 2007-2008 ha avviato i primi corsi in inglese rendendoli gratuiti, al contrario di quelli in italiano, per fare in modo che partissero con un buon numero di iscritti. Ma così facendo discriminava il pubblico pagante che voleva studiare in italiano.

Il secondo episodio, ancora più grave perché ha costituito il precedente che ha fatto saltare il sistema, è avvenuto nel 2012, quando il Politecnico di Milano ha deciso di estromettere l’italiano dalla formazione di ingegneri e architetti che avrebbero potuto studiare solo in inglese. Maria Agostina Cabiddu [2], docente di Istituzioni di diritto pubblico, ha raccolto le proteste di un agguerrito gruppo di insegnanti che, dopo un appello al presidente della Repubblica Mattarella, si sono rivolti al Tar della Lombardia che ha dato loro ragione.

Ma l’ateneo e il Miur – cioè il Ministero dell’istruzione italiano che pare lavorare in favore dell’inglese – non hanno accettato il verdetto e si sono opposti. Dopo lunghi e complicati corsi e ricorsi in cui è intervenuta anche la Corte Costituzionale, è finita con una sentenza (a mio avviso “cerchiobottista”) che da una parte sanciva la “primazia” della lingua italiana nell’università, ma ammetteva i corsi in inglese con una logica di buon senso e proporzionalità che però non era definita, ma lasciata alla discrezione delle parti. E nell’atto finale della vicenda è andata a finire che il Politecnico se ne è infischiato della “primazia” sancita solo sulla carta, e ha continuato a erogare corsi quasi esclusivamente in inglese con una concezione della proporzionalità diciamo così “discutibile”. In sostanza lo spirito della legge viene aggirato con il semplice inserimento di qualche sporadico corso in italiano, magari delle materie più marginali.

Tutto ciò non era affatto destinato a rappresentare un caso isolato, fa parte di un preciso progetto – imposto dall’alto in modo surrettizio e senza interpellare gli italiani – che negli anni successivi si è diffuso in modo sempre più preoccupante. Gli altri atenei-aziende aspettavano solo la via spianata per seguire la stessa strategia per loro più remunerativa. E infatti, Maria Agostina Cabiddu, un’altra importantissima voce che ha raccolto il nostro appello, ha commentato:

Ci eravamo mossi a suo tempo proprio perché avevamo capito che si trattava di un progetto pilota.

Quello che è avvenuto negli anni successivi e quello che sta avvenendo in questi giorni è l’allargamento di questo modello, che dopo tanti altri casi è da poco stato perseguito anche dalla Bocconi di Milano, ma soprattutto rischia di estendersi anche alle scuole secondarie, come ho già denunciato a proposito del liceo Avogadro di Torino.

La novità delle proteste di Rimini è che a mettere in discussione questo progetto “italianicida” e “linguicista” [3] non ci sono solo associazioni come Italofonia e comunità virtuali come quella degli Attivisti dell’italiano, ma anche gli stessi imprenditori, le associazioni degli albergatori, e i cittadini che lottano – mi sembra impossibile doverlo raccontare – per il diritto alla studio nella propria lingua madre!

Tutto ciò è inaccettabile. Ed è inaccettabile che la cancellazione dell’italiano dalle scuole avvenga nel silenzio mediatico – a parte un giornale locale come il Resto del Carlino – e nel vuoto di prese di posizioni di intellettuali e politici.

La speranza è che le nostre proteste possano almeno riaprire un dibattito. La decisione dell’Università di Bologna sembra ormai presa, anche se formalmente sarà ufficializzata entro il 29 febbraio. Ma è importante far arrivare più voci possibili di dissenso per cercare di fare in modo che altri atenei, prima di scegliere di andare in questa direzione, debbano tenere conto anche delle resistenze dei cittadini oltre ai numerini del proprio “businness plan”.

Chi vuole aiutare i riminesi, gli albergatori, Italofonia e soprattutto il diritto allo studio in italiano e la lingua italiana si faccia sentire, e si unisca al nostro appello.

In meno di 30 secondi puoi aderire alla protesta sottoscrivendo e inviando un messaggio precompilato, ma è possibile personalizzarlo a piacere, attraverso il modulo a fine di questo articolo.

Grazie.

Antonio Zoppetti

——–

Note
[1] Per approfondire la questione: Michele Gazzola, “La ‘anglificazione’ dell’università in Europa è evitabile?Analisi e proposte per una università plurilingue” (2023).
[2] Maria Agostina Cabiddu ha curato: L’italiano alla prova dell’internalizzazione (goWare ed Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA, 2017).
[3] Il linguicismo è concetto introdotto dalla finlandese Tove Skutnabb-Kangas: come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo è la discriminazione in base alla lingua madre, che porta a giudizi sulla competenza o non competenza nelle lingue ufficiali o internazionali.

Marco Biffi, la diglossia e la lingua di Marinella

Di Antonio Zoppetti

Voglio riprendere un articolo dell’accademico della Crusca Marco Biffi uscito qualche tempo fa sul Corriere fiorentino intitolato “Se l’italiano diventa la lingua «bassa» a causa di scelte miopi”.

L’autorevole linguista ci ricorda che la lingua italiana è diventata un patrimonio di tutti solo negli anni Settanta del secolo scorso, visto che per centinaia e centinaia di anni è stata solo una lingua letteraria che viveva nelle pagine dei libri, mentre la gente si esprimeva fondamentalmente nel proprio dialetto.

La nostra storia linguistica è sempre stata caratterizzata da un bilinguismo squilibrato, cioè dalla presenza di due lingue che non avevano un uguale status, ma possedevano una precisa gerarchia. Il toscano, che si è affermato nella letteratura per motivi di prestigio e che dal Cinquecento in poi è diventato il canone imposto dalle grammatiche e dai vocabolari, era la lingua colta, mentre le altre varietà dei volgari, regrediti allo stato di “dialetti” (lingue “inferiori”) erano la lingua del popolo.

Questo “toscano” fatto coincidere con l’italiano, per i puristi avrebbe dovuto seguire i modelli aurei delle tre corone fiorentine trecentesche – Dante, Petrarca e Boccaccio –, per altri era invece il fiorentino vivo delle classi colte, come nella soluzione manzoniana del sciacquare i panni in Arno. Prima ancora del toscano, nel Medioevo, era il latino a essere la lingua della cultura e della scrittura con cui l’italiano-toscano ha dovuto scontrarsi nella sua affermazione, e ancora una volta, nella diglossia medievale, il popolo perlopiù analfabeta si esprimeva in volgare e non aveva accesso alla lingua “alta”.

In questo modo solo una parte della popolazione era bilingue, mentre la maggior parte era soltanto dialettofona, e la lingua italiana standard era confinata solo in alcuni contesti. (…) Ci sono voluti secoli per arrivare con fatica a una lingua per tutti gli italiani”.

E dopo questa difficilissima e tortuosa conquista, oggi cosa sta accadendo?

Il prestigio dell’inglese e soprattutto le “scelte miopi” della nostra classe dirigente stanno lavorando per riportarci a quella che il linguista tedesco Jürgen Trabant chiama la diglossia neo-medievale a base inglese. Questa è la nuova lingua della scienza, delle tecnica, del lavoro e dei piani alti. Ma la conoscenza dell’inglese riguarda solo una minoranza della popolazione italiana, europea e mondiale, e di nuovo il popolino ne è escluso. Dunque nel giro di meno di mezzo secolo dall’unificazione linguistica

“il nostro tessuto politico, economico e (ahimè) culturale, promuovendo l’uso dell’inglese a discapito dell’italiano (…) si ingegna per costruire, stavolta a tavolino, un bilinguismo con diglossia inglese/italiano, in cui l’italiano è la varietà «bassa». Politiche riconducibili a tutto l’arco costituzionale stanno da anni spingendo in questa direzione, all’inseguimento di un internazionalismo vuoto e miope che non ha rispetto del valore identitario di un bene culturale prezioso come la lingua. Come un ragazzo segue un aquilone. E così la lingua di tutti gli italiani, come Marinella, finirà per scivolare nel fiume a primavera. «E come tutte le più belle cose», sarà vissuta 40 anni, «come le rose».”

Finalmente qualcuno denuncia in modo lucido e senza esitazioni ciò che sta accadendo – come cerco di fare da anni anch’io – e soprattutto cosa accadrà tra non molto, se non si interviene.

La regressione dell’italiano

Facciamo il punto sulla situazione.
La regressione dell’italiano davanti all’inglese parte dalla scuola. Se un tempo l’italiano era una materia primaria e centrale, oggi questo ruolo è scemato, ed è l’inglese che è divenuto il perno della nuova cultura che si vuole istituzionalizzare. Tutto ciò è iniziato ai tempi delle tre “i” di Berlusconi-Moratti (Internet, Inglese, Impresa) su cui la scuola doveva puntare. L’insegnamento dell’inglese è stato introdotto sin dalle elementari per creare le nuove generazioni bilingui progettate a tavolino, e se un tempo si studiava una lingua straniera, oggi l’inglese è obbligatorio e ha cancellato la formazione basata sul plurilinguismo. In questa “dittatura dell’inglese” i progetti nati per favorire il plurilinguismo dall’Erasmus al Clil (che prevede l’insegnamento di una materia in lingua straniera) si sono di fatto declinati nell’insegnamento e nella diffusione del solo inglese (alla faccia delle altre lingue). La riforma Madia ha cancellato il requisito di conoscere “una lingua straniera” per accedere ai concorsi della pubblica amministrazione, e l’ha sostituito con l’obbligo del solo inglese. Intanto sempre più università vogliono estromettere l’italiano dalla formazione e insegnare direttamente in inglese, un modello che adesso si sta diffondendo anche in alcune scuole secondarie. Lo Stato italiano prevede che i progetti di ricerca o scientifici (Prin e Fis) si debbano presentare in inglese! Non in italiano!

La ricerca scientifica si svolge soprattutto in inglese, perché se qualcuno non segue questa prassi finisce che il suo studio non sarà letto, né citato, né godrà del prestigio di quelli stilati nella “lingua dei padroni”. L’Unione europea, nata all’insegna del plurilinguismo, di fatto sta imponendo l’inglese nella comunicazione istituzionale (grazie alla politica scellerata di Ursula Von der Layen) e sempre più usa quasi esclusivamente l’inglese come lingua di lavoro. E poi c’è l’inglese che ci arriva dall’espansione delle multinazionali, dalle pubblicità alla lingua delle interfacce informatiche che non è più fatta dagli italofoni nativi ma utilizzata senza traduzioni, mentre persino i titoli dei film non si traducono più.

La nostra intera intellighenzia sa solo ripetere il pensiero che arriva d’oltreoceano e lo fa con la terminologia, i concetti e le parole d’oltreoceano, che scimmiotta e ostenta abbandonando l’italiano, di cui fondamentalmente si vergogna. E così le nuove generazioni allevate in questo contesto culturale e figlie dell’esposizione all’inglese di cinema, tv, videogiochi, internet… vedono nell’inglese la lingua del futuro, della modernità e del mondo. E i mezzi di informazione che un tempo hanno contribuito all’unificazione dell’italiano ora diffondono l’itanglese, dai giornali alle tv.

Tutti i centri di irradiazione della lingua hanno sostituito il modello dell’italiano con quello dell’itanglese, che caratterizza il piano scuola, il linguaggio istituzionale, del lavoro, delle leggi (divenute act, mentre le tasse sono tax).

L’itanglese è l’effetto collaterale di questa espansione dell’inglese internazionale che si vuole ufficializzare.

Davanti a questo crollo, siamo in presenza di un cambio di paradigma che ci rende una colonia culturale – e linguistica – di un luogo che non c’è, chiamato Occidente, che non è altro che il nuovo impero americano, ed è la prosecuzione di ciò che un tempo si chiamava colonialismo e poi imperialismo, ma che oggi viene esaltato come l’unico modello possibile di lingua e cultura proprio dagli intellettuali che un tempo avevano un atteggiamento critico, ma oggi si sono trasformati nella principale voce del padrone che legittima il nuovo ordine costituito.

Ed è proprio questo il punto più disarmante. La questione della lingua è nata con Dante ancor prima che la lingua italiana fosse “fondata” e ha suscitato in ogni secolo accesissimi dibattiti e polemiche. Oggi tutto tace, siamo oramai lobotomizzati, rassegnati, diamo per scontato la cancellazione dell’italiano che finirà per diventare un dialetto di un anglomondo che pensa e parla inglese. E non solo manca la resistenza, quel che è peggio è che regna il compiacimento, nel perseguire la strategia degli Etruschi che si sono sottomessi da soli alla romanità fino a esserne inglobati e a scomparire.

Meno male che c’è qualche voce fuori dal coro, che ogni tanto trova persino qualche sprazzo sui giornali, come nel caso di Marco Biffi, di qualche comunicato Incipit, o di Michele Gazzola che denuncia i costi spropositati – oltre ai problemi etici di equità – dell’inglese dell’Unione Europea.

Lo strappo nella metamorfosi della lingua italiana

Di Antonio Zoppetti

Tutto cambia e si trasforma. E questo eterno “panta rei” proclamato sin dai tempi di Eraclito vale anche per le lingue. Ma fino a che punto qualcosa può cambiare rimanendo se stessa e senza diventare qualcosa d’altro? La crisalide che si trasforma in farfalla, il girino che diviene rana sono in fondo lo stesso individuo, anche se nella metamorfosi gli animali adulti non hanno più niente a che vedere con l’aspetto – e la fisiologia – che possedevano inizialmente.

Lo sfaldamento del latino

Lo sfaldamento del latino che ha portato alla nascita dei volgari antenati delle odierne lingue romanze è stato un processo molto lungo e tortuoso in cui la lingua di partenza, già piuttosto eterogenea, generazione dopo generazione a un certo punto ha perso la continuità con la lingua di partenza, fino a quando il volgare e il latino sono diventate due lingue tra loro incomprensibili. Lo strappo è avvenuto proprio in questo passaggio. Da quel momento il latino si è cristallizzato come lingua della scrittura, della Chiesa e dei dotti, che non era più una lingua naturale parlata da nessuno, mentre le lingue vive, i volgari, hanno preso la loro strada che li portava altrove. I primi segnali riguardavano il lessico che si era riempito di parole che non erano più latine, ma venivano ricostruite alla latina, per cui invece di dire equus si è cominciato a parlare di caballus, voce tarda che ha assunto la desinenza alla latina. In seguito anche il sonus del latino è stato abbandonato per il vocalismo romanzo che ha portato al passaggio da amicus all’odierno ami del francese, amigo dello spagnolo e amico dell’italiano. In questo processo si è determinata la perdita delle declinazioni, in un primo tempo ridotte a una sola (per cui ogni parola era declinata allo stesso modo semplificato), e poi si sono fissate in un unico caso invaribaile, affiancate dalla nascita delle proposizioni e degli articoli che le hanno rimpiazzate.

Il modello vincente del toscano

Ai tempi di Dante i volgari italici si erano ormai caratterizzati nella lingua del sì, ed erano tra loro diversi ma percepiti come qualcosa che possedeva una sua unità, e anche comprensibilità. E si cominciavano a impiegare anche per scrivere, invece del latino. San Francesco usava la varietà umbra, il siciliano fu la lingua che Federico II tentò di diffondere in tutta la penisola, mentre spuntavano componimenti nelle antiche parlate lombarde, e negli stessi anni un po’ ovunque nacquero compositori nel proprio volgare. Ma il prestigio del fiorentino di Dante, Petrarca e Boccaccio si impose come il modello linguistico di maggior successo. Tra le infinite diatribe sulla questione della lingua – e cioè quale italiano? – avrebbe finito per orientare la lingua di tutti. L’italiano si è perciò toscanizzato, mentre le altre parlate divenivano dei dialetti, cioè delle varietà di rango inferiore di una lingua nazionale, o meglio: proclamata nazionale da una parte degli italiani, non senza controversie e resistenze. Il toscano ha così sottratto il ruolo di prestigio del latino, la lingua superiore della cultura di portata internazionale, e divenne il modello dell’italiano odierno. Se un tempo i neologismi come caballus si uniformavano all’indole del latino (la desinenza in us in questo caso), chi non era toscano cominciò a toscaneggiare almeno nello scrivere, e a trasformare can e pan delle parlate settentrionali in cane e pane che seguivano il vocalismo di Firenze.
Se oggi possiamo ancora leggere Dante e gli scrittori antichi con una buona comprensibilità è perché il modello toscano è stato quello vincente. A orientare questa direzione non c’è stata alcuna politica linguistica, visto che l’Italia non ha mai avuto un’unità politica. L’epoca dei Comuni ha costituito un’anomalia in Europa dove regnavano le grandi monarchie. Il nostro sistema di governo che ricorda quello delle polis greche si è poi allargato all’epoca delle Signorie, e poi a quello dei tanti Stati che spesso erano sotto il controllo degli invasori spagnoli, francesi, austriaci che ci hanno a lungo dominati. Il tedesco ci ha influenzati poco, anche perché l’occupazione ha sempre riguardato le aree del nord che erano fuori dai giochi della lingua, e questi volgari si sono toscanizzati con il tempo senza a loro volta influenzare troppo il toscano. Il confronto con lo spagnolo e il francese, invece, ha cambiato molto la nostra lingua, ma le migliaia e migliaia di voci che abbiamo importato da queste lingue sono state adattate all’indole linguistica dell’italiano basato sul toscano. L’italiano ne è uscito arricchito ma non snaturato.

