L’aumento di anglicismi e neologismi in inglese: nuovi dati

Ho già pubblicato su questo sito e anche nel libro Diciamolo in italiano (Hoepli 2017) i dati sull’aumento degli anglicismi e dei neologismi in inglese ricavabile dai dizionari Devoto-Oli 2017 e Zingarelli 2017. Ma a distanza di 3 anni anni ho provato a raffinarli e aggiornarli.

Per approfondire la questione: questo articolo include la comparazione con i numeri tratti dal dizionario Sabatini-Coletti e, per una sintesi che include anche il Gradit di Tullio De Mauro rimando al pezzo scritto per il portale Treccani “I forestierismi nei dizionari: quanti sono e di che tipo”.

 

La crescita degli anglicismi decennio per decennio

La prima novità che voglio riportare è basata sull’estrazione di tutte le parole secondo la loro datazione, decennio per decennio, e sul conteggio di quanti anglicismi crudi includono a partire dagli anni Quaranta.

Bisogna precisare che i dati ricavati a questo modo non sono completi, si basano su ricerche automatiche non filtrate da un lavoro redazionale. In particolare, bisogna leggere questi numeri per difetto, perché non sempre le datazioni sono esplicitate (a volte non c’è una data, o c’è solo un generico “XX secolo” e in questi casi la parola sfugge alle ricerche). Inoltre, circa 200 anglicismi tra i più comuni (come computer) non sono più marcati dal Devoto Oli come voci inglesi, solo nell’etimologia si riporta l’origine della parola (e dunque anche questi sfuggono ai conteggi). Infine, non sono state conteggiate le numerose ibridazioni (come whatsappare, googlare o computerizzare).

La penetrazione dell’inglese è dunque ancora più pesante di quanto riportato, ma comunque sono numeri significativi, soprattutto nelle loro percentuali, e mi pare che fotografino sufficientemente bene la situazione, e che siano molto coerenti e omogenei tra loro, al di là dei differenti criteri lessicografici utilizzati nelle singole opere.

Nella prima colonna riporto il totale dei lemmi del Devoto-Oli 2017 datati per decennio, nella seconda il numero di anglicismi che contengono, e nella terza la loro percentuale. Lo schema è ripetuto con le stesse interrogazioni sullo Zingarelli 2017.

 

crescita anglicismi devoto oli e zingarelli

 

Le ultime due righe, riferite al nuovo Millennio, sono le più “deboli”, perché l’assestamento delle parole registrate è ancora labile e più soggetto a revisioni future (alcune parole usciranno e altre che circolano oggi fuori dai dizionari saranno annoverate), ma le dimensioni della crescita sono evidenti. L’ultima riga, in particolare, è incompleta perché si ferma al 2016; se i numeri assoluti degli anglicismi del Duemila sembrano in calo è solo perché lo sono anche le parole italiane.

Dividendo questi numeri per 10, la media annuale cresce dai 6-8 anglicismi degli anni Quaranta a circa 50 negli anni Novanta. Accanto al lievitare dei numeri assoluti, che registra un lieve calo solo negli anni Settanta (ma anche le parole italiane sono in calo), il dato significativo è quello della crescita delle percentuali. Più passa il tempo, più la nostra lingua si americanizza e il numero delle parole inglesi aumenta, sino a rappresentare la metà dei neologismi nel nuovo Millennio, un dato confermato soprattutto se si passa da questi dati grezzi a quelli lavorati (cfr. “Anglicismi e neologismi”).

In sintesi: dagli anni Quaranta a oggi le percentuali sono più o meno decuplicate, e se in passato le nuove parole arrivavano soprattutto da coniazioni basate sul latino, oggi si è passati all’inglese crudo, senza alcun adattamento, come avevo ricostruito in una predente tabella che riporto nuovamente (cfr. “La perdita delle radici: dal latino (e greco) alle invasioni anglo-barbariche”).

torta inglese latino greco nel devoto oli

 

I numeri aggiornati al 2020

Che cosa è successo dal 2017 al 2020?
Premesso che la data dei dizionari si riferisce all’anno precedente alla loro pubblicazione (dunque rispettivamente il 2016 e il 2019), riassumo i nuovi numeri riportati direttamente da Luca Serianni (curatore del Devoto Oli insieme a Maurizio Trifone) nel libro Il lessico (vol. 2 della collana Le parole dell’italiano, Rcs Milano 6/1/2020).

