Le scuole coloniali prendono piede in Italia

Di Antonio Zoppetti

La notizia che mi ha segnalato ieri l’attivista dell’italiano Marco Zomer riguarda la “svolta” di una scuola secondaria di Torino, l’Istituto Avogadro, che ha deciso di introdurre nella sua offerta formativa i corsi in lingua inglese invece che in italiano. I percorsi di studio sono due: il liceo scientifico dove la biologia, la chimica, la fisica e l’informatica verranno insegnate in inglese; e l’indirizzo tecnico dove l’inglese sarà la lingua di apprendimento “solo” di informatica e fisica. Come se non bastasse, l’insegnamento dell’inglese già previsto e obbligatorio verrà aumentato di due ore.

Il modo in cui l’articolo della Stampa riporta la notizia è il solito, si esaltano queste decisioni in modo acritico per propagandarle, invece di analizzarle, con la volontà di giustificare e diffondere la visione anglomane che la nostra intellighenzia ha fatto sua. E così leggiamo che la scuola “guarda al futuro” (cioè il futuro coloniale dell’Italia), perché dal prossimo anno includerà “i programmi Cambridge”. A dire il vero questi programmi servono per imparare l’inglese, non per insegnare le materie scientifiche, e andrebbe almeno specificato. Ma il pezzo, il cui incipit è un solenne “Torino chiama Cambridge” punta a mostrare che in questo modo la scuola torinese si eleva al prestigio di quella inglese, e sottolinea la grande innovazione per l’indirizzo tecnico, perché avrebbe solo quattro precedenti in tutta Italia, mentre al liceo scientifico è forse una prassi meno rara.

Le argomentazioni didattiche o pedagogiche sottostanti hanno lo spessore di una televendita di cinture dimagranti eccezionali perché vengono dall’America, a partire dai virgolettati della professoressa Elena Vietti che spiega come la “metodologia Cambridge” favorisca lo sviluppo delle tecniche di problem solving “oltre ovviamente un potenziamento della lingua stessa”. E qui infila la prima evidente castroneria, perché se vogliamo imitare il modello di formazione anglosassone dobbiamo appunto capire una cosa molto semplice: lì potenziano la propria lingua, non quella degli altri. Se Torino chiama Cambridge, va detto che Cambridge non chiama né Torino, né Parigi, né Madrid, né Berlino né alcun altro. A Cambridge non si studiano le materie in francese, tedesco o italiano – forse alla prof sfugge questo piccolo trascurabile particolare – e nei sistemi scolastici angloamericani le lingue straniere non sono contemplate, o comunque non sono obbligatorie, e quando sono previste hanno un ruolo marginale. Ma nel processo di alienazione linguistica in atto – l’abbandono dell’italiano per passare all’inglese – non si racconta che mentre tutta l’Europa spende una fortuna per insegnare l’inglese (lingua di fatto extracomunitaria) e formare le nuove generazioni bilingui a base inglese sin dalle elementari, gli inglesi e gli americani non hanno questi costi, visto che preferiscono che tutto il mondo impari e usi la loro lingua naturale.

Ora, per chiamare le cose con il loro nome, tutto ciò avviene all’insegna del colonialismo linguistico. Non stupisce che gli anglofoni, maestri del colonialismo e anche di quello che un tempo si chiamava imperialismo, spingano in questa direzione che comporta interessi economici e strategici per loro spropositati. Quello che stupisce è che in Italia non lo si capisca o si faccia finta di non capirlo. Colpisce il servilismo con cui ci zerbiniamo davanti alla “lingua dei padroni” e alla dittatura dell’inglese in un’alienazione culturale che distrugge la nostra lingua e cultura.

Dal punto di vista didattico, la citata professoressa spiega l’intento di voler conciliare l’approccio all’istruzione anglosassone di taglio molto pragmatico con la tradizione italiana più “teorica”, ma bisogna specificare che dietro la nostra “teoria” c’è – o forse c’era – un ben diverso criterio che tende a considerare le cose da un punto di vista storico e anche critico, che è molto distante da quello per esempio tipicamente americano che in nome di questo scellerato “problem solving”, già introdotto a forza nelle scuole come criterio di valutazione degli studenti, si limita il più delle volte a fornire nozioni non sottoposte ad analisi critiche né storicizzate. E in questo passaggio a un sistema “misto” (dove però c’è solo la lingua inglese) l’inglese farà da “link” alle materie: collegamento è parola della veterolingua che si vuole cancellare, ma si potrebbe dire forse anche hub, invece di snodo o raccordo (l’itanglese nella sua ricchezza ci sta fornendo sempre più sinonimi). Come se senza questo link, le materie fossero percepire come disgiunte, e come se questo collegamento non si possa fare nella nostra lingua nativa!

Il livello di queste dichiarazioni è sconcertante, e ancora più sconcertante è come i giornali lo ripetano facendolo passare come normale. Questo conciliare i due metodi in modo appunto astratto e teorico ricorda certe caricature con cui si dice di voler essere ecologici ma senza rinunciare al suv, o di volere incentivare prodotti locali a chilometro zero ma anche la Coca Cola. Nella realtà, dietro le proposte di anglificazione della scuola l’obiettivo è solo uno: l’imposizione dell’inglese che diventa LA materia più importante e il cardine attorno al quale si vuol far ruotare l’istruzione. Lo si vede dal bocconcino più goloso dell’operazione che include appunto l’ottenere la certificazione Igcse, la ciliegina che è il vero obiettivo dell’offerta.

