Finanziamenti pubblici ai giornali: 28 milioni di euro per aiutare l’anglicizzazione?

Di Antonio Zoppetti

Il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha da poco pubblicato il resoconto del finanziamento pubblico erogato ai giornali e l’elenco delle testate cartacee che hanno ricevuto i fondi straordinari per le copie vendute nel 2021 (un grazie a Carlo Vurachi che mi ha segnalato la notizia). Si tratta di 28 milioni di euro, a fronte delle richieste che ammontavano a 38 milioni [cfr. Andrea Falla “Dallo Stato 28 milioni ai giornali (cartacei): ecco chi ha preso i contributi per l’editoria”, Today 2/4/2024].

Non voglio entrare nel merito se questi finanziamenti siano giusti o meno, voglio porre sul tavolo un’altra questione che vado dicendo almeno dal 2017, quando scrivevo:

“Poiché i giornali ricevono un notevole contributo dallo Stato, che poi sono i soldi di noi cittadini, non sarebbe una cattiva idea quella di chiedere loro un codice di autoregolamentazione, come è avvenuto spontaneamente in Spagna, in cui si sforzino a evitare gli anglicismi inutili, per esempio, e a contribuire a tradurli. Non in modo coercitivo, certo, però si potrebbero per esempio legare i finanziamenti pubblici a un impegno a diffondere un uso corretto della lingua italiana, visto il ruolo fondamentale della stampa. L’intervento dello Stato per arginare l’entrata negli anglicismi sul fronte della lingua ufficiale avrebbe sicuramente delle ricadute anche in altri ambiti, come quello della pubblicità, dei linguaggi settoriali e dell’aziendalese. E soprattutto richiamerebbe l’attenzione sul problema, e agirebbe sulla consapevolezza dei parlanti.” (Diciamolo in italiano. Gli abusi nell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla, Hoepli Milano, p. 183).

Un rapporto di “comparazione” poco chiaro

Provo a riprendere la questione in modo più dettagliato partendo dal rapporto “Il sostegno all’editoria nei principali Paesi d’Europa. Politiche di sostegno pubblico a confronto” (a cura del Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri), nella cui Prefazione si legge:

“L’Unesco per sottolineare l’importanza, in un sistema democratico, della libera informazione, suole richiamare una icastica affermazione dell’economista statunitense Joseph Stiglitz: ‘L’informazione è un bene pubblico […] e in quanto bene pubblico ha bisogno del sostegno pubblico’. La lapidaria evidenza di questo concetto sembrerebbe non lasciare spazio a grandi dibattiti, nondimeno in Italia negli ultimi tempi si è imposta una corrente di pensiero tesa a ‘delegittimare’ le misure di sostegno pubblico al sistema dell’informazione, articolata essenzialmente su due diverse argomentazioni: da un lato, che l’afflusso di risorse pubbliche al sistema editoriale rappresenterebbe un condizionamento per chi dovrebbe essere libero di svolgere la funzione di watch dog a tutela della democrazia e del pluralismo delle opinioni; dall’altro, che la spesa volta a sostenere il pluralismo dell’informazione non potrebbe essere considerata essenziale, in quanto estranea all’ambito tipico delle attività di carattere pubblicistico.
Per verificare la bontà o meno di questa impostazione, è risultato quasi inevitabile e doveroso per il Dipartimento dell’Informazione e dell’Editoria volgere lo sguardo verso altri paesi europei in chiave comparativa, al fine di verificare se il complesso sistema italiano che supporta l’informazione, in modo diretto e indiretto, costituisse una nostra peculiarità ovvero se invece trovasse una corrispondenza in altri paesi europei di consolidata tradizione democratica.”

– La prima considerazione è che anche la lingua italiana “è un bene pubblico” e non si capisce perché in quanto bene pubblico non abbia anch’essa bisogno del “sostegno pubblico”: anche questa lapidaria sentenza non dovrebbe lasciare spazio a grandi dibattiti, “nondimeno in Italia negli ultimi tempi si è imposta una corrente di pensiero” tesa a delegittimare l’italiano e a cancellarlo per sostituirlo con l’inglese. E infatti, in un documento istituzionale come questo, la funzione del “cane da guardia” è stata sostituita dall’espressione inglese watch dog. Perché? Forse perché abbiamo un/a presidente del Consiglio che si è definito/a underdog? Forse perché (hot dog e doggy-bag a parte) è arrivato il momento di sostituire cane con dog come si fa con i dog sitter e le gare di agility dog? A chi è destinata questa comunicazione? E che scopo ha? Di certo l’espressione non è trasparente, non si rivolge alle masse, che al contrario si vogliono “educare” attraverso la sostituzione dell’italiano con l’inglese. E soprattutto non è rispettosa del nostro patrimonio linguistico.

– La seconda considerazione è che non si può ridurre chi critica questi finanziamenti a chi ne mette in risalto “l’essenzialità” o il “condizionamento” dei watch dog, ci sono critiche di ben altro carattere che riguardano i criteri di queste erogazioni.
I meccanismi sono complicati, ma per semplificare, ci sono finanziamenti indiretti (per es. riduzione di Iva e costi di spedizione) e diretti, e questi ultimi sono distribuiti con vari criteri molto discutibili. Il punto dolente riguarda le testate che sono pubblicate da cooperative o società “senza fini di lucro”, un requisito che viene aggirato, come spiegato chiaramente in un articolo de Il Post [“I giornali che ricevono i contributi pubblici (seconda rata del 2022)”]:

“I criteri per accedere ai contributi possono essere in buona parte soddisfatti attraverso la creazione di strutture formali (cooperative, soprattutto) che non cambiano la natura societaria delle aziende giornalistiche, la differenza di condizione tra alcune testate che vengono finanziate e altre che invece no è inesistente, e questo crea una discriminazione di fatto alla libera concorrenza. Prendete la vivace competizione che si sta sviluppando tra i quotidiani italiani di destra, con Libero che cerca di rincorrere i recenti successi della Verità, e un gran lavoro di entrambi nel convincere gli inserzionisti a preferire l’uno o l’altro: bene, in questa competizione lo Stato – e le persone che pagano le tasse, e il canone Rai – dà a Libero cinque milioni e mezzo di euro che la Verità non riceve.”

Tra le altre critiche che riguardano le modalità di erogazione ci sono per esempio il fatto che i finanziamenti siano previsti solo per i giornali cartacei con esclusione delle testate solo digitali (ecco un’altra discriminazione), o anche che alcuni meccanismi di rimborso si basino sulle tirature e le vendite dei giornali, con la conseguenza che sono avvantaggiate non le piccole testate indipendenti, ma quelle già affermate. Dunque criticare i meccanismi non equivale a metterne in discussione il principio.

Terza considerazione: il titolo del rapporto parla di una comparazione tra la situazione italiana e i “principali paesi europei”, ma questa comparazione è fatta solo con 8 paesi, tra cui c’è il Regno Unito che è uscito dall’Europa e poco in linea con il titolo. E non c’è una riga che spieghi come e perché sono stati inclusi nella comparazione non i paesi europei, ma alcuni paesi europei, dove per esempio colpisce che non sia stata inclusa almeno la Spagna. Qual è il criterio di questa comparazione “europea”? Scegliere come parametro di riferimento una rosa arbitraria – magari di comodo – non è un grande indizio di “scientificità”.

Fatte queste premesse, partiamo proprio dalla grande esclusa, la Spagna.

I giornali in Spagna e Francia

La Reale Accademia Spagnola collabora con le analoghe accademie presenti in una ventina di Paesi dove il castigliano è lingua ufficiale non solo per mantenere l’omogeneità della lingua a livello globale, ma anche proprio per diffondere e creare le alternative in spagnolo agli anglicismi.

E così, nel 2005, quando a Madrid è stato presentato il Dizionario panispanico dei dubbi (Diccionario panhispánico de dudas) alla presenza dei responsabili di quasi tutti i giornali più importanti di lingua spagnola, fu sottoscritto un accordo, come ha ben evidenziato Gabriele Valle, in cui si dichiarava:

“Consci della responsabilità che nell’uso della lingua ci impone il potere di influenza dei mezzi di comunicazione, ci impegniamo ad adottare come norma fondamentale di riferimento quella che è stata fissata da tutte le accademie nel Dizionario panispanico dei dubbi, e incoraggiamo altri mezzi affinché aderiscano a questa iniziativa” [“Lʼesempio della sorella minore. Sulla questione degli anglicismi: l’italiano e lo spagnolo a confronto”, p. 757].

E lo stesso autore ricorda che la Fundación del Español Urgente, un’istituzione senza fini di lucro nata da un accordo tra un’agenzia stampa e una banca, costituisce attraverso il suo sito un servizio di consulenza linguistica che è diventato un punto di riferimento per i giornalisti che si rivolgono proprio a queste risorse per trovare le traduzioni agli anglicismi.

Quanto alla Francia, sarebbe doveroso ricordare che mentre i mezzi di informazione italiani diffondono anglicismi che in Francia non esistono oppure sono deprecati, Le Figaro sforna innumerevoli pezzi che condannano l’inglese e riprendono le direttive della Commissione per l’arricchimento della lingua francese che invita a usare per esempio infox al posto di fake news. E lì ci sono delle leggi da rispettare a proposito della lingua, che è il francese – come è stato scritto nell’articolo 2 della Costituzione – e non si possono introdurre parole straniere nel linguaggio istituzionale. Le indicazioni dell’Accademia francese si intrecciano dunque con le iniziative statali e sono affiancate dalle indicazioni terminologiche regolarmente pubblicate da oltre trent’anni sul Journal officiel (la Gazzetta Ufficiale francese), mentre opere come il Grande Dizionario Terminologico del Quebec traducono gli anglicismi anche più tecnici, e rappresentano un punto di riferimento che noi non abbiamo, ma che i giornalisti francesi mediamente rispettano e tendono a seguire.

La situazione degli anglicismi sui giornali italiani, francesi, spagnoli e tedeschi (e anche quella dei forestierismi in totale sui giornali anglofoni) è stata studiata in modo esemplare da Peter Doubt sul sito Campagna per salvare l’italiano, da cui rubo una delle tante tabelle comparative con il conteggio degli anglicismi nella settimana dal 15 al 21 gennaio 2022 su 5 testate a campione.

In conclusione: i giornali francesi e spagnoli hanno un ruolo sociale importante anche dal punto di vista linguistico. Se il finanziamento pubblico ai giornali è una garanzia per il pluralismo e la democrazia e ha bisogno di un sostegno pubblico, lo stesso vale per la lingua italiana, oggi calpestata soprattutto dai mezzi di informazione, che un tempo hanno contribuito enormemente a unificare ma che dagli anni Duemila stanno trasformando in itanglese.

E allora, la mia modesta proposta è che i criteri di erogazione di questi finanziamenti dovrebbero essere legati anche al rispetto del nostro patrimonio linguistico, e si potrebbero per esempio sottrarre delle quote per ogni anglicismo introdotto al posto di un equivalente italiano, per esempio watch dog. Un algoritmo potrebbe facilmente calcolare la percentuale delle parole inglesi e detrarla dalle quote spettanti (se è il 2% ci sarà un taglio ai finanziamenti del 2%), con meccanismi correttivi moltiplicatori per cui qualora lo stesso anglicismo comparisse nel titolo varrebbe come 10 anglicismi, nell’occhiello 5 e via dicendo. I soldi trattenuti in questo modo potrebbero finire in un fondo destinato alla promozione della lingua italiana, per realizzare campagne pubblicitarie, borse di studio, iniziative su tutto il territorio. E se qualcuno pensa che questa sia una limitazione alla libertà di espressione dovrebbe tenere presente che i giornalisti hanno anche una funzione pubblica e didattica, nell’esercitare la loro libertà, e se viene meno è giusto che vengano meno anche i finanziamenti pubblici.

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Un’ultima notizia, a proposito della questione degli anglicismi:

su YouTube è appena uscito il documentario L’idioma superiore, di Matteo Marcucci, che ha intervistato e messo a confronto le posizioni del presidente della Crusca Paolo D’Achille, del giornalista e conduttore di RaiNews24 Lorenzo di Las Plassas, e anche le mie.

Università in inglese: aggiornamenti e riflessioni sul caso Rimini

Di Antonio Zoppetti

Ringrazio i circa 400 cittadini che hanno sottoscritto la protesta organizzata da Italofonia.info contro l’abolizione del corso di Economia del turismo all’università di Rimini sostituito da quello erogato solo in inglese. E torno sul tema con qualche aggiornamento e riflessione.

Anche la Crusca ha preso posizione

L’accademia della Crusca, in copia agli appelli, ha appoggiato il nostro grido, ha inserito la questione nel Consiglio direttivo del 22 febbraio 2024, e ha formalizzato una lettera aperta (che si può leggere sul loro sito) indirizzata al rettore dell’università di Bologna, Giovanni Molari, e alla ministra dell’università e della ricerca, Anna Maria Bernini.

Il documento segnala che, stando alla legge, i corsi triennali (come quello del caso riminese) devono avere come obiettivo il pieno possesso dell’italiano, e questo obiettivo non può essere garantito da un corso erogato solo in inglese. Inoltre ricorda la sentenza della corte Costituzionale che ha sancito la “primazia” dell’italiano nell’offerta formativa, e domanda come sia possibile non rispettarla. Nella conclusione afferma che:

“La progressiva eliminazione dell’italiano dall’insegnamento universitario (come pure dalla ricerca) in vista di un futuro monolinguismo inglese costituisce, come ha osservato anche la European Federation of National Institutions for Language (EFNIL), un grave rischio per la sopravvivenza dell’italiano come lingua di cultura, anzitutto, ma anche come lingua tout court, una volta privata di settori fondamentali come i linguaggi tecnici e settoriali.”

La lettera firmata dal presidente Paolo D’Achille non chiede esplicitamente il ripristino del corso in italiano, perché come precisato nella premessa l’accademia non ha alcun titolo ufficiale per intervenire sulle decisioni del Ministero – da cui dipende – né su quelle dell’ateneo in questione, libero di agire in piena autonomia, anche se le decisioni devono essere approvate dal Ministero. Ma pone delle domande e delle pungenti questioni su cui si spera che l’università Alma Mater e la ministra diano almeno una risposta.

L’eco mediatica: sprazzo o cambiamento?

L’intervento dell’accademia, da ieri sera, è stato riportato dalle agenzie e dai giornali, e la speranza è che generi un dibattito serio sulla questione, perché dietro decisioni come quella di Rimini si consuma la cancellazione del diritto allo studio nella nostra lingua madre con una logica che si è già vista nel caso delle scuole coloniali africane, le cui conseguenze sono state ben denunciate da un autore come Ngugi wa Thiong’o in Decolonizzare la mente (Jaca Book, Milano 2015).

Proprio ieri, sulla prima pagina del Corriere.it (che per il momento non riporta la notizia), c’era un pezzo sull’impoverimento culturale dell’università (“Università: studiare senza libri, con l’ok dei prof”); l’Italia, si legge, è in fondo alle classifiche dei giovani laureati: sono il 28% contro l’obiettivo europeo fissato al 40% (solo la Romania è indietro rispetto a noi); il 25% degli iscritti abbandona senza raggiungere la laurea; nei prossimi vent’anni in Italia è previsto un calo di 400mila iscritti; e l’impoverimento culturale dei corsi a distanza rischia di creare un forte indebolimento delle future classe dirigenti. Ma nulla si dice nel pezzo sulla tendenza a insegnare in inglese, che come è emerso nel caso di Rimini rappresenta un ostacolo per gli studenti e un disincentivo a frequentare i corsi erogati. Insegnare in italiano non aiuterebbe? Gli autori del pezzo si sono guardati bene dal tirare fuori simili questioni, ma forse dopo la presa di posizione della Crusca qualcuno farà 2+2.

Nell’articolo a fianco, “Intelligenza artificiale e sviluppo sostenibile: le scelte degli atenei”, si pubblicizzava invece una gran quantità di corsi in inglese che stanno per essere inaugurati, senza che la giornalista spendesse una riflessione su cosa significhi e comporti. Nessun accenno alla “sostenibilità” dell’inglese, insomma, solo propaganda ai corsi in quella lingua: all’università di Trieste c’è la magistrale in “Materials and Chemical Engineering for Nano, Bio, and Sustainable Technologies (in inglese), mentre sono in fase di accreditamento ministeriale anche le lauree magistrali in “Engineering for the energy transition” e “European policies for digital, ecological and social transitions”. All’università di Torino il nuovo corso erogato in inglese si chiama invece “Economics of innovation for sustainable development”, mentre all’università di Parma da settembre 2024 partirà il corso di laurea magistrale in “Global Food Law: Sustainability Challenges and Innovation” (biennale, in inglese).

Questa prassi si aggiunge alle scelte anglomani del Politecnico di Milano, della Bocconi e di sempre più atenei, mentre spuntano i primi segnali per cui la stessa tendenza rischia di allargarsi anche alle scuole secondarie, come nel caso del liceo Avogadro di Torino.
Siamo al punto di non ritorno. O l’anglificazione dell’università si ferma adesso o ne saremo travolti, e poi sarà un po’ tardi per porre rimedio. Bisogna fare in modo che la presa di posizione della Crusca non sia destinata a essere uno sprazzo, ma inneschi una discussione politica seria.

L’economista Michele Gazzola – uno dei sottoscrittori più autorevoli delle lettere di protesta di Italofonia.info – ha ben spiegato ciò che sta avvenendo nelle università al convegno “LaLinguaMadre – La lingua che conviene” (svoltosi il 21 febbraio 2024 nella Sala Capitolare del Senato della Repubblica, a Roma).

La lingua madre: la lingua che conviene

Il problema principale riguarda le famigerate classifiche internazionali che assegnano a ogni ateneo dei punteggi dove uno degli indicatori più importanti è proprio la capacità di attirare gli studenti e i docenti stranieri. Per salire rapidamente nelle classifiche, gli atenei erogano perciò i corsi in inglese fregandosene delle competenze linguistiche o delle esigenze degli studenti italiani; impongono questa lingua, anche se gli italofoni calano, tanto con l’entrata degli stranieri complessivamente aumentano gli iscritti. Questo “turismo universitario”, però, favorisce gli studenti di passaggio che arrivano dall’estero, e ottenuta la laurea tornano a casa loro o vanno altrove (anche perché non parlano italiano), con conseguenze devastanti per il territorio, come lamentano gli albergatori di Rimini. Come se non bastasse, anche gli studenti italiani che studiano in inglese sono incentivati a trasferirsi all’estero, e così la “fuga dei cervelli” – secondo i dati di Gazzola – si incrementa dell’11%.
Per noi tutto ciò rappresenta un costo colossale. Le rette universitarie, infatti, non coprono interamente le ingenti spese dell’università, e lo stato deve intervenire in modo pesante per compensarle. Dunque i soldi delle nostre tasse finiscono per formare in lingua inglese gli studenti che poi andranno all’estero, con la conseguenza che altri Paesi si godranno i frutti della loro formazione fatta a nostre spese.