Il numero totale degli anglicismi crudi, in soli tre anni, è passato da 3.522 (Devoto-Oli 2017) a 3.958 (Devoto-Oli 2020), cioè ne sono stati aggiunti ben 436 (una media di quasi 150 all’anno).

Gli anglicismi nati nel nuovo Millennio sono passati da 509 (su 1.049 parole nuove = il 48,52%) a 658 (su 1.297 neologismi = il 50,73%), cioè 149 in più (una media di circa 35 all’anno). Questi sono i dati grezzi e automatici. Il fatto che non siano lavorati spiega (in parte) la ragione della differenza tra le due medie annuali di ingresso (anglicismi totali e quelli del nuovo Millennio). Una differenza dovuta anche al fatto che non sempre le datazioni sono presenti o complete e poi al fatto che una parola può impiegare anche decenni prima di guadagnare una sua stabilità che la fa includere nei dizionari. E quando viene inclusa, la datazione riportata non si riferisce all’anno in cui è stata inserita nel dizionario, bensì all’anno in cui ha fatto la sua prima comparsa in letteratura e nei corpus di riferimento (significa che un lemma inserito oggi può anche essere datato nello scorso Millennio quando era comparso per la prima volta).

Passando dai dati grezzi a quelli lavorati e filtrati, secondo i miei calcoli gli anglicismi del Devoto Oli 1990 (anno della prima edizione elettronica) erano circa 1.700 (conteggiando anche le sigle che all’epoca non erano incluse nell’opera), mentre quelli del 2017 sarebbero circa 3.400 (un po’ meno dei dati grezzi perché non ho considerato le sigle troppo specialistiche che mi pareva inquinassero i dati). Il che significa che in 27 anni sono raddoppiati e che la media annuale di entrata è di circa 63 all’anno (cfr. Diciamolo in italiano, pp. 92-93).
Le medie dello Zingarelli sono invece più basse, ma non ho i dati lavorati, e sono riferite perciò alle ricerche automatiche grezze; nel 1995 (anno della prima versione digitale non commercializzata) se ne contavano 1.811 (cfr. Katalin Doró, “Elementi inglesi e angloamericani nella stampa italiana” in Nuova Corvina, Rivista di italianistica, 12, 2002, Istituto Italiano di Cultura Olasz Kultùrinézet, Budapest, pp. 78-91) e nel 2017 sono diventati 2.761, dunque una media di 41 all’anno e un aumento in 23 anni di 950 lemmi.

Per valutare i neologismi, che ormai corrispondono sempre più agli anglicismi, è perfettamente inutile osservare che includono parole di uso comune e ad alta frequenza come selfie e tweet ma anche parecchi tecnicismi come slate PC, lad lit e pet-coke di uso e frequenza irrilevante; invece di asserire simili banalità bisogna quantificare le cose e formulare giudizi con cognizione di causa. Anche la supposta – e mai dimostrata – obsolescenza degli anglicismi che sarebbero spesso destinati a uscire dall’uso dopo qualche tempo non si basa su evidenze quantitative, e soprattutto non riguarda solo gli anglicismi, ma tutti i neologismi. Dunque, anche ipotizzando che gli anglicismi sarebbero in larga parte parole “usa e getta”, lo sono anche i neologismi, e il risultato è che il rapporto tra parole nuove inglesi e italiane non dovrebbe variare poi molto.

Tornando al bel libro di Serianni, il linguista spiega proprio che la maggior parte dei neologismi sono effimeri, sono come girini di cui solo pochi riusciranno a diventare rane adulte (Il lessico, p. 50). Dunque la stabilità delle parole del nuovo Millennio è di dubbia qualità. E ciò vale anche – non solo – per gli anglicismi, che oltre a rappresentare la metà delle nuove parole tendono a diventare l’unico apporto straniero o quasi.