Ma l’italiano dov’è? Che ruolo e che peso ha in questo percorso? Come mai le nuove scuole-aziende americanizzate o cambridgizzate e il nuovo sistema scolastico che viene smantellato sfornano studenti con sempre più problemi di analfabetismo di ritorno o funzionale?

Sembra che sul piatto della formazione la pietanza forte sia solo l’inglese, come se tutto il resto forse un contorno di cui si può fare anche a meno. E colpisce l’affermazione di un’altra professoressa che con orgoglio spiega che la nuova offerta anglomane non ha richiesto nuovi docenti, perché quelli in carica sono già patentati del livello C1 e C2 di inglese. Dietro questo fiorellino da mettere all’occhiello non si mette in luce la preparazione, la competenza o la bravura dell’organico, ma solo la sua conoscenza della lingua superiore. Come se fosse questo il requisito da propagandare negli immancabili “Open day” che servono a reclutare gli studenti.

Il numero di Avogadro

La dirigente scolastica dell’Istituto, nello spiegare che si tratta di una sperimentazione solo avviata, anticipa che per il momento ci si aspetta un numero di studenti e classi contenuto, e dalle adesioni dipenderà il futuro allargamento della proposta ad altri indirizzi e classi. La mia speranza è che iniziative di questo tipo falliscano miseramente, e che non si raggiunga il “numero di Avogadro” necessario per continuarli. Più realisticamente so bene che non andrà a questo modo, perché l’anglificazione della scuola nel nuovo millennio si sta allargando in maniera preoccupante.

Uno dei primi segnali è partito proprio da Torino, quando il Politecnico ha deciso di incentivare i corsi in inglese nell’anno accademico 2007-2008 attraverso l’iscrizione gratuita per il primo anno, discriminando di fatto i corsi in italiano che invece si pagavano. Pochi anni dopo, nel 2012, il Politecnico di Milano si è spinto ben oltre decidendo di estromettere la nostra lingua dalla formazione universitaria per erogare corsi solo in inglese. Anche in questo caso ci sono state vicende giudiziarie infinite, ma benché sulla carta sia stata riconosciuta una teorica “primazia dell’italiano”, di fatto l’ateneo continua a erogare corsi quasi solo in inglese. E così mentre questo modello si allarga, e recentemente anche la Bocconi di Milano ha preso la medesima direzione, oggi si abbassa l’asticella includendo anche le scuole secondarie, che sono il prossimo terreno di conquista. Nei Paesi scandinavi, dove l’anglificazione è stata da tempo introdotta e sperimentata, si assiste a una marcia indietro perché si è visto che insegnare in inglese si trasforma in un processo sottrattivo, non aggiuntivo. Insegnare in un’altra lingua comporta la perdita e la riduzione della terminologia nella lingua nativa, induce alla semplificazione dei concetti e dei ragionamenti perché si esprimono con più difficoltà, spinge a pensare in inglese, che invece di aggiungersi alla lingua di partenza finisce per fagocitarla. Noi, al contrario stiamo andando in questa direzione suicida in modo becero, acritico e coloniale. Le nefaste conseguenze di questi approcci sono state denunciate da autori africani come Ngugi wa Thiong’o che le hanno subite: lì, le scuole coloniali in lingua inglese hanno non solo contribuito all’abbandono delle lingue indigene, ma hanno soprattutto creato barriere culturali: chi non sapeva l’inglese non poteva accedere alle scuole che imponevano quella lingua e in quella lingua insegnavano. L’inglese ha creato una diglossia tra lingua della cultura e lingua del popolo che da noi apparteneva al Medioevo, quando il latino era la lingua appunto della scuola e della scrittura e il volgare delle massi analfabete. E noi, oggi, in nome di un supposto “internazionalismo” che viene fatto coincidere in modo surrettizio con il parlare in inglese, stiamo costruendoci da soli analoghe scuole coloniali per formare le future generazioni. Così, mentre l’itanglese diviene la lingua modello del linguaggio della scuola e del Ministero dell’Istruzione, l’inglese puro diviene la lingua della nuova cultura, in una svolta linguicista che discrimina la nostra storia e cultura.

Ma a raccontare queste cose, o per lo meno a mostrare l’altra faccia della medaglia dell’anglificazione, affinché ognuno possa fare le sue scelte in modo consapevole, non sono i giornali, né i politici, né gli intellettuali (a parte sparute eccezioni di qualche “dissidente”), sono più spesso i lettori. E Marco Zomer, agguerrito attivista dell’italiano, è riuscito a fare arrivare la sua voce al giornale, seppur in un trafiletto in cui le sue riflessioni sono state riassunte e semplificate.

L’anglificazione della scuola è il nuovo terreno di conquista che nei prossimi anni emergerà e si allargherà, ma invece di produrre riflessioni serie e dibattiti, viene dato per scontato come “il futuro” ineluttabile, un futuro dove l’italiano finirà per diventare un dialetto.

Infowar: la guerra dell’informazione e della lingua

Di Antonio Zoppetti

Era il 1274 a.C. quando, sulle rive del fiume Oronte che scorre tra Siria e Libano, si consumò la grande battaglia di Kadesh, che rappresentò il culmine di una lunga guerra tra due superpotenze del Medio Oriente di allora, gli Ittiti e gli Egizi.

Chi vinse?
Non è chiaro, perché entrambi i contendenti dichiararono gli antagonisti come sconfitti, e anche se un poema che celebrava quello scontro come la schiacciante vittoria di Ramses II fu scolpito in ogni parte del Regno al punto da oscurare ogni altra versione, è più probabile che furono gli Ittiti ad avere la meglio.