Il nuovo modello linguistico angloamericano

Quello che accade oggi davanti all’interferenza dell’inglese è un fenomeno profondamente diverso. In principio sono arrivati i primi “prestiti”, come li chiamano i linguisti. Tutto ha avuto inizio timidamente nel primo Ottocento per ampliarsi nella seconda metà del secolo. Ma queste parole in inglese crudo, e non adattato, erano poche centinaia. Nel secondo dopoguerra la nostra americanizzazione è cominciata in modo pesante. Il piano Marshall ci ha inglobati nell’area politica, economica, sociale e culturale degli Stati Uniti. Nell’american dream degli anni Cinquanta il cinema era soprattutto un modello americano che esportava visioni e valori americani. La musica era un fenomeno che si esprimeva soprattutto in inglese. Poi sono arrivate le tv commerciali che hanno costruito un mondo parallelo fatto più che altri di prodotti americani, e con internet e la globalizzazione questo mondo esportato dagli Usa è stato da noi importato in modo gioioso e acritico.

Tutto ciò ha le sue conseguenze linguistiche. E così il numero degli anglicismi è lievitato con una velocità e profondità mai vista prima nella storia dell’italiano. I duecento anglicismi di fine Ottocento, alla fine del Novecento erano circa 1.600 e oggi sui dizionari se ne contano circa 4.000. I francesismi invece erano e sono meno di un migliaio, contro un centinaio di ispanismi e altrettanti germanismi. Le parole di altre lingue sono invece poco significative e la loro presenza è del tutto trascurabile.

Davanti a questo scenario i linguisti sono poco preoccupati. Una delle ragioni con cui motivano la loro incosciente tranquillità è che l’inglese coinvolgerebbe il lessico, cioè il vocabolario, ma non intacca la sintassi, cioè la struttura della nostra lingua. Questo atteggiamento mi pare davvero insulso.

Per prima cosa perché non sono affatto convinto che i cambiamenti sintattici siano un “pericolo” così grave per la lingua. I cambiamenti sintattici e dello stile dell’italiano appartengono alla nostra storia, e non hanno determinato alcuna metamorfosi dalla crisalide alla farfalla. Lo stile di Boccaccio che ricalcava i costrutti latini con il suo periodare con il verbo alla fine (es. Chichibio, il quale, come riuovo bergolo era così pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollecitudine a cuocerla cominciò) nell’italiano moderno ha lasciato il posto a costrutti considerati più lineari (in realtà semplicemente diversi). Eppure si tratta dello stesso italiano, questo cambiamento non ha dato vita a una lingua “altra”. E se in futuro, per interferenza dell’inglese, si diffondessero costrutti come “passami il rosso maglione” invece del “maglione rosso”, io credo che sarebbe ancora italiano, comprensibile, e il pericolo per la nostra lingua non è certo in questo tipo di cambiamenti. Ben più pericoloso è invece dire un pullover, golf o cardigan rosso. Perché poco importa della collocazione quando le parole inglesi sostituiscono le nostre. Cardigan è più compatibile con can e pan di certe parlate non toscane che non con l’italiano storico, ma ancora una volta si può soprassedere anche sulle parole che terminano in consonante come bar, film e sport. Pazienza. Non è nemmeno questo il punto, e in poesia si trova il “cammin” di nostra vita, che è italiano come lo sono le preposizioni “per” o “ad”, che terminano appunto in consonante.

L’indole della lingua

Il punto sta nel fatto che la maggior parte degli anglicismi sono fuori dall’italiano perché le loro regole di scrittura e di pronuncia appartengono a un sistema diverso dal nostro. Costituiscono una rottura della nostra identità linguistica, quella che Leopardi chiamava l’indole della lingua, e che nel Settecento si chiamava anche “genio della lingua”. Banalizzando, tutto ciò non è altro che la sonorità della lingua del sì che porta uno straniero a riconoscere una parlata in italiano anche quando non capisce questa lingua dalla snorità che nel mondo è però amata senza uguali. Così come noi riconosciamo chi parla spagnolo, francese, tedesco o inglese anche se non comprendiamo cosa dica. Quando il numero di parole inglesi che impieghiamo diventa preponderante, la lingua raggiunge il punto di rottura. Nella sua metamorfosi è diventata altro dalla lingua di partenza. Si è consumato lo strappo.

Negli anni Duemila questo strappo si è allargato in uno squarcio ormai difficile da rammendare. Il numero, la frequenza e la profondità delle parole inglesi in alcuni ambiti, come il lavoro o l’informatica, hanno comportato la perdita del lessico per esprimerci in italiano senza la stampella dell’inglese, e ci mancano ormai i vocaboli. E anche quando ci sono, il bilinguismo è squilibrato, e le parole italiane non hanno lo stesso prestigio di quelle inglesi.

La diglossia gerarchizzata

Nella nuova diglossia che sta prendendo piede, la presenza di due lingue non è sullo stesso piano, ma è ben gerarchizzata. L’inglese è la lingua superiore da ostentare dicendo mission, vision o competitor invece di missione, visione e competitore. Nel mondo del lavoro usare l’italiano significa non ricorrere alla lingua di prestigio con cui gli addetti si identificano, e dunque rischia di farci percepire come “estranei” che non aderiscono alla lingua che il settore richiede e allo stesso tempo impone. In altre parole l’itanglese è diventato un ben preciso modello linguistico, la newlingua contrapposta alla veterolingua di cui fondamentalmente ci vergogniamo.

E allora accade quello che accadeva ai tempi del prestigio del latino, quando i titoli dei libri erano in latino anche quando erano scritti in volgare, a cominciare dal Canzoniere di Petrarca che in realtà si intitolava Rerum vulgarium fragmenta. Nella gerarchia linguistica gli anglicismi occupano ormai questo ruolo, dai titoli dei film non più tradotti ai nomi delle manifestazioni rigorosamente in inglese, dalle insegne dei negozi alle pubblicità, dai settori merceologici come quello del food o dell’automotive alle categorie concettuali con cui si riscrivono le cose. Nei palinsesti televisivi la comedy soppianta la commedia, il controllo genitoriale è parent control, il presidente del consiglio premier, i negozi store, i videogiochi videogame

Dai “prestiti” alla newlingua

Il numero degli anglicismi è tale che è sempre più difficile distinguere una parola inglese importata da un ben più ampio riversamento dell’inglese che non entra nei dizionari, ma che si riscontra per esempio quando un politico parla della destination invece della destinazione, che non è un anglicismo ma un virgolettato temporaneo che sostituisce il significante della parola italiana con quella inglese, assolutamente identico ma più prestigioso. È in questo passaggio che si consuma lo strappo.

Nella stessa dichiarazione ricorre anche brand reputation, invece della reputazione di un marchio, e in espressioni come questa c’è anche la tanto temuta inversione sintattica, ma non è questo il problema. Il vero problema – trascurato dai linguisti – è lessicale. Il “prestito sintattico” come qualcuno lo chiama, non è più pericoloso dei prestiti crudi di un solo elemento, è semplicemente la naturale evoluzione del fenomeno, dello strappo che si allarga. E le infinite ibridazioni che nascono (chattare, scoutismo, libro-game, scooterino…) sono una newlingua che non è più né italiano né inglese, ed escono dalle grammatiche di entrambi i sistemi. Lo strappo è in questi processi. E la newlingua itanglese che sta nascendo si basa ormai sul modello dell’inglese, e non più su quello del toscano, che prima ancora era costituito dal modello latino.

Quando la Crusca tira le orecchie alla comunicazione della scuola, ormai così zeppa di anglicismi che la stessa Accademia rinuncia a proporre come rendere in italiano, suggerendo invece di “tradurre” l’intero testo in una seconda versione per non addetti ai lavori, significa che – anche se non lo ammette esplicitamente – di fatto sta riconoscendo l’esistenza di questa newlingua parallela.

E con questo siamo arrivati al punto dei punti: non ha più senso prendersela con i singoli anglicismi per sostituirli con l’italiano. Questa operazione è importantissima perché aiuta a far circolare le alternative che altrimenti rischiano di essere schiacciate dall’inglese, di non essere più utilizzate e dunque di regredire fino a perdersi. Ma non bisogna confondere gli effetti con le cause: il problema non è banalmente nell’eccesso degli anglicismi e nelle ibridazioni, il problema è che l’tanglese è il nuovo modello linguistico di prestigio. Tutto il resto ne è la conseguenza.

La fine della continuità storica dell’italiano

Se in passato abbiamo assistito a sterminati scontri sulla questione della lingua, per stabilirne appunto il modello, oggi il modello vincente non è più il toscano, né quello di Dante trecentesco né quello degli epigoni e dei puristi, non è quello di Manzoni e nemmeno quello polimorfo di Gadda. Il nuovo modello è l’inglese, la lingua superiore che si vuole far diventare quella dell’insegnamento al posto dell’italiano, la lingua che vogliono ufficializzare in Europa anche se il Regno Unito ne è fuori, la lingua che usano gli scienziati nel voler essere “internazionali”. Ciò che bisogna respingere e combattere è questo modello che invece di considerare il plurilinguismo una ricchezza lo cancella con il globalese, la lingua naturale dei popoli dominanti che si vuole ufficializzare come la lingua dell’Occidente e del mondo intero, ma è solo una dittatura dell’inglese imposta dall’alto a tutti. L’itanglese è l’effetto collaterale di questo disegno. E per riappropriarci della nostra lingua dovremmo agire e combattere non i singoli anglicismi, ma il progetto linguicista che si sta realizzando e che ne è la causa.

Nella metamorfosi, non importa se la crisalide diventa una “bellissima” farfalla o in un’inquietante e orribile falena-favella, ogni giudizio estetico è puramente soggettivo e sottoposto alla legge dell’abitudine enunciata da Leopardi: solo l’uso rende “bella” o “brutta” una parola, che alla fine diventa semplicemente “normale”. Quello a cui assistiamo è un’altra cosa: il venir meno e lo spezzarsi della continuità linguistica che ha reso l’italiano di Dante un unicum con quello novecentesco. E questo fenomeno non è affatto “normale”. L’italiano del Duemila, come il volgare nato dallo sfaldamento del latino, si è avviato verso una precisa direzione che se ne allontana e diviene una newlingua che non è più italiano. Tutto ciò non ha niente a che vedere con l’interferenza storica del francese o dello spagnolo che abbiamo invece assimilato e inglobato all’interno della nostra indole linguistica che siamo riusciti a conservare evolvendoci. Questa volta è l’indole dell’inglese che sta stravolgendo ineluttabilmente la nostra. E mentre in passato la questione della lingua ha acceso interminabili e appassionati dibattiti che hanno coinvolto scrittori, linguisti, filosofi, insegnanti, patrioti, editori, librettisti e uomini di cultura, ciò che più preoccupa è che invece oggi, tutti zitti (o quasi), stiamo abbandonando il modello linguistico che ci ha unificato per passare a quello nuovo basato sulla lingua delle multinazionali con serafico compiacimento. In modo incosciente, e senza alcuna consapevolezza, stiamo buttando via uno dei nostri più importanti patrimoni storici.

Le scuole coloniali prendono piede in Italia

Di Antonio Zoppetti

La notizia che mi ha segnalato ieri l’attivista dell’italiano Marco Zomer riguarda la “svolta” di una scuola secondaria di Torino, l’Istituto Avogadro, che ha deciso di introdurre nella sua offerta formativa i corsi in lingua inglese invece che in italiano. I percorsi di studio sono due: il liceo scientifico dove la biologia, la chimica, la fisica e l’informatica verranno insegnate in inglese; e l’indirizzo tecnico dove l’inglese sarà la lingua di apprendimento “solo” di informatica e fisica. Come se non bastasse, l’insegnamento dell’inglese già previsto e obbligatorio verrà aumentato di due ore.

Il modo in cui l’articolo della Stampa riporta la notizia è il solito, si esaltano queste decisioni in modo acritico per propagandarle, invece di analizzarle, con la volontà di giustificare e diffondere la visione anglomane che la nostra intellighenzia ha fatto sua. E così leggiamo che la scuola “guarda al futuro” (cioè il futuro coloniale dell’Italia), perché dal prossimo anno includerà “i programmi Cambridge”. A dire il vero questi programmi servono per imparare l’inglese, non per insegnare le materie scientifiche, e andrebbe almeno specificato. Ma il pezzo, il cui incipit è un solenne “Torino chiama Cambridge” punta a mostrare che in questo modo la scuola torinese si eleva al prestigio di quella inglese, e sottolinea la grande innovazione per l’indirizzo tecnico, perché avrebbe solo quattro precedenti in tutta Italia, mentre al liceo scientifico è forse una prassi meno rara.

Le argomentazioni didattiche o pedagogiche sottostanti hanno lo spessore di una televendita di cinture dimagranti eccezionali perché vengono dall’America, a partire dai virgolettati della professoressa Elena Vietti che spiega come la “metodologia Cambridge” favorisca lo sviluppo delle tecniche di problem solving “oltre ovviamente un potenziamento della lingua stessa”. E qui infila la prima evidente castroneria, perché se vogliamo imitare il modello di formazione anglosassone dobbiamo appunto capire una cosa molto semplice: lì potenziano la propria lingua, non quella degli altri. Se Torino chiama Cambridge, va detto che Cambridge non chiama né Torino, né Parigi, né Madrid, né Berlino né alcun altro. A Cambridge non si studiano le materie in francese, tedesco o italiano – forse alla prof sfugge questo piccolo trascurabile particolare – e nei sistemi scolastici angloamericani le lingue straniere non sono contemplate, o comunque non sono obbligatorie, e quando sono previste hanno un ruolo marginale. Ma nel processo di alienazione linguistica in atto – l’abbandono dell’italiano per passare all’inglese – non si racconta che mentre tutta l’Europa spende una fortuna per insegnare l’inglese (lingua di fatto extracomunitaria) e formare le nuove generazioni bilingui a base inglese sin dalle elementari, gli inglesi e gli americani non hanno questi costi, visto che preferiscono che tutto il mondo impari e usi la loro lingua naturale.

Ora, per chiamare le cose con il loro nome, tutto ciò avviene all’insegna del colonialismo linguistico. Non stupisce che gli anglofoni, maestri del colonialismo e anche di quello che un tempo si chiamava imperialismo, spingano in questa direzione che comporta interessi economici e strategici per loro spropositati. Quello che stupisce è che in Italia non lo si capisca o si faccia finta di non capirlo. Colpisce il servilismo con cui ci zerbiniamo davanti alla “lingua dei padroni” e alla dittatura dell’inglese in un’alienazione culturale che distrugge la nostra lingua e cultura.

Dal punto di vista didattico, la citata professoressa spiega l’intento di voler conciliare l’approccio all’istruzione anglosassone di taglio molto pragmatico con la tradizione italiana più “teorica”, ma bisogna specificare che dietro la nostra “teoria” c’è – o forse c’era – un ben diverso criterio che tende a considerare le cose da un punto di vista storico e anche critico, che è molto distante da quello per esempio tipicamente americano che in nome di questo scellerato “problem solving”, già introdotto a forza nelle scuole come criterio di valutazione degli studenti, si limita il più delle volte a fornire nozioni non sottoposte ad analisi critiche né storicizzate. E in questo passaggio a un sistema “misto” (dove però c’è solo la lingua inglese) l’inglese farà da “link” alle materie: collegamento è parola della veterolingua che si vuole cancellare, ma si potrebbe dire forse anche hub, invece di snodo o raccordo (l’itanglese nella sua ricchezza ci sta fornendo sempre più sinonimi). Come se senza questo link, le materie fossero percepire come disgiunte, e come se questo collegamento non si possa fare nella nostra lingua nativa!

Il livello di queste dichiarazioni è sconcertante, e ancora più sconcertante è come i giornali lo ripetano facendolo passare come normale. Questo conciliare i due metodi in modo appunto astratto e teorico ricorda certe caricature con cui si dice di voler essere ecologici ma senza rinunciare al suv, o di volere incentivare prodotti locali a chilometro zero ma anche la Coca Cola. Nella realtà, dietro le proposte di anglificazione della scuola l’obiettivo è solo uno: l’imposizione dell’inglese che diventa LA materia più importante e il cardine attorno al quale si vuol far ruotare l’istruzione. Lo si vede dal bocconcino più goloso dell’operazione che include appunto l’ottenere la certificazione Igcse, la ciliegina che è il vero obiettivo dell’offerta.

Ma l’italiano dov’è? Che ruolo e che peso ha in questo percorso? Come mai le nuove scuole-aziende americanizzate o cambridgizzate e il nuovo sistema scolastico che viene smantellato sfornano studenti con sempre più problemi di analfabetismo di ritorno o funzionale?