Questi sono i bei risultati di una classe dirigente miope che lavora per la distruzione dell’italiano e della cultura. A parte le questioni economiche, se si analizza l’aspetto qualitativo e didattico, Gazzola ha citato dei dati molto interessanti per capire il disastro di questo modello. La Libera Università di Bolzano, dove si insegna in italiano, tedesco e inglese, ha condotto delle ricerche da cui emerge che uno studente che studia in una lingua diversa da quella madre ottiene in media un voto inferiore dell’8% rispetto a chi studia nella propria lingua. Dunque apprende meno e peggio.

Ma simili dati arrivano da tutto il mondo. Sul sito Campagna per salvare l’italiano sono stati riportati quelli provenienti dalla Spagna.

Altre statistiche citate da Gazzola che arrivano dalla Svezia mostrano come gli studenti che studiano in islandese, nei questionari danno risposte corrette nel 73% dei casi, ma che questa percentuale precipita drasticamente nel caso di quelli che studiano in inglese.

Mentre in Italia si dà per scontato che l’inglese debba essere la lingua su cui puntare per la formazione – in una voluta confusione tra ciò che è internazionale e ciò che anglofono – basta vedere cosa sta avvenendo nei Paesi scandinavi per rendersi conto di come stiano davvero le cose. Lì hanno sperimentato l’insegnamento in inglese da tempo, ma stanno facendo retromarcia, perché si sono accorti che l’inglese si trasforma in un processo sottrattivo, non aggiuntivo: insegnare in inglese porta alla regressione delle lingue e della terminologia locali, all’impoverimento dell’istruzione, e alla semplificazione degli argomenti. Lo stesso problema denunciato in Olanda alla Bbc dalla professoressa di linguistica all’Università di Amsterdam Annette de Groot:

“Se usi l’inglese nell’istruzione superiore, l’olandese chiaramente peggiorerà. Si tratta di usarlo o perderlo. L’olandese si deteriorerà e la vitalità della lingua scomparirà. Si chiama bilinguismo squilibrato. Aggiungi un po’ di inglese e perdi un po’ di olandese”.

Se questo vale per i Paesi dove l’inglese è inteso dal 90% della popolazione, in Italia, dove è conosciuto da una minoranza degli italiani, l’impatto è ancora più devastante. E scelte di questo tipo creano barriere sociali, escludono e discriminano chi è italofono, imponendo a tutti la dittatura dell’inglese.

Vedremo se l’intervento della Crusca otterrà una risposta, dai destinatari ma anche dall’intellighenzia del Paese. Gli atenei seguono il proprio profitto, non gli interessi collettivi, né quelli etici di garantire il diritto di studio in italiano. Passano sopra persino a una sentenza della Corte costituzionale e dopo averla aggirata con l’introduzione di qualche sporadico corso in italiano (di solito di importanza marginale, ma che fa numero) sembra che adesso riescano addirittura a calpestarla impunemente. La questione è allora politica.

L’unica speranza è che il Ministero dell’Università e Ricerca intervenga, invece che essere complice della morte dell’italiano. E che si facciano sentire altre le altre voci autorevoli, oltre a quelle della Crusca.

La partita per estromettere l’italiano dall’università e la protesta che parte da Rimini

Tra pochi giorni sarà formalizzata la decisione dell’università di Bologna che ha deciso di sopprimere il corso di Economia del Turismo in italiano che si svolge a Rimini. Dal prossimo anno diventerà “Economics of Tourism and Cities” e si terrà solo in lingua inglese.

Qual è la novità? Il corso in inglese era già stato introdotto e già esisteva: la novità è che viene abolito quello in italiano per insegnare solo in inglese.

Questa decisione ha suscitato le proteste sia dei cittadini, che vogliono studiare nella propria lingua madre visto che è un loro diritto e che pagano le tasse, sia dalle associazioni degli albergatori che spiegano come quell’indirizzo di studi avesse da sempre un fortissimo legame con il territorio. In pratica gli studenti che uscivano da quel corso trovavano subito lavoro nelle realtà alberghiere locali. E l’offerta formativa di quella facoltà richiamava a Rimini moltissimi studenti giovani provenienti da ogni regione d’Italia. La sua cancellazione per passare all’inglese punta soprattutto agli studenti stranieri, che però una volta formati non lavoreranno a Rimini ma torneranno nei propri Paesi, anche perché se non parlano in italiano cosa li può trattenere?

Visto che nessuno o quasi dà voce al malcontento, l’associazione/portale Italofonia ha mobilitato tutti gli Attivisti dell’italiano predisponendo un modulo per inviare una protesta digitale indirizzata all’Università e in copia al Ministero dell’Università e Ricerca, all’accademia della Crusca, e ai giornali locali.

In pochi giorni sono partite centinaia e centinaia di proteste, tanto che il Resto del Carlino ha titolato: “Pioggia di mail all’Università: Salvate il corso in italiano”.

Intanto, la pioggia si fa sempre più fitta, e l’ateneo – spiazzato – ha dovuto rispondere attraverso una dichiarazione che lo stesso giornale ha riassunto in nuovo pezzo: “Corso di laurea in inglese: Una scelta condivisa“.

La risposta non ascolta né tiene conto dei pareri contrari e dei cittadini, annuncia di continuare nella strada intrapresa, e rivolta la frittata sostenendo che si tratterebbe di una “scelta condivisa” (da chi? dai vertici della scuola-azienda che non racconta di come l’associazione Promozione Alberghiera si sia invece espressa in senso contrario, secondo le testimonianze raccolte) appellandosi alle solite tiritere:

Le scelte che riguardano i progetti didattici sono il risultato di un percorso ben definito, lungo e con diversi passaggi. Un corso di laurea ha una gestazione pluriennale. Si tratta di scelte meditate, non certo di decisioni prese dall’oggi al domani. L’inglese è una lingua che apre al mondo. Per il territorio è un’opportunità (…) Dopo un’attenta e ponderata valutazione, abbiamo optato per l’inglese come lingua ufficiale del corso, scelta in linea con l’elevato livello di internazionalizzazione che caratterizza tradizionalmente il campus di Rimini.”

Queste scelte “meditate” seguono gli interessi dell’ateneo, che non coincidono con quello dei cittadini e degli italiani. Attraverso la manipolazione delle parole, la cancellazione dell’italiano e le difficoltà degli studenti si trasformano in un’imprecisata “opportunità per il territorio”. Il concetto di “internalizzazione” cela invece l’insegnamento in inglese e solo in inglese – non nelle lingue straniere e all’insegna del plurilinguismo – e forse si potrebbe meglio parlare di colonizzazione linguistica e di dittatura dell’inglese, visto che questa strana “internalizzazione” a senso unico implica l’anglificazione della formazione dei Paesi non anglofoni. Come se tutti i turisti tedeschi, spagnoli, francesi e gli altri che giungono in Italia si esprimessero normalmente in inglese (altra bufala che non risponde alla realtà).

Dietro questa visione c’è in gioco il diritto di studio nella nostra lingua madre, una partita vitale per l’italiano.

Italofonia ha intervistato un’albergatrice nonché mamma di uno studente che ha spiegato disperata:

Mio figlio e gli altri ragazzini della sua classe non possono più scegliere. Vede, noi siamo a Rimini, qui c’è il cuore del turismo, noi viviamo di turismo, e questa facoltà era molto ambita dai ragazzi di zona.  Ed era già in due lingue, ma separate: un percorso di Economia del Turismo, in italiano, pensato per le esigenze del territorio, e Turismo Internazionale, in inglese. Ora questa scelta è stata tolta. E questo li metterà in difficoltà.

Passando dal punto di vista dei cittadini a quello di un esperto come Michele Gazzola [1], economista dell’Università dell’Ulster che ci ha risposto appoggiando il nostro appello, le motivazioni di queste scelte che portano all’anglificazione della formazione universitaria nascono da un preciso interesse economico.

La parola chiave per comprendere ciò che è in atto da tempo e che nei prossimi vent’anni potrebbe esplodere in modo ancora più profondo è “razionalizzazione”, ci ha scritto Gazzola, che ha così sintetizzato la questione:

Le università hanno prima aperto corsi paralleli in italiano e in inglese, e adesso stanno chiudendo quelli in italiano perché costa troppo averne due uguali, e perché tanto sanno che con un corso in inglese possono coprire sia il mercato nazionale (sempre più piccolo a causa della denatalità) sia quello internazionale. Tanto lo studente italofono non ha scampo, può studiare in italiano solo in Italia (e in pochissimi altri posti all’estero), quindi se lo si priva del corso in italiano non andrà via.

L’ateneo di Bologna, insomma, pensa solo ai propri interessi e a reclutare gli studenti stranieri per fare numero e batter cassa – è il bel modello delle nuove scuole-aziende che hanno come “mission” il profitto — ed è poco interessato al diritto allo studio in italiano. Dietro le motivazioni ufficiali c’è proprio il fatto che il numero degli iscritti non è poi così interessante per l’Università che si vuole allargare a scapito della qualità della didattica e delle esigenze reali degli studenti del nostro Paese.

Il progetto di cancellazione dell’italiano dalla scuola alta

Tutto è iniziato al Politecnico di Torino che nell’anno accademico 2007-2008 ha avviato i primi corsi in inglese rendendoli gratuiti, al contrario di quelli in italiano, per fare in modo che partissero con un buon numero di iscritti. Ma così facendo discriminava il pubblico pagante che voleva studiare in italiano.

Il secondo episodio, ancora più grave perché ha costituito il precedente che ha fatto saltare il sistema, è avvenuto nel 2012, quando il Politecnico di Milano ha deciso di estromettere l’italiano dalla formazione di ingegneri e architetti che avrebbero potuto studiare solo in inglese. Maria Agostina Cabiddu [2], docente di Istituzioni di diritto pubblico, ha raccolto le proteste di un agguerrito gruppo di insegnanti che, dopo un appello al presidente della Repubblica Mattarella, si sono rivolti al Tar della Lombardia che ha dato loro ragione.

Ma l’ateneo e il Miur – cioè il Ministero dell’istruzione italiano che pare lavorare in favore dell’inglese – non hanno accettato il verdetto e si sono opposti. Dopo lunghi e complicati corsi e ricorsi in cui è intervenuta anche la Corte Costituzionale, è finita con una sentenza (a mio avviso “cerchiobottista”) che da una parte sanciva la “primazia” della lingua italiana nell’università, ma ammetteva i corsi in inglese con una logica di buon senso e proporzionalità che però non era definita, ma lasciata alla discrezione delle parti. E nell’atto finale della vicenda è andata a finire che il Politecnico se ne è infischiato della “primazia” sancita solo sulla carta, e ha continuato a erogare corsi quasi esclusivamente in inglese con una concezione della proporzionalità diciamo così “discutibile”. In sostanza lo spirito della legge viene aggirato con il semplice inserimento di qualche sporadico corso in italiano, magari delle materie più marginali.

Tutto ciò non era affatto destinato a rappresentare un caso isolato, fa parte di un preciso progetto – imposto dall’alto in modo surrettizio e senza interpellare gli italiani – che negli anni successivi si è diffuso in modo sempre più preoccupante. Gli altri atenei-aziende aspettavano solo la via spianata per seguire la stessa strategia per loro più remunerativa. E infatti, Maria Agostina Cabiddu, un’altra importantissima voce che ha raccolto il nostro appello, ha commentato:

Ci eravamo mossi a suo tempo proprio perché avevamo capito che si trattava di un progetto pilota.

Quello che è avvenuto negli anni successivi e quello che sta avvenendo in questi giorni è l’allargamento di questo modello, che dopo tanti altri casi è da poco stato perseguito anche dalla Bocconi di Milano, ma soprattutto rischia di estendersi anche alle scuole secondarie, come ho già denunciato a proposito del liceo Avogadro di Torino.

La novità delle proteste di Rimini è che a mettere in discussione questo progetto “italianicida” e “linguicista” [3] non ci sono solo associazioni come Italofonia e comunità virtuali come quella degli Attivisti dell’italiano, ma anche gli stessi imprenditori, le associazioni degli albergatori, e i cittadini che lottano – mi sembra impossibile doverlo raccontare – per il diritto alla studio nella propria lingua madre!

Tutto ciò è inaccettabile. Ed è inaccettabile che la cancellazione dell’italiano dalle scuole avvenga nel silenzio mediatico – a parte un giornale locale come il Resto del Carlino – e nel vuoto di prese di posizioni di intellettuali e politici.

La speranza è che le nostre proteste possano almeno riaprire un dibattito. La decisione dell’Università di Bologna sembra ormai presa, anche se formalmente sarà ufficializzata entro il 29 febbraio. Ma è importante far arrivare più voci possibili di dissenso per cercare di fare in modo che altri atenei, prima di scegliere di andare in questa direzione, debbano tenere conto anche delle resistenze dei cittadini oltre ai numerini del proprio “businness plan”.

Chi vuole aiutare i riminesi, gli albergatori, Italofonia e soprattutto il diritto allo studio in italiano e la lingua italiana si faccia sentire, e si unisca al nostro appello.

In meno di 30 secondi puoi aderire alla protesta sottoscrivendo e inviando un messaggio precompilato, ma è possibile personalizzarlo a piacere, attraverso il modulo a fine di questo articolo.

Grazie.

Antonio Zoppetti

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Note
[1] Per approfondire la questione: Michele Gazzola, “La ‘anglificazione’ dell’università in Europa è evitabile?Analisi e proposte per una università plurilingue” (2023).
[2] Maria Agostina Cabiddu ha curato: L’italiano alla prova dell’internalizzazione (goWare ed Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA, 2017).
[3] Il linguicismo è concetto introdotto dalla finlandese Tove Skutnabb-Kangas: come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo è la discriminazione in base alla lingua madre, che porta a giudizi sulla competenza o non competenza nelle lingue ufficiali o internazionali.

L’anglicizzazione della nostra classe dirigente ha a che fare con l’ignoranza

di Antonio Zoppetti

La questione degli anglicismi e di una legge sull’italiano ha avuto un grande spazio sui giornali e nei dibattiti televisivi anche la scorsa settimana. Il livello delle discussioni a cui abbiamo assistito è però davvero avvilente, perché a prevalere sono i luoghi comuni, la disinformazione e soprattutto l’incapacità di uscire dalle prese di posizione ideologizzate che sono rimaste ferme a un secolo fa e interpretano tutto come una riedizione delle politiche del fascismo e della guerra ai barbarismi.

La proposta di legge di Fabio Rampelli è stata attaccata e spesso mistificata attraverso pregiudizi del passato, invece che essere analizzata o criticata con gli occhi del presente. Ma la nostra classe dirigente sembra ragionare ancora con gli schemi del purismo, incapace di cogliere la realtà e di andare avanti, visto che rispetto agli Venti del secolo scorso il mondo è cambiato e la globalizzazione, l’avvento di Internet, il crollo del muro di Berlino, la fine della Guerra fredda… hanno posto la questione della lingua su un terreno completamente differente rispetto al Novecento.

Gli interventi di ospiti e giornalisti importanti in trasmissioni televisive di primo piano mostrano chiaramente l’impreparazione e l’ignoranza dell’intellighenzia nostrana sul tema della lingua. Questa bassissima competenza è l’altra faccia della medaglia dell’anglicizzazione, e si può combattere solo con una battaglia culturale di svecchiamento dei pregiudizi.

Pregiudizio numero 1: la negazione e la banalizzazione

Alla nostra classe dirigente non è chiaro che il problema dell’interferenza dell’inglese non è una questione di principio né di battaglie per l’autarchia e il sovranismo linguistico, è un problema di ecologia linguistica. Il problema non sono i “forestierismi” da bandire per motivi di principio, il problema sono gli anglicismi – e solo quelli – perché il loro numero sproporzionato è tale che stanno cambiando i connotati della nostra lingua trasformandola in itanglese. Il nostro ecosistema linguistico è schiacciato da questo eccesso, e la necessità di leggi per tutelare il nostro patrimonio linguistico è una risposta a una minaccia reale: lo “tsunami anglicus” ci travolge perché l’inglese planetario entra in conflitto con le lingue locali. Ma i nostri intellettuali non lo sanno, e dunque negano tutto ciò. Davanti alla questione dell’abuso dell’inglese sorridono, fanno spallucce e sfoderano i soliti stereotipi per cui tutto ciò sarebbe un falso problema. Ad Accordi e disaccordi di venerdì scorso (su La7) l’opinionista Andrea Scanzi ha raggiunto l’apoteosi di queste pochezze, e con il suo solito tono saccente e perentorio ho sciolinato i peggiori stereotipi banalizzando la questione e riducendo tutto al fatto che qualcuno vorrebbe impedirci di dire “brioche” o “rock”, mostrando di non avere la più pallida idea della questione. Tra l’altro “brioche” è uno pseudo- francesismo nel significato che gli attribuiamo noi di cornetto, ma il punto non è il forestierismo in sé, bensì il peso dell’interferenza dell’inglese nella sua totalità e complessità, che sta portando al collasso del dominio in molti settori: l’italiano non è più in grado di esprimere l’informatica, il lavoro, la scienza, la tecnologia…. senza la stampella dell’inglese. A Piazza Pulita di Corrado Formigli le cose non erano tanto diverse, e mentre De Benedetti liquidava la faccenda degli anglicismi come una questione inesistente e di nessuna rilevanza, invitando a concentrarsi sui problemi seri del nostro Paese, il conduttore mostrava una grafica in cui faceva passare una serie di forestierismi, ormai comuni e naturali, inglesi, francesi, spagnoli o tedeschi, senza accorgersi che il numero degli anglicismi indicati superava la somma di tutti gli altri forestierismi recuperati con un certo sforzo, nel caso di germanismi e ispanismi.

Pregiudizio numero 2: i peggiori sovranisti sono proprio i giornalisti

In tutto il mondo si riflette e si interviene sull’invadenza dell’inglese, nei Paesi ispanici esistono numerose istituzioni pubbliche e private che traducono anglo-tecnicismi e coniano neologismi che invece noi importiamo e accumuliamo in inglese senza nemmeno porci il problema. E lo stesso avviene in Francia che ha varato anche delle leggi severe per la tutela e l’integrità del francese; in Islanda esiste la figura ufficiale del neologista che crea alternative autoctone alla terminologia inglese; in Svizzera sono state emanate linee guida per evitare le parole inglesi nella pubblica amministrazione in nome della trasparenza, e la lingua italiana è ben più tutelata e promossa che da da noi. Ma il giornalista medio sembra ignorare tutto ciò, e davanti al problema dell’anglicizzazione non si aggancia al dibattito internazionale, ma subito si blocca come un mulo e non sa far altro che collegare la questione alla guerra ai barbarismi del ventennio. Ma ignorare il dibattito internazionale di oggi e guardare solo al nostro passato interno significa guardarsi l’ombelico e indossare i paraocchi svincolandosi dalle più attuali questioni planetarie, è un isolarsi dal mondo che si può leggere come il peggiore sovranismo culturale che si possa immaginare. E per far finta di uscire da questo provinciale modo di porre la questione si ricorre a un altro luogo comune da sfatare: questi signori sono convinti che parole come mouse o computer siano moderni “internazionalismi”, non sanno che non è così e più in generale confondono “internazionalismo” con ciò che avviene nell’anglosfera, che è il loro unico parametro di riferimento, perché sono colonizzati nella mente e non hanno altri modelli se non quelli dell’angloamericano.