Guerra, propaganda e informazione sono da sempre intrecciate in maniera inscindibile, e persino nel fratricidio può accadere che la guerra della comunicazione porti a giudizi antitetici, per cui l’uccisione di Abele da parte di Caino è diventata il simbolo del male, mentre quella di Remo da parte di Romolo è stata presentata come un atto di “giustizia” alla base del mito della fondazione di Roma.

Oggi, mentre non lontano dall’antica Kadesh si sta consumando un genocidio spaventoso, l’informazione, la propaganda, il giustificazionismo di chi si schiera da una parte o dall’altra viene chiamato infowar, l’ennesimo anglicismo spacciato per una novità che serve per riconcettualizzare l’acqua calda nella lingua inglese.

E pensare che la nascita della lingua italiana è strettamente connessa proprio alla guerra di propaganda e comunicazione, visto che la lirica siciliana, in volgare, è nata alla corte di Federico II per motivi politici, in un contesto di guerre.

Esistono anche altri precedenti letterari, piuttosto frammentari, di composizioni in volgare, ma non ebbero lo stesso successo e la stessa diffusione, a partire dal Cantico di San Francesco, che passò inosservato; era forse considerato un canto religioso e una preghiera, fu ignorato da Dante e da tutti i poeti successivi e persino nella Storia della letteratura ottocentesca di Francesco de Sanctis non era menzionato. La scuola poetica siciliana, al contrario, divenne un genere di successo e si può considerare il primo atto di una politica linguistica che promuoveva il volgare, insieme ai temi poetici. Qualche tempo fa ho ricostruito questa storia in un articolo, per chi fosse interessato ad approfondire, ma la sintesi è che Federico II, divenuto imperatore del Sacro Romano Impero, tentò una restaurazione illuminata del sistema feudale contro i Comuni che se ne volevano slegare, e allo stesso tempo prese le distanze anche dalla Chiesa. La poesia siciliana in un proto-italiano locale, ma allo stesso tempo “illustre”, e cioè in grado di arrivare a tutti gli italiani, non era una scelta “innocente” né casuale. Dietro quelle liriche c’era la volontà di affermare una nuova lingua che rompeva sia con il latino ecclesiastico sia con la poesia provenzale in voga nei comuni del Nord. Questi a loro volta si costituirono in una seconda Lega lombarda, dopo la prima contro il Barbarossa, in guerra contro Federico II. Le poesie in provenzale e siciliano non trattavano solo di temi amorosi, ma anche di vicende politiche, e l’affermazione della lirica siciliana si può leggere proprio come un atto di propaganda che, dietro le canzoni, pubblicizzava lo splendore del progetto federiciano. Fu questa scuola che fu poi imitata da i primi prosatori emiliani e toscani e poi da Dante, che la continuarono nei rispettivi volgari.

Oggi, i nuovi intellettuali e giornalisti con le fette di salame sugli occhi si svegliano all’improvviso e credono che la guerra di informazione sia qualcosa di moderno o di nuovo, e in questa miopia culturale e cerebrale si affannano a spiegare questo fenomeno attraverso la parola infowar. Questo “nuovo” e strabiliante concetto è emerso negli anni Novanta, ai tempi dei conflitti in Bosnia ed Erzegovina, e poi durante la guerra in Iraq, e rispunta sui giornali a ogni conflitto, dall’Ucraina a Gaza.

Intanto, mentre il concetto di infowar è di solito attribuito al “nemico” e ai “cattivi”, i nostri giornalisti e analisti credono invece di essere i portatori dell’”oggettività” dei valori occidentali, visto che sono schierati preventivamente dalla parte degli “americani” e utilizzano le loro categorie concettuali e la loro lingua in modo acritico. E infatti nella guerra dell’informazione abbiamo visto come sono stati raccontati gli eventi in Iraq, un Paese distrutto dopo aver sbandierato prove false secondo le quali Saddam Hussein sarebbe stato in possesso di inesistenti armi di distruzione di massa. In tv si vedevano più che altro le immagini dei bombardamenti “chirurgici”, non si vedevano le mamme irachene piangere i bambini morti e le case distrutte come nel caso della guerra in Ucraina, in modo da non mettere in risalto che quella guerra ha comportato la morte di circa 200.000 civili.

Sullo sfondo di queste tragedie umanitarie, nell’informazione di guerra e nella guerra dell’informazione in cui siamo parte in causa, ognuno racconta e mistifica come ai tempi di Egizi e Ittiti.

La novità sta semmai nello sterminio lessicale, che rimane un crimine intellettuale, anche se paragonarlo allo sterminio dei civili è a dir poco irrispettoso.

Comunque, mentre la propaganda di guerra è infowar, le mistificazioni sono diventate fake news (visto che le notizie sono diventate news), i carri armati sono diventati tank, la Cisgiordania è ormai affiancata dal nome inglese di West Bank, la città di Gaza è Gaza City – come fosse una tipica espressione della lingua palestinese – i bombardamenti e le incursioni sono raid… e accanto alla guerra vera si consuma quella per l’imposizione della lingua inglese che si vuole far diventare la lingua internazionale dell’umanità, ma che – come ai tempi di Federico II – non è una scelta innocente, è una ben precisa scelta politica dagli effetti collaterali devastanti: giorno dopo giorno le parole italiane sono affiancate e sempre più spesso sostituite da quelle inglesi, in sempre più ambiti, con una frequenza sempre maggiore.