Sembra che sul piatto della formazione la pietanza forte sia solo l’inglese, come se tutto il resto forse un contorno di cui si può fare anche a meno. E colpisce l’affermazione di un’altra professoressa che con orgoglio spiega che la nuova offerta anglomane non ha richiesto nuovi docenti, perché quelli in carica sono già patentati del livello C1 e C2 di inglese. Dietro questo fiorellino da mettere all’occhiello non si mette in luce la preparazione, la competenza o la bravura dell’organico, ma solo la sua conoscenza della lingua superiore. Come se fosse questo il requisito da propagandare negli immancabili “Open day” che servono a reclutare gli studenti.

Il numero di Avogadro

La dirigente scolastica dell’Istituto, nello spiegare che si tratta di una sperimentazione solo avviata, anticipa che per il momento ci si aspetta un numero di studenti e classi contenuto, e dalle adesioni dipenderà il futuro allargamento della proposta ad altri indirizzi e classi. La mia speranza è che iniziative di questo tipo falliscano miseramente, e che non si raggiunga il “numero di Avogadro” necessario per continuarli. Più realisticamente so bene che non andrà a questo modo, perché l’anglificazione della scuola nel nuovo millennio si sta allargando in maniera preoccupante.

Uno dei primi segnali è partito proprio da Torino, quando il Politecnico ha deciso di incentivare i corsi in inglese nell’anno accademico 2007-2008 attraverso l’iscrizione gratuita per il primo anno, discriminando di fatto i corsi in italiano che invece si pagavano. Pochi anni dopo, nel 2012, il Politecnico di Milano si è spinto ben oltre decidendo di estromettere la nostra lingua dalla formazione universitaria per erogare corsi solo in inglese. Anche in questo caso ci sono state vicende giudiziarie infinite, ma benché sulla carta sia stata riconosciuta una teorica “primazia dell’italiano”, di fatto l’ateneo continua a erogare corsi quasi solo in inglese. E così mentre questo modello si allarga, e recentemente anche la Bocconi di Milano ha preso la medesima direzione, oggi si abbassa l’asticella includendo anche le scuole secondarie, che sono il prossimo terreno di conquista. Nei Paesi scandinavi, dove l’anglificazione è stata da tempo introdotta e sperimentata, si assiste a una marcia indietro perché si è visto che insegnare in inglese si trasforma in un processo sottrattivo, non aggiuntivo. Insegnare in un’altra lingua comporta la perdita e la riduzione della terminologia nella lingua nativa, induce alla semplificazione dei concetti e dei ragionamenti perché si esprimono con più difficoltà, spinge a pensare in inglese, che invece di aggiungersi alla lingua di partenza finisce per fagocitarla. Noi, al contrario stiamo andando in questa direzione suicida in modo becero, acritico e coloniale. Le nefaste conseguenze di questi approcci sono state denunciate da autori africani come Ngugi wa Thiong’o che le hanno subite: lì, le scuole coloniali in lingua inglese hanno non solo contribuito all’abbandono delle lingue indigene, ma hanno soprattutto creato barriere culturali: chi non sapeva l’inglese non poteva accedere alle scuole che imponevano quella lingua e in quella lingua insegnavano. L’inglese ha creato una diglossia tra lingua della cultura e lingua del popolo che da noi apparteneva al Medioevo, quando il latino era la lingua appunto della scuola e della scrittura e il volgare delle massi analfabete. E noi, oggi, in nome di un supposto “internazionalismo” che viene fatto coincidere in modo surrettizio con il parlare in inglese, stiamo costruendoci da soli analoghe scuole coloniali per formare le future generazioni. Così, mentre l’itanglese diviene la lingua modello del linguaggio della scuola e del Ministero dell’Istruzione, l’inglese puro diviene la lingua della nuova cultura, in una svolta linguicista che discrimina la nostra storia e cultura.

Ma a raccontare queste cose, o per lo meno a mostrare l’altra faccia della medaglia dell’anglificazione, affinché ognuno possa fare le sue scelte in modo consapevole, non sono i giornali, né i politici, né gli intellettuali (a parte sparute eccezioni di qualche “dissidente”), sono più spesso i lettori. E Marco Zomer, agguerrito attivista dell’italiano, è riuscito a fare arrivare la sua voce al giornale, seppur in un trafiletto in cui le sue riflessioni sono state riassunte e semplificate.

L’anglificazione della scuola è il nuovo terreno di conquista che nei prossimi anni emergerà e si allargherà, ma invece di produrre riflessioni serie e dibattiti, viene dato per scontato come “il futuro” ineluttabile, un futuro dove l’italiano finirà per diventare un dialetto.

La rinuncia dell’accademia della Crusca

Dopo mesi e mesi di silenzio, la settimana scorsa è apparso il comunicato numero 22 del gruppo Incipit dell’accademia della Crusca contro il linguaggio anglicizzato del Piano scuola 4.0, seguito poco fa dal numero 23 che denuncia il passaggio dallo spid al sistema IT Wallet invece che al portafoglio digitale, come avevo già denunciato nel mio ultimo articolo.

Visto che in pochi conoscono il gruppo Incipt, ancora meno ne leggono i contenuti, e quasi nessuno, non dico segue, ma nemmeno prende in considerazione le indicazioni proposte, sarà utile ricordare di cosa si sta parlando.
È stato costituito nel 2015 dopo una fortunata petizione rivolta alla Crusca della pubblicitaria Annamaria Testa che ha raccolto 70.000 firme contro l’abuso dell’inglese. Nel recepire questo grido collettivo di protesta, l’accademia ha deciso di avviare una sorta di commissione composta da alcuni accademici, oltre che dalla pubblicitaria, per “monitorare i neologismi e forestierismi incipienti, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana e prima che prendano piede”, perché si dà per scontato che, una volta acclimatate e radicate, le nuove parole poi non siano più arginabili.

Questa premessa, invece di parlare esplicitamente di “anglicismi” parla di “neologismi” e “forestierismi”, ma per chiamare le cose con il loro nome, tutti i comunicati hanno a che fare con l’inglese perché l’afflusso di parole straniere di altra provenienza è poco significativo, fuori dalle prese di posizione di principio che affondano le loro radici nel purismo. Il problema non sono i forestierismi ma gli anglicismi. E venendo ai neologismi, dallo spoglio dei dizionari – vorrei gridarlo forte a chi fa finta di non capirlo – circa la metà delle parole nuove del Duemila è in inglese crudo. Magari la nostra lingua fosse ancora viva e in grado di produrre le proprie parole senza importarle direttamente dall’inglese, e senza inventare pseudoanglicismi come smart working o caregiver, per fare riferimento proprio a due espressioni biasimate da Incipit.

Il principio per cui sia possibile intervenire solo nella fase incipiente di circolazione delle parole, va detto, non è una legge naturale davanti alla quale non si può fare nulla. È il risultato di un’anomalia tipicamente italiana che proprio l’impostazione della Crusca favorisce, visto che all’estero le politiche linguistiche di Paesi come la Francia o la Spagna sono state in grado di arginare molti anglicismi che sono regrediti anche dopo una prima fase di alta circolazione.

Nel caso del francese e dello spagnolo la differenza principale rispetto alla situazione nostrana è che le accademie fanno le accademie, e hanno perciò una missione prescrittiva, mentre la Crusca si vanta di essere descrittiva, e cioè di non voler intervenire sulla lingua che si limita a studiare, invece che orientare. A ciò si aggiunge il diverso contesto storico-sociale: in Francia e Spagna le accademie operano in un contesto dove esistono leggi per la tutela della lingua, banche terminologiche istituzionali che traducono ogni cosa in modo ufficiale, e in più in generale una società dove non c’è alcun senso di inferiorità verso l’inglese né alcuna vergogna di tradurre, adattare o pronunciare gli anglicismi nella propria lingua.

In questo contesto, la creazione del gruppo Incipit è stata una ventata di novità che appariva come un prezioso cambio di rotta, anche se si è rivelato un progetto fatto di buoni propositi le cui modalità non sono in grado di incidere sulla realtà.

Tullio De Mauro ne contestò da subito l’impostazione entrando nel merito della fase incipiente che andrebbe maggiormente precisata. Una parola come benchmark – notava – è entrata come tecnicismo del linguaggio economico-finanziario vent’anni prima che il suo significato si estendesse al linguaggio comune come alternativa più prestigiosa di punto di riferimento o pietra di paragone. Dunque, come ho scritto in Diciamolo in italiano molti anni fa, poiché gli anglicismi spesso penetrano nei linguaggi specialistici e poi, a distanza di molti anni, raggiungono anche quello dei giornali perdendo la loro specificità di settore, ci vorrebbe un doppio argine: il primo terminologico, per tradurre da subito le parole di settore come avviene in Francia e in Spagna, e il secondo per affermare le alternative quando si verifica il salto dal tecnicismo alla lingua.

Il progetto Incipit ha funzionato?

Accanto ai limiti concettuali di Incipit, quello che mi pare emerga dopo nove anni dalla sua costituzione è soprattutto la sua inutilità pratica. Il gruppo sin dal suo esordio si è caratterizzato nell’intervenire non nella lingua di tutti, dove vige il principio per cui ognuno parla come vuole (un principio che dovrebbe essere precisato con qualche paletto se si vuole evitare che la “libertà” di espressione non si trasformi nella distruzione delle regole dell’italiano e nella sua trasformazione per esempio in itanglese) ma di vigilare il linguaggio istituzionale, dove il ricorso all’inglese pone problemi di trasparenza, oltre che di ufficialità della comunicazione.

Che cosa ha prodotto questo pacato interventismo fatto di buoni consigli attraverso questa modalità? Nulla.

Tra gli anglicismi messi in discussione, nel comunicato numero 3 del 2016, si raccomandava “lavoro agile” al posto di “smart working” che all’epoca era un tecnicismo di settore e di bassa frequenza. Con l’esplodere del covid e del lavoro a distanza o da casa (come si dice in Francia e in Spagna) il telelavoro o il lavoro da remoto che gli inglesi chiamano home o remote working e non “smart, sono stati accantonati dai giornali e dalle istituzioni e oggi c’è solo l’inglese, a quanto pare.

A proposito di covid, quando questa parola è apparsa, la Crusca era intervenuta per indicare che sarebbe più corretto parlare della covid, al femminile visto che è una malattia e non un virus, una posizione ignorata e talvolta sbeffeggiata dai mezzi di informazione che hanno continuato a usare immotivatamente il maschile a orecchio. In Francia, al contrario, davanti allo stesso problema l’Académie française è intervenuta con le stesse osservazioni, ma i giornalisti e la società dei parlanti – avendo un punto di riferimento normativo che non è un’imposizione dall’alto sulla loro libertà espressiva, ma è una consulenza utile per capire come parlare e scrivere in modo corretto – oggi usano normalmente il femminile. Invece da noi l’autorità dell’accademia non c’è, c’è quella del singor Uso, che però non è come si vuol far credere qualcosa di “democratico” che viene dal basso e dal popolo, è il signor Uso imposto al popolo dai giornalisti, dagli addetti ai lavori e in sintesi da una classe dirigente anglomane che sa solo ripetere e importare ciò che pesca dall’anglosfera.

La domanda da porci è allora semplice: poiché dei punti di riferimento per la coesione della lingua ci vogliono – o perlomeno ci vorrebbero – ha più senso che esista un ente riconosciuto da tutti e preposto a questa funzione o lasciare ogni decisione in balia dell’uso imposto da chi si trova nelle posizioni dirigenziali del potere e spesso nell’ignoranza dell’italiano? E se la politica investisse ufficialmente la Crusca di questo compito, le cose non potrebbero cambiare in meglio?

Il ruolo della Crusca

L’accademia della Crusca è seduta su una storia secolare in cui si poneva come prescrittiva, e nell’abbandonare questo presupposto ha posto le basi per il proprio suicidio. A cosa ci serve? Per studiare la lingua senza intervenire ci sono già le università, e ci sono anche altre istituzioni private di acclarata fama come la Treccani o la società Dante Alighieri che promuove la nostra lingua. La Crusca si inserisce tra queste senza essere né carne né pesce, perché la sua funzione non è quelle della accademie francesi e spagnole che fanno il loro lavoro di accademie normative. Soprattutto, l’intento dichiarato di rimanere sul piano descrittivo viene sbandierato nel caso degli anglicismi, nonostante Incipit vada in altra direzione, ma in altri ambiti i cruscanti e più in generale i linguisti non si fanno alcuno scrupolo a intervenire.

Un esempio tra i più bizzarri riguarda proprio la parola “anglicismo” comparsa per la prima volta nel Settecento nella rivista la Frusta letteraria di Baretti, che scherzosamente ipotizzava che si sarebbero presto visti anche gli anglicismi oltre ai dilaganti francesismi dell’epoca. In tempi recenti, Tullio De Mauro – credo per prendere in giro proprio i principali critici dell’anglicizzazione che per lungo tempo non considerava un problema – cominciò a far circolare la tesi che si dovesse invece dire “anglismo” e che “anglicismo” fosse a sua volta un’interferenza dell’inglese. Questa posizione non mi ha mai convinto, visto che il signor Uso tanto mitizzato ci aveva già consegnato una parola non solo stabilizzata, ma anche in linea con le analoghe voci dello spagnolo (anglicismo) e del francese (anglicisme). Eppure, anche se nel “Morbus Anglicus” Castellani si scagliava contro gli anglicismi, successivamente è accaduto che tutti insieme o quasi, gli accademici e i linguisti da un giorno all’altro si siano messi a parlare solo di anglismi, come se fosse un termine più preciso e tecnico. In realtà è semplicemente preferito, come un tratto socio-distintivo degli addetti ai lavori, mentre gli “anglicismi” sono diventati una sorta di voce popolare che ha una frequenza maggiore ma non viene mediamente impiegata dagli “esperti”. In questa innovazione nata contro il signor Uso, oltretutto, mentre i cruscanti parlano di “anglismi” continuano però a parlare di “anglicizzazione” invece che di “anglizzazione”, anche se per coerenza dovrebbero forse andare fino in fondo nel loro “revisionismo neologico” per incasinare ulteriormente le cose.

Un altro intervento di certi linguisti per cambiare l’uso, nato mi pare dalle posizioni soprattutto di Luca Serianni, è stato quello di mettere in discussione la “regola” di scrivere “sé stesso” con l’accento invece di “se stesso” che si era affermato nella scuola e nell’editoria del Novecento, una regola che – a torto o ragione – esisteva, ed era seguita da tutti gli editori come l’Einaudi (che continua a seguirla) e da tutti gli autori, come Calvino. Oggi la regola si è riscritta, e ancora una volta il cambiamento non arriva né dalle esigenze del popolo né dal basso, ma dalle riflessioni dall’alto di grammatici che quando vogliono non rinunciano affatto a voler essere prescrittivi. Questi esempi mostrano bene come si intervenga sul lessico anche nelle fasi consolidate più che incipienti, e mentre in nome del politicamente corretto – non a caso di matrice angloamericana – si è intervenuti sull’uso mettendo al bando parole come “negro”, mentre calcolatore è stato sostituito da computer, i negozi diventano store, il settore dell’alimentazione food… proprio la Crusca è intervenuta per regolamentare la femminilizzazione delle cariche nel modo più corretto, il che non è un male, è un bene, solo che lo si dovrebbe fare con le stesse modalità anche davanti all’inglese, invece di usare due pesi e due misure.

La polemica sul linguaggio anglicizzato della scuola

Chiarite queste premesse, torniamo ai nuovi comunicati di Incipit. Sull’insensatezza del passaggio dell’identità digitale dello spid a IT Wallet, invece che parlare di portafoglio digitale, mi sono già espresso. Quanto alla polemica con il linguaggio anglicizzato del piano scuola 4.0, non è la prima volta che Incipit interviene. Lo aveva fatto con il comunicato numero 6 del 2016 (“Termini aziendali nelle università”), e poi nel 2019 con la condanna della lingua del sillabo del Miur. Qualche giorno dopo partecipai a una trasmissione in radio sulla questione, insieme all’allora presidente Marazzini, all’accademico Sgroi e alla portavoce dell’allora ministra Fedeli. Davanti al minuetto in cui quest’ultima fingeva di prendere atto delle critiche, di non voler mettere in discussione l’italiano e di far credere che si trattasse di un episodio isolato, riuscii a farla stizzire, con le mie considerazioni, e dissi – ma lo ribadisco anche oggi – che l’itanglese delle scuole-aziende era una ben ponderata scelta che prepara volutamente al linguaggio del lavoro che è ormai l’itanglese.

Insomma, la battaglia della Crusca che rimane ferma ai singoli anglicismi è una battaglia persa, perché il problema non sta nelle singole parole – oggi il piano è strutturato in “step” chiamati Background, Framework o Roadmap – ma nella rinuncia all’italiano che sta a monte di ogni singolo caso. Il conflitto è qui, nello scontro tra due modelli linguistici che sono — come ogni volta che riaffiora la questione della lingua — l’epifenomeno di un cambio della classe dirigente che impone una nuova lingua (come Gramsci ci ha insegnato). E allora bisogna combattere questo porgetto di newlingua, l’itanglese, più che gli anglicismi, anche perché il numero di questi ultimi è tale che Incipit, per la seconda volta, ha rinunciato “a proporre sostituzioni di singoli termini, cosa impossibile in un comunicato come questo” e preferisce proporre di mettere “in circolazione una versione del Piano ‘tradotta’ per gli utenti comuni non specialisti, o, più semplicemente, si unisca al documento un glossario interpretativo autentico, in cui si fornisca una spiegazione univoca degli anglismi utilizzati, non solo per verificarne la necessità, l’uso appropriato e la coerenza, ma anche per renderne chiaro a tutti, operatori della scuola e cittadini, il reale contenuto del programma.”

