Italiano: ammirato nel mondo e disonorevole in patria

Nell’edizione italiana del film Un pesce di nome Wanda (Charles Crichton, 1988), quando Jamie Lee Curtis sentiva parlare in spagnolo perdeva ogni inibizione sessuale. Ma forse non tutti sanno che nell’edizione in lingua originale era l’italiano a farle girare la testa, la lingua di Casanova e di Rodolfo Valentino, la lingua dell’amore.

Chi ostenta l’inglese perché lo considera un idioma superiore, e chi pratica l’itanglese per sentirsi moderno ed elevarsi socio-linguisticamente dovrebbe rivedersi queste scenette tutte le sere prima di andare a letto, e riflettere maggiormente sui complessi di inferiorità e sul disprezzo della nostra lingua che gli scorre nelle vene.

“Quanno se fa ll’ammore sott’ ‘a luna / Comme te vene ‘ncapa ‘e di’ I love you?”, cantava Renato Carosone in “Tu vuo’ fa’ ll’americano”. Eppure oggi i conquistatori, seduttori, rubacuori, sciupafemmine, dongiovanni e casanova in italiano cedono il posto a playboy, e persino la terminologia del sesso e della pornografia si colora di inglese (cfr. → “Troppo sesso siamo inglesi”). Ma l’italiano è una lingua molto amata in tutto il mondo anche fuori dagli stereotipi dell’amor profano. Anche se non è propriamente vero che sia la quarta lingua più studiata al mondo, è comunque molto studiata e, soprattutto, è apprezzata e invidiata per la sua bellezza. Il suo potere seduttivo è ancora oggi enorme, come lo è stato nel passato, anche se, sul fronte interno, sembra che lo abbiamo dimenticato e che ce ne vergogniamo.


La potenza storica dell’italiano

Elizabeth Italian LettersDurante il Rinascimento l’italiano era la lingua di maggior prestigio in Europa. A quei tempi il nostro Paese spiccava su tutti gli altri nell’arte, e la sua lingua si era guadagnata una fama che aveva imposto ovunque le proprie parole nei settori in cui primeggiava. E così divennero internazionali i nostri termini dell’architettura (architrave, balcone, cupola, campanile, facciata), delle arti figurative (affresco, chiaroscuro, schizzo poi ritornato adattato in inglese con significato teatrale-cinematografico: sketch) e della musica (forte, fuga, sonata). Tra il Cinquecento e il Seicento l’italiano fu la lingua franca della cultura. Elisabetta I d’Inghilterra era innamorata della nostra lingua che parlava e scriveva proprio nei contesti internazionali, invece di usare il latino, come è stato ricostruito in Elizabeth I’s Italian Letters (Carlo M. Bajetta, Palgrave Macmillan, New York, 2016). La nostra lingua godette di un enorme successo ancora nel Settecento. Gli inglesi si appropriarono delle novelle del Boccaccio al punto che oggi novel significa per loro romanzo; Shakespeare attinse abbondantemente dagli Ecatommiti di Giovan Battista Giraldi Cinzio; il Cortegiano di Baldassarre Castiglione diventò il manuale dei gentiluomini di corte; il poeta John Keats considerava la nostra lingua la più bella e musicale, e avrebbe addirittura voluto utilizzarla come lingua dell’insegnamento al posto del francese. Persino Rousseau riteneva la nostra lingua molto più adatta alla musica del francese, Mozart scrisse moltissimo in italiano, la lingua della lirica, e nella Vienna del massimo splendore l’italiano era la lingua della cultura e della classe dirigente. Goethe adorava l’Italia e la sua lingua e Thomas Mann, nelle Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull (1954) ha messo in bocca al protagonista queste parole:

“Son veramente innamorato di questa bellissima lingua, la più bella del mondo. (…) Sì caro signore per me non c’è dubbio che gli angeli nel cielo parlano italiano. Impossibile immaginare che queste creature del cielo si servano di una lingua meno musicale.”