La formazione in inglese e itanglese della nuova cultura coloniale

Di Antonio Zoppetti

La settimana scorsa l’università (privata) Bocconi di Milano ha inaugurato il nuovo anno accademico con una cerimonia iniziata con il benvenuto in italiano e proseguita con gli interventi in inglese (qui il video). La novità annunciata dal rettore Francesco Billari è che “dalle 32 classi in inglese sulle 53 totali il prossimo anno accademico passeremo ad averne 40 su 54”, e dal 2026 – poiché il nostro “sistema scolastico è troppo vecchio e ancorato a un mondo che non esiste più” – su dieci corsi erogati solo 3 saranno in italiano, mentre gli altri saranno in lingua inglese, una scelta “didattica” che rappresenta il 73% del totale dei corsi.

Con un’imbarazzante propaganda mistificatoria, questa decisione è stata associata al fatto che in Italia i giovani laureati sono meno del 30%, mentre in Francia e Spagna la percentuale è del 50%, arriva al 70% nel caso della Corea del Sud, e noi siamo nel fanalino di coda insieme a Paesi “inferiori” come il Messico e il Costarica.

Cosa c’entrano queste percentuali con la didattica in inglese?
Nulla, ovviamente. Giorgio Cantoni, in un pezzo su Italofonia.info è andato a vedere queste realtà universitarie straniere virtuose e ha constato che i corsi sono sostanzialmente ognuno nella propria lingua madre, e solo talvolta affiancati anche da quelli in inglese, che però si contano sulle dita di una mano.

Mentre il rettore bocconiano le spara a ruota libera e mette in correlazione i disoccupati che hanno smesso di studiare e di cercare lavoro (definiti Neet) con una situazione “figlia di una scuola ancien régime” che ha bisogno di un cambio di rotta prima che sia troppo tardi, questo rinnovamento basato sull’anglificazioen rischia al contrario di allontanare gli studenti. Ma l’obiettivo di simili decisioni è quello di creare una scuola elitaria e di serie A – nella lingua superiore di serie A – relegando l’italiano alla cultura popolare. E nonostante le citazioni dell’ancien régime bollato come retrogrado dalla Rivoluzione francese, il passaggio al new regime in lingua inglese non è affatto un processo rivoluzionario, appartiene invece alla logica delle scuole coloniali imposte in Africa che ha denunciato Ngugi wa Thiong’o, è il ripristino della diglossia neomedievale denunciato dal linguista tedesco Jurgen Trabant, quando la lingua dei dotti era il latino e il volgare apparteneva al popolino o al massimo alla poesia; con la differenza che il latino medievale non era la lingua madre di nessuno, era un lingua di cultura che metteva tutti sullo stesso livello, mentre l’inglese è la lingua naturale dei popoli dominanti che la impongono a tutti in modo coloniale sguazzando negli incalcolabili vantaggi che questo comporta. E da bravi collaborazionisti, in Italia, lavoriamo per la cancellazione della nostra lingua. Mentre i Paesi che hanno da tempo operato queste soluzioni, dalla Svezia all’Olanda, stanno facendo marcia indietro perché si sono accorti che l’inglese universitario si trasforma in un processo sottrattivo, e non aggiuntivo, che porta alla perdita della terminologia locale e alla semplificazione concettuale-argomentativa in un condizionamento che conduce a pensare in inglese, da noi questa follia è invece presentata come moderna e internazionale. Nessuno sembra porsi il problema delle conseguenze e del fatto che l’inglese non è un modo equo di risolvere i problemi della comunicazione, ma un pericoloso sistema di evangelizzazione. Dopo i primi segnali che ormai molti anni fa hanno riguardato l’università pubblica (dal politecnico di Torino a quello di Milano), e anche dopo anni di battaglie legali, sulla carta è stata riconosciuta la “primazia” della formazione universitaria in italiano, secondo un principio di proporzionalità che però non è stato definito, ma lasciato alla discrezione dei giudici, con il risultato che decisioni come quella della Bocconi e di altri atenei pubblici hanno il via libera nella cancellazione dell’italiano. Una strategia che non viene chiamata cultura della cancellazione, come si dovrebbe chiamare, ma viene al contrario venduta come vincente, moderna e ineluttabile.

Sinergy Grant e Academy di alta specializzazione tecnologica

Il 27 ottobre, sul sito dell’Università di Napoli Federico II, si leggeva che l’ateneo ha vinto il Primo Sinergy Grant con queste parole: “È il primo Synergy Grant per l’Università degli Studi di Napoli Federico II quello assegnato da l’European Research Council per EndoTheranostics – Multi-sensor Eversion Robot Towards Intelligent Endoscopic Diagnosis and Therapy a Bruno Siciliano, ordinario di automatica e robotica al Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione, coordinatore del PRISMA Lab, e già assegnatario di un Advanced Grant nel 2013, in collaborazione con il Consorzio CREATE.”

Questo testo in itanglese ben fotografa l’attuale situazione dell’italiano dell’università e della ricerca. Andando a spulciare il bando per partecipare ai “sinergy grant” dell’Unione Europea – disponibile in lingua inglese, of course – si legge che “la domanda può essere presentata in qualsiasi lingua ufficiale dell’UE. Tuttavia, per ragioni di efficienza, l’uso dell’inglese o la traduzione in inglese è fortemente consigliato”, al punto che in un’altra clausola si legge che l’ente si riserva il diritto di effettuare “traduzioni automatiche delle domande presentate in lingue diverse dall’inglese ai fini della valutazione.”