Certe volte dal non detto emergono cose più interessanti che in ciò che viene esplicitato. E questa “rinuncia” mi pare che contenga elementi importanti proprio negli anfratti del silenzio. La parola “itanglese” non compare nemmeno una volta nel sito della Crusca, che nei suoi criteri rimasti alla distinzione dei prestiti di lusso e di necessità, sembra non accorgersi che l’interferenza dell’inglese esce dal concetto di “prestito” che si ostina a non abbandonare. L’itanglese, lo denuncio da anni, è invece una newlingua che nel suo scardinare le regole ortografiche e morfologiche dell’italiano storico ne spezza la continuità e la comprensibilità e si allarga nel nostro lessico con porzioni di inglese sempre più ampie, dai prestiti sintattici con inversione della collocazione (covid hospital, social media manager), agli pseudoanglicismi che mi pare riduttivo interpretare come “prestiti apparenti”, e si allarga attraverso la coniazione di parole ed espressioni ibride che non sono più né italiane né inglesi.

Invece di chiedersi: “Saranno davvero ‘prestiti di necessità’ tutti quelli introdotti nel Piano?” il gruppo Incipit dovrebbe prendere atto dell’inadeguatezza di questo approccio e affrontare le cose con un altro spirito. Già la domanda, seppur retorica, contiene la distruzione del criterio che pone. Se la distinzione tra prestito di necessità e di lusso possedesse un senso, una razionalità o un barlume di scientificità esisterebbero dei criteri non soggettivi per rispondersi da soli. O vogliamo entrare nelle diatribe sul sesso degli angeli per stabilre la presunta necessità di ogni anglicismo che nasce solo dalla volontà di abbandonare l’italiano?

E la rinuncia a “tradurre” un documento scritto in una newlingua fumosa a base inglese, che ricorda la neolingua di Orwell in cui si cancella il passato e si riscrive la storia, implica proprio che non abbiamo più a che fare con l’introduzione di qualche parola inglese, ma con una sorta di lingua creola che, come i volgari sorti ai tempi dello sfaldamento del latino, comincia a porre dei problemi di comprensibilità con la lingua madre. Al punto che è necessario tradurla o affiancarla dalla veterolingua per il popolino. Ma le nuove generazioni che si formano in questa newlingua non sono il popolino, sono la futura classe dirigente che parlerà la lingua che si insegna loro, la metterà in pratica e la trasmetterà.

Invece del gruppo Incipit, sarebbe ora di agire in modo sistematico e con ben altre prospettive. Qui serve un gruppo Explicit per la restituzione dei “prestiti”, per la disanglicizzazione dell’italiano e per la riappropriazione della nostra lingua schiacciata dall’inglese. Serve una rifondazione cruschista che restituisca questo ente allo spirito con cui è stato fondato, che gli dia lo stesso ruolo delle accademie francesi e spagnole, e che lo inserisca all’interno di una pianificazione linguistica che dovrebbe appartenere alla politica e coinvolgere la nostra intera società. Altrimenti l’italiano è spacciato.

L’imposizione (orwelliana) della newlingua e il mito della lingua che arriva dal basso

Di Antonio Zoppetti


Domenico mi scrive:
“Ho scoperto che c’è un nuovo mezzo di trasporto: il people mover, che io – nella mia ingenuità e nella mia arretratezza culturale e linguistica – ancora mi ostinavo a chiamare banalmente navetta, trenino, metropolitana leggera e che a Perugia, dove evidentemente sono obsoleti e ancora sono rimasti all’uso ‘volgare’ dell’italiano, chiamano minimetrò. E invece no: people mover hanno deciso altrove e people mover deve essere anche da noi, silenziosi e lobotomizzati pecoroni. Oramai lo chiamano così pure Wikipedia e, se non erro, il Dizionario Treccani; lo chiamano così gli aeroporti e i comuni di Venezia, di Bologna, di Pisa; lo chiamano così RFI e Trenitalia (vedi immagine), lo chiamano così i quotidiani locali… e dunque così sia.”

Intanto lo spid (Sistema Pubblico di Identità Digitale) sarà sostituito dal sistema It Wallet, in un passaggio dall’identità e dal portofoglio digitale agli stessi concetti espressi in inglese, proprio mentre a Milano il 2024 sarà l’anno del senso civico espresso attraverso un’iniziativa dal grande valore civico, così grande che si può esprimere solo nella lingua dei padroni: la Milano Civil Week che “farà parte delle Week milanesi”.

Mentre le settimane diventano week, il cibo food, i negozi store, l’economia economy, l‘ecologia green… (ad libitum sfumando) la nostra classe dirigente colonizzata si schiera dalla parte di questa newlingua orwelliana, che sembra concepita per distruggere l’italiano in una cancellazione del passato e in una riscrittura della storia.

Dalla novalingua di Orwell alla newlingua chiamata itanglese

In 1984 Orwell aveva immaginato l’imposizione della novalingua sulla veterolingua che seguiva esattamente questi schemi. E come gli adepti del Grande Fratello, i nuovi intellettuali decervellati della colonia Italia abbracciano e giustificano questo annientamento culturale. Invece di denunciare la glottofagia dell’inglese c’è chi la nega e ci spiega che l’anglicizzazione è tutta un’illusione ottica passeggera, mentre acutissimi linguisti e cruscanti accecati dall’idiozia dei prestiti di “lusso” e “necessità” ci raccontano che certi anglicismi sarebbero “necessari”, con un ragionamento che attraverso l’arte della manipolazione delle parole crea un apparato teorico per legittimarli.

Mentre c’è chi sostiene che la lingua non si possa controllare e nasca dal basso e può venire persino da un bambino, un’idea balzana che Gramsci aveva bollato come un “errore madornale, per superficialità”, basta analizzare gli anglicismi introdotti dalla politica degli ultimi trent’anni per rendersi conto di come stiano le cose.

Renzi ci ha regalato il jobs act, invece della riforma del lavoro (e dell’abolizione dell’articolo 18) che ha aperto la strada a chiamare le leggi act, e intanto le tasse – dopo che il drenaggio fiscale era già divenuto fiscal drag – diventano tax (flat tax, carbon tax, web tax, exit tax…). Di Maio ci ha regalato il navigator, Meloni ha diffuso underdog (che si affianca al sinonimo outsider), i leghisti hanno affermato la devolution e la deregulation, la destra il family day, e il movimento per la vita è diventato pro life. Tra progetti abominevoli per promuovere la nostra cultura che hanno sperperato i soldi pubblici — a sinistra e a destra — con costosissmi e controproducenti progetti chiamati volta in volta Very Bello, ITsART (grazie Franceschini!) o Open to meraviglia (grazie Santanché!), che si coincilano con la straordinaria idea dell ministero e del liceo del Made in Italy (grazie Meloni!), il presidente del consiglio è diventato premier, i segretari di partito sono leader che esercitano la loro leadership e premiership per mantenere l’establishment; l’austerità e l’autorità sono austerity e authority, in parlamento c’è il question time, ci sono solo la privacy e il welfare senza quasi alternative, si parla di moral suasion, il tetto di spesa è price cap, la lottizzazione è diventata spoils system, sono state introdotte e istituzionalizzate mostruosità come i caregiver, la voluntary disclosure, il whistleblowing, e i servizi segreti e di spionaggio sono oramai intelligence.

L’esempio più eclatante di questa newlingua che arriverebbe “dal basso” è lockdown, che nasce il 17 marzo 2020 dopo che il covid era arrivato in Italia e Conte aveva proclamato le zone rosse. Ma zona rossa evidentemente non è un “prestito di necessità”, almeno per gli anglofoni, e infatti i giornali angloamericani hanno raccontato il fenomeno con le loro parole – visto che non sono deficienti – e hanno dunque riferito del modello dell’italian lokdown. Il giorno dopo l’intero apparato informativo del nostro Paese — sulla cui deficienza non ci sono dubbi — ha buttato via le parole con cui aveva aperto le prime pagine sino a quel momento (tutto chiuso, città blindate, quarantena, blocco, coprifuoco, serrate…) per esprimersi in inglese: la parola è diventato IL tecnicismo unico: “Basterà una sola parola – si legge in 1984 – un solo significato rigidamente circoscritto (…), tutti i significati sussidiari saranno stati cancellati e dimenticati” perché in fondo la novalingua “non mira ad altro che a ridurre la gamma del pensiero” e la lingua unica è funzionale al pensiero unico.

Fuori dalla politica, anche tutti gli altri organi del Grande Fratello remano nella stessa direzione, dalle poste italiane che ci impongono i delivery alle Ferrovie dello Stato con i loro gate, ticketeless con obbligo di self check in per le tratte regionali, le aree kiss&ride, le tariffe premium e business… tutte parole che arrivano dal basso, evidentemente, come accade nel linguaggio del lavoro o dell’informatica.

I mezzi di informazione: il braccio armato del Grande fratello

E poi c’è la lingua dei giornali che ci educa all’inglese, e per vedere come stanno le cose basta analizzare come battezzano ciò che è nuovo e come rinominano la veterolingua: nell’immagine una serie di articoli che spiegano (dall’alto) cosa siano la Christmas Fatigue, lo smishing, il South working, lo Scrapbooking, la prova dello stub (ex guanto di paraffina), il contratto di work for equity, la Power Station, lo snowie, il phubbing (ma si potrebbe continuare all’infinito).

La lingua nasce dal basso? C’è un limite alle cazzate che si possono sparare, e molti linguisti l’hanno abbondantemente superato.
In un articolo delirante su Open che mi ha segnalato Paolo vengono introdotti e spiegati alcuni anglicismi presentati come fossero parole normali (Rizz, Almond mom, Vibes, Slay, Pick-me girl e Pick-me boy) e siccome chi non si aggiorna è un “boomer” l’autore del pezzo sostiene che sarebbero “entrate di diritto nel nostro vocabolario, e sono ormai universalmente comprensibili (pensiamo a «swag», per indicare ammirazione per lo stile di qualcuno).” Ma certo! Chi non usa swag, oggi come oggi? Chi non lo capisce? E infatti l’universale comprensibilità di queste idiozie richiede proprio la guida di Open “per non sentirsi persi in una piazza straniera.”

Ma ci rendiamo conto del livello di pezzi come questi? Io mi sento in una piazza straniera perché sono in una piazza straniera, vivo all’interno di una cultura coloniale che sta americanizzando ogni cosa, da un punto di vista sociale, politico, economico… e dunque linguistico. E mi vogliono raccontare che la lingua nasce dal basso?

Questo è esattamente il progetto del dizionario della novalinga di Orwell che punta a imporre (dall’alto) la newlingua coloniale. E gli attori (se non si deve ormai dire i player) che introducono, diffondono e giustificano gli anglicismi facendo contemporaneamente credere che la lingua nasca dal basso sono gli stessi che da decenni cambiano, sempre dall’alto, il naturale modo di parlare della gente in nome di una ventata riformista che proviene sempre dall’agloamericano. Con furore fondamentalista, in nome del politicamente corretto si sono messe al bando parole che oggi sono ormai impronunciabili. Da un giorno all’altro ci hanno spiegato che non si poteva più dire “negro” o “mongoloide” perché erano improvvisamente diventate espressioni razziste e bisognava sostituirle con “nero” e “down”, tra spazzini che diventavano operatori ecologici, disabili trasformati in diversamente abili, omosessuali che lasciavano il passo ai gay e via dicendo. L’ultima frontiera del revisionismo linguistico è che si deve convincere tutti a dire sindaca, ministra e la presidente, e guai a chi non si adegua: se “la” Meloni preferisce definirsi “il presidente”, se gli avvocati o notai donna preferiscono denominarsi attraverso il maschile generico vengono attaccate, e non rispettate, perché dietro l’imposizione della lingua dall’alto non c’è nulla di democratico e dal basso, ci sono le pressioni sociali di un nuovo sistema di potere che si vuole imporre a tutti. La nuova religione dell’inclusività non ammette dissidenti, tutti devono essere inclusi nel pensiero unico. E chi non è d’accordo viene tacciato di volta in volta di essere patriarcale (ultimamente pare che maschilismo perda terreno davanti alla nuova accezione di patriarcale), oppure di purismo o di fascismo nel caso di chi osa protestare contro l’anglicizzazione. Ma, al contrario, chi si oppone alla dittatura dell’inglese sta tentando di fare la resistenza, dal basso, anche se oggi una parola come “resistenza” si sostituisce con “resilienza”, a proposito di lingua imposta dall’alto.

Per la cronaca: non ho alcune intenzione di difendere né parole come “negro” o “mongoloide” né il maschile inclusivo. A dire il vero non me ne frega niente perché ritengo che non sia certo un’ipocrita riverniciatura lessicale a risolvere i ben altri concreti problemi della questione femminile, dell’emancipazione della donna o delle fasce sociali problematiche. Questa bislacca interpretazione che confonde cause ed effetti andrebbe semmai rovesciata, e se la parità dei sessi fosse realizzata, invece che postulata solo sulla carta, anche la questione linguistica perderebbe senso e si risolverebbe da sola.

Il punto è che l’attuale sistema di potere impone dall’alto la newlingua del politicamente corretto, dell’inclusività, dello scevà… e allo stesso tempo l’inglese. Davanti agli anglicismi si sostiene che non è possibile intervenire sulla lingua (naturalmente ciò vale solo per l’italietta, visto che in Francia Spagna e in molti altri Paesi non è affatto così), mentre sulle questioni legate all’inclusione o al politicamente corretto si entra a gamba tesa per spiegare agli italiani come devono parlare blaterando a vanvera che sono esigenze che nascono dal basso. E in questa schizofrenia intellettuale si adottano due pesi e due misure: introdurre e legittimare l’inglese sotto la bandiera del non interventismo linguistico, e praticare invece l’interventismo negli altri casi senza alcuna remora.

Se l’aeroporto diventa “airport”: la sentenza che in Francia ha condannato l’anglomania

Di Antonio Zoppetti

Un corrispondente dalla Francia da sempre impegnato contro l’anglomania, l’attivissimo Daniel De Poli, mi ha segnalato una notizia che voglio divulgare, visto che i mezzi di informazione difficilmente la racconteranno.

Tutto ha avuto inizio nel 2015, quando l’aeroporto di Metz-Nancy-Lorraine (la cui denominazione ufficiale francese era “aeroport de Metz-Nancy-Lorraine”) ha deciso di anglicizzare quel nome trasformandolo in “Lorraine Airport”, che oltre all’anglicismo ha introdotto anche l’inversione sintattica tipica dell’inglese. La motivazione era la solita, tutto era stato fatto in nome di una presunta “internalizzazione” che presuppone e dà per scontato – senza alcun fondamento – che la lingua internazionale sia l’inglese.

È una posizione che ben conosciamo in Italia, è la stessa logica con cui alcune università – dal Politecnico di Milano all’Università Bocconi – vogliono estromettere l’italiano e insegnare solo in inglese.

Questo disegno viene messo in opera in modo surrettizio, ma sistematico, attraverso piccoli passi apparentemente insignificanti, per esempio le carte d’identità concepite in modo bilingue (lingua nazionale + inglese) anche se l‘inglese non è affatto la lingua dell’Europa, soprattutto dopo l’uscita del Regno Unito.
In nome di questa ideologia linguicista le nostre istituzioni hanno deciso che i progetti di ricerca (dai Fondi per la scienza, i FIS, a quelli culturali, i Prin) debbano essere presentati obbligatoriamente in lingua inglese anche se si tratta di ricerche che riguardano materie italiane, con la paradossale conseguenza che per ottenere un finanziamento “italiano” di ricerca su Dante Alighieri bisogna presentarlo in inglese. Questa dittatura dell’inglese ci è stata imposta in modo ancora più pesante con la riforma Madia dei concorsi della Pubblica Amministrazione: il requisito di conoscere una “seconda lingua” è stato sostituito con la parolina magica “inglese”, che è diventato così un obbligo e un requisito indispensabile indipendentemente dai ruoli e dal fatto che la conoscenza di questa lingua sia davvero necessaria.

Naturalmente far coincidere “internazionale” e “inglese” è una voluta confusione che deriva da un progetto e da una visione politica che punta ad affermare e a imporre a tutti la lingua naturale dei popoli dominanti. In Italia siamo in prima linea nel sostenere e nel diffondere questa visione che fa dell’inglese una lingua superiore, ma in Francia le cose vanno diversamente, e davanti al cambio di nome dell’aeroporto sono divampate da subito le polemiche.

E così, l’associazione per la difesa della lingua Francophonie Avenir, dopo aver chiesto invano alla struttura di rinunciare all’inglese, ha intrapreso la via giudiziaria, visto che in Francia esistono delle ottime leggi a tutela della lingua. E dopo otto anni di battaglie, finalmente il 14 dicembre scorso è arrivata la sentenza che ha sancito la vittoria dell’Associazione: l’aeroporto è stato condannato a ripristinare il vecchio nome francofono e a riutilizzarlo nella denominazione ufficiale, su tutti i documenti, i cartelli e la segnaletica, la pubblicità, la documentazione cartacea e virtuale. Inoltre dovrà pagare le spese processuali, un risarcimento nei confronti dell’associazione e una multa simbolica di un euro per aver violato le leggi francesi (per chi è interessato, ecco il collegamento alla sintesi della vicenda dell’A.FRA.AV e il verbale della sentenza).