Pregiudizio numero 3: la mistificazione e la ridicolizzazione dell’avversario

In questo quadro, la notizia della legge di Rampelli è stata riassunta e presentata enfatizzando solo la questione delle multe da 5.000 a 100.000 euro che ben si presta alle analogie con le leggi fasciste iniziate con una tassa sulle insegne commerciali che contenevano parole straniere. L’iniziativa non era affatto una novità del fascismo, era già stata proposta ben prima, per rimpinguare le casse dello Stato, anche se il fascismo l’ha rilanciata con un intento patriottico più che finanziario.

L’articolo delle sanzioni, in effetti, avrebbe potuto essere scritto in modo diverso e meno vago, perché così come impostato sembra quasi ammiccare provocatoriamente al passato, e istigare i facili accostamenti. Quanto alle altre “ingenuità” o punti deboli e critici presenti nel testo di legge, nessuno li ha nemmeno visti e forse recepiti.

Rampelli è dunque intervenuto un po’ ovunque per spiegare che le multe riguarderebbero le amministrazioni e non i privati cittadini, e che il suo intento era quello di riprendere le leggi francesi dove nei contratti e nella documentazione di lavoro è obbligatorio usare il francese e le multinazionali – come la Danone o la GEMS – che hanno violato le regole sono state pesantemente multate. Ancora una volta, un “sovranista” come Rampelli si è rivelato più “internazionale” dei suoi avversari che non sono consapevoli di ciò che avviene all’estero perché per loro l’estero è solo l’anglosfera, e non sanno che la legge Toubon è ben più radicale di quella “rampelliana”.

Una campagna di sensibilizzazione per l’italiano

E allora, per fare chiarezza e sgomberare i pregiudizi è necessario fare informazione e creare una nuova cultura. Per questo sto cercando di far circolare il “Rapporto sull’anglicizzazione” con i dati e i numeri tratti dallo spoglio dei dizionari, che purtroppo i giornalisti e gli intellettuali non conoscono. Per questo il rapporto è stato inviato in Parlamento – insieme alla nostra proposta di legge per l’italiano e alle 2.200 firme di chi la sostiene – sia ai rappresentanti del Governo sia alle forze di opposizione. La stessa istanza che abbiamo rivolto un paio di anni fa al presidente della Repubblica Sergio Mattarella con una petizione firmata da oltre 4.000 cittadini.

Purtroppo nessuna risposta ci è pervenuta.

Tuttavia, ieri sono riuscito a perorare molto brevemente davanti a Rampelli quello che a mio avviso è il punto chiave: la necessità di agire con strumenti culturali per ricostruire un tessuto sociale che spezzi il nostro complesso di inferiorità verso l’inglese e per fare in modo che la nostra lingua, così amata nel mondo, torni a essere qualcosa di cui andare fieri, invece che vergognarcene e buttarla via davanti agli anglicismi.

La risposta di Rampelli

Ieri sono intervenuto su Radio Radio nella trasmissione Punto e accapo condotta da Francesco Borgonovo e ho cercato di spiegare come stanno le cose e di divulgare il vero problema dell’anglicizzazione che è un fenomeno da pesare e misurare, non da liquidare come una questione di purismo o di principio. Nella seconda parte della trasmissione Borgonovo ha intervistato anche Rampelli che ha ribadito che le multe previste dalla sua proposta di legge non riguardano i cittadini che proferiscono forestierismi, ma le istituzioni che dovrebbero rivolgesi ai cittadini in italiano. Ha anche osservato che il tema della lingua, teoricamente, dovrebbe appartenere alla sinistra, non solo alla destra, anche se a sinistra sembra che nessuno lo capisca. E ha fatto presente che, davanti alla sua proposta, mentre la gogna mediatica italiana ha rispolverato il fascismo, nessuno in Francia ha mai tacciato di fascismo Macron, Mitterand né le commissioni istituzionali per l’arricchimento del francese davanti agli anglicismi.

Sono riuscito a intervenire per precisare ciò che, a mio avviso, manca nella proposta di legge di Rampelli, e cioè una campagna di sensibilizzazione a favore dell’italiano. Perché le lingue si orientano con altri mezzi rispetto alle multe (che ben vengano se sanzionano le multinazionali d’oltreoceano o le amministrazioni che introducono anglicismi demenziali al posto dell’italiano). Per stigmatizzare gli anglicismi bisogna perciò fare cultura, emanare linee guide e raccomandazioni, perché la battaglia contro l’anglicizzazione va condotta sul terreno della “connotazione”, per fare in modo che le parole inglesi non siano vissute come preferibili. L’abuso dell’inglese si può arginare solo con le stesse modalità con cui si diffondono le parole considerate “politicamente corrette” e non discriminatorie, e nello stesso modo con cui si sta operando nel caso di parole come sindaca o ministra e per le altre femminilizzazioni delle cariche.

Borgonovo è un giornalista ben informato, da sempre sensibile al tema della lingua, ha dunque colto benissimo il nodo della questione, e l’ha girata a Rampelli chiedendogli in modo molto diretto: “Ha sentito? Che ne pensa? Farete una campagna?”
La risposta è stata: “Sì, è perfettamente in linea con i nostri scopi politici.”

Vedremo come andranno le cose e che accadrà, ammesso che la nuova proposta di legge sia finalmente perlomeno discussa, al contrario delle precedenti.

Intanto continuo, come posso, nella mia opera di divulgazione, informazione e convincimento.

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PS
Sabato sarò a Crema (Biblioteca comunale Gallini, ore 10) e divulgherò i numeri e i dati dell’anglicizzazione dell’italiano in un incontro promosso dagli esperantisti per ricordare Daniele Marignoni, autore della prima grammatica di esperanto italiana.

L’esperanto non è una lingua “etnica”, non entra in conflitto con le lingue locali e rappresenterebbe la soluzione più etica, pacifica, razionale ed economica per la comunicazione internazionale, ma forse proprio per questo è osteggiato da chi ha tutto l’interesse a privilegiare l’inglese e a difendere il potere del globalese, di cui gli anglicismi sono solo un “effetto collaterale”.

Interverrà anche il professor Michele Gazzola, che parlerà dell’approccio al multilinguismo nella politica di comunicazione dell’Unione europea, visto che l’inglese non è la lingua ufficiale dell’Ue, e dovremmo ricordarcene più spesso.

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Aggiornamento del 17/4/023: per chi è interessato è disponibile la registrazione dell’evento:

Se la politica linguistica è solo di “destra”…

Di Antonio Zoppetti

Il 31 marzo è stata assegnata alla Camera la proposta di legge sull’italiano presentata dall’onorevole Rampelli il 23 dicembre 2022, e la cosa sta suscitando un putiferio mediatico. Eppure la “notizia” non sta nella legge, il cui testo era noto già da mesi, ma nella sua assegnazione, cioè nella sua ufficializzazione che potrebbe portare a una discussione in Parlamento, se non farà la fine di tutte le altre proposte cadute nel nulla.

Questo teatrino del giornalismo e della politica è però avvilente. Appare un guazzabuglio di stereotipi ideologizzati dove la mia impressione è che a nessuno importi davvero dell’italiano. Né ai giornalisti né, forse, ai legislatori che hanno formulato una proposta di legge con una modalità che pare volutamente pensata per scatenare le polemiche, più che per intervenire in modo serio.

Le multe non sono affatto una novità

I giornalisti hanno abboccato volentieri alla provocazione, come era prevedibile, e si scagliano stupiti contro la questione delle sanzioni previste dai 5.000 ai 100.000 euro per chi violerebbe la legge. Ma di che cosa si stupiscono questi signori? La proposta di queste sanzioni (qui la legge 734 presentata a dicembre 2022 ) non è affatto una novità, ripete parola per parola ciò che Rampelli aveva già proposto nel 2018 (qui il testo della legge 678), e la nuova proposta di legge ricalca con qualche ampliamento, le solite proposte avanzate anche in passato, basta confrontare i testi di legge per constatare che non c’è niente di nuovo sotto il sole.

Nel 2018 avevo scritto un pezzo polemico e sarcastico rivolto a Giorgia Meloni, che era tra i firmatari della scorsa proposta di legge di Rampelli, perché in quell’atto presentato in Parlamento c’erano degli evidenti copia e incolla tratti da quanto scritto in questo sito.

Per la prima volta mi ero reso conto che la battaglia che da anni conduco da queste pagine era arrivata all’attenzione della politica, e da allora ho provato in tutti i modi a rivolgermi direttamente ai politici per perorare la mia causa. In quel pezzo mi sono sgolato a gridare che la tutela della lingua italiana appartiene a tutti, non è né di destra né di sinistra, e che era auspicabile cercare di superare le posizioni ideologizzate, lasciare alle spalle il modello della politica linguistica del fascismo, e guardare alle politiche attuali di Francia, Spagna, Svizzera e le altre democrazie. E avevo soprattutto provato ad argomentare che la tutela, promozione e valorizzazione dell’italiano non passa attraverso la repressione e le multe, ma attraverso una campagna di sensibilizzazione e di educazione all’italiano, per spezzare l’assurda e servile mentalità dilagante che fa dell’inglese una lingua superiore e degli anglicismi qualcosa di più evocativo degli equivalenti italiani. Ma a destra non sembra che lo abbiano compreso.

Quale alternativa alla politica linguistica di Rampelli?

Per questo, nel 2020, ho lanciato una petizione rivolta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella con la richiesta di “una campagna mediatica per difendere e favorire l’italiano”. La petizione ha raccolto più di 4.000 firme, ma nessuna risposta è mai pervenuta.
L’anno successivo, visto che non demordo, insieme ad altri cittadini ho perciò presentato anche una petizione di legge di iniziativa popolare più articolata (assegnata alla Camera e al Senato), e di nuovo le richieste erano incentrate sulla necessità di una campagna mediatica e nelle scuole, ma anche sull’emanazione di linee guida e raccomandazioni per evitare l’abuso dell’inglese nel linguaggio istituzionale. Questa proposta è rimasta isolata, non è stata ripresa dai giornali italiani (anche se è stata riportata all’estero, in Francia, in Germania e in Svizzera), non è stata appoggiata dalla Crusca, e non è stata presa in considerazione dalla politica, nonostante sia stata sottoscritta da oltre 2.200 cittadini che l’hanno sostenuta con le loro firme.
Ho passato più di un anno a scrivere ai parlamentari, a volte sfruttando contatti che sapevo avrebbero portato a destinazione le mie lettere, ma tutti si sono voltati dall’altra parte, in particolare i responsabili della cultura di Camera e Senato del Pd della scorsa legislatura, ai quali ho rammentato invano che non potevano disinteressarsi della faccenda e lasciare la difesa della lingua italiana solo alla destra.

Quello che si vede oggi è il risultato di questo disinteresse.

Di che cosa ci si scandalizza, dunque? Ciò che sta avvenendo in questi giorni è la riedizione di ciò che si è già visto nel 2018, e a ritroso, nelle prime proposte di legge legate all’istituzione di un Consiglio Superiore della lingua italiana che risalgono al 2001. Ogni volta il dibattito si trasforma in una sterile polemica che riduce tutto a prese di posizioni nostalgiche ferme al fascismo e all’antifascismo, riviste alla luce dei concetti di sovranismo e anglomania spacciata per internazionalismo. E ogni volta, infatti, non succede un bel niente.

Le proposte del 2023

La “novità” è che nel frattempo è stata presentata la proposta di inserire l’italiano in Costituzione da parte del senatore di Fratelli d’Italia Roberto Menia (il disegno di legge n. 337 del novembre 2022). Ma ancora una volta si tratta di una non-novità, visto che questo tormentone era stato avanzato almeno due volte dalla Crusca, in passato, che è stato riproposto più volte da politici di Fratelli d’Italia, Forza Italia e, in tempi recenti, da altri, non solo da me, per esempio da un’iniziativa del professor Giuseppe Limone.

Come ho ribadito più volte, e come hanno osservato in molti a partire dal presidente della Crusca Claudio Marazzini, inserire nella Costituzione che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica non basta, e avrebbe solo un valore simbolico senza una politica linguistica da affiancare che preveda un’attuazione di cose concrete.

La nuova proposta di Rampelli va letta in questa chiave, ma appare deludente e sterile perché ripropone le solite vecchie tiritere rimaneggiate appena appena e in modo maldestro. La volontà di intervenire su questioni cruciali c’è, ma le modalità di intervento non convincono e sono inadeguate e irrealizzabili. Il richiamo a evitare gli anglicismi nei contratti di lavoro (copiato dall’approccio francese) e anche il sancire l’italiano come lingua della formazione sono condivisibili, in linea teorica, ma non è con i divieti, la repressione e le multe che si possono perseguire questi obiettivi. Manca inoltre una definizione di che cosa sia “l’italiano” e quali siano i criteri di “divieto”. Che fare davanti a parole come “computer” che italiano non è, dal punto di vista morfosintattico, ma è radicato nell’uso al punto da essere diventato insostituibile? E che dire degli altri 4.000 anglicismi crudi contenuti nei dizionari? Sono italiani, visto che i vocabolari li registrano, o sono stranieri? Sotto le parole del ministro c’è la solita ridicola distinzione dei prestiti di lusso e di necessità, una distinzione imbarazzante che non conduce a nulla. Chi dovrebbe decidere quali sono i prestiti di lusso e necessità, visto che tutto non ha alcun fondamento oggettivo e logico?
Una commissione che dovrebbe coinvolgere Crusca, Treccani, Rai e altre istituzioni, secondo quanto scritto nella legge, ma tutto ciò rischia di riportarci agli elenchi dei sostitutivi ai barbarismi pubblicati dalla Reale Accademia Italiani di epoca fascista, invece che ricalcare i modelli della politica linguistica francese basati sull’arricchimento della loro lingua e sugli equivalenti promossi dall’Accademia francese o dalle banche dati terminologiche ufficiali, esattamente come accade anche nei Paesi di lingua spagnola.

Il vuoto a sinistra e delle altre forze politiche

Se non ci fosse ancora il tabù tutto italiano della politica linguistica, se fossimo un Paese normale, assisteremmo a un dibattito e a un confronto tra le politiche di destra, di sinistra o di centro. Ma se le uniche forze politiche che si interessano alla lingua sono quelle di destra, è perfettamente inutile scandalizzarsi, lamentarsi e gridare al fascismo. Qual è l’alternativa? Che cosa propongono la sinistra o il movimento 5 stelle?
Nulla! Dalle altre parti c’è il vuoto. Questo non schierarsi non significa essere neutrali, significa fare gli ignavi, come avrebbe detto Dante, ed essere complici della regressione dell’italiano davanti all’inglese che entra in conflitto con le lingue locali e le minaccia.

La nuova questione della lingua non ha nulla a che vedere con il purismo e l’autarchia linguistica, ha a che fare con una globalizzazione che vuole rendere l’inglese la lingua planetaria. Gli effetti collaterali di questa politica – che viene data per scontata sia a destra sia a sinistra – sul piano internazionale portano alla regressione dell’italiano, al suo abbandono nell’Ue (visto che non è più lingua di lavoro), nella scienza o in alcune università che preferiscono formare in lingua inglese. E sul piano interno questi effetti collaterali portano allo “tsunami anglicus” mondiale che in Italia è particolarmente devastante visto che non abbiamo politiche linguistiche serie ed è la nostra classe dirigente a favorire l’uso degli anglicismi, invece di contrastarli e usare l’italiano.

Se la sinistra e le altre forze politiche non sono interessate, né capaci, di proporre un modello alternativo, le loro opposizioni alle politiche di destra sono inutili, becere e ipocrite.
Il tema della promozione dell’italiano diventa perciò un pretesto per uno scontro politico divisivo, ideologizzato e strumentale dove al centro non c’è affatto l’interesse per la lingua. Mi piacerebbe vedere un dibattito serio in cui si confrontino visioni del mondo e soluzioni diverse. Ma si vedono solo proposte superficiali che non stanno in piedi, da una parte, mentre sul fronte opposto si erge il consueto bla bla bla che critica ma non propone, perché non ha una diversa visione della politica linguistica. Semplicemente non ha intenzione di fare nulla.
Il risultato non può che portare all’ennesimo scontro divisivo che rischia di esaurirsi nell’ennesimo nulla di fatto. La politica degli struzzi che si vede a sinistra è deprecabile e scriteriata almeno quanto quella repressiva che viene presentata a destra con modalità che sembrano volere evocare di proposito le leggi del fascismo, invece di lasciarle alle spalle.

La battaglia contro gli anglicismi deve avvenire sul terreno della connotazione

Certo, se passasse una legge per bandire l’inglese nel linguaggio istituzionale e contrattuale, inevitabilmente anche le sanzioni per chi non la applica avrebbero un loro senso. Il che non significa multare chi dice “computer”, ma per esempio sanzionare le multinazionali, da Amazon a McDonald’s, che introducono le figure lavorative in inglese, e quelle realtà che ormai fanno firmare contratti direttamente in inglese, o che obbligano i propri dipendenti a usare l’inglese. In Francia colossi come la Danone o la GEMS sono infatti stati sanzionati, ma in Italia sarebbe possibile? Prima di tutto si dovrebbero multare le Ferrovie dello Stato, le Poste italiane e – perché no? – lo stesso Stato italiano che ha imposto l’obbligo di presentare in inglese i Progetti di ricerca (Prin) e quelli per la scienza (Fis) estromettendo la lingua italiana. Ma la battaglia contro gli anglicismi e contro l’inglese che minaccia l’italiano e le altre lingue del mondo andrebbe combattuta in tutt’altro modo e sul terreno della connotazione.
La terza via, mentre politici e giornalisti si scannano in vecchie e inutili polemiche che guardano al passato e sembrano incapaci di comprendere il presente e avere una prospettiva seria per il futuro, è quella della nostra proposta di legge. Il purismo è morto e sepolto, così come la guerra ai barbarismi e l’autarchia linguistica. La nuova questione della lingua è un problema di ecologia linguistica, non si può assistere senza fare nulla all’anglicizzazione selvaggia e miope dell’italiano che si trasforma in itanglese schiacciato dagli anglicismi che snaturano i suoni e le regole morfosintattiche dell’italiano storico. La nuova questione della lingua è un problema internazionale che diventa la questione “delle lingue” davanti al progetto politico del globalese che cancella il plurilinguismo e rende le lingue locali i dialetti di un mondo che si vuol far pensare e parlare nel solo inglese.

La tutela dell’italiano non può essere fatta con le multe, le purghe o i manganelli, ma con la ragione e il convincimento. Invece che riproporre schemi che si riallacciano al fascismo, e finiscono per essere controproducenti per chi ha a cuore l’italiano, basta applicare al problema degli anglicismi lo stesso criterio che da anni si sta impiegando in modo efficace per modificare l’uso di parole legate alla femminilizzazione delle cariche o per bandire le espressioni considerate politicamente scorrette.

Se le linee guida e le pressioni sociali sono in grado di incidere sulla lingua dei giornali che parlano ormai di sindaca e ministra, parole che allo stesso tempo vengono introdotte nei dizionari e sono raccomandate nel linguaggio amministrativo… se si predica il linguaggio inclusivo, se parole come “negro” sono state messe al bando… tutto ciò non è avvenuto con le multe, ma con le pressioni sociali. E allora basta pagliacciate, basta con la retorica dei due pesi e delle due misure. Che si metta in ridicolo e si condanni chi si eleva dicendo booster invece di terza dose, delivery invece di servizi a domicilio, smartworking invece di lavoro a distanza, caregiver invece di assistente familiare… ma anche chi si definisce underdog invece di sfavorito e plaude al family day o alla flat tax, invece di parlare del giorno della famiglia e dell’aliquota unica o alla peggio di una tassa piatta.