Certo, è sempre meglio dell’obbligo di presentare le domande solo in lingua inglese, come nel caso dei Progetti di ricerca di rilevanza nazionale e dei fondi italiani della scienza (i Prin e il Fis) sanciti dalle istituzioni italiane, ma ancora una volta emerge tutta l’ipocrisia del plurilingusimo sulla carta: chi mai presenterà in un’altra lingua un progetto che deve essere giudicato da chi consiglia fortemente l’inglese e in caso contrario minaccia di avvalersi di traduzione automatiche?

Mentre l’inglese diventa così un obbligo, talvolta dichiarato apertamente, talvolta mascherato da una prassi che di fatto esclude ogni altra lingua, l’istituzionalizzazione dell’inglese è affiancata da un altro preoccupante fenomeno: anche quando si ricorre all’italiano, di fatto è un ibrido a base inglese che non si può che definire “itanglese”, la newlingua che nasce dagli effetti collaterali dell’anglificazione della scuola, del lavoro e di sempre più ambiti.

La formazione, insomma, se non viene effettuata direttamente in inglese si può avvalere dell’itanglese. Tra gli infiniti esempi che si possono fare, ma sono davvero troppi, riporto un caso (che mi ha segnalato Domenico) di un istituto tecnico superiore della regione Puglia – dove “Gli Istituti Tecnici Superiori (ITS) sono Academy di alta specializzazione tecnologica istituite dal Ministero dell’Istruzione” – che eroga i seguenti corsi in “italiano”:

“Sales management & marketing nella crocieristica” (Taranto)
“Sustainable and Experiential Wine tourism management” (Brindisi)
“International Hospitality and Tourism Management 4.0” (Bari)
“Food management e sostenibilità nella ristorazione 4.0” (Lecce)
“Management della comunicazione digitale per il turismo e la cultura” (Lecce)
“Hospitality Management Innovation” (Lecce)
“Deep & Digital Tourism Innovation” (Gravina in Puglia)
“Food and Beverage Management” (Trani)
“Adventure and Green Tourism Hospitality Management” (Ugento)
“Sustainable Management for luxury tourism experience” (Fasano)
“Outdoor Tourism and Sport Event Management” (Bari)
“Management e Organizzazione dei Servizi Turistici” (Manduria)
“Management dell’alta ristorazione” (Conversano)
“Yachting and Tourism Services Management”  (Brindisi)

ad libitum sfumando.


Parola d’ordine: educare all’inglese e cancellare l’italiano

Ne è passata di water sotto i bridge da quando, dopo l’avvenuta unificazione dell’Italia il governo varò la prima riforma della scuola unitaria (la legge Coppino del 1877) che istituiva l’obbligo scolastico per i bambini e l’insegnamento dell’italiano. L’unificazione linguistica è avvenuta in seguito proprio grazie alla scuola, oltre alla stampa, alla radio, alla televisione… ma oggi questi stessi centri di irradiazione della lingua educano e impongono l’inglese e l’itanglese.

E così la RCS Academy per formare i “comunicatori del cibo” lancia, insieme alla rivista Cook, un master full time per il Food&Wine basato sui nuovi strumenti di comunicazione di marketing, social e digital.

E quale sarà mai la lingua dei comunicatori che si formano a questo modo se non l’itanglese? La stessa della manifestazione milanese dedicata al vino che però si chiama Milano Wine Week.

La stessa a cui ci educano sia le istituzioni sia le realtà private. Sabato sono andato in un grande magazzino, l’Upim (acronimo di Unico Prezzo Italiano Milano), ma forse oggi non si dice più così e bisogna dire store, visto che la cartellonistica promuoveva in inglese gli sconti di fine stagione diventati Mid Season Sale. Sembra di vivere in Paese occupato e colonizzato, dove per rivolgersi ai cittadini ci sono principalmente l’inglese e l’itanglese.

Alla stazione centrale di Milano non ci sono gli ingressi e le porte, ma ci sono solo i Gate, mentre le insegne dei negozi che vendono il prodotto italiano (arcaismo per Made in Italy) si chiamano di volta in volta italian bakery, italian hair style e via dicendo. E grazie forse agli studenti formati dalla RCS Academy, tra Ice Wine e Wine Bar, la cosa più “italiana” dell’immagine qui a fianco è un divieto di sosta, che forse sarebbe ora di rinominare in no parking, nel passaggio dall’ancien régime al new regime, cioè alla dittatura dell’inglese che piace tanto al rettore della Bocconi.

Nomophobia e italianofobia

Di Antonio Zoppetti

Ultimamente mi è capitato di imbattermi più volte nella parola “nomofobia”, che non è la paura per i nomi (magari quelli inglesi), bensì l’acronimo di “no mobile phone phobia”, la sindrome da disconnessione dalla Rete, la paura di rimanere sconnessi, la “non-prende-fobia” si potrebbe dire spiritosamente.

Non è un concetto nuovissimo, è un termine coniato nel 2008 nel Regno Unito in seguito a una ricerca commissionata dal governo per indagare sui disturbi connessi all’utilizzo dei cellulari. Inizialmente era legato anche al timore di perdere il telefonino, di scaricare la batteria sul più bello o di rimanere senza credito, ma oggi prevale l’accezione dell’ansia da sconnessione in generale.

Quello che mi colpisce non è tanto il fatto che in italiano “nomo” è di solito un suffisso – più che un prefisso – che deriva dal greco e ha a che fare con il governare, il gestire e l’amministrare (economo, agronomo) o con le leggi, come nell’eteronomia di Kant (il contrario di autonomia) vocabolo che utilizzava per indicare le norme etiche o morali che arrivano dalle leggi e dall’esterno, invece che dalla propria coscienza.