In Italia, invece, dove la compagnia di bandiera Alitalia è stata sostituita da ITA Airways, non esistono leggi in proposito, non esistono punti di riferimento e associazioni, e persino la Crusca – al contrario delle accademie di Francia e Spagna – ha un approccio descrittivo verso la lingua e ha rinunciato a essere prescrittiva. Dunque, come ho già denunciato in un altro articolo, di recente è accaduto che, per opera dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Meridionale, sia iniziato il processo di anglificazione dei porti pugliesi con la dicitura Port of Manfredonia, Port of Monopoli, Port of Barletta

Nella speranza che nel 2024 il vento possa cambiare anche da noi, auguro a tutti buone feste con la consueta raccomandazione di evitare, per piacere, la stucchevole consuetudine di inviare stupidi auguri di buon Natale e buon anno in inglese, con la scusa di essere internazionali.

Il “cherry picking” linguistico

Di Antonio Zoppetti

Dal Dizionario AAA ricevo una gran quantità di domande su come tradurre gli anglicismi sempre più frequenti e astrusi. Voglio riportarne una arrivata qualche giorno fa perché mi permette di aggiungere qualche osservazione sul fenomeno in generale:

Buonasera,
recentemente mi è capitato di riflettere sull’espressione “cherry picking”. Non sono riuscita a trovare un traducente completamente adatto, sapreste darmi una soluzione?
Grazie!
Elizabeth R*

Cherry picking: significati

Cherry picking (letteralmente raccolta di ciliegie) indica una raccolta o scelta selettiva basata sulla metafora dello scegliere, tra le tante ciliegie, solo quelle migliori. In italiano circolano analoghe espressioni che si appoggiano invece alla metafora del fiore: il motto dell’Accademia della Crusca “il più bel fior ne coglie”, l’etimo della parola antologia (ánthos = fiore + loghìa che deriva dal tema légo = scelgo), il florilegio, il fior fiore di qualcosa.

Come nella proverbiale questione del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, che dipende dal punto di vista che assumiamo, mentre la metafora italiana del fiore guarda agli esempi migliori, la connotazione dell’espressione inglese evidenzia invece gli elementi trascurati, dunque indica una raccolta parziale, che confonde la parte (le ciliegie belle) con il tutto (ci sono anche le ciliegie col verme o acerbe).

A sua volta, questa raccolta di dati parziali o distorti può essere involontaria oppure voluta, e genera perciò due fenomeni diversi.

Il primo è psicologico: un individuo tende a formulare un giudizio tendenzioso senza rendersi conto della fallacia delle proprie percezioni, perciò il cherry picking ha a che fare in questo caso con una percezione distorta, una distorsione cognitiva dovuta a preconcetti, un pregiudizio cognitivo che in fin dei conti è un pregiudizio, un preconcetto, una trappola mentale, un errore di giudizio o valutazione.

L’esempio più classico di questa distorsione percettiva si ha nel meccanismo di corroborazione degli oroscopi o della previsione del futuro. Se la fattucchiera di turno prevede dieci cose, la nostra mente tende a notare – tra tutte – solo quelle due o tre che capitano davvero. Quando accade, ogni previsione avverata fa scattare la molla dell’associazione mentale: “Il veggente l’aveva detto!”, con il risultato che la profezia sembra verificarsi solo perché il nostro cervello lavora solo sugli esempi positivi e si dimentica di quelli che non si verificano affatto, e che con ogni probabilità sono più numerosi di quelli azzeccati.

Questo meccanismo è qualcosa di nuovo? No di certo, si tratta di una convalida (o conferma) soggettiva nota anche come effetto Forer o Barnum (dal nome di due studiosi che l’hanno indagato), ma nella nostra mania compulsiva di esprimere ogni cosa in inglese si può indicare anche con l’anglicismo bias (per non farci mancare nulla nella lingua di Albione, nemmeno i doppioni).

Non sempre, però, nella raccolta delle ciliegie cadiamo nelle trappole cognitive, altre volte lo stesso meccanismo è ben preordinato per costruire delle argomentazioni volutamente tendenziose, surrettizie e sornione (che sotto la maschera innocente celano l’inganno). E questo è il secondo significato retorico, o comunque impiegato per esempio nella comunicazione scientifica o medica di parte: si riferisce al tacere una parte della realtà, e in italiano si può rendere tecnicamente con la fallacia dell’incompletezza (o dell’evidenza incompleta), o in parole povere con un’argomentazione incompleta, distorta, deformata, tendenziosa, artificiosa, di parte, parziale, partigiana, faziosa, viziosa o viziata, una pseudoargomentazione o una manipolazione dei fatti (ancora una volta il concetto finisce per sovrapporsi all’anglicismo fake news, visto che stiamo riscrivendo la nostra storia e la nostra essenza con concetti inglesi).

Questa casistica di comodo, militante e non obiettiva si basa su una tecnica che è stata definita anche scopa di Occam, cioè un modo di nascondere i fatti indigesti sotto il tappeto in contrapposizione al “rasoio di Occam” (per cui tra due spiegazioni la migliore è sempre quella con il minor numero di passaggi, la più semplice ed economica).

Dal significato all’uso

Chiariti i significati del cherry picking in generale e negli ambiti della psicologia e della comunicazione, e chiarito che non si tratta di nulla di nuovo e che non ci mancano di certo le parole per esprimere le stesse cose in italiano, nel nuovo millennio abbiamo ripetuto l’espressione inglese in sempre più contesti.

In figura si vedono le frequenze della parola in inglese e in italiano, e il grafico è piuttosto calzante nel mostrare come gli andamenti siano simili nei picchi e anche nei cali, nonostante nei confronti con la lingua dominante la frequenza dell’espressione sia da noi più bassa.

Andando a vedere in quali contesti questa espressione viene impiegata, oltre al caso della psicologia, della comunicazione o della retorica, l’anglicismo viene utilizzato anche in ambito economico, con una diversa sfumatura, per indicare gli investimenti a basso rischio o sicuri perché basati solo sui parametri migliori e più affidabili su lungo termine. Ma poiché l’anglomania non ha limiti, ecco che l’espressione inglese si allarga anche di tantissimi altri significati, e sul Sole 24 ore, per esempio, si trova un’ulteriore accezione per cui cherry picking può indicare anche la prassi dello “strappare il personale” alle aziende concorrenti, naturalmente solo quello più brillante e strategico (le ciliegie buone); e poiché una ciliegia tira l’altra, tra i neologismi Treccani si legge che equivale anche alla “capacità di individuare le doti migliori di una persona (Corriere della Sera – Magazine 07/09/2006).”

Riassumendo, l’espressione inglese è una metafora piuttosto generica usata come parola ombrello, e si piega poi alle tante valenze che assume in vari ambiti configurandosi come un tecnicismo. Questo allargamento in tanti settori dove cherry picking si acclimata ricavandosi un significato peculiare tende a sovrapporsi all’italiano e a sostituirlo anche se esistono espressioni equivalenti, ma contemporaneamente tende a occupare le sue nicchie imponendosi come qualcosa di nuovo.

Perché dobbiamo trapiantare un modo di dire in inglese – molto generico e vago – farlo nostro e introdurlo in sempre più ambiti invece di usare le nostre parole?

Il problema è sempre lo stesso, e la risposta sta nella nostra mente colonizzata che ha come punto di riferimento solo l’anglosfera, una mens insana che produce una lingua insana.

Il cherry picking in Francia e Spagna

Mentre le Accademie di Francia e Spagna fanno il loro lavoro di accademie, e hanno dunque un approccio prescrittivo che contempla anche la coniazione di nuove parole, la Crusca, al contrario, si vanta del suo approccio descrittivo e si guarda bene da produrre neologismi, per cui le consulenze linguistiche finiscono spesso per legittimare gli anglicismi, invece di contrastarli. E così, alla domanda di un lettore che chiede se si può dire governanza invece di governance, segue una risposta che avvalora l’anglicismo sostenendo che è “ormai divenuto italiano”, anche se sul questo bizzarro concetto di “italiano” basato sull’uso ci sarebbe da ridire, visto che è una parola che viola le regole ortografiche e fonologiche della lingua che un tempo la Crusca ha contribuito ad affermare (Arrigo Castellani si rivolterebbe nella tomba davanti a certe affermazioni che legittimano quelli che chiamava “corpi estranei” proprio perché sono fuori dall’italiano e non si amalgamano con il sistema linguistico che li ospita).

Allo stesso modo, davanti alla domanda se è possibile tradurre know how la Crusca chiarisce: “La risposta è no (…) il referto della radiografia di know how sancisce una prognosi infausta per qualsiasi ipotesi di traduzione italiana.”

Davanti a questo atteggiamento viene da chiedersi a cosa ci serva una simile accademia, visto che per studiare la lingua senza intervenire ci sono già le università. Naturalmente (come ho già scritto in un altro articolo) l’atteggiamento dell’Academie Française e della Real Academia Española è ben diverso, visto che al posto di un “intraducibile” know how indicano senza esitare rispettivamente i traducenti savoir faire e conocimiento fundamental, ma è risaputo che quelli che in Italia sono spacciati come “prestiti di necessità” quasi sempre sono “necessari” solo da noi. Mi domando se questo atteggiamento dei linguisti italiani non si possa configurare come un caso di cherry picking linguistico: si fa credere che le parole inglesi siano come le ciliegie buone, mentre quelle italiane si oscurano e si nascondono sotto al tappeto, come se non esistessero, per procedere solo attraverso le espressioni inglesi facendole apparire intraducibili. In questa follia, in gioco c’è la lotta per l’imposizione dei nuovi concetti in inglese (anche se non sono affatto nuovi).

E forse, chissà, anche il motto della Crusca “il più bel fior ne coglie” si potrebbe modernizzare prima con “la più bella ciliegia ne colga” per poi passare gradualmente a dirlo nella lingua internazionale: cherry picking e basta.

Comunque sia, cercando cherry picking sul sito della Crusca non appare alcun risultato, invece, su un cinguettio di X (ex Twitter) della Reale Accademia Spagnola si legge: “In alcuni contesti l’anglicismo «cherry-picking» equivale a «espigueo» [= spigolatura NdA ], quando assume il significato dell’azione e dell’effetto di cercare in diversi scritti o fonti i dati per qualche lavoro.”

Nel mondo ispanico le alternative sono dunque promosse, invece che negate, e se si cerca l’espressione inglese sulla Wikipedia in spagnolo si atterra su una pagina in spagnolo: “Falacia de evidenza incompleta”, la stessa soluzione indicata in vari altri contesti, mentre su un dizionario dedicato alle alternative ai forestierismi si parla di “(sofisma de la) prueba incompleta, supresión de pruebas”.

Nel vocabolario di arricchimento del francese si divulga invece la parola “picorage”, che fa riferimento allo “spiluccare” degli uccelli, il “becchettare” selettivo che riprende la metafora dello scegliere le ciliegie buone, la stessa soluzione riportata dalla Wikipedia (“Nel sistema giudiziario, quando una persona è incaricata di difendere una particolare posizione, “picorage” può essere appropriato. Un avvocato è libero di presentare solo le prove che sostengono l’innocenza del suo cliente”).

Da noi, invece, ci sono dei linguisti che ci vogliono far credere che l’arricchimento dell’italiano avvenga proprio mediante gli anglicismi, visti non come una regressione, ma come un arricchimento… un punto di vista piuttosto strampalato.

Il fatto è che senza istituzioni serie in grado di intervenire nel codificare delle soluzioni condivise che possano diventare dei punti di riferimento ufficiali, in Italia siamo in balia di una classe dirigente anglomane che sa solo importare e legittimare l’inglese, a cominciare proprio dai linguisti.

E in questo modo gli anglicismi non possono che avere la meglio, perché non si può lasciare le alternative alla creatività e alle traduzioni soggettive dei singoli parlanti, tecnici, traduttori o giornalisti. Ammesso e non concesso che qualcuno si sforzi di dirlo in italiano, tra le tantissime soluzioni che si possono individuare a seconda dei contesti, ciò che viene a mancare è proprio l’uniformità che caratterizza l’equivalente inglese, che finisce per scalzare le traduzioni proprio perché varie, personali e non standardizzate in una soluzione condivisa.

Anche per questi motivi, in mancanza di punti di riferimento istituzionali, ricevo decine e decine di domande e di richieste di traduzioni come questa che ho voluto divulgare.

PS
Il 15 dicembre, alle ore 17, interverrò a Pistoia presso l’Archivio Roberto Marini (Galleria Nazionale, 9) al convegno “Gli americani ci fregano con la lingua” (citazione da un gustoso monologo di Francesco Guccini) insieme a Debora Pellegrinotti, Giampaolo Francesconi e Giuseppe Fasulo. Parlerò dei meccanismi con cui gli anglicismi penetrano nell’italiano e del rapporto tra lingua e potere.

Cervinia deve restare in italiano: è una questione di “brand reputation” per la “destination”

Di Antonio Zoppetti

Al contrario della questione dell’anglicizzazione e dell’itanglese — che non suscita troppe resistenze e riflessioni (salvo in qualche superficiale articolo di folclore) — la decisione di cambiare il nome ufficiale di Cervinia con Le Breuil ha scatenato un vasto teatrino politico-mediatico. La nuova nomenclatura decisa dalla Regione pone problemi pratici rilevanti, che non riguardano solo il cambio di nome sulle mappe, ma anche i documenti anagrafici o la cartellonistica stradale.

Un po’ di storia

Contrariamente a quanto capita di leggere e di sentire, il caso ha poco a che vedere con l’imposizione della toponomastica italiana da parte del fascismo, come era avvenuto per Sauze d’Oulx ribattezzata Salice d’Ulzio (oggi anche Salce d’Ulzio) o La Thuile Porta Littoria e Courmayeur Cormaiore; nel dopoguerra queste località hanno ripreso il vecchio nome francese. Cervinia, invece, è sorta negli anni Trenta del secolo scorso perché un gruppo di imprenditori ha edificato una serie di alberghi e di strutture di lusso sul Cervino e ha costruito una funivia nella conca del Breuil per dare vita al centro turistico. La questione del nome risale proprio a quel periodo, come si può leggere in un articolo di 87 anni fa:

Un gruppo di persone di buona volontà e di notevole intuito turistico, arrischiando capitali propri, indubbiamente ingenti, si era proposto di far sorgere nella conca del Breuil, ai piedi del Cervino, un villaggio turistico dotato di tutte le moderne comodità (alberghi, negozi, autorimesse ecc.): dal quale doveva aver capo una teleferica pel trasporto dei turisti e degli alpinisti (…). Poste le prime pietre del nuovo villaggio, sorse con esse l’idea del battesimo e, quindi, della scelta del nome da imporre al nuovo agglomerato turistico, nato in seno alla conca del Breuil. Si pensò e si decise per «Cervinia».

Il pezzo su Stampa Sera dell’11 agosto 1936 riassumeva le polemiche sul nome che erano divampate già allora, perché “si pensò che i fondatori di Cervinia volessero «allungare la mano» su tutta la conca del Breuil per ribattezzarla col nome del nuovo villaggio turistico”. E la chiusa, in parte profetica e in parte no, concludeva:

Una polemica non dovrà più sorgere ai piedi del Cervino (ce ne sono già state troppe) ma una serena soluzione ci pare evidente: il villaggio turistico si chiami pure «Cervinia», come si chiaman Avouil, Maberge, Museroche, Bardoney, Cretaz, ecc. gli altri gruppi di case nel Plano del Breuil; ma accanto a questo nuovo toponimo si aggiunga sempre «al Breuil». Stian pur certi, organìzzatori. partigiani ultradinamici e padrini di battesimo, che il nuovo rampollo si addosserà un carico di gloria, carico che, fino a prova contraria, non ha mai offuscata la figura del fortunato portatore.

Chiarito che la questione del nome in italiano o francese è vecchia quanto la località, andrebbe precisato che nel dopoguerra una simile questione era sorta, ed è stata regolamentata, per la toponomastica altoatesina. La soluzione attualmente vigente è basata proprio sul bilinguismo e nel lasciare il doppio nome in modo ufficiale, non solo per le località, ma persino nell’indicazione delle vie e delle strade. Lo stesso criterio — che era inserito in un ben più ampio progetto attento al bilinguismo locale e storico — non è stato applicato nel caso della Val d’Aosta, e oggi rispuntano le polemiche che affondano le loro radici proprio in una mancata regolamentazione di un’antica controversia tra le tradizioni dialetto-francofone e quelle italofone.

Difendere l’italianità in inglese, un paradosso tutto italiano

Rispetto alle polemiche degli anni Trenta, oggi Cervinia è una località dalla risonanza internazionale, ma il signor Uso, tanto invocato (spesso a vanvera) come il giudice supremo di ogni questione linguistica, viene messo sotto il tappeto per passare a un lessico del nuovismo che però sprofonda in questioni antiche e mai risolte. Un nuovismo un po’ purista che si caratterizza come ripristinatore del presunto nome vero e originale.

