Nei primi del Novecento le masse si esprimevano fondamentalmente in dialetto e i ceti popolari avevano una scarsa dimestichezza con la lingua nazionale dei giornali o dei libri. Durante la Prima guerra mondiale si registrarono oggettivi problemi di incomprensione tra le truppe; spesso i soldati che provenivano dalle regioni meridionali faticavano a decifrare gli ordini degli ufficiali perlopiù piemontesi. In un programma televisivo degli anni Settanta venne persino ricostruito un episodio in cui un plotone di lombardi e uno di siciliani rischiarono un conflitto a fuoco tra di loro perché entrambi pensavano che l’idioma di chi avevano di fronte fosse il tedesco.
[Cfr. Parlare, leggere, scrivere. Storia dell’Italia unita tra lingua e dialetti, 1969-73, con T. De Mauro e U. Eco, regia di Piero Nelli].

L’unificazione dell’italiano parlato è avvenuta in seguito, soprattutto con la radio, il cinema e poi la televisione. L’avvento del sonoro è arrivato in Italia durante il regime fascista, che lo ha cavalcato, governato e indirizzato all’interno di una più ampia politica linguistica totalitaria volta a imporre la lingua nazionale.
La lingua come strumento di coesione del popolo e l’ostilità per i dialetti
Il fascismo considerava la lingua come uno strumento fondamentale per la coesione del popolo e per la difesa del nazionalismo e tentò di controllarne e di regolamentarne esplicitamente l’uso. Così, insieme all’abolizione della stretta di mano sostituita con l’obbligo del saluto fascista, il regime impose l’utilizzo del voi al posto del lei, considerato un residuo del servilismo italiano nei confronti dell’invasore straniero.
Per questo, nonostante il diverso significato della parola, la rivista Lei si trasformò in Annabella, visto che il lei era stato abolito, ma per fortuna si poteva parlare ancora di Galileo Galilei e non di Galileo Galivoi, per riportare una battuta di Totò che gli valse una denuncia poi archiviata.

I provvedimenti per l’unificazione dell’italiano si concretizzarono anche attraverso la lotta ai dialetti, a cominciare dalla scuola.
La riforma scolastica di Giovanni Gentile, nel 1923, non era ostile al dialetto che era spesso la lingua dei maestri oltre che degli scolari. Persino i libri di testo delle elementari, gli Almanacchi, avevano le loro versioni regionali, ed erano affiancati dai libri che educavano alla traduzione dal dialetto in italiano.
Dal 1925 l’approccio cambiò completamente, il dialetto fu considerato sempre più come un ostacolo all’affermarsi della lingua nazionale, e fu estromesso dall’insegnamento, anche se in molti casi ciò venne disatteso per il semplice fatto che gli stessi maestri non padroneggiavano la lingua sovraregionale.
La nascita del sonoro e l’unificazione della dizione
Nel 1924 fu inaugurata la radio, che si diffuse con enorme popolarità contribuendo ad aumentare l’industria musicale dei 78 giri che veicolava, tra le altre cose, anche le canzoni in italiano. Nel biennio 1937-38 l’installato degli apparecchi radiofonici superò il milione, un numero molto significativo visto che, per la carta stampata, la rivista più diffusa era la Domenica del Corriere, con tirature di 600 mila copie, mentre La Stampa (e Stampa Sera) aveva toccato il suo massimo storico di 1 milione e 300 mila copie solo con l’annuncio della proclamazione dell’Impero da parte di Mussolini nell’edizione del 10 maggio 1936.
Dopo l’uscita del primo film sonoro, nel 1926, anche l’industria cinematografica si riorganizzò e mentre i grandi divi del muto si avviavano sul viale del tramonto, il linguaggio espressivo del cinema in pochi anni passò da quello sovranazionale e muto delle immagini che incantavano il pubblico dagli Stati Uniti sino all’Unione sovietica, a quello dell’audiovisivo, che richiedeva la comprensione dei dialoghi e il doppiaggio nelle varie lingue di ogni Paese.
Il fascismo, in un primo tempo attento solo al controllo della stampa, con l’avvio dell’Istituto Luce si attrezzò per il controllo anche di cinema e cinegiornali, gli antenati degli attuali telegiornali che venivano proiettati prima delle pellicole.