Comunque, anche se nomo acquista un altro significato un po’ fuorviante e poco trasparente, fuori dall’inglese, pazienza, non è poi così grave.

Trovo invece assurdo e insopportabile ricorrere all’espressione inglese al posto dell’adattamento, e parlare di nomophobia anziché di nomofobia, come dovrebbe essere naturale.
Purtroppo, le menti servili e colonizzate dei giornalisti preferiscono spesso i grafemi e i fonemi inglesi, dal Corriere a Io donna (con le sue rubriche beauty e royal), passando per WOMLifestyle (che inquadra il pezzo nella categoria “Selfcare”, ma del resto il nome della rivista dice tutto) e finendo con la Guida psicologi dove si raggiunge l’apoteosi dell’itanglese.

L’ultimo titolone dell’immagine sopra è composto da 10 parole, di cui 4 anglicismi (online, offline, nomophobia e smartpone). La parola italiana è una sola (dipendenza) e il resto si riduce a due articoli (la), una preposizione (da), due congiunzioni (o ed e) di cui la prima è scritta in modo errato: la d eufonica su “od” è decaduta nell’italiano moderno e non si usa nemmeno davanti alla vocale “o”. Un titolo che la dice lunga sullo stato dell’italiano (sempre meno conosciuto) e sulla sua regressione davanti all’inglese.

Se l’eteronomia designa la “dipendenza da leggi esterne o straniere” anche la nomophobia rivela lo stesso fenomeno, ma le leggi esterne e straniere si devono reinterpretare come dipendenza dal solo inglese che invece di essere percepito come esterno viene interiorizzato come fosse il nostro naturale nuovo idioma. È l’anglomania tipica italiana.

Anglomania e italianofobia

Il rovescio della medaglia dell’anglomania è l’italianofobia, dove fobia non significa solo timore e paura, ma più precisamente disprezzo e avversione, come in xenofobia o omofobia. Questi due ultimi sentimenti sono però stigmatizzati e si possono persino configurare come un reato, mentre il vilipendio alla nostra lingua non solo non è contemplato, ma se qualcuno prova a dire qualcosa in merito viene subito estromesso dal branco. Giornalisti, intellettuali e persino molti linguisti sono pronti a dargli di volta in volta del purista, del retrogrado contrario agli internazionalismi (parola che dietro l’ipocrisia indica gli anglicismi, anche se l’inglese non è affatto la lingua del mondo), del sovranista fanatico dell’autarchia linguistica (un nuovo modo per dare del fascista), o dell’oscurantista che non accetta che le lingue si evolvono (certo, peccato che l’italiano si sta invece involvendo come nel titolo della Guida psicologi).

E così la nostra lingua viene sempre più abbandonata in favore dei fonemi e grafemi inglesi, fino a che qualcuno non penserà di chiamarli graphemi e phonemi che gli suoneranno forse più familiari, come quando si parla di photo gallery come fosse normale, invece di galleria fotografica. È l’italianofobia che induce a dire vision, mission, tutor e competitor invece di visione, missione, tutore o competitore, e gli anglopuristi si irritano quando si notare loro l’equivalenza lessicale, perché, si sa, l’inglese è portatore di ben altre sfumature di significato ed è in grado di evocare e di connotare ciò che l’italiano svilirebbe. È così che l’alberto-sordità della nostra classe dirigente porta a parlare di economy invece che di economia, di food invece di alimentazione e via dicendo.

Per parafrasare Freud, l’inglese è il nuovo totem, e l’italiano è sempre più tabù. Ai miei studenti di “storytelling” (la scrittura persuasiva, la retorica, l’arte della narrazione non sono espressioni utilizzabili, suonerebbero meno tecniche) ho dovuto spiegare che tabù si scrive con la “ù” accentata (come appunto in Totem e tabù, un libro mai sentito) e non taboo che veniva loro istintivo sul modello di tatoo (a quando i tatooaggi?).

L’anglofobia non è contemplata

Visto che sono di moda le nuove malattie figlie dell’anglomondo globalizzato viene da chiedersi perché non si contempli anche l’anglofobia, che non è la semplice avversione per gli anglicismi, è proprio un senso di fastidio che genera ansia davanti allo tsunami anglicus che sta snaturando le lingue di tutto il mondo, quando va bene, per farle regredire allo status di dialetti di un mondo che parla inglese, quando va male, o farle estinguere e morire quando va ancora peggio.

Non è un patema immotivato.

Il tunisino Claude Hagège ha osservato che il “monolinguismo a vantaggio dell’inglese è vissuto come garanzia (…) della modernità e del progresso, mentre il plurilinguismo è associato al sottosviluppo e all’arretratezza economica, sociale e politica, oppure è considerato una fase, negativa e breve, sulla via che deve condurre al solo inglese” [Claude Hagege, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 100]. E quando preferiamo gli anglicismi non facciamo altro che aderire – più o meno inconsapevolmente – a questa mentalità. Non ci rendiamo conto che l’anglicizzazione dell’italiano non è un’evoluzione ma un’involuzione e che l’inglese globale è una minaccia per le lingue locali. Hagège ha denunciato “un olocausto che fluisce senza sosta, apparentemente nell’indifferenza generale” determinato soprattutto dall’inglese, che “svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle lingue” (ivi, p. 7). Ha calcolato che nel mondo “ogni anno muoiono venticinque lingue: un fenomeno di dimensioni spaventose” (ivi, p. 99). Se oggi quelle vive sono circa 5.000, fra un secolo saranno la metà, se non cambia qualcosa. Una preoccupazione espressa anche in molti altri studi e persino dall’Onu.