La storia blasonata della nostra lingua non ha solo un valore storico, culturale e artistico di altissimo livello, possiede anche un potenziale economico fortissimo in tutto il mondo che potremmo e dovremmo sfruttare, ma purtroppo lo stiamo svilendo, invece di tutelarlo, promuoverlo e metterlo a frutto. Mentre all’estero la soavità dei nostri suoni gode di un enorme prestigio, nel nostro Paese stiamo abbandonando questi suoni per passare all’itanglese, e nel linguaggio politico ed economico capita di sentire parlare del boom o dell’escalation dei prodotti italian sounding o dell’appeal del made in Italy in tanti ambiti, dall’italian design al settore food. Mentre le lingue forti si impongono nei settori delle proprie eccellenze, l’ossimoro che ci contraddistingue è quello di esportarle in inglese, senza renderci conto che l’italiano è sensuale, accattivante, fascinoso, affascinante, attraente, seducente, ammaliante, incantevole, allettante, stuzzicante, di richiamo, irresistibile… persino intrigante, per ricorrere a un’interferenza dell’inglese che non snatura i nostri suoni (dal significato storico di intrigo = macchinazione, a quello sempre più in uso di stuzzicante). Ma davanti alla ricchezza della sinonimia e alle infinite sfaccettature di significati delle nostre parole, tutto ormai si esprime forse meglio con un bel: “L’italiano è sexy”, e questa parola ci sembra più evocativa, incisiva e immediata delle nostre. Preferiamo ridurre tutto alla stereotipia degli anglicismi omnicomprensivi così amati dai giornali, dai politici, dal mondo del lavoro e da sempre più settori che si anglicizzano contribuendo alla regressione della nostra lingua. Questa strategia sempre più dilagante, giorno dopo giorno, sta portando all’ammuffimento delle nostre parole storiche che finiscono per diventare obsolete ed essere relegate alla designazione del vecchiume (autoscatto davanti a selfie, calcolatore davanti a computer…), mentre ci sono linguisti che vedono in questo fenomeno dei “doni” invece di rendersi conto dell’impoverimento e della distruzione che l’inglese sta causando, e interpretano come “ricchezza” il proliferare dei “prestiti sterminatori” a base inglese che rappresentano ormai la metà delle parole nuove del Duemila. Se andiamo avanti a questo modo il futuro della nostra bella lingua sarà l’itanglese e il depauperamento della nostra cultura storica.


L’italiano è un tesoro di cui ci vergogniamo invece di metterlo a frutto

Incapace? Irresponsabile? Idiota?
Come si potrebbe definire chi è seduto su un tesoro che invece di mettere a frutto manda in rovina? Le nostre parole sono pietre preziose che gettiamo via per sfoggiare la bigiotteria che ci arriva da fuori. Perle ai porci, per citare il Vangelo.

Da una ricerca del 2016 condotta in dieci Paesi, realizzata dalla San Pellegrino, risulta che, nel mondo, i consumatori  sono disposti a pagare quasi il 10% in più per un prodotto con la dicitura “Toscana”. Eppure il presidente della Crusca Claudio Marazzini, in una missiva elettronica scritta in puro itanglese, due anni prima veniva invitato solennemente alla seconda edizione del “Tuscany Award” presso l’Hotel Four Season di Firenze (cfr. → “Perché in Italia si è tanto propensi ai forestierismi?” in La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi).

Non è assurdo tutto ciò?

L’italiano “è la seconda lingua più utilizzata nel mondo dopo l’inglese nelle insegne commerciali e nella presentazione dei prodotti. Lo sanno bene le imprese nordamericane, europee e asiatiche che utilizzano nomi italiani, o artifici che rimandano nella mente del consumatore a elementi propri della tradizione italiana, per pubblicizzare i loro prodotti. (…) Solo negli Usa le imitazioni dei nostri formaggi fruttano ben 2 miliardi di dollari. Nel complesso il fatturato dell’italian sounding, nel solo settore agroalimentare, ha superato i 60 miliardi di euro, quasi il doppio del fatturato delle esportazioni nazionali degli stessi prodotti originali” (Sara D’Agati, “Tutti pazzi per l’italiano, la lingua delle insegne”, La Repubblica, 31 ottobre 2016).

E così, mentre chiamiamo “italian sounding” – solo fino a qualche anno fa suonava come ridicolo e inappropriato, prima di diventare l’unico stereotipo per definire il fenomeno – i prodotti italianeggianti, dal nome (suono, sapore…) italiano, falsi italiani, pseudoitaliani, italofoni, imitazioni italiane, basati sul potere evocativo della nostra bella lingua… e mentre i nuovi dazi statunitensi sul parmigiano favoriscono le vendite del parmesan, le nostre aziende gastronomiche che puntano a essere internazionali usano poco e sempre meno la nostra lingua e privilegiano sempre più spesso l’inglese, da Slow Food a Eataly. E in questa follia, in questo paradosso, a Milano, capitale dell’itanglese, spuntano ovunque le insegne con scritto Wine Bar, invece delle enoteche, delle vinerie o delle cantine, e, contemporaneamente, nei ristoranti di lusso di New York si sta affermando la parola “vino” perché quello è il suono più seduttivo e di richiamo della nostra eccellenza.