Quello che stupisce, nelle polemiche odierne, è l’incapacità di possedere un quadro d’insieme del problema, in una visione storica, ma anche di politica linguistica. E così le dichiarazioni di Daniela Santachè, ministro (o ministra?) del Turismo, suonano come una barzelletta. Dopo aver riassunto la vicenda del cambiamento del nome da Cervinia in non si sa bene cosa, visto che la politica sostiene di non ricordarsi nei dettagli fonologici quale sia il nome alternativo (ignorando anche la storia della vicenda), le sue parole sono state:

“Ma siete matti? Sapete quanto tempo ci vuole a costruire una destination, una brand reputation?”

Mentre (la) Santanchè – proprio da una piattaforma che ha buttato via la costruzione del marchio Twitter per passare a una X – disapprova il renaming della location, c’è da domandarsi quale sia la sua vision – per parlare nella sua lingua – dell’italiano. Chissà se è consapevole di quanti secoli ci sono voluti all’italiano per acquisire l’attuale nomea, ammirazione, risonanza, suggestività, persino evocatività (= brand reputation) che vanta in tutto il mondo. E quando una destinazione, una meta, un posto, un luogo diventano destination, per indicare una tappa turistica di prestigio, non siamo altrettanto “matti” (se non di più)? Non siamo matti a buttar via l’italiano per sfoggiare l’inglese? Non siamo matti a varare il ministero del Made in Italy invece di quello del prodotto italiano? Non siamo matti a definire le contraffazioni gastronomiche dal nome pseudoitaliano come il parmesan prodotti italian sounding? Non siamo deficienti a imporci in tutto il mondo con l’italian design – inglesizzazione del rinomato disegno industriale italiano? E a gettare via i soldi pubblici per realizzare dei portali che dovrebbero promuovere l’italianità con motti come “open to meraviglia”, voluto proprio da(lla) Santaché che non ragiona in modo diverso da Franceschini con il suo famigerato Verybello seguito da un altrettanto fallimentare e costoso ITsART?

Mi duole tantissimo trovarmi d’accordo con (la) Santachè sull’opportunità (o se preferisce l’opportunity) di oscurare un toponimo simbolo come quello di Cervinia, ma il modo di esprimere – in inglese – questa sensata presa di posizione è un rimedio peggiore del male. E fino a quando questa classe dirigente di colonizzati (allo stesso tempo colonizzanti) non sarà spazzata via – quella della Santanché ma anche di tutti gli anglomani collocati in modo trasversale tra sinistra, pentastellati e ogni altro partito-persona in circolazione – la lingua italiana sarà sempre più calpestata, abbandonata e mandata in malora. Peccato che il problema non stia in parole come Breuil o Cervinia, ma negli attuali 4.000 anglicismi registrati dai dizionari, nel loro fare piazza pulita dell’italiano, nel loro penetrare sempre più nella profondità nel nostro lessico, nelle loro frequenze che stravolgono la lingua di giornali e politici, nel loro ibridarsi generando una newlingua che si chiama itanglese. Mentre l’italiano non è più lingua di lavoro dell’Ue, viene estromesso come lingua di insegnamento di alcune università che insegnano direttamente in inglese, perde ambiti strategici della modernità come la scienza o il lavoro, viene sostituito dall’inglese persino nella presentazione dei progetti di ricerca italiani (Prin) o di quelli per i finanziamenti scientifici (Fis)… e regredisce, la nostra classe dirigente non sa guardare oltre il caso del cambiamento del nome di Cervinia.

I collaborazionisti della dittatura dell’inglese

Di Antonio Zoppetti

Lo scorso 30 agosto, la vicepresidente della Spagna e ministra del Lavoro Yolanda Díaz era impegnata in una conferenza stampa che si teneva a Madrid, nel suo Paese, quand’ecco che all’improvviso una giornalista straniera (presumibilmente anglofona) ha pensato bene di rivolgerle una domanda in inglese, e nella sua grande benevolenza, ha aggiunto che però avrebbe potuto rispondere in inglese ma anche in spagnolo: “Pero usted puede responder en inglés o en español.”

La politica non ha compreso la domanda, si è guardata attorno spaesata alla ricerca di un traduttore, fino a che qualcuno in sala le ha riassunto sommariamente la questione, e la donna ha così potuto rispondere nella propria lingua.

Il video è stato ripreso dalla tv del Corriere con un taglio volto a ridicolizzare la Díaz e a presentare l’episodio come qualcosa di estremamente imbarazzante: “La vicepresidente della Spagna sembra non capire nulla quando le viene posta una domanda in inglese. L’imbarazzo durante una conferenza stampa tenutasi lunedì a Madrid.”

I giornali hanno sguazzato nella vicenda, ponendo l’accento sul fatto che la ministra sarebbe rea di non conoscere la lingua di serie A che si vuole istituzionalizzare come la lingua dell’Europa e del mondo intero. Ed è rispuntata la solita tiritera che solleva una questione spinosa: “oggi come oggi” può un politico non sapere l’inglese? La risposta sottintesa – che serve a imporre le nuove regole – è “no”. Non sapere l’inglese è una vergogna ed è inaccettabile.

Questo tipo di informazione, più che raccontare la realtà la vuole ricostruire imponendo la propria visione neocolonialista e discriminatoria nei confronti delle altre lingue. La posta in gioco è quella di proclamare l’inglese non una lingua come le altre, ma farlo diventare un requisito culturale e un’abilità di base per tutti. Peccato che questo progetto imperialista e linguicista non ci convenga affatto.


Analizziamo i fatti da un’altra prospettiva.

Il problema è non sapere l’inglese o imporlo a tutti come il requisito della nuova cultura globale?

La politica spagnola è in buona compagnia, visto che tra gli 8 miliardi di abitanti del pianeta l’80% non conosce l’inglese, che non è la lingua “internazionale” come si vuole fare credere, ma la lingua madre dei Paesi dominanti che stanno cercando di imporre al resto dell’umanità. La politica spagnola è in buona compagnia anche tra i suoi colleghi spagnoli, italiani o francesi: solo una minoranza dei politici conosce l’inglese, il che è lo specchio di quanto avviene tra le gente dove l’inglese è padroneggiato da una piccola minoranza della popolazione. Ma, soprattutto, la politica spagnola era nella sua terra, parlava la sua lingua – che oltre a essere diffusa in tutto il mondo conta un numero di madrelingua ben superiore a quello degli anglofoni – e si rivolgeva agli spagnoli.

Ribaltiamo la questione. Come è possibile che un’inviata in Spagna non conosca lo spagnolo e si permetta di porre una domanda in inglese? Come reagirebbe un politico inglese, che mediamente se ne guarda bene dallo studiare altre lingue oltre alla propria, se durante una conferenza stampa gli ponessero una domanda in francese, spagnolo o italiano pretendendo di essere compresi? Con quale arroganza ci si permette di andare a casa altrui e dare per scontato che sia lecito imporre la propria lingua, invece di rispettare quella dei padroni di casa?

I giornalisti del Corriere non si pongono queste domande, perché come l’intera nostra classe dirigente sono colonizzati nella mente, e lavorano a favore dell’inglese, sia sul piano internazionale sia su quello interno, visto che non sanno fare altro che introdurre anglicismi per educare tutti alla newlingua ibrida che stanno imponendo con il loro modo di comunicare. Una lingua che si trascina con sé il proprio modo di pensare, concettualizzare ed esportare la propria visione. In gioco c’è proprio il disegno di rendere universale ciò che invece appartiene alla cultura anglofona, e per realizzare tutto ciò si confondono le acque e si tenta di sostituire la parola “internazionale” con “inglese”, come ha notato la giornalista Barbara Serra ricordando che le fonti giornalistiche americane non sono affatto internazionali, ma anglofone, una distinzione fondamentale ma che in Italia in pochi sembrano cogliere.

Il phubbing

Ecco un articolo del Corriere tra centinaia che seguono tutti lo stesso schema – che promuove e importa l’ennesimo anglicismo figlio della rimappatura concettuale con cui si anglicizza ogni cosa spacciandola per internazionale: il phubbing.

Il termine deriva dalla combinazione delle parole “phone” (telefono) e “snubbing” (snobbare), ma in modo ponderato il titolo acchiappone si guarda bene dallo spiegarlo, perché lo si vuole introdurre facendo sentire il lettore ignorante: solo leggendo l’articolo si scoprirà che indica l’atteggiamento “telefoninocentrico” di chi continua a “pistolare” sul cellulare in modo maleducato trascurando l’interlocutore che ha davanti.

Tutto ciò, naturalmente, si esprime in inglese, e visto che si tratta di un neologismo a nessuno viene in mente di tradurlo, adattarlo o inventare una nuova parola nostra. I nuovi centri di irradiazione della lingua stanno imponendo una terminologia che non è più fatta dai nativi italiani. Nell’italietta colonizzata si ripete a pappagallo la lingua dominante, che qualche arguto linguista forse presto inserirà nelle proprie bislacche categorie dei “prestiti di necessità”, anche se è una parola di cui non si sente il bisogno. Ma crearne il bisogno fa proprio parte del progetto “itanglese”.

Pensiamo a Fantozzi che guarda la partita in tv ignorando moglie e figlia che gli si piazzano davanti. Pensiamo a uno studente distratto che invece di ascoltare la lezione parla con il compagno di banco oppure fissa il vuoto assorto nei suo pensieri. Pensiamo a un adolescente brufoloso che invece di partecipare a una conversazione si isola ascoltando la sua musica in cuffia. Pensiamo a una canzone degli anni Venti del secolo scorso in cui, con le lacrime agli occhi, la bambina mormora che la mamma non le compera mai i balocchi perché presa solo dai profumi per lei. Esistono delle parole per descrivere questo genere di “snobbamenti” egocentristici o screanzati? No. Perché non avrebbero alcun senso, e non rispondono a una necessità che invece si vuole creare introducendo un anglicismo per descrivere questo stesso atteggiamento nel caso sia il cellulare, anzi lo smartphone, l’elemento di disturbo.

L’inglese: un obbligo per i cittadini ma non per i politici

Intanto, venendo a quanto accade in Italia, la politica si è schierata dalla parte dell’inglese: lo ha reso obbligatorio nella scuola – invece che essere una scelta – e soprattutto lo ha fatto diventare un requisito per essere assunti nella pubblica amministrazione o per presentare i progetti di ricerca. Ma questa imposizione dell’inglese che discrimina le altre lingue, e a maggior ragione i cittadini che le conoscono, non è un requisito anche per i politici, che ne sono esentati, e in molti casi faticano persino a esprimersi in italiano e a maneggiare il congiuntivo.

In questo modo la nostra lingua si anglicizza e l’inglese internazionale guadagna terreno facendo tabula rasa del plurilinguismo, che dovrebbe essere un valore e non un ostacolo alla comunicazione internazionale da svolgersi nella lingua naturale dei Paesi anglofoni.

Bisognerebbe gridare forte che la lingua dell’Europa è la traduzione, per dirla con Umberto Eco, che l’inglese non è la nostra lingua e non è una lingua superiore rispetto alle altre. Che non è un requisito per saper governare, ma neanche un requisito per sapere insegnare una qualunque materia, per lavorare nella pubblica amministrazione o per presentare il proprio progetto di ricerca. Fare della lingua inglese un requisito da imporre ai cittadini (ma non ai politici) significa discriminare le altre lingue nazionali e ridurle a dialetti di un mondo che parla e pensa in inglese. L’attuale regressione dell’italiano e la comparsa dell’itanglese dipendono da questa mentalità suicida che dovremmo combattere, invece che sposare.

L’itanglese è lo stilema dei nuovi centri di irradiazione della lingua

Di Antonio Zoppetti

L’italiano contemporaneo è sempre più caratterizzato dalla presenza di anglicismi. Il loro numero abnorme e la loro frequenza esagerata sono tali da determinare un fenomeno che non si può più spiegare con le bislacche categorie dei “prestiti linguistici”. Il numero degli pseudoanglicismi – vocaboli che suonano inglesi ma che in inglese non esistono o hanno altri significati – è sempre più ampio, e in questi casi a essere “presi in prestito” non sono le parole e i concetti, siamo in presenza dei trapianti di suoni o di radici inglesi che vengono poi ricombinate in modo maccheronico. In questa caotica ristrutturazione lessicale sta emergendo qualcosa che non ha precedenti nella storia dell’italiano: l’ibridazione di centinaia e centinaia di parole miste che non sono più né italiane né inglesi perché escono dalle regole dell’ortografia e della pronuncia di entrambe le lingue, come chattare o computerizzare, shampista, scooterino o leaderismo, babycalciatore, cybercriminale o over quaranta… Sono sempre più numerose anche le combinazioni di radici inglesi (e pseudoinglesi) con inversione sintattica (smart working, social media manager) che mandano in frantumi la collocazione dei nostri vocaboli e il loro ordine. Tutto ciò ha ormai un nome: “itanglese”, anche se molti linguisti si rifiutano persino di pronunciare questa parola, visto che spesso negano il fenomeno o non lo ritengono preoccupante.

Ma cos’è l’itanglese?
È una lingua?
È una sorta di gergo che si sta consolidando in alcuni ambiti come quello del lavoro o dell’informatica?
O è una specie di nuovo registro linguistico elitario che gode di un elevato prestigio culturale, per cui dire che il business dei prodotti italian sounding nel settore food è superiore a quello dei brand del made in Italy suona più solenne e tecnico rispetto al giro di affari dei prodotti dal nome italofono nel settore gastronomico è superiore a quello del prodotto italiano?

L’itanglese è ancora di più di questi tre casi. È un nuovo stilema espressivo divenuto il modello linguistico della nostra classe dirigente, che lo diffonde e lo impone.

La lingua popolare e l’imitazione degli stilemi della classe dirigente

Antonio Gramsci, negli anni ’30, è stato tra i primi a riflettere sull’italiano popolare. Nei Quaderni del carcere notava che la lingua italiana aveva un’origine letteraria che la rendeva “aulica”. Non era l’espressione della nascente borghesia, che non era riuscita a creare una lingua unitaria, ma neanche delle masse, che si esprimevano nei dialetti ed erano così escluse dalla storia. La grammatica normativa, cioè le regole grammaticali scritte, si è così spontaneamente unificata nella storia sia come processo culturale sia perché esisteva un ceto dirigente che veniva riconosciuto come modello linguistico da imitare e seguire. Accanto alla grammatica normativa esiste infatti una grammatica popolare e istintiva che spinge a parlare in un certo modo senza esserne consapevoli, e in questo spontaneo e caotico processo di unificazione linguistica che tende al “conformismo grammaticale” delle varietà geografiche e culturali accade che il contadino che si “inurba” tende ad assorbire il linguaggio cittadino e abbandonare quello della campagna, così come la parlata delle classi dominanti diviene un modello per le classi subalterne e meno colte. Dunque l’unificazione linguistica è un fatto politico e ogni volta che emerge la questione della lingua sotto c’è sempre qualcosa di più profondo, e cioè una riorganizzazione dell’egemonia culturale delle classi dirigenti (Quaderni del carcere, 29, § 3), per cui nella polemica tra “manzoniani” e “classicisti” in gioco c’era un modello linguistico da far prevalere. “La grammatica normativa scritta è quindi sempre una ‘scelta’, un indirizzo culturale, è cioè sempre un atto di politica culturale nazionale.” In un paragrafetto intitolato “Focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse nazionali” Gramsci passava in rassegna i centri di irradiazione e di unificazione della lingua, che erano per lui rappresentati dalla scuola, dai giornali, dagli scrittori, dal teatro, dalla radio e dal cinematografo, oltre che dagli scambi e dalle conversazioni di qualunque natura, politica o religiosa, tra ceti colti e meno colti.

Negli anni ’60 Pasolini salutava con enfasi il fatto che l’italiano era ormai divenuto una lingua nazionale, dopo l’epoca dell’italiano letterario “aulico” e dei dialetti con cui si esprimevano le masse. E fu il primo ad accorgersi che l’italiano letterario basato sul toscano era finito, e che il nuovo italiano era sempre meno espressivo e sempre più tecnologico, perché i centri di irradiazione della lingua erano diventati i poli industriali del nord.
Negli anni ’80 linguisti come Sabatini o Berruto hanno rispettivamente classificato il nuovo italiano effettivamente parlato dalle masse come “medio” o “neostandard”, e cioè una lingua che era sempre meno aulica e sempre più “appiattita” su costrutti comuni estesi e radicati, anche se talvolta distanti dalle norme grammaticali, come l’uso di lui soggetto al posto di egli, i periodi ipotetici con il doppio imperfetto (se lo sapevo non venivo) e altri simili tratti che però erano impiegati anche da molti scrittori, oltre che sui giornali.

E nel nuovo Millennio cosa sta accadendo?