Lo scrittore africano Ngũgĩ wa Thiong’o ha vissuto sulla sua pelle la regressione delle lingue della sua terra schiacciate dalle lingue imposte dalle scuole coloniali, e ha scritto un libro in cui ha raccontato molto bene questi processi [Decolonizzare la mente, Jaca Book, 2015]. Perciò, in una recente intervista, ha invitato tutti a ribellarsi alla dittatura dell’inglese, la lingua che “fiorisce sul cimitero degli altri idiomi” [“Scrittori, ribelliamoci all’inglese”, di Pietro Veronese (intervista a Ngũgĩ wa Thiong’o), la Repubblica, 2 agosto 2019].

Invece noi continuano a farci del male da soli, a scrivere nomophobia e ad anglicizzarci a più non posso. L’anglofobia non è contemplata perché l’inglese globale non è riconosciuto come un morbo, ma è spacciato per una medicina. È la ricostruzione della torre di Babele che finalmente permetterà a tutti di comunicare senza problemi nella lingua superiore, la lingua naturale dei padroni che la impongono a tutti gli altri. Costoro si possono permettere il lusso di non impararne altre, perché puntano a far diventare la loro lingua madre quella internazionale e hanno tutti gli interessi a proclamarla lingua franca. Quanto al plurilinguismo e alla regressione delle altre lingue… amen! Del resto è risaputo che ogni medicina ha i suoi piccoli effetti collaterali.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Siamo tutti americani? 11 settembre vent’anni dopo

Di Antonio Zoppetti

All’indomani dell’11 settembre 2001, in un momento di forte emotività, il motto “siamo tutti americani” è rimbalzato sui titoli dei giornali di ogni Paese, persino in Francia, tradizionalmente reattiva alle interferenze inglobanti degli Usa, e proprio su Le Monde, da sempre critico verso la politica statunitense. Qualche giorno dopo, tuttavia, sullo stesso giornale uscì anche un pezzo che dissentiva da quel titolo, e Marie-José Mondzain spiegò le ragioni per cui non si sentiva “americana”, invitando a mantenere un giudizio critico davanti agli avvenimenti, anche se eravamo stati ipnotizzati dalle immagini del crollo delle torri gemelle che venivano rimandate all’infinito. [1] La solidarietà davanti alla tragedia, e l’identificazione con una società che ha anche delle enormi differenze rispetto a quella Europea e alle peculiarità dei singoli Stati sono cose molto diverse.

In Italia voci come queste non hanno trovato spazio sui giornali. Di fronte a quell’evento inaudito e inimmaginabile ciò che è accaduto ha portato a un ulteriore passo nel sentirci “americani”.

La nostra progressiva americanizzazione è un processo iniziato nel dopoguerra con il piano Marshall e la sua enorme propaganda, che ha portato al sogno americano degli anni Cinquanta e al miracolo economico che si è realizzato soprattutto negli anni Sessanta. Ma nel Secondo dopoguerra, e ancora sino alla fine del Novecento, il nostro sentirci parte dell’alleanza politica e atlantica non ci aveva ancora inglobati nel “siamo tutti americani” del nuovo Millennio che ha una pervasività pressoché totale. L’itanglese è solo la conseguenza linguistica, la cartina al tornasole per misurare il grado di questo fenomeno. Dalle datazioni dei dizionari si vede bene che tra le parole nate negli anni Quaranta e Cinquanta gli anglicismi crudi rappresentavano una percentuale del 3% o il 4% , e negli anni Sessanta sono raddoppiati attestandosi tra il 6% e il 7% dei neologismi nati in quel decennio. Questi aumenti non dipendono solo dall’importazione sempre più massiccia delle merci e della cultura a stelle e strisce – tra juke boxe e flipper, jeans e rock – ma anche del venir meno di ogni posizione critica nei confronti degli Usa.

In un primo tempo, l’accettazione e l’ammirazione di tutto ciò che è americano conviveva anche con degli atteggiamenti opposti che ne mettevano in discussione il valore e facevano dell’Italia qualcosa di ben distinto. Questo atteggiamento era trasversale a tutto il Paese. Da un punto di vista ideologico nella sinistra italiana c’era una critica al capitalismo e a certi valori della società americana, e anche se i beni di consumo o i film erano accettati dalle masse, l’anticomunismo del maccartismo o l’imperialismo americano erano invece deprecati. Questa “schizofrenia” all’interno del Pci, come qualcuno l’ha definita, in realtà riguardava anche il mondo dei cattolici e la destra.
La Chiesa aveva da sempre un atteggiamento ostile verso il materialismo americano, storicamente tacciato di essere immorale, anche sa davanti al pericolo rosso, aveva preferito appoggiare la Casa Bianca in funzione anticomunista, come il minore dei mali. Lo stesso atteggiamento circolava anche nella Dc, alleata con il Pentagono ma allo stesso tempo diffidente verso il patto atlantico, dai tempi di De Gasperi sino al più volte ministro degli esteri Giulio Andreotti, che davanti alla questione palestinese sembrava avere “come moglie legittima l’America e come amanti gli arabi ed i mediterranei.” [2]
A destra, già i repubblichini di Salò avevano puntato il dito contro l’espansione americana in Europa, un tema che successivamente è circolato molto negli ambienti conservatori, anche se davanti alla politica dei partiti che rivendicava il nostro inserimento nel patto atlantico, questo atteggiamento critico in seguito è rimasto confinato in gruppi e autori più marginali. Come ha scritto Alessandro Portelli, a proposito dell’atteggiamento della destra: “Le stesse forze che stavano trasformando l’Italia in un satellite politico degli Stati Uniti manifestavano a gran voce la loro preoccupazione per l’invasione di prodotti culturali americani che insidiavano la nostra civiltà umanistica e la nostra cultura classica, come pure il nostro modo di vivere contadino e cattolico.” [3]