Per la prima volta si poneva così il problema della pronuncia e della dizione, che doveva essere uguale per tutti e in qualche modo uniformata. Il governo intervenne anche su questo aspetto e a Roma – dove c’era la prima stazione radiofonica emittente e dove negli anni Trenta nacque Cinecittà – si formò la prima scuola di dizione. Attraverso il caratteristico stile pomposo e retorico dell’EIAR, l’ente radiofonico di Stato, e la tipica cadenza “eroica” dell’epoca “traboccante di romano orgoglio”, si impose perciò una pronuncia basata non più sulle regole del toscano, ma prevalentemente sul romano, che, in caso di difformità dettava legge, per precise disposizioni del regime (Roma caput mundi). Nel 1938 ci fu anche un programma radiofonico in proposito, La lingua d’Italia, in cui si divulgavano le scelte fonologiche (per esempio non lèttera e velóce, alla toscana come indicato oggi nei dizionari, ma léttera e velòce, alla romana) e si rispondeva alle domande degli ascoltatori sui dubbi di dizione (rubrìca e non rùbrica). Dal successo della trasmissione, condotta da linguisti come Alfredo Panzini e Giulio Bertoni, nacque anche un Prontuario di pronunzia e di ortografia (di Bertoni-Ugolini, Eiar 1939, ristampato fino al 1949).
La più grande battaglia della politica linguistica fascista fu però la campagna contro i forestierismi.
La guerra ai barbarismi
Il protezionismo e la messa al bando di ogni parola straniera cominciarono nel 1923 con una tassa sulle insegne commerciali che, nel caso contenessero esotismi, veniva quadruplicata. Non era una novità, già nel 1874 era stata varata una legge simile, rimasta in vigore fino al 1910, ma l’intento di allora era quello di far cassa, non quello linguistico, come si capisce bene dalla proposta di legge discussa all’epoca in parlamento. L’annuncio dell’onorevole Boselli di raddoppiare l’importo della tassa nel caso di insegne in lingua straniera generò rumori tra i parlamentari. E la giustificazione fu: non per
“intimare guerra a quelle care e splendide lingue straniere nelle quali abbiamo ammirato tante opere letterarie e dalle quali abbiamo anche ricevuti conforti politici e ammaestramenti civili (…) ma perchè [sic] le insegne scritte in lingua straniera rappresentano un commercio più avviato, più esteso e generalmente indicano una vendita di oggetti di lusso (Sussurro a sinistra)”.
[Tratto dalle trascrizioni delle sedute parlamentari del portale storico della Camera dei Deputati, 2° Tornata del 13 maggio 1874, pp.3628-3629].
Il decreto fascista dell’11 febbraio 1293 era invece il segnale di un nuova e precisa svolta politica, che si appoggiava a una precedente diffusa ostilità verso il “barbaro dominio”, non solo linguistico, di matrice ottocentesca e risorgimentale. La propaganda incentrata sull’orgoglio nazionale e la mobilitazione dei glottologi o degli intellettuali del regime in nome dell’italianità e del patriottismo linguistico furono forse più potenti delle leggi, e il dibattito coinvolse molte riviste e molti letterati, con modalità che spesso erano intrise di xenofobia. Già dal 1926 apparvero sulla Nuova Antologia alcuni articoli in difesa della lingua nazionale che esortavano alla “bonifica linguistica”.

Nel 1931, la Scena illustrata di Firenze diede vita alla rubrica “Difendiamo la lingua italiana”; nel 1932, il giornale romano La Tribuna bandì un concorso a premi per scegliere il miglior modo di sostituire una cinquantina di termini stranieri con termini autarchici, e Paolo Monelli inaugurò la rubrica intitolata “Una parola al giorno” sul quotidiano torinese la Gazzetta del Popolo, culminata nel libro Barbaro dominio (1933), che si apriva con il motto: “A ognuno puzza questo barbaro dominio” preso da un’espressione di Machiavelli. Nella pubblicazione, che si inseriva nel filone delle simili opere ottocentesche, l’intento era quello di “ripulire il linguaggio dagli esotismi”.
La maggior parte delle parole condannate erano francesismi, semplicemente perché erano molto più diffusi, mentre tra le parole inglesi Monelli ammetteva solo alcuni termini come bar (e barista), perché entrato da più di una generazione, e poi sport, jazz, pic-nic, snob, knock-out, gimcana, sex-appeal e girl ma solo per designare le ballerine del varietà. Combatteva invece film indicando pellicola (ammettendo però filmo e filmi, alla peggio) e respingeva termini come meeting e leader. Tra le parole condannate c’erano thrill invece di brivido, clown per pagliaccio, match per incontro, partita o combattimento a seconda dei contesti, nurse per bambinaia o governante, e ancora football (calcio), stock (provvista, quantità, rimanenza o deposito), budget (bilancio), star (stella del cinema), toast (crostino), club (circolo), detective (investigatore), detector (rilevatore), game (giuoco), set (partita), bookmaker (allibratore), yacht (panfilo).
In questo clima Gabriele D’Annunzio, inventore di vari neologismi e di motti mussoliniani, intorno al 1936 creò la parola tramezzino come alternativa a sandwich, mentre il linguista Bruno Migliorini, fondatore nel 1939 della rivista Lingua nostra, propose con successo regista al posto del francese regisseur e autista per chaffeur e fu in prima linea nella guerra ai forestierismi appoggiando il regime:
“Negli ultimi anni si è reagito a questa invasione con spirito fascista, e così un gran numero d’intrusi sono stati eliminati o almeno assimilati. Così invece di record si dice primato; non si dice più regisseur ma regista. Nelle trattorie e negli alberghi i menus si chiamano liste, e nessuno si vergogna a chiamare bambinaia quella che si chiamava bonne. Il Touring Club italiano ha cambiato il proprio nome in Consociazione turistica italiana. Il Duce ha dato l’esempio, quando, visitando nel 1931 una mostra d’arte che si stava per inaugurare ha chiamato vernice, quella che prima si indicava con il vocabolo francese vernissage”.
[Bruno Migliorini, La lingua nazionale, Le Monnier, Firenze 1941, p. 410].

Consultando i giornali dell’epoca, tuttavia, i forestierismi non erano assenti, e questo tipo di epurazioni furono un fenomeno più di facciata in un primo tempo, anche se le cose cambiarono a partire dal 1936.
Cosa è successo con la proclamazione dell’autarchia?
La politica linguistica fascista ha funzionato?
E cosa è rimasto oggi?
Questi gli argomenti della seconda parte.