Chi fa finta di non capirlo, a destra e a sinistra, è in malafede e non vuole salvaguardare l’italiano, ha ben altri interessi ideologizzati e strumentali. Sarebbe ora di gridarlo forte e a tutti.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

2.200 firme per una legge sull’italiano e “Rapporto sull’anglicizzazione”

di Antonio Zoppetti

Come annunciato nell’ultimo articolo, davanti alle dichiarazioni di vari politici del nuovo Governo di voler legiferare sulla lingua italiana, sembra che anche nel nostro Paese, finalmente, ci sia uno spiraglio per porre in primo piano la questione della lingua, dell’anglicizzazione e della necessità di varare una politica linguistica.

Per questi motivi è arrivato il momento di chiudere le sottoscrizioni a favore della nostra petizione di legge per l’italiano e di inoltrarle in Parlamento. Entro questa settimana le firme saranno inviate alle Commissioni Cultura di Camera e Senato, e a una rosa di deputati che si sono dimostrati sensibili alla questione, insieme a un “Rapporto sull’anglicizzazione” basato su numeri e statistiche (lo potete scaricare a questo indirizzo) e a un “Libro bianco” per una politica linguistica disponibile sul sito italofonia.info.

Nel ringraziare, di cuore, i quasi 2.200 firmatari che ci hanno appoggiato, di seguito rendo pubblica la lettera che accompagnerà l’invio di tutta la documentazione.

2.200 firme per una legge sull’italiano e “Rapporto sull’anglicizzazione”

Onorevoli Parlamentari,

spett.li Commissione Cultura di Camera e Senato,

con la presente vi inoltriamo le circa 2.200 firme di cittadini che hanno sottoscritto una petizione di legge (https://attivisti.italofonia.info/proposte/legge-vivalitaliano-2021/) presentata alla Camera e al Senato per la tutela e la promozione della lingua italiana davanti all’abuso dell’inglese (assegnata: al Senato il 24 marzo 2021, n. 795, VII Commissione permanente, Istruzione, beni culturali; alla Camera il 20 aprile 2021, n. 727, VII Commissione cultura).

Abbiamo preso atto con grande interesse che l’attuale Governo si sta mostrando sensibile ai temi della lingua italiana in modo concreto, per la prima volta, e dopo la proposta del Sen. Menia di inserire l’italiano in Costituzione, e le varie dichiarazioni pubbliche rilasciate dal Presidente del Consiglio Meloni e da altri politici di spicco (Rampelli, Lollobrigida, Mollicone…), speriamo che le nostre iniziative possano contribuire alla causa e, soprattutto, al dibattito mediatico innescato dal vostro operato.

La nuova questione della lingua, in un mondo sempre più “globalizzato”, non ha più a che fare con il “purismo”, come in passato, riguarda invece “l’ecologia linguistica” e la tutela degli ecosistemi linguistici: si trasforma nella questione “delle lingue” – declinate al plurale – schiacciate e in alcuni casi messe a rischio dall’espansione dell’inglese globale che entra in conflitto con gli idiomi locali. In gioco non c’è solo lo “tsunami anglicus”, come lo ha definito Tullio De Mauro, e cioè l’interferenza dell’angloamericano che rischia di trasformare l’italiano in itanglese, il francese in franglais, lo spagnolo in spanglish, il tedesco in Denglisch, il greco in greenglish… (ovunque, anche fuori dall’Europa, non c’è Paese che non abbia ormai coniato un termine per designare il fenomeno: dal japish per il giapponese sino al konglish per il coreano). Il problema, a parte le contaminazioni, è quello del plurilinguismo e della tutela delle lingue minori che retrocedono dinnanzi all’inglese globale e in alcuni casi rischiano l’estinzione (in Europa il caso dell’islandese è quello più preoccupante).
Siamo perciò convinti che l’Italia abbia un bisogno urgente di una politica linguistica, che in altri Paesi si è ben delineata, perché l’inglese rischia di soppiantare l’italiano nelle università e diventa per esempio il linguaggio unico della scienza, del lavoro, dei contratti aziendali, delle denominazioni urbane, delle manifestazioni culturali e artistiche, dei prodotti proposti da istituzioni come le Ferrovie dello Stato o le Poste italiane (un esempio per tutti: Alitalia trasformata in ITA Airways).

Per questo motivo ci permettiamo di allegare due documenti.

– Un Rapporto sull’anglicizzazione con dati e statistiche sull’interferenza dell’inglese realizzato da un esperto che sul tema ha pubblicato vari libri e articoli. Riteniamo che contenga elementi utili e incontrovertibili per una misurazione e valutazione di ciò che sta accadendo alla nostra lingua nel nuovo Millennio.

– Un “Libro bianco” che guarda alle politiche linguistiche e ai provvedimenti varati in Francia, Spagna e Svizzera, e illustra i grandi benefici che l’attuazione di analoghe misure potrebbero portare al nostro Paese e a tutti i cittadini, nel promuovere la nostra lingua sul piano interno, di fronte agli anglicismi sempre più numerosi, e soprattutto sul piano internazionale, visto che l’italiano gode all’estero di un’ammirazione e di una nomea che poche altre lingue possono vantare. E costituisce perciò una risorsa non solo culturale, ma anche economica, su cui investire.

Chi siamo

Come fondatori e rappresentanti della comunità degli “attivisti dell’italiano” aggregata attraverso le nostre pagine in Rete, da ormai molti anni siamo in prima linea nella denuncia della regressione della nostra lingua davanti all’inglese, con tante iniziative volte a cambiare l’assurda e deleteria mentalità per cui le parole inglesi appaiono più evocative dei corrispettivi italiani.

In particolare, tra i tanti siti dedicati all’italiano che gestiamo, con grande sforzo abbiamo dato vita al Dizionario AAA (Alternative Agli Anglicismi), disponibile gratuitamente in Rete (https://aaa.italofonia.info/), che raccoglie e classifica circa 3.800 parole inglesi affiancate dai sinonimi italiani utilizzabili e dalle spiegazioni dei significati, visto che l’inglese pone dei consistenti problemi di trasparenza soprattutto nei confronti dei cittadini meno giovani. Si tratta del più ampio lavoro del genere esistente in Italia, ed è stato concepito per colmare un vuoto che in Paesi come Francia e Spagna viene realizzato in modo istituzionale dalle accademie.


Nel 2019 abbiamo lanciato un appello al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, firmato da più di 4.000 cittadini (https://www.change.org/p/sergio-mattarella-basta-anglicismi-nel-linguaggio-istituzionale-viva-l-italiano-litalianoviva), per chiedere un intervento simbolico che sensibilizzasse la politica sull’abuso dell’inglese nel linguaggio istituzionale, ma non abbiamo mai avuto risposta.

Senza risposta sono rimaste anche le tante lettere inviate negli ultimi anni a vari politici: dal Presidente Draghi che in un paio di occasioni pubbliche aveva esternato con ironia l’assurdità del ricorso a certi termini inglesi, ad alcuni politici della scorsa legislatura che hanno però ignorato la nostra petizione di legge. Senza riscontro sono rimaste poi le nostre lettere di protesta collettive rivolte per esempio all’onorevole Franceschini che aveva deciso di denominare in inglese il portale dedicato al patrimonio culturale italiano ITSART, o all’onorevole Di Maio che ha introdotto la figura del “navigator” in modo ufficiale.

Nella speranza che questo nuovo appello sia ritenuto degno di considerazione e che il nostro punto di vista possa contribuire alla maturazione dei provvedimenti che intendete mettere in campo, esprimiamo la nostra più ferma convinzione che la tutela e la promozione della lingua italiana abbia bisogno soprattutto di una campagna mediatica volta a ribaltare l’attuale senso di inferiorità nei confronti dell’inglese.

L’inserimento dell’italiano in Costituzione – che appoggiamo e avevamo incluso nella nostra petizione di legge – ha un alto valore simbolico, ma da solo, a nostro avviso, non basta. La “battaglia” conto l’abuso degli anglicismi passa per la “connotazione”: occorre un cambio di paradigma culturale che spezzi la convinzione per cui l’inglese sia una lingua “superiore” e che gli anglicismi siano preferibili, o più moderni e internazionali, rispetto agli equivalenti italiani.

Questo capovolgimento di prospettiva si può perseguire (con costi irrisori) attraverso i canali già esistenti delle pubblicità progresso previste per sensibilizzare i cittadini sui temi sociali; attraverso campagne nelle scuole; attraverso emanazioni di linee guida, raccomandazioni e direttive per il linguaggio amministrativo e istituzionale, esattamente come è stato già fatto per esempio nel caso della femminilizzazione delle cariche o per il linguaggio non discriminatorio. In Svizzera queste direttive esistono, in nome della trasparenza e del rispetto che si deve ai cittadini italofoni, e anche in Francia e in Spagna le accademie realizzano campagne pubblicitarie in cui promuovono le proprie parole al posto degli equivalenti inglesi, sia con banche dati terminologiche ufficiali per gli addetti ai lavori sia con campagne mediatiche rivolte alla popolazione. Questi modelli hanno ottenuto discreti risultati e crediamo siano utili da studiare e da seguire.

Ringraziandovi per l’attenzione e per l’interesse mostrato per la lingua di Dante, patrimonio storico e culturale di tutti gli italiani di ogni schieramento politico, vi auguriamo buon lavoro e, a nome di tutti i firmatari, vi porgiamo i nostri più cordiali saluti.

Antonio Zoppetti (primo firmatario della petizione di legge)
Giorgio Cantoni (fondatore del portale Italofonia.info)

L’anno che verrà: lingua, politica e anglicizzazione

di Antonio Zoppetti

Sulla questione della lingua italiana e della sua anglicizzazione, alle soglie del 2023 forse il vento sta cambiando.

Le parole di Giorgia Meloni

Durante un discorso alla Farnesina, il 22 dicembre, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha posto in primo piano anche il tema della lingua italiana.

“La lingua è uno straordinario ‘diplomatico’, per la nostra cultura” ha affermato, e ha aggiunto che purtroppo tutti noi, “a partire da chi ha incarichi di responsabilità, a partire dalla sottoscritta, che si considera una grande patriota, alla fine veniamo travolti dall’uso di queste parole straniere.” Meloni ha perciò lanciato un richiamo a utilizzare il più possibile l’italiano – rivolto anche a se stessa e al proprio linguaggio – per “difendere la profondità della nostra cultura, la nostra capacità di guardare il mondo (…) attraverso una lente che ha sfumature molto più colorate di quelle che spesso vediamo al di fuori dei confini nazionali”.

Anche il presidente del Consiglio Mario Draghi, nel 2021, aveva fatto un paio di uscite estemporanee sull’abuso dell’inglese. In marzo, interrompendo una dichiarazione incentrata sugli incentivi per lo smart working e il baysittng, aveva chiosato con: “Chissà perché dobbiamo sempre utilizzare tutte queste parole inglesi.” E in aprile, in Parlamento, aveva strappato un applauso per avere ironizzato sulla parola governance, precisando: “Quella che altri chiamano governance”, visto che si può parlare benissimo di governo.

Le sue parole sono state però uno sprazzo, e non facevano parte di un progetto di intervento. In quell’occasione provai a scrivergli una lettera aperta dalle pagine di Italofonia, che riuscii a recapitare anche al suo portavoce, ma nessuna risposta è mai pervenuta.

Anche la petizione sull’abuso dell’inglese nel linguaggio istituzionale che nel 2020 avevo rivolto con altri illustri firmatari al presidente della Repubblica Sergio Mattarella è caduta nel vuoto ed è rimasta senza risposte, nonostante sia stata sottoscritta da più di 4.000 cittadini italiani.

Oggi, però, per la prima volta sembra che nella politica qualcosa si stia muovendo e che uno spiraglio si sia aperto.

La proposta di inserire la lingua italiana in Costituzione

Il 16 novembre 2022, il senatore di Fratelli d’Italia Roberto Menia ha presentato un disegno di legge (n. 337) per inserire nella Costituzione che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica.

Non si tratta di un’iniziativa nuova, ma di un tormentone che va avanti da decenni e che ogni tanto rispunta. Ogni volta qualcuno lancia la proposta, ma poi tutto si arena e rimane chiuso nei cassetti.
Già un paio di volte, nel 2006 e nel 2014, l’accademia della Crusca aveva suggerito – senza successo – di aggiungere che l’italiano è la lingua ufficiale nell’articolo 12, dove si specificano i colori della nostra bandiera. E in tempi recenti la questione è stata più volte riproposta invano insieme a quella dell’istituzione di un Consiglio Superiore della Lingua Italiana (CSLI) da parlamentari di Forza Italia e di Fratelli d’Italia.

La novità è che è nel 2023, per la prima volta, in Parlamento ci sono i numeri che permetterebbero di passare dalle proposte alla loro realizzazione. E comunque ci sono se non altro i margini per porre la questione sul tavolo in modo serio e per aprire un dibattito e spezzare il tabù tutto italiano della politica linguistica, ma anche il coro degli stucchevoli stereotipi con cui il tema della lingua italiana viene stigmatizzato da chi non ha altri argomenti se non quelli di accostare la questione alla guerra ai barbarismi di epoca fascista.

Questo ultimo pregiudizio è davvero insopportabile, è un bavoso parlare alla “pancia” della gente, invece che alla testa, a cui spesso ricorre una parte della sinistra anglomane che ha smarrito le sue radici popolari e si disinteressa dell’italiano, della trasparenza nella comunicazione e del rispetto per gli italiani.

La tutela e la promozione del nostro patrimonio linguistico – come quello culturale, artistico, naturalistico o gastronomico – non è né di destra né di sinistra, appartiene a tutti e soprattutto conviene a tutti ed è nel nostro interesse!

L’ottusità e la mistificazione di chi fa leva sul sentimento antifascista alimentando l’equazione “tutela della lingua = fascismo” è da spazzare via una volta per tutte. Se il fascismo ha varato una politica linguista rivolta anche contro i forestierismi non significa di certo che sia quella la politica da seguire e da far rivivere. Fossilizzarsi sullo spauracchio del ventennio significa non essere in grado di comprendere l’attuale contesto storico, che non ha nulla a che vedere con le battaglie di principio contro il barbaro dominio che in passato hanno caratterizzato il purismo e il Risorgimento, prima ancora del fascismo. E invece di guardare ai capitoli chiusi del passato, bisognerebbe guardare alle attuali politiche linguistiche delle altre democrazie moderne, a partire dalla Francia, dalla Svizzera, dalla Spagna o dal Portogallo, dove l’anglicizzazione dei rispettivi idiomi non è certo paragonabile alla nostra.

La lingua nelle Costituzioni di Francia, Spagna, Portogallo, Svizzera e Romania

Agli oscurantisti che, nel dibattito che si sta aprendo in Italia, non sanno far altro che evocare gli spettri del fascismo bisognerebbe far presente che nel 1992 anche la Francia ha inserito nell’articolo 2 della Costituzione che il francese è la lingua ufficiale (proprio per arginare l’invadenza dell’inglese come lingua europea), mentre nel 1994 è stata varata la legge Toubon che rende obbligatorio l’uso del francese non solo in ogni atto governativo, ma anche nelle scuole di Stato, nei luoghi di lavoro e nelle contrattazioni commerciali. E questo provvedimento è solo l’ultimo atto di una politica linguistica inaugurata negli anni Sessanta da De Gaulle, continuata con il decreto del primo ministro Jacques Chaba-Delmas, nel 1972, e poi durante il governo Chirac, nel 1975, con una legge firmata Valérie Giscard d’Estaing e successivamente con un progetto di legge del 1984 presentato dai socialisti.

Anche nella Costituzione spagnola è scritto: “Il castigliano è la lingua ufficiale dello Stato. Tutti gli spagnoli hanno il dovere di conoscerla e il diritto di usarla”, e lì l’inserimento è avvenuto soprattutto per garantire il ruolo del castigliano “di fronte alla forte presenza di minoranze” linguistiche, ha ricordato il presidente della Crusca Claudio Marazzini.

Ma va detto che lo spagnolo è una delle lingue che meglio resiste all’anglicizzazione, e l’attività coordinata delle accademie spagnole di una ventina di Paesi dove il castigliano è la lingua ufficiale prevede la coniazione e la promozione di vocaboli e termini autoctoni al posto di quelli inglesi. Esattamente come avviene in Francia, non solo grazie all’attività dell’Académie française, ma anche attraverso le banche dati con le traduzioni terminologiche ufficiali (per es. quella del Quebec) e gli arricchimenti istituzionali del vocabolario nell’amministrazione e nelle professioni (per esempio cameraman cadreur/, cast distribution artistique, container conteneur).

La Costituzione del Portogallo stabilisce che compito fondamentale dello Stato è “assicurare l’insegnamento e la valorizzazione permanente, difendere l’uso e promuovere la diffusione internazionale della lingua portoghese”.
In Svizzera la Costituzione del canton Grigioni, all’articolo 3, precisa che “il tedesco, il romancio e l’italiano sono le lingue cantonali e ufficiali equivalenti dei Grigioni”. E almeno dal 2014 il Consiglio Federale sta promuovendo l’italiano – più debole del francese e del tedesco – con ingenti fondi che prevedono il rafforzamento della presenza della lingua e della cultura italiana nell’insegnamento, nella formazione bilingue e con una serie di manifestazioni culturali anche attraverso concorsi e incontri su tutto il territorio. Mentre sul fronte dell’inglese si sono emanate linee guida e raccomandazioni per evitare l’abuso degli anglicismi. Ma fuori dal cantone l’italiano è una delle lingue federali della Svizzera sancita nella sua Costituzione da quasi duecento anni.
E anche nella Costituzione romena si legge che “in Romania la lingua ufficiale è la lingua romena”.

Se il discorso di Giorgia Meloni e il disegno di legge di Roberto Menia arrivano da una precisa parte politica, il “partito dell’italiano”, della sua valorizzazione, promozione e tutela è trasversale a ogni schieramento ideologizzato ed è ben più ampio. E dovrebbe guardare proprio alle Costituzioni e ai provvedimenti degli altri Paesi invece che al ventennio.

Il “partito dell’italiano”: un tema trasversale a ogni ideologia

Tra le forze in campo non ideologizzate c’è proprio un’istituzione come l’accademia della Crusca, che attraverso i comunicati del Gruppo Incipit, dal 2015 biasima gli anglicismi istituzionali promuovendo gli equivalenti italiani. E in alcune recenti interviste il presidente Marazzini ha appoggiato la proposta di Menia che “dice che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica (come in Francia) e che tutti i cittadini hanno il dovere di conoscerla e il diritto di usarla (come in Spagna)”.
Accanto a questi due modelli Marazzini guarda con simpatica soprattutto a quello del Portogallo, dove il riferimento alla lingua è “inserito nei compiti fondamentali dello Stato, fra i quali rientra, appunto, l’assicurare l’insegnamento e la valorizzazione permanente, difendere l’uso e promuovere la diffusione internazionale della lingua portoghese. Un compito attivo, di promozione. Che compare fra quelli di garantire l’indipendenza nazionale e i diritti di libertà”.