“Chi dice forestierismo oggi dice anglicismo – scrive Serianni – (…) Gli anglicismi sono una massa imponente. L’italiano mostra in proposito una debole reattività rispetto a quanto accade in altre due lingue neolatine, il francese e lo spagnolo. (…) Naturalmente bisogna considerare la qualità, oltre alla quantità. Un anglicismo come blog non ha lo stesso peso di advergame (…) un termine sulla cui durata non scommetteremmo: il referente è esposto al forte rinnovamento che colpisce sia la tecnologia informatica sia gli strumenti pubblicitari messi in campo dalle grandi aziende.” (Ivi p. 65)

Oltre al diverso “peso” di blog e advergame, andrebbe anche rilevato che il primo vocabolo è compatibile con l’italiano, si scrive come si pronuncia e non snatura la nostra “identità linguistica”, per riprendere le parole di Arrigo Castellani del “Morbus Anglicus” (in realtà lo studioso era inorridito dalle parole che terminano in consonante e avrebbe avuto da ridire su questa mia affermazione). Il secondo, invece, è ben più devastante per il nostro sistema lessicale, perché è un “corpo estraneo” nel suono e nella grafia. Purtroppo, la maggior parte degli anglicismi è di questo secondo tipo, e non risulta altrettanto ben assimilabile.

Continuando le analisi sulla qualità nel rapporto anglicismi/neologismi, Serianni, analizza a campione i neologismi della lettera A del Devoto-Oli, e nota che non esistono parole primitive, sono tutte parole composte (anarco-inserruzionalista) o derivate (africaneria) (pp. 53-54), dunque l’italiano non si sta rinnovando poi molto dal punto di vista endogeno.

Anche gli anglicismi sono per la maggior parte composti, questa è una delle loro caratteristiche (anti-age, antispamming), ma le parole primitive ci sono eccome (admin, adware) e anche nei casi delle ricombinazioni di parole primarie inglesi (all inclusive, action-cam, access point), la loro valenza è ben diversa dalle derivazioni in base alle regole dell’italiano (acribioso, adultescente). Insomma, il confronto qualitativo, oltre al numero, penalizza fortemente l’italiano. E fuori dalla lettera A, tra gli anglicismi primari e primitivi spiccano “i termini legati all’informatica e all’elettronica, tutti di origine inglese” (p. 55), a cui bisognerebbe sommare quelli economici, seguiti dagli altri che pervadono ogni settore della nostra lingua perché escono dai loro ambiti e si riversano nel linguaggio comune, da selfie, a fake news, da spread al futuro lockdown (per ora non ancora registrato).

C’è persino chi, nella sua ossessione che porta a negare la realtà, è arrivato a sostenere che il passaggio dal cartaceo al digitale non costringe più a rimuovere lemmi obsoleti per fare spazio a quelli nuovi, e dunque evidentemente spiega così questi incrementi e ritiene che i dizionari non siano fonti attendibili. Una tesi delirante a cui non vale nemmeno la pena di replicare, visto che i dizionari di cui si sta parlando sono pubblicati annualmente nell’edizione a stampa. Una tesi, soprattutto, a cui manca la parte costruens: non si capisce cosa voglia dimostrare e su quali basi, a parte un generico “negare sempre”, dal tradimento coniugale a quello della lingua.
Sostenere che il numero degli anglicismi dei dizionari non rappresenta la realtà è in parte vero, ma è un dato contrario rispetto a come viene interpretato da qualche anglomane. Gli anglicismi che circolano nei tantissimi settori della lingua italiana, dall’economia alle scienze umane, dall’editoria all’aziendalese, sono infinitamente di più. E il problema principale del dizionario AAA (Alternative Agli Anglicismi) è che solo un terzo delle segnalazioni che mi arrivano, forse anche meno, viene accolto, proprio perché spesso si tratta di anglicismi troppo di settore e troppo poco affermati. Ma questi, sommati, complessivamente costituiscono un numero notevole di occasionalismi inglesi, onnipresenti in ogni ambito. In altre parole, viviamo quotidianamente in una “nuvola di anglicismi” ben più ampia (cfr. Diciamolo in italiano, pp. 111-117) di quanto si evince dai dizionari. È vero che la maggior parte di queste parole che ci avvolgono nel quotidiano sono effimere, ma viviamo nell’effimero, e complessivamente quando un anglicismo esce dalla nuvola, ne entrano altri, altrettanto effimeri, ma alimentati da un flusso costante. In questa “pansperima del virus anglicus” (come l’ho descritta) ci sono proprio gli anglicismi che entreranno in futuro nella nostra testa, nella nostra bocca e nei dizionari, attraverso questo bombardamento a tappeto che decennio dopo decennio, e anno dopo anno, non fa che crescere e accumulare l’inglese.