L’esportazione dell’italiano all’estero appartiene alla storia. Oggi è morta e sepolta. Non c’è reciprocità tra quello che esportiamo e che abbiamo esportato nel passato e ciò che stiamo importando oggi dall’angloamericano. Non c’è alcun equilibrio tra quanto abbiamo dato e quanto stiamo accumulando dall’inglese negli ultimi 50 anni. Il bilancio è una colonizzazione dell’inglese su tutti i fronti, e le parole italiane universalmente comprese all’estero, fuor dai luoghi comuni di ciao, pizza e mandolino sono sempre meno. I tanti italianismi dell’inglese sono perlopiù inglesizzati, storpiati, pronunciati nel loro modo, come è normale nelle lingue sane. Solo in questo modo l’inglese si è arricchito di parole di ogni parte del mondo. Attraverso l’adattamento. Noi al contrario adottiamo, non adattiamo, l’angloamericano preoccupati di snaturarne la purezza e di “imbastardirne” la superiorità attraverso i nostri suoni.

Nel Novecento, “con l’eccezione dell’ambito della ristorazione (quella raffinata praticata da cuochi italiani di grande nome tanto quanto quella più rustica, ma altrettanto alla moda, delle specialità regionali), non c’è reale incidenza lessicale dell’italiano nemmeno in quei settori – il design e l’architettura, la moda e il ‘made in Italy’, il cinema d’autore, il turismo culturale – in cui oggigiorno l’Italia primeggia a livello internazionale, di certo perché in tali realtà industriali la lingua d’uso è comunque l’inglese” (Giovanni IamartinoItalianismi in inglese: una storia infinita?”) .

Se l’eccellenza italiana si esprime ormai in inglese, dall’italian design al made in Italy, siamo davvero finiti. Mentre in Francia e in Spagna la lingua è considerata un patrimonio da tutelare e promuovere, da noi no, ce ne vergogniamo. Non abbiamo una politica linguistica, lasciamo andare in malora la nostra lingua, nonostante i sondaggi e nonostante sia così amata. E pensare che nell’artigianato e nell’enogastronomia  “secondo Altagamma [il prodotto italiano] è percepito come sinonimo di qualità per un valore doppio del Made in France. Non è un caso che non esista uno Spanish o un German sounding” (Sara D’Agati, “Tutti pazzi per l’italiano, la lingua delle insegne”, La Repubblica, 31 ottobre 2016).

Questa rinuncia alla nostra cultura e alla nostra lingua è un cancro. Occorrerebbe un rovesciamento culturale drastico, per fermare il nostro suicidio collettivo. Dovremmo riappropriarci del nostro tesoro linguistico e andarne fieri, sia sul fronte interno, sia su quello internazionale.

Come ha scritto Nicoletta Maraschio, la prima donna a ricoprire il ruolo di presidente dell’Accademia della Crusca dal 2008 al 2014:

“L’italiano si presenta oggi in Europa in duplice veste: come lingua di un’illustre tradizione letteraria e culturale, molto richiesta nelle scuole, nelle università, negli istituti di cultura di tutto il mondo (anche per la fortuna del «made in Italy», della cucina e del turismo italiano), ma anche come lingua «giovane», nella quale gli stessi italiani non credono a sufficienza. Ecco che allora la questione della lingua, che oggi si ripropone con grande forza, non è più questione solo nazionale, ma questione tipicamente internazionale e in particolare europea. Occorre infatti che la nostra lingua sappia svolgere, in un’Europa istituzionalmente plurilingue, il ruolo che le compete, occorre che sappia intrecciare strettamente la sua storia e il suo futuro a quelli delle altre lingue ufficiali europee che tutte insieme richiedono di essere tutelate e valorizzate.”

9 pensieri su “Italiano: ammirato nel mondo e disonorevole in patria

  1. Bravo! Infatti io mi chiedo spesso: se l’italiano è una lingua amatissima all’estero allora perchè noi italiani stessi la sottovalutiamo e quindi la roviniamo?! Questo è il paradosso! Ma soprattutto i nostri “pagliacci” che abbiamo in dirigenza non si sono mai accorti di quanto sia amato l’italiano fuori dai nostri confini? E’ come se loro non guardassero oltre il loro naso! Chissà come la penseranno gli ammiratori esteri quando si accorgono che noi stiamo rovinando la più bella lingua del mondo…

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  2. Tutto questo è molto triste. C’è da dire che di solito, chi utilizza l’itanglese, anche quando non utilizza quelle parole, non parla un bell’italiano, usa quelle solite parole di utilizzo comune e basta e non con una bella costruzione di frase.
    Le persone che parlano bene, di quelle che ascolterei per ore, giammai si sognano di usare parole inglesi laddove esistono i lemmi italiani.
    Guardando trasmissioni tipo “l’eredità” ci si rende conto di come molti concorrenti ignorino l’esistenza di parole italiane non di utilizzo quotidiano ma comunque non strane o desuete. C’è una ignoranza abissale.

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  3. Ovazione in piedi, come sempre.

    “Questa rinuncia alla nostra cultura e alla nostra lingua è un cancro. Occorrerebbe un rovesciamento culturale drastico, per fermare il nostro suicidio collettivo. Dovremmo riappropriarci del nostro tesoro linguistico e andarne fieri, sia sul fronte interno, sia su quello internazionale.”

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