Oltre alla Crusca, il partito dell’italiano e della sua valorizzazione può contare sull’appoggio di numerosi altri pezzi importanti della società civile trasversali a ogni schieramento politico.

Recentemente ho partecipato a una riunione su questo tema sollecitato dal presidente della FEI (Federazione Esperantista Italiana) Luigi Fraccaroli a cui ha contribuito il professore Ordinario di Filosofia della politica e del diritto Giuseppe Limone, anche lui promotore di un’iniziativa per inserire l’italiano in Costituzione già dall’anno scorso. Tra i partecipanti c’era poi il professor Michele Gazzola, che proprio in seguito alla presentazione del disegno di Legge Menia e alle dichiarazioni di Marazzini ha auspicato di cogliere il momento propizio per intervenire aprendo tutti quanti un dibattito sulla lingua italiana per porre la questione in primo piano in Italia e stimolare la discussione sui mezzi di informazione.

E tra le iniziative volte a una mobilitazione della società civile e a innescare riflessioni e dibattiti c’è poi l’attività che ormai da sei anni sto conducendo attraverso i miei libri e le mie pagine in Rete, a partire dal dizionario AAA delle Alternative Agli Anglicismi, grazie alle sinergie con il portale Italofonia.info, la comunità degli Attivisti dell’italiano, e i firmatari delle petizioni a Sergio Mattarella, ma soprattutto quelli della petizione di legge sull’italiano.

La nostra legge sull’italiano: ultimi giorni per sottoscriverla prima dell’invio

Nel 2021 ho presentato una petizione di legge sul problema dell’italiano e della sua anglicizzzione che è stata assegnata sia alla Camera sia al Senato. Ogni tentativo di cercare in Parlamento appoggi perché venisse posta all’ordine del giorno, nella scorsa legislatura, è però fallito, nonostante oltre 2.100 cittadini l’abbiano appoggiata sottoscrivendola e lasciando la propria firma.

Visto che nel frattempo il nuovo Governo si sta mostrando sensibile alla questione e sta proponendo analoghe proposte di legge, è arrivato il momento di chiudere la raccolta firme e di mandarle in Parlamento, nella speranza che le nostre istanze siano prese finalmente in considerazione e contribuiscano al dibattito.

In gioco non c’è solo l’inserimento dell’italiano in Costituzione, che avrebbe un alto valore simbolico, ma anche tutta una serie di altri provvedimenti che si potrebbero e dovrebbero affiancare. Per prima cosa una campagna per la promozione della nostra lingua attraverso i canali istituzionali di sensibilizzazione sociale e le “pubblicità progresso”, perché l’italiano sia rivalutato, invece di essere svilito di fronte agli anglicismi e perché cessi la provinciale e servile aberto-sordità con cui gli anglicismi sono vissuti come più evocativi. Questo obiettivo si può raggiungere anche attraverso l’emanazione di linee guida per la comunicazione amministrativa e istituzionale, come in Svizzera, e come da noi è stato già fatto per la femminilizzazione delle cariche e il linguaggio non sessista. Un’istituzione come la Crusca dovrebbe essere potenziata e posta al centro di questa strategia che più in generale dovrebbe abbracciare anche altri temi strategici: la difesa dell’italiano come lingua di lavoro nell’Ue, la sua valorizzazione all’estero come bene da esportare, la sua difesa come lingua della formazione universitaria.
E soprattutto, se passa il concetto formulato da Menia che “L’italiano è la lingua ufficiale dello Stato. Tutti i cittadini hanno il dovere di conoscerlo e il diritto di usarlo” bisognerà rivedere alcuni provvedimenti istituzionali come l’obbligo di presentare i progetti di ricerca di rilevanza nazionale (Prin) o le domande per il fondo italiano per la scienza (Fis) in lingua inglese invece che nella nostra. Se i cittadini hanno il diritto di usare l’italiano queste vergogne dovranno essere cancellate.

Chi volesse leggere e firmare la petizione può farlo a questo indirizzo ancora per pochi giorni.

Grazie, e buon 2023 a tutti.

Lingua e politica: “Una legge per l’italiano” supera i 2.000 sostenitori

Nel 2020, insieme ad altre 11 persone, ho lanciato una petizione rivolta al presidente della Repubblica Mattarella in cui chiedevamo un intervento simbolico davanti all’abuso dell’inglese nella politica italiana e nel Paese.

Nonostante più di 4.000 firme raccolte non ci mai pervenuta alcuna risposta, e così il 22 marzo 2021 – insieme ad altri 6 firmatari – ho presentato ai due rami del Parlamento una petizione di legge di iniziativa popolare sullo stesso tema strutturata in 11 punti concreti su cui agire. La proposta è stata assegnata al Senato (24 marzo, n. 795, VII Commissione permanente, Istruzione, beni culturali) e alla Camera (20 aprile, n. 727, VII Commissione cultura).

Ancora una volta, però, i tentativi di coinvolgimento di qualche gruppo parlamentare non hanno avuto alcun riscontro. Nel nostro ordinamento, infatti, anche se i cittadini hanno la possibilità di presentare petizioni di legge, nulla obbliga i parlamentari a discuterle e a metterle all’ordine del giorno; perciò, nella speranza di convincere qualche politico a prendere in considerazione le nostre istanze, abbiamo dato vita a una nuova raccolta di firme di altri cittadini che sottoscrivono l’iniziativa.

A oggi ci sono due novità. La prima è che il numero delle firme ha superato il traguardo simbolico di 2.000, e l’altra è che siamo entrati in campagna elettorale e forse la politica diventerà più sensibile nel dare una risposta a 2.000 elettori.

La speranza è che qualcuno cominci a prendere in considerazione e riflettere sull’opportunità di varare una politica linguistica per tutelare e promuovere l’italiano, che è un bene collettivo e contemporaneamente un risorsa su cui fare leva soprattutto all’estero.

Il tabù della politica linguistica

Il tabù tutto italiano di regolamentare la lingua ha delle motivazioni storico-sociali che risalgono al fascismo.
A dire il vero la questione era già sorta all’indomani dell’unità d’Italia che non corrispondeva a un’unità linguistica compiuta, visto che l’italiano si era affermato come lingua letteraria che viveva nelle pagine dei libri, ma di fatto le masse – in larga parte analfabete – parlavano nei loro dialetti. Nel 1868 il ministro Broglio istituì una commissione presieduta da Alessandro Manzoni che aveva lo scopo di risolvere la questione e di “ricercare e di proporre tutti i provvedimenti e i modi coi quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini di popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia”. Ma fu un’esperienza fallimentare, perché non c’era un accordo su come dovesse essere l’italiano, che Manzoni identificava con la lingua viva della classe colta di Firenze, per cui lo scrittore si dimise, e anche se negli anni successivi sarebbe uscito il vocabolario di Emilio Broglio e Giovan Battista Giorgini, l’opera passò inosservata e a imporsi sul mercato furono altri dizionari di maggior successo che nascevano dalle imprese editoriali private.
Quello che invece ebbe maggior successo fu il nuovo programma scolastico per valorizzare la lingua unitaria varato con la legge Coppino del 1877 che introduceva l’obbligo della frequenza scolastica elementare e insegnava l’italiano con criteri prescrittivi uniformi.

Mezzo secolo dopo fu il fascismo a inaugurare una ben precisa politica linguistica, perché il controllo della lingua era strategico per la difesa del nazionalismo e la coesione sociale. La politica linguistica fascista intervenne nuovamente sui programmi scolastici, normò la nascita del sonoro, della radio e poi del cinematografo, diffondendo i canoni uniformi della pronuncia che si formò a Roma, dove dopo l’EIAR, l’ente radiofonico di Stato, sorse Cinecittà e la scuola di dizione e di doppiaggio alla base di quella moderna. Il fascismo si caratterizzò anche per la lotta conto i dialetti, estromessi dalla scuola e visti come un ostacolo all’affermazione della lingua nazionale. Cercò di imporre l’uso del “voi” anziché del “lei”, considerato come un retaggio della dominazione straniera, e si distinse soprattutto nella guerra ai barbarismi, che venivano messi al bando e sostituiti con le alternative italiane del ventennio.

Curiosamente, crollato il regime, fu solo questo ultimo aspetto a diventare un tabù che fu identificato con il fascismo. L’avversione per i dialetti – visti come un segno di ignoranza di chi non sapeva parlare l’italiano – continuò normalmente fino agli Sessanta. Nei film degli anni Cinquanta l’uso del “voi” rimase in auge per un decennio, eppure nessuno, davanti al doppiaggio di pellicole come Vacanze romane (Roman Holiday, 1953) in cui Audrey Hepburn e Gregory Peck si davano del “voi”, si sognò mai di bollare questo uso come “fascista”. Al contrario, qualunque riferimento al tema dei forestierismi ha suscitato fino a qualche decennio fa reazioni ideologizzate di scandalo, soprattutto negli ambienti di sinistra. Eppure l’ostilità nei confronti delle parole straniere non era un’ideologia intrinseca al fascismo, esisteva da secoli nelle prese di posizioni dei puristi, circolava negli scritti patriottici risorgimentali, e persino la tassa sulle insegne in lingua straniera del 1923 che inaugurò la campagna contro il “barbaro dominio” era stata già proposta a fine Ottocento.

Lingua, politica e potere: le lezioni di Gramsci e Pasolini

Antonio Gramsci, dal carcere dove il fascismo lo aveva rinchiuso, tra i tanti suoi scritti aveva dedicato alla lingua italiana delle riflessioni davvero acute e moderne. Fu il primo a interessarsi dell’italiano popolare che solo negli ani Settanta è stato preso in considerazione dagli studiosi, ed era ben consapevole della frattura tra la lingua delle masse e l’italiano che le classi dirigenti volevano imporre. Nel 1935, guardava alla grammatica che “opera spontaneamente in ogni società” e tende a unificarsi in un territorio come fatto culturale solo perché esiste un ceto dirigente che la impiega facendola divenire in questo modo un modello riconosciuto e seguito. Ma ogni “grammatica normativa scritta è quindi sempre una ‘scelta’, un indirizzo culturale, e cioè sempre un atto di politica culturale-nazionale.” Dunque ogni volta che riaffiora la questione della lingua “si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale.”

Gramsci era consapevole della natura politica della lingua e i “focolai di irradiazione” erano per lui la scuola, i giornali, gli scrittori sia d’arte sia popolari, il teatro e il cinematografo sonoro, la radio, le riunioni pubbliche di qualunque natura, anche religiosa, oltre alle conversazioni tra ceti colti e meno colti e ai dialetti. Dopo la sua morte, il fenomeno delle migrazioni interne al Paese avrebbe accentuato il ruolo di queste “conversazioni” che tendevano all’italiano per superare le barriere di incomprensione e mettevano i dialetti ai margini. E il ruolo della televisione avrebbe inciso in modo ancora più determinante rispetto a quello di radio, cinema e teatro.

A comprendere dove stava andando l’italiano del Novecento in modo ancora più attuale, negli anni Sessanta, fu Pier Paolo Pasolini che aveva colto la fine del ruolo dominante degli scrittori, nel modellare la lingua. “I centri creatori, elaboratori e unificatori del linguaggio” non erano più le università, ma le aziende, in un mondo dove al centro della nuova lingua ci sono i prodotti di consumo e tecnologici. Erano ormai gli imprenditori, gli scienziati e i giornalisti (nella loro accezione anche televisiva) coloro che avevano sempre più il potere di decidere della sorte della nostra lingua. Il nuovo italiano era tecnologizzato, invece che umanista e raccoglieva gli influssi del modo di parlare dell’asse industriale Torino-Milano che si sostituivano ai modelli basati sull’asse Firenze-Roma. Si trattava di un italiano pratico, poco letterario e poco estetico, dove la comunicazione contava molto più dell’espressività, e dove nell’omologazione e nell’appiattimento linguistico mancavano la vitalità e la creatività espressive che caratterizzavano i dialetti. Questo italiano che tendeva alla semplificazione sintattica, alla diminuzione dei latinismi e al lessico tecnico più che letterario esprimeva il linguaggio della nuova classe egemone, la “borghesia capitalista” la cui influenza unificatrice assumeva il ruolo delle monarchie aristocratiche nella formazione delle grandi lingue europee. Le riflessioni pasoliniane partivano dall’analisi di un discorso di Aldo Moro, perché anche la politica si era appropriata di questo linguggio.

Dalla diffusione dell’italiano a quella dell’itanglese

E nel nuovo Millennio cosa sta accadendo?

La lingua tecnologica non arriva più dal nord del nostro Paese, ma si è spostata fuori dall’Italia e ci arriva direttamente in inglese, in un passaggio dalla lingua della borghesia padronale alla lingua dei manager e dei tecnocrati che si esprimono attraverso gli anglicismi.
Quello che sta avvenendo è che i nuovi focolai e i nuovi centri di irradiazione della lingua, per dirla con Gramsci e Pasolini, stanno diffondendo l’itanglese, la lingua delle aziende e della terminologia tecnica, che è anche la lingua sempre più usata dalla stampa giornalistica e televisiva, nella formazione, nelle università e nella nuova politica basata sulle regole del marketing. La lingua modello che la nuova classe dirigente sta imponendo è quella del nuovo modello di cultura che importa concetti e parole direttamente dall’angloamericano, mentre l’italiano è la lingua-cultura imitatrice che ripete in modo supino senza tradurre, adattare e rielaborare tutto ciò che è nuovo. In questa anglicizzazione compulsiva non ci limitiamo solo a importare anglicismi crudi senza saperli reinventare, quel che è peggio è che le parole-concetti inglesi si sovrappongono ai nostri e li fanno regredire. Sono i “prestiti sterminatori” che fanno piazza pulita dell’italiano, i killer di assassino, di calcolatore davanti a computer, di dirigente davanti a manager, di guida davanti a leader

Una legge per l’italiano

L’assenza di una politica linguistica per tutelare e promuovere l’italiano si traduce in un anarchismo dove vige la legge del più forte, quella della globalizzazione e dell’espansione delle multinazionali, e il fatto che il linguaggio istituzionale diffonda e difenda l’inglese invece della nostra lingua è qualitativamente grave e quantitativamente pesante. Il problema non sono i singoli anglicismi, ma il fatto che i nuovi centri di irradiazione della lingua che un tempo hanno unificato l’italiano oggi lo stanno distruggendo e ci stanno educando all’itanglese. E i politici sono in prima linea in questo percorso.

Non fare nulla e stare a guardare come fanno i nuovi linguisti descrittivi non significa né essere neutrali né essere liberali. Significa schierarsi dalla parte del più forte ed essere complici dell’itanglese e del globalese che stanno snaturando e depauperando il nostro patrimonio linguistico con cui entrano in conflitto.

Per questo, in vista delle elezioni, stiamo cercando di coinvolgere i politici a riflettere su questi problemi e a comprendere che è più che mai necessario ricominciare a parlare di una politica linguistica in modo serio, lasciandoci alle spalle quella del fascismo e guardando a ciò che avviene in Francia, in Spagna, in Svizzera, in Islanda e in molti altri Paesi dove le istituzioni arginano l’anglicizzazione e deprecano gli anglicismi, invece di favorirli. La politica linguistica italiana, al contrario, è ormai da tempo volta alla tutela dell’inglese, prima che alla nostra lingua, mentre si vogliono anglificare i corsi universitari, si introduce l’inglese come obbligo – e non più come scelta – nella scuola e nei concorsi pubblici, nella presentazione dei progetti di ricerca (Prin) e per i fondi sulla scienza (Fis) che discrimina, insieme all’italiano, anche la conoscenza delle altre lingue che diventano di serie B, in un passaggio dal plurilinguismo, inteso come valore e ricchezza, a un monolinguismo a base inglese che schiaccia ogni altra lingua e cultura e ci appiattisce e uniforma sul modello del globalese.

La nostra proposta di legge chiede di evitare gli anglicismi nel linguaggio istituzionale e nei contratti di lavoro, di avviare campagne mediatiche e nelle scuole contro l’abuso dell’inglese e per la promozione dell’italiano, di emanare linee guida nell’amministrazione esattamente come si è fatto per il linguaggio non sessista, per non discriminare in modo analogo il nostro patrimonio linguistico. E di rivalutare il ruolo di un’istituzione come l’Accademia della Crusca e considerare l’italiano come un bene da tutelare, promuovere ed esportare.

Attualmente, approfittando della campagna elettorale, stiamo riprovando a contattare vari parlamentari nella speranza che nel prossimo governo anche l’italiano sia posto all’ordine del giorno. A ottobre, quando il nuovo governo sarà formato, invieremo le firme raccolte in parlamento.
Intanto, sul portale Italofonia.info, oltre a continuare la raccolta firme a sostegno della nostra iniziativa, qualche giorno fa sono stati predisposti dei moduli con cui ogni firmatario può contattare direttamente alcuni parlamentari che in passato si sono contraddistinti per avere manifestato una certa sensibilità su questo tema. Non sono molti, e appartengono a schieramenti politici diversi, ma ognuno può rivolgersi al politico che sente più affine alle proprie posizioni e scrivergli direttamente chiedendogli, come elettore sensibile a questo tema, di fare qualcosa perché la nostra proposta di legge venga portata in Parlamento e discussa. Naturalmente ognuno è libero di contattare anche altri politici, visto che la proposta di legge è trasversale a ogni schieramento e fuori da ogni ideologia.

Al momento già più di 200 persone hanno utilizzato questo modulo e inviato la loro lettera. È una battaglia difficile, ne siamo consapevoli, ma bisogna almeno provarci. E più saremo più avremo la forza di farci ascoltare. In ogni caso, ringrazio di cuore gli oltre 2.000 cittadini che hanno firmato e quelli che hanno già scritto al loro politico di riferimento.



Per firmare e sottoscrivere la petizione di legge:
https://attivisti.italofonia.info/proposte/legge-vivalitaliano-2021/

Per scrivere direttamente a un parlamentare:
https://italofonia.info/una-legge-per-litaliano/#scrivi

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

La lingua degenere: itanglismi e petizione contro lo scevà (ə)

Che cosa accomuna l’itanglese, l’italiano newstandardad alta frequenza di itanglismi, e la ventata riformatrice che predica il linguaggio inclusivo espresso con lo scevà?

Ci sono almeno due elementi che permettono di leggere questi due fenomeni come l’effetto di qualcosa di più ampio e di più profondo.
Prima di sviscerare la questione, però, conviene spiegare e definire il punto di partenza.
Cosa sono gli itanglismi? E cos’è lo scevà?

Gli itanglismi

Chiamo “itanglismi” le parole a base inglese entrate nella lingua italiana. Mi pare una definizione più evoluta rispetto a quella di “anglicismi”, un’etichetta legata alle ingenue categorie dei “prestiti” utilizzate da molti linguisti, un modo di classificare le cose ogni giorno più inadatto per rendere conto dell’interferenza dell’inglese. Credere che si prenda in prestito qualche manciata di parole inglesi crude (cioè non adattate né reinterpretate) che provengono dall’angloamericano è semplicemente errato.