Spostandoci da questa “nuvola” ai dizionari, può anche succedere che termini come advergame escano, ma una cosa è certa: non saranno di sicuro sostituiti da parole italiane, nel disastro della terminologia informatica e di settore. L’obsolescenza delle tecnologie porta alla continua sostituzione con altre tecnologie sempre e solo in inglese.

La crescita del numero degli anglicismi e del rapporto percentuale con le parole italiane ha pochi margini di contestazione. L’aumento c’è dagli anni Cinquanta e si incrementa sempre di più. Se a questi dati aggiungiamo i vocaboli che si contaminano con l’inglese per ibridazione (cfr. “L’inglese nell’italiano: espansione per ibridazione“) il quadro peggiora ulteriormente.
Non ci sono elementi per pensare che le cose debbano cambiare, in futuro. A questi ritmi di crescita il lessico italiano finirà per creolizzarsi ancora più di oggi, trasformandosi in un itanglese sempre più pesante. Chi non lo capisce, o lo nega, non pare proprio in grado di cogliere la realtà.

© 2020 Antonio Zoppetti – Riproduzione riservata


Avvertenza
: i dati statistici qui riportati sono frutto di una ricerca personale, e nel caso qualche studioso li prelevi per ripubblicarli in qualche libro senza citarmi, sappia che sono una proprietà intellettuale la cui riproduzione è riservata. Si possono riprendere e citare solo senza omettere l’autore e la fonte.
A buon intenditor…

Linguaggio inclusivo: aggiornamenti

Casualmente o no, dopo la serie di articoli sul linguaggio inclusivo che ho iniziato il 6 luglio, la questione è arrivata anche sulla stampa.

Riassumendo le puntate precedenti, nella prima parte delle mie riflessioni avevo mostrato come il dibattito sul linguaggio inclusivo avesse in comune molte cose con il politicamente corretto, a sua volta portatore di una “correttezza” figlia dei valori della cultura angloamericana, più che universale.

Nella seconda parte ho analizzato l’attacco contro il maschile generico, interpretato – fuori dalla grammatica e per motivazioni ideologiche – come discriminatorio e sessista. In nome di queste posizioni, da decenni è in atto un dibattito sulla femminilizzazione delle cariche che da una parte è sacrosanto, e tiene conto del fatto che le donne, seppure lontane dall’aver raggiunto la parità e l’emancipazione che spetterebbe loro, ricoprono ruoli un tempo prevalentemente maschili su cui è giusto riflettere di volta in volta come adattare. Ma dall’altra parte il tema è strumentalizzato da chi, senza tenere conto proprio del parere delle dirette interessate, vorrebbe femminilizzare ed “educare” anche le categorie che preferiscono mantenere il maschile generico, per esempio gli avvocati, notai o architetti, che non si definiscono avvocate, notaie o architette, contrariamente a quanto predicato nelle varie linee guida che sono state prodotte.