L’italiano newstandard ha come modello l’inglese

L’avvento di Internet ha cambiato completamente gli scenari dell’italiano medio e neostandard. Proprio quando qualcuno temeva per la morte del libro e della scrittura, e qualche sociologo teorizzava un ritorno all’oralità della civiltà elettrica caratterizzata dall’audiovisivo, il Web ha cambiato le carte in tavola, e nel giro di un decennio si è riempito prevaletemene di pagine scritte. L’italiano unitario di massa non è più dunque solo oralità e parlato, ha popolato milioni e milioni di pagine scritte dalla gente comune facendo nascere uno sterminato archivio di una letteratura popolare che non aveva precedenti per dimensioni. Gli scritti di massa non erano più filtrati dagli editori, erano lo specchio di come la gente scriveva. Spesso gli stilemi erano quelli giornalistici e televisivi che gli scriventi prendevano come modello, ma presto anche i professionisti e i giornalisti hanno cominciato a ispirarsi allo stile internettiano, in un gioco di reciproca fusione dei registri.
Intanto però, i focolai di irradiazione della lingua erano completamente cambiati, rispetto a quelli individuati da Gramsci e da Pasolini. L’attuale mondo virtuale è stato concepito, pensato e realizzato oltreoceano, con una terminologia e una riconcettualizzazione delle cose angloamericana. Se negli anni ’60 i poli industriali del Nord Italia diffondevano una neolingua tecnologica più che espressiva e letteraria, oggi il mondo del lavoro e della tecnologia parla, richiede e impone l’itanglese, e i nuovi centri di irradiazione della lingua si sono spostati fuori dall’Italia, e veicolano sempre più parole in inglese che non sono più create da nativi italiani, questi ultimi si limitano a trapiantare e giustificare anglicismi a tutto spiano. I mezzi di comunicazione di massa sono al centro della diffusione di neologismi sempre più in inglese, e i nuovi onomaturghi sono pubblicitari, doppiatori, giornalisti, tecnici, scienziati… che privilegiano l’inglese. Quelli che un tempo erano i modelli di diffusione e unificazione dell’italiano oggi diffondono l’itanglese.

L’itanglese è il modello dei politici, degli imprenditori, degli esperti, degli “infuencer” (visto che nessuno usa “influenti”), delle persone “colte”, e persino di linguisti che certificano la “necessità” degli anglicismi che inseguono, invece di deprecare. Come ho scritto in un commento allo scorso articolo, l’itanglese è la lingua dei comunicatori, dei formatori, delle pubblicità, dello sport, dei titoli delle manifestazioni culturali… in altre parole è diventato uno stilema.
Tutti i “centri di irradiazione della lingua” si stanno anglicizzando e ciò è l’effetto collaterale del progetto di rendere l’inglese la lingua della comunicazione internazionale, la lingua di serie A che è diventata obbligatoria a scuola, che sta pendendo piede come lingua dell’Europa, della scienza, della formazione universitaria, dei mercati globalizzati…
La nuova classe dirigente sta imponendo questa nuova lingua che è allo stesso tempo il modello di quella delle masse. E questo modello è caratterizzato dalla ricerca e dalla preferenza per i suoni inglesi e dall’abbandono di quelli italiani.

L’itanglese si può arginare solo spezzando il servilismo e il complesso di inferiorità alberto-sordiano del voler far gli americani; solo così le parole inglesi si dissolverebbero e perderebbero senso. Se non la smettiamo di percepire gli anglicismi come qualcosa di superiore rispetto all’italiano non ne usciamo. La battaglia non è contro i singoli anglicismi, ma contro l’assurda e deleteria percezione per cui l’inglese è una lingua superiore, più tecnica ed evocativa.
E questo cambiamento è un fatto sociopolitico che non può partire dalle masse, che lo subiscono, ma dall’alto.

Il catechismo linguistico: interventismo e prescrizioni (ma non sugli anglicismi)

Di Antonio Zoppetti

Pochi giorni fa “le Commissioni Affari costituzionali e Lavoro della Camera hanno approvato all’unanimità l’emendamento di Arturo Scotto (Pd) che prevede che nei documenti della Pubblica amministrazione la parola ‘razza’ sia sostituita da ‘nazionalità'” (cfr. ANSA).

Ecco un esempio di come la politica interviene sull’uso per cambiare la lingua.

Mentre la proposta di legge di Rampelli per l’eliminazione degli anglicismi nel linguaggio istituzionale ha suscitato un coro di detrattori che hanno bollato tutto come un ritorno alla guerra ai barbarismi del ventennio e in tanti hanno attaccato “l’assurdità” di voler tutelare la lingua con le leggi, pare che quasi nessuno abbia invece contestato a messa la bando di “razza”. Perché?

Qualche precisazione sulla “razza”

Il concetto di “razza” storicamente era determinato sia dalle caratteristiche esteriori e ben visibili a tutti (il fenotipo) sia dalle caratteristiche genetiche ereditarie (il genotipo). Semplificando la questione, in biologia c’erano le specie animali, che a loro volta si differenziavano in razze, cioè qualcosa di simile alle varietà all’interno di una stessa specie. Era soprattutto la possibilità di riprodursi a costituire la linea di demarcazione tra specie e razza per cui, in linea di massima, due cani sono in grado di procreare (anche se di razze diverse), al contrario di un cane e un gatto, che appartengono a due specie diverse. Questo criterio, però, non era affatto perfetto, e i casi di specie affini che possono procreare sono molti, dall’asino e cavallo che generano mulo o bardotto, agli incroci artificiali tra tigre e leone che hanno dato vita a un ibrido chiamato “ligre” (ma recentemente è emerso che Homo sapiens si è incrociato persino con la specie Neanderthal, prima di contribuire alla sua estinzione).

La rivoluzione di Darwin non ha solo messo in crisi il concetto di specie inteso come qualcosa di fisso (le specie si evolvono e con il tempo si differenziano), ha mandato soprattutto in frantumi la visione storica per cui l’uomo sarebbe qualcosa di diverso rispetto all’animale, uno dei cardini della visione cristiana basata sul creazionismo. Ed è proprio questo che la Chiesa non poteva accettare: l’uomo che discendeva dalla scimmia era una bestemmia che bisognava condannare con ogni mezzo, perché negava la distinzione qualitativa tra uomo e animale, un presupposto che apparteneva al clero e alla religione cattolica, non certo alla biologia e alle scienze della natura.

La parola “razza” compare nell’articolo 3 della Costituzione italiana: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.” Ma questo stesso principio di ritrova in moltissimi statuti che riconoscono i diritti dell’uomo, a partire dalla Carta delle Nazioni Unite.

Il senso di queste dichiarazioni è quello di opporsi al razzismo, e non certo quello di ratificare le teorie che presupponevano una gerarchia delle razze, e quindi l’esistenza di razze superiori e inferiori, che è una cosa ben diversa e non si può né deve confondere.

Oggi, però, un agguerrito gruppo di antropologi e di biologi riduzionisti vuole ridefinire il concetto di “razza” solo dal punto di vista genetico, e attraverso questo cambiamento di paradigma gli uomini apparterrebbero tutti a una sola razza (anche se curiosamente la razza non dovrebbe esistere), e non a una sola specie. Naturalmente questa riconcettualizzazione non elimina né il razzismo né le differenze somatiche (il fenotipo), e a un razzista poco importa se queste differenze siano genetiche o meno, la discriminazione di chi è “diverso” avviene in base a ciò che è macroscopico. Razza, inoltre, non ha solo questa valenza da termine scientifico, che si può benissimo ridefinire con altri criteri, ma ha anche un’accezione nel linguaggio comune che si riferisce appunto alle caratteristiche macroscopiche e fenotipiche che, proprio perché esistono (e comunque si chiamino) sono tutelate dalle carte dei diritti dell’uomo. Ma i revisionisti sono intenzionati a cancellare questo uso storico in una crociata per mettere al bando la parola anche nel linguaggio comune. Sostituire “razza” con “nazionalità”, come nell’emendamento di Scotto, è però il frutto di una confusione imbarazzante tra concetti biologici, culturali e politici. Il concetto di “popolo” è infatti un’entità storica e sociologica accomunata per esempio dalle tradizioni culturali o linguistiche, mentre quello di “nazione” è un concetto “politico”, e chi ha una stessa nazionalità può appartenere a fenotipi diversi (visto che non si può più usare la parola razza).

La femminilizzazione delle cariche

Tornando agli interventismi istituzionali sulla lingua per modificarne l’uso storico, bisogna ricordare che nel 2007 è stata diramata una direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri (Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche) che invitava a usare un linguaggio non discriminante nei documenti di lavoro per favorire in questo modo una politica per le pari opportunità. L’accademia della Crusca, qualche anno dopo, ha affiancato il Comune di Firenze nello stilare le Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, perché il punto era quello di stabilire caso per caso come si potesse rendere il giusto femminile, che di volta in volta si può fare con la desinenza in –a, in –essa, in –trice
In questo modo, venendo a quanto è successo negli ultimi anni, l’uso di termini come ministra, sindaca, poliziotta anziché donna poliziotto e simili sono entrati non solo nei dizionari, ma anche nel linguaggio dei giornali e dei media, che in larga parte hanno messo in pratica questi precetti e hanno perciò cambiato l’uso.

L’interventismo nel cambiare gli usi storici della lingua, naturalmente, non avviene solo con emendamenti come quello di Scotto o con linee guida come quelle per le pari opportunità di genere, che ne sanciscono l’ufficialità, ma si costruisce soprattutto con le pressioni sociali, e il caso più noto che si può citare è quello della messa al bando della parola “negro”, a proposito di “razzismo” e discriminazione.

Il linguaggio politicamente corretto

Nell’italiano storico “negro” non ha mai avuto una connotazione negativa, basta sfogliare i libri del Novecento per trovare centinaia di testi che si battevano per i “diritti dei negri”. Ma dagli anni Novanta, visto che negli Usa la parola aveva una connotazione negativa ed è stata bandita, anche in Italia è scomparsa dalle traduzioni dei libri e dai doppiaggi cinematografici e televisivi, sostituita da “nero”, “afroamericano” e persino da scempiaggini come “uomo di colore” (ma di quale colore si parla?). E così abbiamo dovuto cambiare il nostro modo di parlare, per il fondamentalismo di una ventata di politicamente corretto che non sentiva ragioni e che ha fatto sì che dire “negro” equivalga oggi a essere razzisti, al punto che l’uso di questa parola proclamata come un insulto è assimilato a quello di “frocio”, che però storicamente ha sempre avuto un’accezione dispregiativa, ed è quindi un esempio ben diverso.

Le crociate linguistiche di questo tipo seguono sempre lo stesso schema: prendono piede prima nell’intellighenzia, si impongono nelle università e poi vengono propagate dai mezzi di informazione in modo unanime e compatto; alla fine si impongono così alle masse che non possono che ripetere l’uso dettato dai centri di irradiazione della lingua e dalle classi dirigenti. I pianificatori di queste crociate sanno benissimo come si deve operare. Gli esempi di questi cambiamenti dell’uso in nome del politicamente corretto sono tantissimi.


Invece di risolvere il problema delle barriere architettoniche ci si limita a edulcorale i nomi dei disabili che prima diventano handicappati, poi diversamente abili e via dicendo, in una corsa a cambiare i nomi delle cose (invece di cambiare le cose) destinata a un processo infinito, visto che nel giro di un decennio anche la nuova soluzione finisce col diventare discriminatoria, perché la discriminazione non sta nelle definizioni e nelle parole, ma nella sostanza. E invece di predicare che è meglio dire non vedente al posto di cieco (alla faccia dell’Unione ciechi disinteressata a queste categorie ipocrite) quello che conta è ben altro. E così mentre “mongoloide” è stato sostituito da “Down”, “spazzino” da “operatore ecologico” e via dicendo, il nuovo fronte degli interventisti della lingua (che si compiace degli anglicismi su cui non solo non ha alcuna intenzione di intervenire, ma quel che peggio li diffonde e legittima) sta puntando all’introduzione dello scevà e delle parole neutre in nome dell’inclusione (tuttə o tutt* invece del maschie generico e inclusivo tutti).

I linguisti che si proclamano “descrittivisti” e dicono di aver rinunciato a essere prescrittivi, non sono esenti dalle medesime contraddizioni. Hanno creato il mito dell’uso che fa la lingua, ma dimenticano di specificare: l’uso di chi? L’uso imposto dall’alto e anche da loro stessi, e non certo l’uso delle masse che si devono invece “educare” e catechizzare.

Sé stesso “piuttosto che” se stesso

Nei monosillabi, in linea di massima, si mette l’accento quando esistono degli “equivoci” che li possono far confondere con altri dal diverso significato, per esempio pronome e se congiunzione. Partendo da queste considerazioni, da molto tempo si è diffusa la consuetudine che in presenza dei rafforzativi stesso e medesimo, venendo a mancare l’elemento di possibile confusione, se stesso e se medesimo si debbano scrivere senza accento. Questa regola è da tempo stata criticata per la sua irrazionalità e insensatezza, tuttavia è stata insegnata nelle scuole per decenni (spesso violarla era un errore da penna blu) ed è soprattutto entrata nelle norme editoriali di tutte le principali case editrici che l’hanno osservata nella pubblicazione dei libri. Nel Novecento si è affermata come la tendenza dominante, è entrata nell’uso, si leggeva “se stesso” in Calvino e nei libri Einaudi così come negli autori e negli editori minori. Nel Devoto Oli, fino al 1995, alla voce “sé” non solo si prescriveva di scrivere “se stesso” senza accento”, ma anche nelle voci del dizionario tutte le occorrenze dell’espressione erano senza accento.

Il linguista Luca Serianni, tuttavia, ha sempre avversato questa norma e questo uso, e le ultime parole con cui si è congedato dall’insegnamento universitario per andare in pensione sono state: “E scrivete sé stesso con l’accento!” (il che mi pare una prescrizione volta al cambiamento dell’uso). Dopo la morte di Oli, quando Serianni e Trifone hanno assunto la direzione del dizionario, hanno riscritto le regole: tutte le occorrenze sono oggi con l’accento, e alla voce “sé” si legge che quando è seguito da stesso si può scrivere in entrambe le maniere. In questo modo le nuove tendenze, anche nell’editoria e sui giornali, puntano oggi alla nuova regola. E tutto ciò non ha molto a che fare con l’essere descrittivi.

La stessa contraddizione si rileva nella condanna da parte dei linguisti del “piuttosto che” alla milanese. Nell’italiano storico la locuzione “piuttosto che” significa “anziché”, “invece di”: “Piuttosto che mangiare la minestra, salto dalla finestra!”

Nel nuovo Millennio si è però diffuso un uso improprio di questa espressione: piuttosto che viene utilizzato come una congiunzione disgiuntiva (invece che avversativa) con il significato di oppure, o. Dunque si sentono sempre più spesso frasi come: “In vacanza pensavo di andare al mare, piuttosto che in montagna, piuttosto che in qualche città d’arte…”.

L’origine di questa accezione arriva dalle parlate del nord, ma è ormai dilagata in tutta Italia e si sente ovunque, anche in televisione e tra le persone di buona cultura. Davanti a questa frequenza d’uso, un descrittivista dovrebbe perciò prendere atto di questo nuovo uso, invece di condannarlo, ma al contrario i linguisti (e l’accademia della Crusca) continuano a bollarlo come errore con un certo fastidio.

E con questo siamo arrivati al punto: il descrittivismo e il mito dell’uso sono invocati per esempio per giustificare il ricorso agli anglicismi (i linguisti ci spiegano persino che molti sarebbero “necessari”!), ma si abbandonano quando fa comodo per ricorrere ad altri principi prescrittivi che servono di volta in volta per condannare l’uso errato di alcune espressioni e correggerle, o viceversa per cambiare l’uso esistente e catechizzare il popolo a smettere di dire “razza” o scrivere “se stesso”.

In queste prese di posizioni basate su due pesi e due misure, inutile dirlo, quello che prevale è l’interferenza dell’angloamericano, propagata e legittimata dalle pressioni sociali e istituzionali. Si accetta ciò che arriva da lì, a costo di intervenire a gamba tesa sull’uso (negro, razza, scevà…) ma si è pronti a gridare al “fascismo” se invece si adotta lo stesso criterio per chiedere di arginare gli anglicismi.


Domani si dovrebbe discutere in Parlamento la proposta di inserire l’italiano in Costituzione. Come finirà?

L’imposizione surrettizia dell’inglese a scapito dell’italiano e delle altre lingue

Di Antonio Zoppetti


Mentre giorno dopo giorno uno tsunami di anglicismi si riversa nella nostra lingua, snaturandola, allo stesso tempo l’italiano regredisce e perde terreno davanti all’inglese non solo sul piano internazionale, ma anche su quello interno. Non ci vuole un genio per capire che le due cose sono strettamente connesse.
L’anglicizzazione e l’itanglese sono l’effetto collaterale di una mentalità e di una politica che pone l’inglese in primo piano e lo impone nella società, perché lo considera superiore a tutte le altre lingue e anche alla nostra. E così anno dopo anno la “dittatura dell’inglese” guadagna terreno e si fa più esplicita e spavalda. L’italiano retrocede e il plurilinguismo è sempre meno un valore e sempre più considerato un ostacolo alla comunicazione internazionale monolingue.

Tutto ciò parte dalla scuola, per educare le nuove generazioni a questa mentalità sin dalle elementari.