Senza dubbio molte parole inglesi si propagano in tutto il mondo esportate dalle multinazionali che si espandono e dall’inglese che mira a diventare la lingua unica internazionale in sempre più ambiti (lavoro, scienza, scuola… persino nell’Unione Europea da cui il Regno Unito è uscito). Ma le enormi e incontenibili pressioni esterne legate alla globalizzazione sono solo una parte del fenomeno. La verità è che ogni anglicismo importato si trasforma presto in un itanglismo, e cioè in un’espressione che si ricava un significato peculiare nell’italiano assente nella lingua di provenienza. E così va a finire che il computer non è proprio come un calcolatore, parola ormai morta perché è stata incapace di evolversi insieme con la realtà, e dunque evoca solo i marchingegni di una volta, mentre quelli nuovi si chiamano computer. Questo cristallizzare l’italiano ai suoi significati storici, perché ciò che è nuovo si deve esprimere in inglese, è tipicamente italiota. Questa distinzione tra vecchio e nuovo non appartiene all’inglese dove erano computer i primi giganteschi “mainfrain” e sono computer anche i più moderni portatili ultraleggeri. E non appartiene nemmeno alle lingue sorelle come il francese o lo spagnolo, dove si diceva e si dice ordinateur o computadora. La maggior parte di questi anglicismi ortodossi subisce in italiano una sorta di risemantizzazione, rispetto all’inglese, e cioè si carica di un significato che si discosta dalla lingua prestante. Perciò il mouse da noi non è un topo, come in inglese e in quasi tutte le lingue, ma diventa un tecnicismo insostituibile (che certi linguisti spacciano come prestito di “necessità”, una necessità tutta italiana, però) per indicare un oggetto ben preciso. Dai prestiti “parziali” come questo alla creazione di pseudoanglicismi (parole apparentemente inglesi, ma che non lo sono affatto nella forma o nei significati) il passo è breve. Ed ecco che social – che vuol dire solo sociale – indica le piattaforme sociali (in inglese social network, dove la seconda parola non può essere decurtata) e un caregiver (che in inglese indica solo un generico assistente) si trasforma in un “non-è-proprismo” che indica un assistente familiare, cioè un familiare che si ritrova a far da badante (participio presente del verbo “badare”) ma che “non è proprio” come un badante che lo fa di professione…
Oltre alle decurtazioni tipicamente italiane per cui la pallacanestro diventa basket (cioè un cesto) invece di basketball, gli itanglismi nascono sempre più spesso da ricombinazioni tutte italiane di radici inglesi, come nel caso dello smart working, incomprensibile agli stessi inglesi (che usano invece home working cioè lavoro da casa o telelavoro, come potremmo dire se non fossimo malati), ma anche per uno spagnolo o un francese. A questi e ad altri fenomeni di reinvenzione dell’inglese all’Alberto Sordi (l’awanagana di Nando Mericoni) come beauty case o beauty farm, si aggiungono centinaia e centinaia di ibridazioni da backuppare a fashionista, da linkabile a speakeraggio, da scooterino a scoutismo, da babycalciatore a zanzara killer (ne ho parlato sul sito Treccani). In questo calderone proliferano sempre più anche gli itanglismi sintattici come no + qualsiasi cosa in inglese (no vax invece di antivaxxer, no mask, no green pass, no global…) o covid + qualsiasi cosa in inglese (covid hospital, covid free, covid manager…) dove inglese e itanglese si confondono e sovrappogono in una neolingua creola.
La situazione è questa, e non si può certo spiegare con la favola dei prestiti lessicali: gli itanglismi travalicano l’inglese e anche le norme dell’italiano.

Lo scevà

Mi sono espresso più volte sullo schwa, che in italiano si chiama scevà, è bene ribadirlo visto che non lo usa quasi nessuno. È una parola tedesca di origine ebraica, ma la verità è che si è imposta recentemente attraverso l’agloamericano e si dovrebbe pronunciare, guarda caso, come la vocale più frequentemente usata nella lingua inglese. Si tratta del simbolo ǝ che secondo i predicatori del linguaggio inclusivo dovrebbe sostituire le nostre flessioni delle parole al femminile e al maschile per cui dire professorǝ includerebbe sia il professore sia la professoressa, che al plurale dovrebbero diventare professorз. Questa riforma ortografica, morfologica e fonologica, inventata a tavolino, arriva dopo simili precedenti proposte che volevano ricorrere al carattere “neutro” espresso dall’asterisco (professor*), della “u” (professoru) o della chiocciola (professor@), e si basa su una tesi ideologizzata che presuppone che il maschile inclusivo (es.: “Ciao ragazzi” rivolto a un gruppo di ragazze e ragazzi) sia discriminatorio, soprattutto se nel gruppo ci dovesse essere qualcuno che non si riconosce negli schemi del genere binario e dunque non si sente né uomo né donna. Ma sostenere che nella lingua italiana ci sia una corrispondenza tra il sesso delle parole (genere) e il sesso di ciò che indicano è una falsità. In ogni caso, non mi sento sminuito nella mia mascolinità se mi definiscono una bella persona (al femminile), se sono una buona guida (al femminile) e non credo che un reale a cui si fosse detto: “Sua eccellenza ieri è andata a Versailles?” si sentisse discriminato dal femminile.

Il linguaggio che include nel pensiero unico dell’anglosfera

Dopo queste premesse è possibile tornare al nocciolo della questione.
Cosa accomuna l’anglicizzazione dell’italiano e l’ideologia dello scevà?

La prima cosa è il disinteresse per la lingua italiana vissuta come un nostro patrimonio storico e culturale da tutelare e valorizzare. In una scuola sempre più alla deriva, dove si punta a insegnare l’inglese (eliminando ogni altra lingua e perseguendo l’unilinguismo invece del plurilinguismo inteso come valore e ricchezza) e a trascurare la nostra lingua – con il risultato di un sempre più ampio e tangibile analfabetismo di ritorno – l’italiano appare come qualcosa di vecchio, di cui vergognarsi e da riformare in nome della modernità e di un imprecisato nuovismo che attinge solo dall’inglese. E, accanto a questa predisposizione tutta interna a tagliare le nostre radici, c’è poi la schiacciante pressione esterna che arriva dall’anglosfera globalizzata alla conquista del mondo, che si espande e impone la propria cultura e dunque anche la propria lingua. Questa globalizzazione è una nuova forma di colonialismo che si persegue non più con gli eserciti, ma con le merci, con la tecnologia, con la cultura e l’intrattenimento che provengono essenzialmente dagli Stati Uniti.

La storia del colonialismo insegna che nell’imposizione di una lingua i primi a essere conquistati sono gli intellettuali, gli accademici, l’apparato dello Stato che introduce la nuova lingua formalmente, e dai centri nevralgici si comincia poi a diffondere negli strati sociali più elevati e nelle città, per poi estendersi anche nelle campagne. Il pesce puzza dalla testa, si dice, e nella nostra attuale società gli intellettuali sono proprio coloro che propagano l’inglese e l’itanglese, e adesso molti di loro stanno predicando anche il credo dello scevà in nome del linguaggio “inclusivo”. Un’ideologia che arriva d’oltreoceano dove da molti anni negli ambienti “progressisti” e in certe università si diffonde l’uso del “singular they” che equivarrebbe a dare del “loro” a una singola persona aggirando la questione del genere che in inglese coinvolge soltanto alcuni pronomi e pochi sostantivi. Questo approccio risulta impraticabile nell’italiano, a meno di distruggerlo, visto che la questione del maschile e del femminile è ben più complessa.
L’introduzione dello scevà è figlia di questa ideologia, e non si preoccupa della dissoluzione e della discriminazione del nostro sistema linguistico (sostanzialmente lo stesso delle altre lingue romanze), ma guarda solo alle discriminazioni di genere in una confusione tra genere sessuale e grammaticale, due cose che non coincidono affatto, anche se lo si vuol fare credere.
In Italia la discriminazione della donna o l’omofobia sono fenomeni pesanti, ma non è chiamando ipocritamente con un linguaggio inclusivo “president3” della Repubblica o del Consiglio tutti gli uomini che hanno storicamente ricoperto queste cariche che si risolve la questione, preferirei vedere una presidente (donna) prima o poi, e solo in questo modo la discriminazione si attenuerebbe.

I descrittivisti prescrittivi

È strano che gli interventisti predicatori dello scevà si mostrino invece piccati di fronte alle lamentele e alle petizioni di legge contro l’abuso dell’inglese.
Ma come? Non sai che bisogna essere descrittivisti? Non sai che la lingua italiana va studiata, e non difesa? Come osi mettere in discussione ciò che è entrato nell’uso? La gente parla come vuole. Vuoi fare come Arrigo Castellani che pensava si potesse dire guardabimbi invece di babysitter? Non ti senti ridicolo? Vuoi forse dire arlecchino invece di cocktail come proponevano ai tempi del fascismo?

Le persone che fanno questi discorsi e la buttano in burletta, però, spesso sono le stesse che abbracciano l’introduzione dello scevà. Ma in questo caso l’interventismo va bene, evidentemente, e cambiare il modo di parlare e di scrivere, o buttare nel cesso la lingua di Dante in nome di un’ideologia strampalata, si trasforma in qualcosa di lecito e di giusto per questi “descrittivisti prescrittivi”.
Dietro questa contraddizione e dietro questo usare due pesi e due misure a seconda di quel che fa comodo c’è qualcosa di più profondo che implica l’abbandono dell’italiano storico, di cui poco importa e di cui ci si vergogna. Dietro queste prese di posizione c’è un cambio di paradigma in atto nella classe dirigente italiana, sempre più colonizzata da ciò che arriva dagli Stati Uniti. E non posso che ripensare alle parole di Gramsci, che ho più volte citato: “Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi.” Dietro la questione della lingua, dall’anglicizazione allo scevà, c’è una riorganizzazione dell’egemonia culturale, come aveva capito Gramsci, che nel nuovo Millennio ha a che fare con la nostra americanizzazione sempre più pervasiva.

La conquista dei centri di irradiazione della lingua

Il linguaggio inclusivo è attualmente predicato da una minoranza schierata che lo vuole imporre a tutti. Il linguaggio inclusivo è in realtà divisivo e crea fratture sociali. Il linguaggio inclusivo vuole includere tutti in una riconcettualizzazione del mondo all’interno del pensiero unico che proviene dall’anglosfera. La sua imposizione, seguendo le dinamiche colonialiste della storia, avviene attraverso una minoranza di “collaborazionisti” che hanno occupato le posizioni centrali della società, e che costituiscno “i nuovi centri di irradiazione della lingua”, come direbbe Pasolini.
Questi personaggi cominciano timidamente con il dire, visto che ognuno parla come vuole, che hanno tutto il diritto di usare lo scevà in nome dell’inclusività, ma poi va a finire che se non parli e scrivi come loro diventi un “mostro”, diventi discriminatorio.

Abbiamo già visto a proposito della parola “negro”, come andata a finire. Una parola neutra priva di alcuna accezione spregiativa, nell’italiano storico, ma diventata discriminatoria negli Stati Uniti a partire dagli anni Ottanta, dove black, nigger o negro cominciarono a essere sostituiti da afroamericano. Quello che è accaduto nella colonia Italia è che dagli anni Novanta i traduttori cominciarono ad applicare i criteri statunitensi anche alla nostra lingua (nei libri e nei film) e che, grazie anche al linguaggio dei giornali, nel giro di un decennio l’uso secolare dell’italiano è stato modificato dall’alto, dagli intellettuali colonizzati che sono riusciti a riscrivere la storia e cambiare il nostro modo di parlare. La menzogna per cui “negro” sarebbe stato discriminatorio si è così tramutata in realtà, e la parola è diventata impronunciabile.
A parte il fastidio davanti all’ipocrisia, poco male, in fondo. Dire “nero” invece di “negro” per avere interiorizzato una riconcettualizzazione d’oltreoceano non ha certo comportato nulla di grave. Ma la questione dello scevà non è così innocente, porta allo sfaldamento della nostra lingua in modo strutturale. E per questo è importante opporsi a questi interventisti che vogliono imporci di cambiare il nostro modo di parlare. Ed è importante che questa resistenza (se si può ancora usare questa parola al posto di resilienza, nel lessico del nuovismo d’oltreoceano) arrivi non solo dalla gente, ma proprio dagli intellettuali e dalla classe dirigente. Perché se questa riforma linguistica comincia a prendere piede sui giornali, come negli articoli di Michela Murgia, nelle università, nelle scuole, e addirittura nelle istituzioni, sarà poi impossibile fermarla. Come è accaduto con la parola “negro”. Come sta accadendo con gli itanglismi.

La petizione di Massimo Arcangeli

Per questi motivi ho firmato la petizione del linguista Massimo Arcangeli che si oppone allo scevà in nome dell’italiano. Finalmente un linguista che scende in campo, che fa qualcosa di concreto, che fa sentire la sua voce di intellettuale e accademico per opporsi al revisionismo linguistico così in voga in certi ambienti che si presentano progressisti ma sono tutto il contrario. Gli intellettuali di questi ambienti sono coloro che hanno smarrito la loro funzione critica per rivestire il ruolo di legittimatori delle nuove forme di potere, invece di metterle in discussione.
La reazione di Arcangeli arriva davanti a un pericoloso precedente istituzionale, che mostra il vero volto del fondamentalismo dello scevà, un’ideologia che si fa strada proclamando il diritto di parlare come si vuole e quindi di stravolgere l’italiano e finisce per istituzionalizzarsi e imporsi a tutti come un obbligo.


Quando le università abbandonano l’italiano e passano all’itanglese, o al linguaggio inclusivo dello scevà, stanno distruggendo la nostra lingua, con il pretesto di rinnovarla. E tutto ciò va fermato. Se le petizioni che ho lanciato a tutela dell’italiano compromesso dagli itanglismi (come quella senza risposta a Mattarella) sono state ignorate dai linguisti, dagli intellettuali e dai mezzi di informazione, questa volte le cose potrebbero andare diversamente. E tra i firmatari della petizione, per fortuna, questa volta ci sono tanti linguisti del calibro di Claudio Marazzini o di Luca Serianni in compagnia di tanti intellettuali e personaggi di spicco. E sarebbe auspicabile che tutti facessero sentire la propria voce ed esprimessero in modo chiaro il loro dissenso.
Chi vuole leggere e firmare la petizione lo può fare sul sito Change.org.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Le preoccupazioni di Mattarella per la lingua italiana (e che fine ha fatto la petizione sull’abuso dell’inglese)

Di Antonio Zoppetti

Un anno fa, il 16 novembre 2020, una petizione con oltre 4.000 firme contro l’abuso dell’inglese è stata inoltrata al nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella (nominato accademico onorario dell’Accademia della Crusca 5 anni prima, il 18 novembre 2015).

Era un appello che esprimeva la preoccupazione per gli anglicismi nel linguaggio istituzionale, e non solo, e non chiedeva nulla di troppo impegnativo, in fondo. Solo un gesto simbolico per porre l’attenzione sul problema: “Ci rivolgiamo a Lei nella speranza che con la Sua autorevolezza voglia esercitare un richiamo almeno nei confronti della politica e delle istituzioni, perché si usi la nostra lingua, che consideriamo un bene che andrebbe promosso e tutelato come avviene all’estero e come facciamo con tutte le altre nostre eccellenze, dall’arte alla gastronomia.”

Di seguito pubblico la ricevuta di consegna inviata dall’avvocato che ci rappresentava – di cui ho omesso l’indirizzo – accompagnata dalla presentazione di circostanza: “(…) Come da indicazioni telefoniche della segreteria del Quirinale, con la presente PEC Vi inoltro in allegato (formato PDF) il testo di una petizione rivolta al Presidente Sergio Mattarella e le oltre 4.000 firme raccolte attraverso la piattaforma Change.org (disponibile all’indirizzo https://www.change.org/p/sergio-mattarella-basta-anglicismi-nellinguaggio-istituzionale-viva-l-italiano-litalianoviva)…”



Naturalmente, gli anglomani e i negazionisti dell’anglicizzazione dell’italiano “me ne hanno dette di ogni”, come si suol dire. Come osi disturbare il presidente con queste cose? Rivolgersi a Mattarella non ha alcun senso, non è a lui che si devono porre simili questioni, non hai capito nulla. E poi non è questo il momento…

Che cosa è accaduto, a un anno di distanza?

A un anno di distanza non è pervenuta alcuna risposta da Mattarella e dal Quirinale, nemmeno due righe di cortesia con un “Vi faremo sapere.”

Però, lo scorso 15 novembre, proprio 365 giorni dopo l’appello firmato da 4.000 italiani, tutti i giornali hanno ripreso le parole che il nostro presidente ha pronunciato in un discorso all’ateneo di Siena, a proposito degli acronimi che infestano la lingua italiana.

“L’inutile rebus degli acronimi che rende l’italiano indecifrabile”, ha titolato il Corriere: “L’appello del Presidente Sergio Mattarella contro «l’uso smisurato» delle sigle. Il dibattito tra i linguisti.”
“L’appello di Mattarella per una «lingua democratica»”, ha ripreso Il Fatto Quotidiano.
“Pnrr, Mattarella: «Uso smisurato di acronimi. Quali sono le conseguenze?»” ha riportato il Sole24ore.
E poi il Tempo: “Mattarella sul Pnrr: «Sarebbe utile uno studio sull’uso smisurato degli acronimi»”, l’ANSA: “Pnrr, quali conseguenze dell’uso smisurato di acronimi?” e tutti gli altri giornali.

Che cosa è accaduto?
All’inaugurazione del 781° anno accademico dell’Università degli Studi di Siena, Mattarella ha pronunciato queste parole: “Sono lieto di registrare alcuni segni positivi che emergono in quel programma governativo chiamato con l’acronimo Pnrr”, e poi ha aggiunto: “Apro una parentesi, se non fosse già stato fatto in qualche Ateneo, sarebbe utile uno studio per approfondire le conseguenze dell’uso smisurato degli acronimi sul linguaggio e sulla facilità di comunicazione”.

Sono rimasto sconcertato davanti a queste dichiarazioni seguite da un imponente applauso della platea. Mi son passate per la mente tutte le idiozie che ho sentito sull’inopportunità di pensare che il presidente della Repubblica potesse intervenire sulla lingua italiana… sul momento giusto…

Ma soprattutto, per quanto gli acronimi siano insopportabili, per quanto siano poco trasparenti – anche perché li cambiano di continuo per complicarci la vita – sono le sigle il problema della lingua italiana? Non varrebbe invece la pena studiare quali sono le conseguenze ben più gravi e pesanti delle parole inglesi che stanno trasformando la lingua di Dante in itanglese?

Mattarella presto concluderà il suo mandato, e il nostro appello cadrà nel vuoto. È però molto triste constatare l’indifferenza istituzionale verso il tema dell’abuso dell’inglese che molti politici francesi spagnoli, svizzeri, islandesi, greci, cinesi… hanno invece compreso.

La nuova iniziativa

L’appello al presidente Mattarella, con la raccolta firme chiusa a novembre 2020, è stato seguito da un’iniziativa ben più agguerrita che colgo l’occasione per rilanciare e spiegare meglio, visto che molti hanno confuso le due petizioni.