In questo dibattito, di recente le prescrizioni del “linguaggio inclusivo” cercano di imporre formule espressive che prevedono l’oscuramento del genere (es. le forme impersonali) e la ripetizione sistematica di femminile e maschile (signore e signori), partendo dal presupposto opinabile – e opinato da molte stesse donne – che il maschile generico sarebbe sessista e discriminatorio. Questa operazione volta a convincere e a cambiare l’uso storico dell’italiano, inoltre, non tiene conto né dello stile forzato e poco naturale che spesso ne deriva, né dell’economia della lingua così tanto esaltata quando si tratta di giustificare il ricorso degli anglicismi a discapito delle parole italiane.
Linee guida di questo tipo sono state avvalorate anche dalla Crusca, ma nella terza parte del mio argomentare ho passato in rassegna le proposte di intervento sull’uso ancora più spinte. L’introduzione dello scevà per indicare i nomi generici (avvocatǝ e plurale avvcatз) è una nuova “riforma ortografica” che si affianca a quelle – formulate da tempo, ma sostanzialmente ignorate – dell’uso dell’asterisco o della vocale generica “u” (avvocat* e avvocatu).
Questo tentativo di cambiare le regole e l’uso storico dell’italiano non avviene affatto dal basso come una risposta delle esigenze degli italiani, è invece un’operazione politica condotta da un’oligarchia di intellettuali che vogliono trapiantare la logica dell’inclusività di matrice angloamericana.
Ho anche evidenziato come proprio chi si schiera in favore del cambiamento dell’uso nel caso di femminilizzazione e linguaggio inclusivo utilizza spesso un linguaggio infarcito di anglicismi. Insomma, nel primo caso è pronto a educare tutti e a intervenire sull’uso per cambiarlo, mentre nel secondo caso si appella al fatto che gli anglicismi sono entrati nell’uso per giustificarli, invece che per condannarli e promuovere le alternative italiane. Il risultato di questi due pesi e due misure converge in una sola direzione: l’americanizzazione della nostra cultura e della nostra lingua. Questo è il nuovo totem culturale di un Paese che assomiglia sempre più a una colonia, e non aderire a questo pensiero unico globale è il nuovo tabù: non essere d’accordo con la religione inclusiva “progressista” diventa essere sessisti, promuovere le parole italiane al posto degli anglicismi significa essere retrogradi, non internazionali, e persino fascisti.

Strano, notavo, che chi bolla come “fascista” la promozione dell’italiano contro l’abuso nell’inglese non si scagli con uguale veemenza contro chi propugna lo scevà… Per fortuna qualcuno lo ha finalmente capito.

Il 25 luglio, Mattia Feltri ha pubblicato su la Stampa l’articolo “Allarmi siam fascistə” che provocatoriamente attaccava le proposte dell’introduzione dello scevà attribuite, a torto, a un’imprecisata accademica della Crusca.

L’Accademia è perciò intervenuta con una lettera al giornale che ha smentito una posizione in favore di questo tipo di linguaggio inclusivo e si è schierata semmai in senso opposto, come le accademie di Francia e Spagna e in linea con le critiche di Mattia Feltri.

L’innominata non-accademica a cui si fa riferimento è Vera Gheno, che un tempo collaborava con la Crusca (senza essere accademica) gestendone il profilo Twitter. Le sue posizioni in favore dello scevà si trovano in Femminili singolari (Effequ, 2019) e si possono leggere in una sua risposta all’articolo di Mattia Feltri in cui sostiene che si tratterebbe “di un’istanza proveniente ‘dal basso’ (…) figlia, forse, di una rinnovata sensibilità sociale e culturale.”
Le sue posizioni sul fatto che invece gli anglicismi non sarebbero un problema per la lingua italiana – anche loro figli di una nuova sensibilità culturale, evidentemente – sono note (ne avevo accennato qui).

Comunque la pensiate, la Stampa ne ha parlato, la Crusca ha finalmente preso una posizione sulla vicenda, Loredana Lipperini si è schierata in difesa di Vera Gheno, un articolo di Alessandra Vescio su Valigiablu riassume la vicenda, e la notizia è stata ripresa su vai siti, tra cui the Submarine.

Sarà una meteora estiva o il dibattito, oltre che nei Paesi anglofoni, sta cominciando a prendere piede anche in Italia come in Brasile e in Argentina?

Nel frattempo, come ho già detto, il linguaggio inclusivo divide, più che includere, e quando “include” sembra inglobare nel pensiero unico che arriva d’oltreoceano.