L’inglese obbligatorio: dalla scuola alla società

Lo studio di una seconda lingua nelle scuole secondarie è stato introdotto negli anni Sessanta, e nel decennio successivo è stato esteso anche alle scuole primarie. Fino agli anni Novanta si poteva scegliere se studiare come seconda lingua il francese o l’inglese (anche se la Circolare n° 304 del 10 luglio 1998 contemplava le opzioni di tedesco e spagnolo, almeno per le scuole medie).

Negli anni Duemila, però, tutto è cambiato, le altre lingue sono diventate di serie B e l’inglese oggi non è più una scelta, ma è diventato obbligatorio.

Il cambiamento è avvenuto con la Riforma Moratti (Legge n. 53 del 28 marzo 2003, e con il successivo Decreto Legislativo 59/2004), attraverso la parola d’ordine delle tre “i” riprese poi da Berlusconi: Inglese, Internet e Impresa.

In poco tempo l’obbligo è passato dagli studenti agli insegnanti, e con la Riforma Gelmini del 2010 l’inglese è stato dichiarato un requisito anche per i docenti che devono conoscerlo a un livello pari al First Certificate dell’Università di Cambridge indipendentemente dalla disciplina che insegnano.

Il passo successivo è stato quello di estendere questo obbligo per l’assunzione non solo dei professori, ma più in generale dell’intera pubblica amministrazione. Il requisito di conoscere “almeno una lingua straniera” per partecipare ai bandi (e quindi essere assunti) introdotto nel 2001 (decreto legislativo n. 165 del 30 marzo, “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”) nel 2017 è stato modificato con la Riforma Madia con questa correzione:

Le parole «e di almeno una lingua straniera» sono sostituite dalle seguenti: «e della lingua inglese»” (vedi: Art. 7. Modifiche all’articolo 37 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165).

In questo modo, in Italia è avvenuta la svolta che ha portato all’introduzione dell’obbligo dell’inglese, e si sono creati i presupposti e i precedenti per sancire un’asimmetria e una discriminazione tra una lingua di serie A, proclamata un’abilità di base, e tutte le altre. Italiano compreso.

È però curioso – diciamo così – che mentre la politica ha imposto l’obbligo dell’inglese agli studenti e ai cittadini nei concorsi della pubblica amministrazione non lo abbia fatto diventare un requisito anche per loro stessi…

I fondi a rischio del Pnrr e l’inglese

Il programma con cui il governo dovrebbe gestire i fondi dell’Ue per risanare lo sfacelo della pandemia, e cioè il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), è da mesi al centro delle polemiche, visto che molti dei nostri progetti non soddisfano i requisiti e rischiamo di non ricevere i finanziamenti. In un articolo del 20 maggio sul Corriere (“Pnrr, con Bruxelles contatti a rilento. I ritardi nella rata e l’effetto sui conti” di Federico Fubini) si legge che uno degli ostacoli dello stallo

deriverebbe dal fatto che non parlano inglese né il ministro agli Affari europei Raffaele Fitto – delegato al Pnrr – né il capo della nuova Struttura di missione rafforzata di Palazzo Chigi, il magistrato della Corte dei conti Carlo Alberto Manfredi Selvaggi. I due terrebbero riunioni in videoconferenza con gli uffici europei preposti al Recovery ogni sette o dieci giorni, senza contatti costanti. E almeno in un caso si sarebbero serviti di un funzionario di Bruxelles portato dal precedente governo a Palazzo Chigi, Claudio Casini, per farsi tradurre le proprie affermazioni e le risposte dei funzionari europei.

Questa narrazione, tuttavia, contribuisce a diffondere la bufala che il problema non sia l’incapacità politica, bensì che i politici italiani non conoscano l’inglese, e in questo modo si fa credere e si dà per scontato che l’inglese sia la lingua dell’Europa, anche se non è affatto così. Benché Ursula von der Leyen, insieme a una potente corrente di anglofili, stia facendo di tutto perché ciò avvenga, il ricorso all’inglese come lingua di lavoro è una prassi che bisognerebbe combattere in modo agguerrito perché non è sancita da alcuna carta ed è dunque illegittima. Non dobbiamo dimenticare che siamo tra i Paesi fondatori dell’Unione, e davanti al fatto che la nostra politica ha delle difficoltà con l’inglese dovremmo ricordare che se l’italiano non è più una delle lingue di lavoro è stato anche grazie al loro, visto che è stato estromesso nell’indifferenza di tutti e che a quasi nessuno è mai venuto in mente di difenderlo. Eppure la prassi dell’inglese nell’Ue, oltre a penalizzarci, fa guadagnare miliardi di euro all’anno al Regno Unito che è fuori dall’Europa e non investe sullo studio di lingue straniere come fa il resto del mondo a beneficio della loro lingua naturale.

Ma invece di riflettere seriamente sulla questione, sull’importanza del plurilinguismo, sulla democrazia linguistica, sulla discriminazione delle lingue più deboli, la nostra classe dirigente continua a propagandare l’idea che l’inglese sia un obbligo, e che chi non lo sa debba essere penalizzato e colpevolizzato. Come nei titoli di giornale di un brutto episodio avvenuto l’anno scorso.

“Il 118 non parla inglese: muore una turista.” Ma è davvero così?

L’inglese è conosciuto da ben meno del 20% dell’umanità, e venendo all’Europa è inteso da meno della metà di europei e italiani. E non conoscerlo non è una “colpa”.

Nell’aprile 2022 una pioggia di articoli ha alimentato l’idea che la morte di una turista tedesca che ha avuto un malore nei pressi di Roma dipendesse dal fatto che gli operatori del 118 non conoscevano l’inglese. La donna aveva avuto un malore e il fidanzato irlandese ha chiamato i soccorsi lamentandosi perché sarebbe stato messo in attesa per trovare qualcuno che parlasse in inglese (= colpa). Ancora una volta si presuppone che l’inglese sia un obbligo e che tutti debbano conoscerlo. Dunque chiedere i soccorsi in inglese sarebbe un “diritto”.

Se la richiesta di soccorso fosse stata fatta da qualcuno che parlava solo giapponese, filippino, greco, o nigeriano… o se la richiesta di aiuto fosse stata fatta in esperanto, i titoli sarebbero stati diversi. Ma poiché la telefonata è stata fatta da un anglofono si dà per scontato che tutto il mondo debba conoscere e praticare la sua lingua. Forse la tragedia si sarebbe potuta evitare anche se l’irlandese avesse studiato una seconda lingua, per esempio l’italiano o il francese.

Se ci sono stati dei ritardi nei soccorsi o degli episodi di malasanità bisogna indagare sulle responsabilità, invece di far passare l’idea che i ritardi nei soccorsi sono causati dal “deficit” di non conoscere l’inglese. E mentre articoli come questi costruiscono e diffondono l’idea che l’inglese debba essere la lingua dell’umanità e inducono alla discriminazione di chi non lo sa, l’italiano finisce per essere opzionale persino nel nostro Paese, come emerge dalle pretestuose recenti polemiche legate ai direttori stranieri dei musei italiani.

Per dirigere un museo italiano bisogna sapere l’italiano: che scandalo!

Il ministro della Cultura Sangiuliano ha da poco annunciato che nei bandi per l’assegnamento della direzione dei musei italiani sarà necessario certificare la conoscenza della lingua italiana. Tutto ciò ha generato il solito coro dei giornalisti anglomani che sono in prima linea nell’esaltare l’obbligo dell’inglese, mentre davanti all’italiano non riescono nemmeno a immaginare che sia il caso di prendere in considerazione la reciprocità di analoghi provvedimenti.

La questione riguarda gli incarichi che scadranno nel prossimo autunno per la direzione di alcuni prestigiosi musei gestiti da funzionari stranieri, a partire dal direttore degli Uffizi Eike Schmid per proseguire con i sovraintendenti degli scavi di Pompei (Gabriel Zuchtriegel), del Museo Nazionale Romano (Stéphane Verger), della Scala di Milano (Riccardo Chailly), e altri ancora.

Ecco come viene presentata la notizia in un articolo su La Repubblica (“La mossa di Sangiuliano: bando per direttori dei musei aperto solo a chi parla italiano” di Giovanna Vitale):

“Do you speak Italian? È la domanda-chiave cui dovranno rispondere i candidati alla guida dei musei statali che intendano partecipare a uno dei bandi in cottura al ministero della Cultura. Un prerequisito essenziale senza il quale non val neppure la pena di tentare: si verrebbe scartati all’istante. Con un’ulteriore avvertenza, tuttavia. Ai nuovi direttori di gallerie e parchi archeologici nazionali non basterà saper parlare e scrivere nell’idioma di Dante. Troppo facile. La destra tricolore, decisa a «tutelare la lingua madre dall’esterofilia dilagante » al punto da proporre l’espulsione di ogni lemma esotico dagli atti della pubblica amministrazione, esige di più: la conoscenza dell’italiano certificata da appositi test riconosciuti a livello internazionale. Un modo per scremare manager e curatori stranieri che dalle Alpi alla Sicilia la fanno da padroni.

E su Wired si legge persino che “le lingue della cultura sono competenza e trasparenza, non l’italiano”.

Ma di quale trasparenza si parla? Ci rendiamo conto di dove stiamo andando?
Perché non si scrive invece che la lingua dell’insegnamento non è l’inglese? Visto che un professore di italiano, francese, spagnolo o tedesco non può lavorare nella scuola se non certifica il suo inglese.

Da una parte si sancisce l’obbligo dell’inglese nella pubblica amministrazione, e si richiedono certificazioni di livello altissimo, e mentre gli italiani per lavorare nel proprio Paese sono obbligati a conoscere l’inglese, i cittadini non italiani che dirigono i nostri musei non dovrebbero certificare di conoscere la nostra lingua?

Per quanto allucinante, la situazione e la mentalità anglomane è questa, attualmente. E l’unica “crociata” in atto è quella per imporre ovunque il primato dell’inglese.

Dal plurilinguismo al monolinguismo

Accanto ai provvedimenti legislativi che tendono a ufficializzare l’inglese in Italia, questa lingua guadagna terreno anche in modo ufficioso, e diventa di fatto l’unica lingua della prassi anche quando sulla carta sono contemplate le altre lingue solo in teoria. Lo abbiamo visto con il progetto Erasmus, nato e sovvenzionato dall’Ue per l’apprendimento delle “lingue straniere”, ma diventato nella realtà lo strumento di diffusione dell’inglese, più che delle altre lingue. Esattamente come è avvenuto con il progetto CLIL, non a caso acronimo dell’inglese Content and Language Integrated Learning, che prevede l’introduzione nelle scuole di alcune ore in cui una certa materia viene insegnata direttamente in una “lingua straniera”, per favorire l’acquisizione dei contenuti disciplinari e allo stesso tempo l’apprendimento di una lingua, che di fatto è quasi sempre e solo una: l’inglese.

Lo stesso inglese che si vuole fare diventare la lingua della formazione universitaria in alcuni atenei come il Politecnico di Milano, che ha tentato di estromettere l’italiano; l’inglese che si fa strada come lingua ufficiosa nell’Unione Europea; l’inglese che dal 2017 è diventato la lingua obbligatoria per presentare i Progetti di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) e che nel 2021 – l’anno delle celebrazioni dantesche – si è esteso anche alla partecipazione al Fondo Italiano per la Scienza (FIS). Dunque, se si vogliono ottenere finanziamenti per la ricerca “italiana” lo si deve fare in inglese, e in inglese, oltre alle domande, si devono svolgere anche gli eventuali dibattiti.

Ecco come si distrugge la nostra lingua, con questa mentalità che si dovrebbe invece spazzare via.

Lo tsunami degli anglicismi: perché?

Era il 2015 quando, in un intervento al Ted di Milano che è entrato nella storia (“Dal bello al biùtiful”), Annamaria Testa si domandava:

«E uno si chiede: “Ma perché?” Ma perché, nel momento in cui se guardiamo i marchi turistici di tutte le città del mondo, non c’è nessuno che faccia la cosa insensata di storpiare il suo nome, per promuoversi. (…) Perché noi qui in Italia beviamo “wine”? Guardate qua: mangiamo “food” e beviamo “wine” a Lucca, a Cernobbio, a Catania, a Milano. E la cosa è curiosa perché a New York, se al Waldorf-Astoria devono promuovere la settimana del vino italiano, dicono “vino”. Perché i ristoranti di New York, belli ed eleganti, che vendono cibo e vino, dicono “vino”».

Già. Perché?

Se lo è chiesto 1.000 volte anche Giorgio Comaschi nelle sue divertenti pillole (per es. “Mi dovete spiegare perché”), e poi se lo è chiesto anche Mario Draghi, qualche tempo fa: “Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi…”.

E soprattutto dovremmo chiederci perché gli anglicismi che da noi sono proclamati come “necessari” o “intraducibili” in Francia, Spagna o Portogallo sono invece espressi nella propria lingua, come ha documentato in un bellissimo servizio di pochi giorni fa il bravo Davide Gemello.


Perché? Perché? Perché? Perché? Perché?

Da quando, nel 2017, ho pubblicato il mio primo libro sull’interferenza dell’inglese, con i dati tratti dai dizionari che ne pesavano e dimostravano la dimensione preoccupante, da quando ho aperto questo sito, da quando ho pubblicato il Dizionario AAA delle Alternative Agli Anglicismi, la domanda “perché?” è quella che ricorre più spesso.

A volte è un “perché” retorico, che sottintende una verità che ci fa male e che quindi cerchiamo di rimuovere: forse, semplicemente, perché siamo scemi?

Le tante spiegazioni che circolano si appellano alla (spesso presunta) sinteticità dell’inglese, alla (presunta) pigrizia nel tradurre legata alla velocità della comunicazione nel nuovo logorio della vita internettiana, alla moda, al fascino e al prestigio, o a uno strano modo di voler essere “internazionali” che presuppone di parlare inglese, invece di fare come negli altri Paesi dove la propria lingua non viene affatto abbandonata a questo modo.

Queste spiegazioni non bastano. Non sono minimamente sufficienti per spiegare la dimensione, la profondità e la frequenza di un ricorso all’inglese che assomiglia ormai a una mania compulsiva e sta trasformando la nostra lingua in “itanglese”. Queste risposte sono solo un alibi.

E allora, ho provato a rispondere a questi infiniti “perché” con un libro che inquadra il fenomeno da una prospettiva diversa da quella della semplice linguistica. E ogni perché trova finalmente la sua soluzione.

Di seguito il comunicato stampa.

Lo tsunami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica (goWare)

Cartella stampa:

Tra influencer e jobs act, smart working e fake news, l’italiano del nuovo Millennio è sempre più caratterizzato dal ricorso agli anglicismi che in alcuni ambiti lo stanno trasformando in itanglese. Lo tsunami degli anglicismi è un evento di portata mondiale che si riscontra in ogni idioma, un “effetto collaterale” della globalizzazione, di Internet, dell’espansione delle multinazionali nordamericane e del progetto di fare dell’inglese la lingua planetaria. Nel contaminarsi, molte lingue locali corrono il rischio di diventare i dialetti di un “anglomondo” che pensa e parla in inglese, e in alcuni casi persino di scomparire. La nuova “questione della lingua” travalica il nostro Paese e si trasforma nella “questione delle lingue” minacciate da un globalese che si impone a scapito delle identità locali vissute come un ostacolo alla comunicazione e ai mercati internazionali.

Questo saggio affronta i risvolti della globalizzazione linguistica, un tema trascurato nelle sterminate riflessioni su quella economica o culturale, soprattutto in Italia.
Sul tavolo ci sono questioni enormi, che riguardano la scelta dell’inglese come lingua della formazione universitaria, della scienza e dell’Unione Europea, proprio nel momento in cui il Regno Unito ne è uscito. Tutto ciò non ha solo forti implicazioni politiche e culturali, ma anche economiche. L’inglese internazionale rappresenta un giro d’affari incalcolabile per i Paesi anglofoni che se ne avvantaggiano senza dover sostenere i costi per l’apprendimento di alcuna lingua straniera.

Con una prospettiva attenta all’ecologia linguistica e al plurilinguismo inteso come valore e ricchezza, l’autore ripercorre la storia delle relazioni pericolose tra globalese e itanglese e della nostra americanizzazione sociale, culturale e dunque linguistica. Si tratta di un processo politicamente sollecitato sin dai tempi del piano Marshall, ed è il risultato del sogno americano costruito negli ultimi settant’anni dal potere morbido del cinema, dei prodotti culturali, delle pubblicità e delle merci d’oltreoceano.

Dal confronto con quanto sta accadendo all’estero, quello che emerge è l’anomalia italiana, dove le forti pressioni internazionali esterne non sono controbilanciate da analoghe resistenze culturali e istituzionali come accade in Francia, in Spagna e in altri Paesi. Anzi, sedotti da tutto ciò che è a stelle e strisce, agevoliamo dall’interno questo processo cannibale. Dietro la nevrosi compulsiva con cui ricorriamo agli anglicismi – e ci inventiamo da soli i nostri pseudoanglicismi – c’è un cambio di paradigma sociale e una storia che non è ancora stata del tutto affrontata, forse perché non si ha il coraggio di raccontarla.

Titolo Lo tsunami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica
Autore Antonio Zoppetti
Editore goWare
Prezzo libro digitale form. Kindle 9,99 € | cartaceo 18 €
Pagine: 252
In commercio da: aprile 2023

Per saperne di più.