Infowar: la guerra dell’informazione e della lingua

Di Antonio Zoppetti

Era il 1274 a.C. quando, sulle rive del fiume Oronte che scorre tra Siria e Libano, si consumò la grande battaglia di Kadesh, che rappresentò il culmine di una lunga guerra tra due superpotenze del Medio Oriente di allora, gli Ittiti e gli Egizi.

Chi vinse?
Non è chiaro, perché entrambi i contendenti dichiararono gli antagonisti come sconfitti, e anche se un poema che celebrava quello scontro come la schiacciante vittoria di Ramses II fu scolpito in ogni parte del Regno al punto da oscurare ogni altra versione, è più probabile che furono gli Ittiti ad avere la meglio.

Guerra, propaganda e informazione sono da sempre intrecciate in maniera inscindibile, e persino nel fratricidio può accadere che la guerra della comunicazione porti a giudizi antitetici, per cui l’uccisione di Abele da parte di Caino è diventata il simbolo del male, mentre quella di Remo da parte di Romolo è stata presentata come un atto di “giustizia” alla base del mito della fondazione di Roma.

Oggi, mentre non lontano dall’antica Kadesh si sta consumando un genocidio spaventoso, l’informazione, la propaganda, il giustificazionismo di chi si schiera da una parte o dall’altra viene chiamato infowar, l’ennesimo anglicismo spacciato per una novità che serve per riconcettualizzare l’acqua calda nella lingua inglese.

E pensare che la nascita della lingua italiana è strettamente connessa proprio alla guerra di propaganda e comunicazione, visto che la lirica siciliana, in volgare, è nata alla corte di Federico II per motivi politici, in un contesto di guerre.

Esistono anche altri precedenti letterari, piuttosto frammentari, di composizioni in volgare, ma non ebbero lo stesso successo e la stessa diffusione, a partire dal Cantico di San Francesco, che passò inosservato; era forse considerato un canto religioso e una preghiera, fu ignorato da Dante e da tutti i poeti successivi e persino nella Storia della letteratura ottocentesca di Francesco de Sanctis non era menzionato. La scuola poetica siciliana, al contrario, divenne un genere di successo e si può considerare il primo atto di una politica linguistica che promuoveva il volgare, insieme ai temi poetici. Qualche tempo fa ho ricostruito questa storia in un articolo, per chi fosse interessato ad approfondire, ma la sintesi è che Federico II, divenuto imperatore del Sacro Romano Impero, tentò una restaurazione illuminata del sistema feudale contro i Comuni che se ne volevano slegare, e allo stesso tempo prese le distanze anche dalla Chiesa. La poesia siciliana in un proto-italiano locale, ma allo stesso tempo “illustre”, e cioè in grado di arrivare a tutti gli italiani, non era una scelta “innocente” né casuale. Dietro quelle liriche c’era la volontà di affermare una nuova lingua che rompeva sia con il latino ecclesiastico sia con la poesia provenzale in voga nei comuni del Nord. Questi a loro volta si costituirono in una seconda Lega lombarda, dopo la prima contro il Barbarossa, in guerra contro Federico II. Le poesie in provenzale e siciliano non trattavano solo di temi amorosi, ma anche di vicende politiche, e l’affermazione della lirica siciliana si può leggere proprio come un atto di propaganda che, dietro le canzoni, pubblicizzava lo splendore del progetto federiciano. Fu questa scuola che fu poi imitata da i primi prosatori emiliani e toscani e poi da Dante, che la continuarono nei rispettivi volgari.

Oggi, i nuovi intellettuali e giornalisti con le fette di salame sugli occhi si svegliano all’improvviso e credono che la guerra di informazione sia qualcosa di moderno o di nuovo, e in questa miopia culturale e cerebrale si affannano a spiegare questo fenomeno attraverso la parola infowar. Questo “nuovo” e strabiliante concetto è emerso negli anni Novanta, ai tempi dei conflitti in Bosnia ed Erzegovina, e poi durante la guerra in Iraq, e rispunta sui giornali a ogni conflitto, dall’Ucraina a Gaza.