Il 23 marzo 2021 ho presentato ai due rami del Parlamento italiano una proposta di legge per la tutela della lingua italiana davanti all’abuso dell’inglese, attraverso i canali previsti secondo quanto sancito dall’articolo 50 della Costituzione. La richiesta, questa volta, non è una “supplica” per un generico appello simbolico come quello che Mattarella ha fatto a proposito degli acronimi, invece che per gli anglicismi. Si tratta di una bozza di proposta di legge, e questa “petizione di legge” è stata assegnata sia al Senato (24 marzo, n. 795, VII Commissione permanente, Istruzione, beni culturali) sia alla Camera (10 aprile, n. 727, VII Commissione cultura).

Poiché il nostro ordinamento prevede le presentazioni di leggi di iniziativa popolare, ma non l’obbligo di discuterle, ho poi dato vita a una nuova raccolta firme il cui scopo è solo quello di raccogliere consensi su quanto presentato nella speranza di convincere qualche parlamentare a porre la discussione all’ordine del giorno. Perché la proposta non rimanga chiusa in un cassetto. Al momento, più di 1.700 cittadini hanno lasciato la propria adesione, ma ancora una volta dalle istituzioni non sono arrivare risposte significative.

Dopo le parole di Draghi contro gli anglicismi (per saperne di più: → “Ben detto, presidente Draghi: perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi?” e → “Draghi torna a ironizzare sugli anglicismi…”) ho contattato il suo capo di gabinetto per segnalagli la petizione, e ho anche pubblicato una lettera aperta al nostro Presidente del consiglio, ma ancora una volta nessuna risposta è mai pervenuta. Ho provato anche a contattare direttamente e indirettamente qualche parlamentare e qualche responsabile della cultura dei gruppi parlamentari di Camera e Sento. A parte un paio di riscontri di cortesia in cui è ritornato il “non è il momento” (il 2021 è l’anno delle celebrazioni dantesche: se non ora, quando?), nessuno mi ha risposto. Il disinteresse della nostra classe politica verso la questione è evidente. La battaglia non è però ancora persa, la raccolta firme continua.

E anche se nessun parlamentare ci risponderà, non significa che queste iniziative siano inutili. Il loro senso è quello di porre l’attenzione sul problema, di creare una nuova cultura e di fare tutto ciò che un cittadino può fare di concreto, per non lasciare nulla di intentato,

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Le istituzioni e il Mur cancellano l’italiano e favoriscono l’inglese

Di Antonio Zoppetti

Nell’anno delle celebrazioni dantesche, il Mur (Ministero dell’Università e della Ricerca) ha appena emanato un decreto (dl 73-2021) con cui viene istituito il nuovo Fondo Italiano per la Scienza (FIS) e, ancora una volta, indovinate un po’ in quale lingua è possibile presentare i progetti?

In italiano?

Certamente no!

Si possono presentare soltanto in lingua inglese, altrimenti saranno considerati “irricevibili” e dunque esclusi. E in inglese dovranno tenersi anche gli eventuali colloqui orali legati alle discussioni o alle interviste in merito.

A darne la notizia dalle pagine del Corriere, il 5 ottobre, è stato Paolo Di Stefano, uno dei pochi giornalisti che hanno a cuore la lingua italiana. Qualche giorno dop è intervenuto anche il presidente della Crusca Claudio Marazzini, e sul sito dell’Accademia ha dedicato alla vicenda il tema del mese con un pezzo intitolato “La lingua di Dante non può parlare di scienza. Il MUR esclude l’italiano nel bando per i fondi FIS” che si conclude con l’auspicio che le ragioni di questa scelta siano rese note. A essere “irricevibile” non è solo la lingua di Dante, si potrebbe aggiungere, ma anche quella di Galileo, padre non solo della scienza, ma anche della prosa scientifica italiana che è poi diventata il modello di scienziati come Francesco Redi, Antonio Vallisneri, Lazzaro Spallanzani… in un contesto internazionale dove la scienza si è sviluppata soprattutto nelle lingue locali attraverso uno strappo con il latino dei teologi. Ma oggi la scienza plurilingue rischia di essere spazzata via dall’inglese in modo sempre più prepotente, con la differenza che mentre il latino era una lingua di intermediazione neutra – non era la lingua madre di nessuno – oggi il globalese è la lingua naturale dei popoli dominanti che la vogliono imporre a tutti gli altri e si guardano bene dall’apprendere le lingue (e le culture) altrui. Le nostre istituzioni, invece di fare gli interessi degli italiani e dell’italiano, hanno ormai sposato questo modello e sono diventati collaborazionisti del monolinguismo a base inglese che “fiorisce sul cimitero degli altri idiomi” per citare lo scrittore africano Ngũgĩ wa Thiong’o che ha vissuto sulla sua pelle la regressione delle lingue della sua terra schiacciate dalle scuole e dai regimi coloniali.

Il linguicismo del Fis è legittimo?

Il Fis – dove la “i” di Italiano cela forse l’acronimo di Fondo in Inglese per la Scienza – ricalca le categorie anglofone dell’ERC (European ResearchCouncil) e destina una quantità di denaro consistente, 50 milioni di euro per il 2021 e altri 150 milioni a partire dal 2022. Sono soldi di tutti noi cittadini italiani, ma per accedervi dobbiamo rinunciare alla nostra lingua madre e passare sotto le forche caudine di una presunta lingua internazionale che non ci appartiene, ma ci viene imposta senza che nessuno ci chieda se siamo d’accordo.

Questa dittatura dell’inglese a cui ci costringono le nostre stesse istituzioni è una scelta scellerata che si può definire “linguicismo”, per usare la definizione della ricercatrice finlandese Tove Skutnabb-Kangas. Come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo è la discriminazione in base alla lingua madre che porta a giudizi sulla competenza o non competenza nelle lingue ufficiali o internazionali.

Il punto è che rivolgersi alle istituzioni nella nostra lingua dovrebbe essere un diritto di tutti, e cancellarlo con l’obbligo dell’inglese è una discriminazione. Sulla legittimità di decisioni come queste la Corte di Giustizia dell’Unione europea, che difende il plurilinguismo, si è già espressa in più di un’occasione. A proposito di concorsi, per esempio, il comunicato stampa n. 40/19, 26 marzo 2019 ha sancito che “le disparità di trattamento fondate sulla lingua non sono, in linea di principio, ammesse”, a meno che non esistano “reali esigenze del servizio”, ma in questi casi devono essere motivate “alla luce di criteri chiari, oggettivi e prevedibili”. Nel decreto del Fis non si ravvisa alcuna motivazione che giustifichi l’inglese obbligatorio, né alcuna reale esigenza di servizio. C’è solo un’inammissibile disparità di trattamento fondata sulla lingua.

La vicenda non è un caso isolato, si inserisce in un disegno che da qualche decennio viene imposto a piccoli passi, ognuno dei quali costituisce un pericoloso precedente che apre la strada all’anglificazione della scienza, della ricerca e della scuola in modo sempre più autoritario e a scapito dell’italiano. Già i Prin (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) da qualche anno in Italia devono essere presentati in inglese, e poiché lo abbiamo tollerato ecco che adesso si alza l’asticella, in attesa dei prossimi provvedimenti che si inseriranno in questa stessa logica in modo sempre più profondo.

La politica dell’inglese obbligatorio

Facendo un passo indietro, abbiamo già visto qualcosa di simile con la riforma Madia che ha improvvisamente reso la conoscenza dell’inglese obbligatoria nei concorsi della Pubblica amministrazione sostituendo il requisito di conoscere “una lingua straniera” con “la lingua inglese”. A sua volta questo provvedimento riprendeva la riforma Gelmini del 2010 che ha reso l’inglese un requisito necessario per gli insegnanti, e devono conoscerlo a un livello pari al First Certificate dell’Università di Cambridge indipendentemente dalla disciplina che insegnano.

Queste prove tecniche di anglificazione si sono viste anche nel 2012 quando è scoppiato il caso del Politecnico di Milano che, appoggiato dal Miur, continua a puntare all’insegnamento in inglese e all’estromissione dell’italiano dall’università. Ancora una volta esisteva un precedente meno sfacciato, quello del Politecnico di Torino che, nell’anno accademico 2007-2008, aveva deciso di erogare alcuni corsi di laurea triennale direttamente in inglese, e per incentivare questo passaggio aveva reso gratuita l’iscrizione al primo anno per gli studenti che decidevano di partecipare, scoraggiando in questo modo, e discriminando, chi studiava in italiano.

Anno dopo anno la dittatura dell’inglese guadagna terreno e si fa più esplicita e spavalda. L’italiano retrocede e il plurilinguismo è sempre meno un valore e sempre più considerato un ostacolo alla comunicazione internazionale monolingue, invece che una ricchezza.

Inutile dire che le relazioni pericolose tra il globalese e l’itanglese hanno una forte attinenza. Nel decreto del Fis gli anglicismi pullulano e hanno il sopravvento sull’italiano nella gerarchia concettuale. Si sciolinano espressioni come Life sciences, Physical Sciences and Engineering e Social Sciences and Humanities, mentre gli stanziamenti seguono gli schemi denominati Starting Grant e Advanced Grant. Si parla come fosse la cosa più naturale di deliverable e milestone, di Host Institutions (organizzazioni ospitanti), di leaders – dove il plurale si fa ormai con la “s” – di track record e del loro livello di leadership

Progetti in inglese e spiegazioni in itanglese: lo sfregio per la nostra lingua fa parte dello stesso pacchetto.

Mentre poche voci isolate hanno denunciato l’accaduto, e cioè Michele Gazzola, Paolo Di Stefano e Claudio Marazzini (oltre al tempestivo articolo di Giorgio Cantoni su Italofonia.info), queste gravissime decisioni passano abbastanza inosservate e non trovano spazio sui giornali. Un grande quotidiano e un grande intellettuale – rispettivamente il Foglio e Antonio Gurrado – si sono invece schierati come al solito a favore dell’inglese. Questo giornalista anglomane che in passato ho già citato perché sosteneva che tradurre la nostra Costituzione in inglese aiuterebbe a sbarazzarsi dell’ambiguità della lingua italiana e dei suoi concetti astrusi, oggi si illumina davanti al nuovo decreto, e saluta la cancellazione dell’italiano e l’obbligo dell’inglese come la via per uscire dal nostro provincialismo. Come se il provincialismo (e il servilismo) non abitasse al contrario nella sua mente da colonizzato e collaborazionista del globalese, incapace di vedere cosa accade all’estero, e incapace di decifrare gli effetti collaterali distruttivi delle scelte che calpestano il plurilinguismo. Questo signore ignora del tutto (e lo ammette candidamente scrivendo di non avere dati in proposito) il dibattito sull’inglese sottrattivo emerso proprio nei Paesi dove all’università si insegna in inglese, dall’Olanda alla Svezia che sta facendo una sostanziale marcia indietro. Per lui l’inglese è solo qualcosa che si aggiunge, “poiché le conoscenze si accumulano e non si cancellano”, in una visione delirante (tra l’altro nel caso del Fis non si aggiunge proprio nulla, al contrario si elimina la nostra lingua) dove la discriminazione è chiamata la “scrematura” di chi non ha avuto esperienze all’estero e vive nell’asfittica realtà universitaria italiana. Come se l’estero coincidesse con l’anglosfera, ci fosse solo quella e tutto il resto non esistesse o non avesse valore. Al contrario, Paolo Di Stefano, nel suo articolo di uno spessore ben diverso, ci ricorda che all’estero “gli equivalenti del Fis sono rispettosi del multilinguismo, ma in Italia chi non si butta tra le braccia dell’inglese con fede cieca è subito accusato di provincialismo antimoderno.”

Dai lamenti all’azione

Sarebbe ora di reagire, sarebbe ora che si parlasse di questi temi anche in Italia e con uno spirito critico diverso da quello di certi giornalai espressione di una classe politica che vuole rottamare la nostra lingua, ma che forse dovremo ricordarci di mandare a casa noi alle prossime elezioni. E sarebbe ora di passare dai lamenti all’azione.

Voglio ricordare a tutti che quasi 1.700 persone hanno già firmato il loro sostegno alla petizione di legge che ho presentato alla Camera e al Senato, che oltre alla richiesta di promuovere l’italiano e smetterla di usare anglicismi nel linguaggio istituzionale, chiede appunto che sia possibile presentare i Prin nella nostra lingua e che siano rivisti i criteri che rendono obbligatorio l’inglese nei concorsi. Purtroppo nessun parlamentare ha risposto o preso in considerazione le nostre richieste. E viste le nuove prese di posizione delle nostre istituzioni, per fermare questa strisciante strategia di cancellazione dell’italiano forse non resta che rivolgersi alla Corte di Giustizia dell’Ue, come davanti a simili decisioni linguiciste hanno fatto talvolta con successo varie associazioni della lingua in Francia, Germania, Belgio e in altri Paesi ancora.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

La nostra legge per l’italiano su “France Culture”!

Di Antonio Zoppetti

Venerdì 21 maggio France Culture – il servizio pubblico nazionale francese di RadioFrance – ha parlato della nostra petizione di legge sull’italiano con un articolo firmato da Bruce de Galzain, corrispondente da Roma e dal Vaticano, che voglio di seguito riassumere e commentare (per la lettura in lingua originale per intero → “Italie : trop d’anglicismes dans la langue de Dante”).

Il titolo è Italia: troppi anglicismi nella lingua di Dante e il sommario recita: Mentre quest’anno si celebrano i 700 anni dalla morte del padre della lingua italiana, Dante Alighieri, gli italiani utilizzano sempre più anglicismi. Al punto che c’è chi reclama una legge per difendere la lingua.

L’articolo riprende la recente esternazione del presidente del Consiglio Draghi davanti a parole come babysitting e smartworking – ma il giornalista scrive télétravail, ed è costretto ad aggiungere in una nota esplicativa che da noi viene detto smartworking – e riporta anche la successiva uscita ironica nei confronti di governance invece di un più semplice governo.
(Per saperene di più: → “Ben detto, presidente Draghi: perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi?” e → “Draghi torna a ironizzare sugli anglicismi…”).

Poi cita le dichiarazioni del presidente della Crusca Claudio Marazzini che ha manifestato il suo entusiasmo per le parole di Draghi, perché – ha sottolineato – quando si critica l’abuso dell’inglese in Italia si viene spesso accusati di provincialismo, ma è un po’ difficile che la stessa accusa sia mossa nei confronti del nostro presidente del Consiglio, vista la sua statura di carattere internazionale.

(Tra parentesi: Marazzini è intervenuto ancora sulla questione con un articolo sul sito dell’Accademia che è il “tema del mese” di maggio: “Perché è utile tradurre gli anglismi“, in cui riconosce esplicitamente che ormai gli anglicismi superano “le distinzioni tra prestiti di lusso e di necessità”).

Il passo di France Culture che più fa riflettere riguarda il lievitare delle parole inglesi durante la pandemia. Il giornalista scrive con un certo stupore: “Gli italiani usano il ‘computer’ [NdA in francese ordinateur] con il ‘mouse’ [in fr. souris, cioè topo] per fare ‘smartworking’ durante il ‘lockdown’”. E davanti a quest’ultima parola, di nuovo è necessaria una nota redazionale per spiegare al pubblico cosa significhi: il confinamento (confinement), come dicono anche in Spagna, del resto.

Per le nuove generazioni, scrive de Galzain che riporta alcune dichiarazioni di giovani intervistati, le parole inglesi suonano meglio. In realtà questo non vale solo per le nuove generazioni, purtroppo… E poi l’articolista mette il dito sul tema dell’inglese internazionale, e riporta le parole di una guida turistica di Venezia, Luca, che spiega che i giovani che viaggiano in Spagna o in Francia non usano più l’italiano, ma comunicano direttamente in inglese perché è la lingua che la gente conosce di più. Alla cultura dell’intercomprensione e del multilinguismo, si potrebbe riassumere, è ormai subentrata quella della lingua unica.

Dopo queste premesse, l’ultimo paragrafo intitolato “La metà dei neologismi sono parole inglesi” è dedicato ai miei dati tratti dallo spoglio dei dizionari. Il passaggio dai 1.700 anglicismi del Devoto Oli del 1990 agli attuali 4.000 del 2021, il fatto che quasi la metà delle parole del Nuovo millennio è in inglese crudo, la loro frequenza esagerata sui mezzi di informazione… Una situazione molto diversa da quella francese.

E la conclusione illustra la nostra petizione di legge per l’italiano e la diffonde così attraverso il canale nazionale!

Il tono del pezzo sembra abbastanza scandalizzato dal fatto che una figura istituzionale come Matteo Renzi abbia a suo tempo varato il Jobs act (che spiega ai francesi essere la réforme du marché du travail) o parlato di spending review (locuzione assente nella banca terminologica France Terme), cioè la réduction des dépenses budgétaires. De Galzain ricorda che dal 2015 l’Accademia della Crusca è intervenuta promuovendo alternative come centri d’identificazione dei migranti invece di hotspot. E nella chiusa rammenta che in Francia, nel 1992, è stato aggiunto nella Costituzione che la lingua è il francese, perché subito dopo il trattato di Maastricht si temeva che l’inglese potesse essere imposto come lingua dell’Unione europea.

Dopo aver letto questo pezzo, a parte rimarcare le grandi differenze culturali e sociali tra la Francia e l’Italia, devo constatare che la nostra iniziativa di legge ha ormai una risonanza internazionale, e infatti in agosto uscirà un articolo che ne parlerà anche su Wiener Sprachblätter – la più importante rivista della più grande associazione linguistica in Austria, il Verein Muttersprache – che sta preparando uno speciale sull’italiano e le celebrazioni dantesche.

Nel nostro Paese, al contrario, sinora i mezzi di informazione non ne hanno quasi parlato e mi chiedo se il “provincialismo” stia nel criticare l’abuso degli anglicismi o nel sciolinarli in modo irrefrenabile, e nel non dare spazio a ciò che all’estero viene invece considerato una notizia…

Ma forse qualcosa sta cambiando: alle 10,15 ne parlerò su Radio24, nella trasmissione Uno, nessuno, 100Milan (con Alessandro Milan e Leonardo Manera) dove interverrà anche uno studente russo, Grigory Revkov, che sta studiando l’italiano. Lo fa attraverso la Rete, frequentando canali su YouTube come quello di Roberto, più noto come UIV (Un Italiano Vero), un professore che insegna la nostra lingua soprattutto agli stranieri che si connettono alle sue dirette da tutto il mondo. È lui che ha scritto alla trasmissione chiedendo di segnalare l’esistenza della petizione di legge. Qualche tempo fa mi ha ospitato in una delle sue dirette, e ho avuto modo di confermare anche lì ciò che da tempo è per me sempre più evidente: chi ci guarda dall’estero non apprezza affatto tutti gli anglicismi che utilizziamo.

Come nell’articolo di France Culture, da tutto il mondo emerge lo stesso stupore davanti alla nostra anglomania. I commenti che arrivano da queste persone che amano l’italiano, e lo vogliono apprendere, sono rammaricati dall’abuso dell’inglese e c’è chi, come Dijana Josifoska, trova “presuntuoso” ricorrere agli anglicismi, o chi come Jonathan Leeming, madrelingua inglese, trova “strano” incontrarli così spesso nella nostra lingua…

Credo che ascoltare questi giudizi internazionali, e quello che dirà Grigory, serva a farci riflettere e non possa che farci del bene!