Decennio dopo decennio, ogni atteggiamento critico è venuto meno e da un satellite politico siamo diventati un satellite anche culturale. Negli anni Settanta gli anglicismi salivano al 9-10% delle nuove parole, negli anni Ottanta al 14-16%, e negli anni Novanta al 27-28%. Intanto era caduto il muro di Berlino e si era dissolta l’Urss e con essa anche ogni resistenza all’americanismo di tipo ideologico. L’aumento delle parole inglesi negli anni Ottanta avviene non a caso negli anni del riflusso ma anche dell’americanizzazione della tv che con l’entrata della Fininvest ha portato a palinsesti fatti in gran parte di film e telefilm americani che prima erano poca cosa, mentre la Rai si subito adeguata allo stesso modello. E il potere morbido dei prodotti culturali che allo stesso tempo veicolano valori e visioni a stelle strisce non è da sottovalutare. Come ha osservato uno dei principali produttori cinematografici inglesi, David Putnam: “Alcuni cercano di convincerci che i film e la televisione siano degli affari come tutti gli altri. Non lo sono. Film e televisione modellano gli atteggiamenti, creano stili e comportamenti, rinforzano o minano i valori della società (…). I film sono più che un semplice divertimento, e più che un grosso affare. Essi sono potenza.”

Negli anni ’90, Berlusconi, l’uomo che aveva americanizzato la tv, per primo americanizzò anche la politica, e la sinistra subito dopo fece anche di più, configurandosi come un partito filoamericano non solo dal punto di vista ideologico, ma anche linguistico, con il “partito democratico” e le “primarie” (mutuati dagli Usa), e con la comunicazione di Veltroni nata dal motto “Yes We Can” che gli valse l’appellativo di “Obama italiano”, continuata con il linguaggio renziano fatto di slide e di streaming che ha prodotto il jobs act e tutta una serie di altre anglicizzazioni.

Intanto, l’avvento di Internet e una globalizzazione che coincide sempre più con “americanizzazione” avevano portato anche a epocali cambiamenti sociali tra la mcdonaldizzazione del mondo o l’importazione di tradizioni come la festa di Halloween.

In questo contesto, il 20 settembre 2001, Bush proclamò il suo discorso in cui dichiarava: “Questa non è solo la lotta dell’America, e in gioco non c’è solo la libertà americana. Questa è la lotta del mondo per la civiltà. Questa è la lotta di tutti coloro che credono nel progresso e nel pluralismo, nella tolleranza e nella libertà. Noi chiediamo a ogni nazione di unirsi a noi.”

La propaganda puntava ad avvicinare l’identità tra Europa e Stati Uniti, e il nuovo Occidente costruito sulla politica del terrore e lo scontro di civiltà, coincide ormai sempre più con i soli Stati Uniti.

Il radicarsi dell’itanglese trova la sua spiegazione in questo quadro. Se siamo tutti americani, anche la loro lingua deve essere ostentata, e dietro ogni anglicismo c’è l’evocare questo mondo e questo sentimento.

Qualche giorno fa è uscito sul Resto del Carlino questo titolo: “La Virtus s’allena a tavola con la nuova ’food room’”. E nell’articolo si legge: “La ‘food room’, o per dirla all’italiana la mensa aziendale”. Cosa ci spinge a utilizzare queste espressioni che a ben pensarci rivelano tutto il nostro ridicolo provincialismo come nelle caricature di Alberto Sordi? Cosa ci spinge a chiamare food room una sala mensa, community una comunità, influencer un influente, mission una missione, e così via per gli altri 4.000 anglicismi riportati nei dizionari?

Questa ammirazione spropositata per tutto ciò che è a stelle e strisce ha delle ragioni sociolinguistiche che affondano le loro radici nella nostra storia. Quest’ammirazione spropositata e priva di spirito critico è connessa con il mito degli Stati uniti ma anche con il nostro complesso di inferiorità che ci sta portando ad abbandonare le nostre radici per sposare quelle di un’altra società, che ha delle profonde differenze rispetto alla nostra, visto che non siamo affatto “americani”, ma ci piace “fare gli americani”. E la vergogna di fare gli italiani ci sta portando ad appoggiare il globalese sul piano internazionale e a trasformare l’italiano in itanglese sul piano interno.

___________________________________

Note
1) Marie-José Mondzain, “Je ne me sens pas américaine”, Le Monde, 18/9/2001.
2) Massimo Teodori, “Destra sinistra, cattolici”, in Piero Craveri, Gaetano Quagliariello (a cura di), L’antiamericanismo in Italia e in Europa nel secondo dopoguerra, Rubbettino Firenze 2004, p. 111.
3) Alessandro Portelli, The Transatlantic Jeremiad. American Mass Culture and Counterculture and Opposition Culture in Italy, in Rob Kroes e al. (a cura di), Cultural Transmissions and Receptions. American Mass Culture in Europe, Amsterdam, VU University of Amsterdam Press, 1993, p. 129.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]