Intanto, mentre il concetto di infowar è di solito attribuito al “nemico” e ai “cattivi”, i nostri giornalisti e analisti credono invece di essere i portatori dell’”oggettività” dei valori occidentali, visto che sono schierati preventivamente dalla parte degli “americani” e utilizzano le loro categorie concettuali e la loro lingua in modo acritico. E infatti nella guerra dell’informazione abbiamo visto come sono stati raccontati gli eventi in Iraq, un Paese distrutto dopo aver sbandierato prove false secondo le quali Saddam Hussein sarebbe stato in possesso di inesistenti armi di distruzione di massa. In tv si vedevano più che altro le immagini dei bombardamenti “chirurgici”, non si vedevano le mamme irachene piangere i bambini morti e le case distrutte come nel caso della guerra in Ucraina, in modo da non mettere in risalto che quella guerra ha comportato la morte di circa 200.000 civili.

Sullo sfondo di queste tragedie umanitarie, nell’informazione di guerra e nella guerra dell’informazione in cui siamo parte in causa, ognuno racconta e mistifica come ai tempi di Egizi e Ittiti.

La novità sta semmai nello sterminio lessicale, che rimane un crimine intellettuale, anche se paragonarlo allo sterminio dei civili è a dir poco irrispettoso.

Comunque, mentre la propaganda di guerra è infowar, le mistificazioni sono diventate fake news (visto che le notizie sono diventate news), i carri armati sono diventati tank, la Cisgiordania è ormai affiancata dal nome inglese di West Bank, la città di Gaza è Gaza City – come fosse una tipica espressione della lingua palestinese – i bombardamenti e le incursioni sono raid… e accanto alla guerra vera si consuma quella per l’imposizione della lingua inglese che si vuole far diventare la lingua internazionale dell’umanità, ma che – come ai tempi di Federico II – non è una scelta innocente, è una ben precisa scelta politica dagli effetti collaterali devastanti: giorno dopo giorno le parole italiane sono affiancate e sempre più spesso sostituite da quelle inglesi, in sempre più ambiti, con una frequenza sempre maggiore.

9 pensieri su “Infowar: la guerra dell’informazione e della lingua

  1. Sì, ma scrivere “genocidio spaventoso” non è too much?
    Valà che scherzo. Però già la parola genocidio sembra un po’ troppo (anche se la stampa sta abusando del termine), ma comunque non credo esistano genocidi non spaventosi.

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    • Le parole hanno tante sfumature e accezioni, e “genocidio” implica un giudizio che si può anche non condividere, ma che invece mi pare calzante nel descrivere ciò che sta avvenendo a Gaza (quanto a “spaventoso” è un aggettivo qualificativo che precisa e connota il giudizio, più che essere pleonastico, a mio avviso). Ciò premesso, visto che ognuno si esprime come vuole, persino con gli anglicismi stereotipati da “milanese imbruttito”, sono poco interessato, in questa sede, a entrare in questioni che escono dal tema dell’anglicizzazione, e il mio pezzo parla di tutt’altro.

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  2. «Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sì potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro: perché quello ch’ella reca da altri lo tira a sé in modo che par suo» (Niccolò Machiavelli).

    Bei tempi… ma, ahinoi, tempi passati.

    Povera lingua italiana!

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  3. Ho letto questo articolo adesso, dal browser anziché dal lettore, e ho trovato una involontaria presa in giro di WordPress: annunci pubblicitari in inglese 😅
    Considerato quanta gente non ha ancora imparato nemmeno le basi di quella lingua, mi chiedo che senso abbia pubblicizzare dei servizi in quella lingua… forse ritengono che il cambio di paradigma linguistico sia più avanzato di quanto appaia in realtà!

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