PS (aggiornamento delle 10,45)
Purtroppo nella diretta su Radio24 non si è fatto alcun accenno alla petizione, che avrebbe dovuto essere il motivo della mia presenza. Aspettavo la domanda, ma ho compreso troppo tardi che non sarebbe arrivata. Devo dunque rettificare il mio avventato “forse qualcosa sta cambiando”.

24 mai 2021 à 8 h 22 min

L’insostenibile leggerezza del riversamento dell’inglese

Leggo la lingua di un giornale come il Corriere della Sera nella sua versione online (noi non diciamo in linea come si può dire in francese e spagnolo) e ripenso a una lettera toccante che ho ricevuto qualche tempo fa. Quella della signora Maria, di 97 anni, disperata perché senza l’aiuto di figli e nipoti non riesce più a capire ciò che scrivono le riviste e i giornali. Ci sono troppe “parole straniere” lamenta. In realtà tutte queste parole vengono da una sola lingua, ma è la loro frequenza ad avere snaturato l’italiano al punto che la comunicazione mediatica diventa ormai incomprensibile per molti cittadini anziani o che non conoscono l’inglese.

Poco importa se conversazioni come quella in figura siano vere o meno, ciò che è incontrovertibile è che l’uso dell’inglese porta all’incomprensione e all’esclusione di alcune fasce sociali.

Se questo è italiano

Il Corriere non è un giornale qualsiasi, è il quotidiano di informazione a maggior diffusione nazionale e il suo ruolo nel formare la lingua è enorme. Purtroppo la lingua che diffonde non è più l’italiano, ma un ibrido dove è in atto da decenni una graduale sostituzione delle parole italiane con quelle inglesi. Gli altri mezzi di informazione, dalla stampa alla tv, non sono da meno, e credo che i giornalisti dovrebbero essere maggiormente consapevoli della responsabilità che hanno quando fanno scempio del nostro patrimonio linguistico.

Sulla pagina del Corriere.it di ieri spiccavano titoli come questo.

48 parole, che diventano 40 se togliamo i nomi propri e due numeri. Quelle inglesi sono 7, ma se togliamo anche gli articoli e le preposizioni dell’italiano non rimane poi molto, è solo una struttura dove inserire il lessico inglese al posto delle nostre parole.

L’ultima frase è significativa: stiamo studiando il modello di New York. Questa dichiarazione ci fa capire che le parole inglesi sono la punta del banco di ghiaccio (non volevo scrivere iceberg): gli Stati Uniti sono il modello prevalente, se non il solo, a cui guardare. Sono un mito di cui scimmiottiamo ogni aspetto. Quello culturale, scientifico, sociale, lavorativo… e dunque linguistico. Gli anglicismi che si riversano nell’italiano sono i sintomi di questa americanizzazione più totale. Se il modello è questo poi accade che invece di parlare di focolaio si cominci a dire cluster, come fosse una cosa naturale.
Negli archivi del Corriere la bassa frequenza di questa parola, prima della pandemia usata con altri significati, esplode:

Hub

La sostituzione sistematica di centro con hub è recente e pesante. Cercando la parola inglese nell’archivio storico de La Stampa, dal 1867 al 2006 ricorreva in 1.246 articoli e come nel grafico (tratto dall’archivio del giornale) ha cominciato a lievitare negli anni 2000.

Quello che è avvenuto con la pandemia è sotto gli occhi di tutti, e nelle versione digitale dello stesso quotidiano compare circa 3.500 volte negli articoli degli ultimi anni.

Il Gruppo Incipit, che dovrebbe occuparsi di arginare gli anglicismi nella loro fase incipiente, tace. Invece bisognerebbe gridare forte per fermare questi picchi che a lungo andare si trasformano in “prestiti sterminatori”: fanno morire le parole equivalenti dell’italiano storico, con il rischio che in futuro parlare di centro ospedaliero potrebbe suonare prima come qualcosa di non moderno e retrogrado, e infine ridicolo.
Se i centri ospedalieri sono hub, i centri vaccinali diventano poi hub vaccinali. Questo è ciò che si legge sulla stampa, si ascolta in televisione e si trova scritto nei luoghi dove ci si va a vaccinare. La gente non può che ripetere questa espressione che si inserisce così nell’italiano in modo sempre più profondo, e poi si allarga. Gli anglicismi non sono prestiti isolati, l’affermazione di ognuno si porta con sé questo tipo di allargamenti e di ricombinazioni creative.

Over

Da anni si parla sempre meno di ultraottantenni, o ultraquarantenni come nell’articolo, e sono tutti over + N, mentre chi è sotto una certa soglia è under, a cominciare dalla nazionale di calcio under21. Prefissi formativi dal greco o dal latino come ipo non vengono nemmeno in mente, c’è solo l’inglese che ormai marca simbolicamente il modo di datarci in una nuova timeline linguistica e concettuale.

In un secolo, dal 1919 al 2019, negli archivi di Google libri si vede bene l’ascesa della frequenza dell’inglese e lo scemare del latino (il trend mostra il boom e l’escalation di over e la de-escalation di ultra, come direbbe qualche giornalista in stile Palombella rossa).

Pensiamo all’insensatezza di una parola-concetto come teenager.
Che cosa accomuna da noi un tredicenne a un diciannovenne? Nulla, a parte l’essere giovanissimi. Il primo va alle medie e l’ultimo all’università, non sono adolescenti, non si frequentano dal punto di vista sociale, non sono una categoria se non nella lingua inglese dove teen distingue il suffisso dei numeri da 13 a 19. Eppure sui giornali spopola. Come se questa categoria facesse parte della nostra lingua e cultura.
E dopo i figli del boom economico, il baby boom che oggi ha prodotto il dispregiativo boomer, le nuove generazioni si esprimono con le categorie angloamericane. Ci sono i Millennial(s) e tutta un’altra serie di etichette veicolate attraverso lettere come X, Y o Z seguite da generation, che non appartengono alla nostra cultura né alla nostra lingua; più in generale i nativi digitali corrispondono anche a una generazione che si può chiamare dei nativi halloweeniani, coloro che sono nati dopo che le multinazionali hanno trapiantato questa festa nel nostro Paese, per i quali è una ricorrenza naturale, come se ci fosse sempre stata, e ben più sentita del Carnevale. In sintesi, non si può separare la lingua dal contesto sociale di cui è l’espressione.

Milano Marathon

Passando dal tempo allo spazio, l’inglese demarca ormai anche il territorio di una città come Milano, dove si parla di district invece che di distretti e la nuova urbanistica ha trasformato la zona Fiera in Fiera Milano City. I quartieri si ribattezzano in inglese, come il Nolo, cioè il North of Loreto, in una più ampia anglicizzazione di tutti gli eventi culturali legati alla città, dove la festa del libro si chiama Bookcity, la Settimana della moda Fashion Week, il Salone del mobile Week Design. La gerarchia degli anglicismi vede l’italiano come lingua di serie B che si usa nel parlato, come fosse un dialetto, ma le denominazioni di ogni cosa sono in inglese, dai gate delle stazioni ai reparti pet food dei supermercati.

E così si è svolta la Milano Marathon, pensata da nativi italiani della «Generali Milano Marathon», a sua volta promossa da Rcs sports & events, che dovrebbe essere la costola di un’azienda italiana. Leggendo l’articolo si scopre che la manifestazione “si articola in due gare competitive, più un format virtuale, aperto a tutti”. Mentre la marathon è la gara più prestigiosa in cui “si sfidano 132 campioni e top runner”, la tradizionale staffetta solidale in favore delle “organizzazioni no profit” si chiama «Lenovo Relay Marathon». Per via delle restrizioni pandemiche è stata proposta la formula, chiamata «Run Anywhere», che permette ai singoli di partecipare alla staffetta tracciando il proprio percorso con le app. “E sono già 5 mila i runner in tutta Italia che si sono iscritti all’evento.”

In questa corsa all’inglese, dove i corridori sono runner e gli amministratori delegati sono CEO (Chief Executive Officer), le multinazionali aprono gli store, e l’alternativa non sono i negozi o i punti vendita, sono gli shop e i market. Quanto alla “filiera tricolore degli store” è un ossimoro che si commenta da solo.

Dai prestiti al riversamento dell’inglese sempre più incontrollabile

Davanti a questi fatti, chiunque abbia un barlume di lucidità e sia in grado di decifrare la realtà, prima che la società, dovrebbe rendersi conto che gli argini sono saltati. Il riversamento dell’inglese nella nostra lingua è uno tsunami, per riprendere la metafora di Tullio De Mauro, che dopo aver considerato per decenni l’interferenza dell’inglese come qualcosa di non preoccupante, nel 2016 si è finalmente reso conto della situazione.

Apro un libercolo di sociolinguistica che spiega che ci sono i prestiti di lusso e di necessità. Lo richiudo e lo ripongo nella sede più consona, nella differenziata insieme alla carta. È una scelta green.

Apro le segnalazioni che mi arrivano dai lettori del Dizionario AAA (Alternative Agli Anglicismi). Ce ne sono almeno 200 in arretrato e in attesa di un vaglio. Sono troppe, sono inarginabili. La maggior parte esistono, circolano, si leggono sui giornali. Ma posso scegliere di prendere in considerazione solo quelle che hanno una certa stabilità, che non sono troppo di settore, che hanno una certa frequenza. La verità è che ormai il riversamento dell’inglese è così esteso che il lavoro di classificazione dei singoli anglicismi è sempre più difficile. Ogni parlante di ogni settore propone il suo a costo di inventarselo, pur di non ricorrere all’italiano. Le radici inglesi si ricombinano in tutti i modi, si allargano, non stanno mai ferme, schiacciano la nostra lingua e la seppelliscono.

Body cam

Qualche tempo fa leggevo della body cam (22/4/21), cioè una telecamera indossabile, se certi giornalisti sapessero l’italiano e non se ne vergognassero. La locuzione è formata, come la maggior parte degli anglicismi, da due radici che si combinano.

Partiamo dal primo elemento. Sul dizionario ho già registrato il body (l’indumento intimo), la body art, il body bag (uno zainetto, nel gergo della moda), il body builder e il body building (culturismo), il body copy (il testo pubblicitario nel gergo dei grafici), la body fitness (forma ottimale), il body painting (pittura corporale), il body scanner (rilevatore corporale), la body sculpture (ginnastica tonificante) e il body sculpturing (rimodellamento tramite liposuzione), il body shaming (il prendere in giro per l’aspetto fisico, che diventa fat shaming se il motivo è essere grassi), la body-dance (danza acrobatica), il total body

Mi viene la nausea.
La maggior parte dei secondi elementi che si legano a body si diramano a loro volta in altri composti con lo stesso effetto domino.


Analizziamo anche il secondo elemento, cam. C’è già la action cam con lo stesso significato di body cam che mi pare troppo instabile, per il momento. Ma domani è un altro giorno, e forse si affermerà! Del resto c’è già la hidden cam, la telecamera nascosta, che fa il paio con la candid cam, ma si può parlare anche di spy cam. E qualche tempo fa avevo avvistato persino l’invenzione giornalistica della trap cam!
Non dimentichiamo la webcam. E le sue conseguenze: le ragazze che fanno gli spettacolini in webcam come si possono definire se non webcamgirl, o cam girl? Ma allora se lo fa un uomo bisogna dire cam boy, in linea con toy boy (e forse tutto è iniziato con i cowboy)…
Ad libitum sfumando (anzi crescendo).


L’itanglese è questo. Tutto va bene purché sia in inglese e non in italiano. Hai voglia a classificare questo cedimento strutturale della nostra lingua e cultura con le categorie dei prestiti di lusso e di necessità, o di quelli utili (utili a chi?), insostituibili (ma dove? Non certo in Spagna e in Francia) e superflui (il superfluo sembra invece l’italiano nell’attuale contesto storico).

Candid Camera e candid Senato

E pensare che camera, nel senso di telecamera, è un italianismo che deriva dalla camera oscura. Poi c’è anche la Camera, con la C maiuscola, dove dal 10 aprile giace una proposta di legge, che il 14 marzo è stata assegnata anche al Senato. Ma ai parlamentari sembra che non interessi discuterla. In compenso ai giornalisti, vista la lingua che usano, non interessa diffondere la notizia della sua esistenza. Almeno quelli italiani, perché la nostra petizione è stata tradotta in tedesco e in agosto uscirà un pezzo su un’importante rivista austriaca che sta preparando un numero speciale dedicato all’italiano e alle celebrazioni dantesche.

Anche i linguisti italiani l’hanno ignorata, al contrario dei quasi 1.000 cittadini che l’hanno sottoscritta in Rete, che crescono di giorno in giorno, e che scoprono dell’esistenza di questa iniziativa non attraverso la stampa o chi dovrebbe occuparsi della tutela della lingua, ma solo attraverso il passaparola non istituzionale.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

La legge per l’italiano è stata assegnata anche alla Camera

Di Antonio Zoppetti

Il 20 aprile, la nostra proposta di legge per l’italiano è stata finalmente assegnata anche alla Camera (n. 727, VII Commissione cultura). Il 14 marzo era già stata assegnata al Senato (n. 795, VII Commissione permanente, Istruzione, beni culturali).

A questo punto ha inizio la fase 2: individuare qualche parlamentare sensibile alla questione e convincerlo a chiedere di inserirla nell’ordine del giorno perché sia discussa, altrimenti rimarrà chiusa nei cassetti e sepolta tra i faldoni che mai nessuno leggerà.

I primi contatti con qualche senatore sono già avvenuti, anche se non è facile ottenere risultati. C’è chi sembra completamente indifferente alla questione, chi ha speso qualche buona parola per la lodevole iniziativa ma ha replicato che “però è difficile coinvolgere su questo tema…” e non “è il momento adatto…”, e chi a risposto che ne avrebbe parlato con altri per farci sapere.
Adesso che possiamo rivolgerci anche ai parlamentari della Camera ci sono più possibilità di essere ascoltati e continueremo nella nostra opera di individuazione tempestando di richieste di contatto entrambi i rami del Parlamento.

Per farci ascoltare sarà strategico sia il numero dei firmatari che appoggiano la proposta sia la rassegna stampa che riusciremo a ottenere.

Per questo stiamo lavorando alla campagna “convinci un parlamentare a discutere la nostra proposta di legge”, e per diffondere l’esistenza dell’iniziativa ho preparato anche un video nella speranza sia condiviso dal maggior numero di persone possibile.

Intanto, nel giro di un mese, i 7 firmatari della petizione sono centuplicati, e le adesioni in Rete sono al momento più di 700. Inoltre, qualcosa si muove anche sul panorama mediatico, dopo l’articolo su Oggi, è uscito un pezzo sul portale Italiani.it e oggi parlerò dell’iniziativa nella trasmissione Salvalingua di RadioRadio.

Nel frattempo, voglio chiarire un po’ di luoghi comuni che accompagnano le reazioni alla nostra proposta, spesso percepita attraverso preconcetti che ne distorcono gli intenti e le motivazioni.

Non è la solita battaglia purista

Il purismo non c’entra proprio nulla, è una questione di ecologia linguistica. Il problema degli anglicismi non è quello di bandire le parole straniere per principio, ma è nella sproporzione rappresentata dal numero degli anglicismi e dalla loro frequenza d’uso. Nel 1990 il Devoto Oli registrava 1.700 anglicismi, oggi sono 4.000. Nel 1995 lo Zingarelli ne annoverava 1.800 e oggi 3.000. Ciò significa che nell’arco di una sola generazione abbiamo importato ben più di un migliaio di neologismi in inglese crudo, parole che violano le regole della nostra pronuncia storica e della nostra ortografia e che stanno snaturando il nostro parlare rendendolo una lingua lessicalmente creolizzata. Se il 50% dei neologismi del nuovo Millennio è in inglese è perché il nostro idioma non evolve più attraverso le sue regole endogene e importa tutto ciò che è nuovo da fuori e in una sola lingua: l’inglese. Auspicare la coniazione di parole nuove è tutto il contrario del purismo, storicamente ostile ai neologismi almeno quanto ai forestierismi. A volere ingessare le parole italiane nel loro uso storico, e a farle morire, sono oggi gli anglopuristi che preferiscono importare dall’inglese anziché inventarne di nuove o allargare il significato di quelle già esistenti.
Gli anglomani sostengono che usare l’italiano sarebbe ridicolo, disdegnano ogni soluzione creativa basata sulla nostra lingua, e così nascono i cargiver invece degli assistenti familiari e dei badanti con una nuova accezione, mentre i “non-è-propisti” sbandierano che lo smartworking non sarebbe proprio come il telelavoro, il lockdown non sarebbe proprio come il confinamento che usano invece in Francia e in Spagna, e così via.

E allora chi è più purista? Chi vuole coniare nuove parole o chi vuole relegare l’italiano alla lingua dei morti e non farlo evolvere perché ciò che è nuovo si esprime in inglese?

Non è una battaglia di retroguardia che si scontra con la modernità e l’internazionalismo

Credere che essere internazionali coincida con il parlare l’inglese è una presa di posizione da respingere. Il progetto di portare tutti i Paesi sulla via del bilinguismo a base inglese – la lingua madre dei popoli dominanti – ha origini colonialistiche, non ci conviene e soprattutto non è un dato di fatto né un progetto realizzato, come gli anglomani vogliono fare credere. Accanto all’idolatria dell’inglese come lingua internazionale della globalizzazione, c’è un’altra filosofia da contrapporre, che vede nel plurilinguismo un valore e una ricchezza da tutelare e promuovere. La lingua dell’Europa non è l’inglese, ma come diceva Umberto Eco è la traduzione, e dopo l’uscita del Regno Unito dalla Ue, questo principio dovrebbe essere difeso energicamente. Decisioni come quelle di inserire l’obbligo dell’inglese nei concorsi per la pubblica amministrazione (riforma Madia) o nella presentazione dei Prin (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) violano i principi affermati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (comunicato stampa n. 40/19, 26 marzo 2019) secondo la quale “le disparità di trattamento fondate sulla lingua non sono, in linea di principio, ammesse”, a meno che non esistano “reali esigenze del servizio”, ma in questi casi devono essere motivate “alla luce di criteri chiari, oggettivi e prevedibili”.

In sintesi non siamo retrogradi, abbiamo invece un’altra idea di cosa significhi essere internazionali, e crediamo sia auspicabile fare come fanno in Svizzera, dove il plurilinguismo è un modello che potrebbe essere d’esempio anche all’Europa, oppure come avviene in Francia e in Spagna, dove l’abuso dell’inglese e il suo mischione con la lingua locale non è considerato “internazionale”.

E allora chi è più internazionalista? Chi guarda a ciò che avviene negli altri Paesi a noi vicini e alle lingue sorelle, o chi ha in testa solo l’egemonia dell’inglese?

Non c’è alcun legame con le nostalgiche guerre ai barbarismi

La tutela e la promozione della lingua italiana non sono né di destra né di sinistra, perché la lingua è di tutti ed è un patrimonio culturale che ci accomuna. È triste che molti politici non lo capiscano, e le critiche che sono arrivate da una certa parte della sinistra sono ridicole. Proprio a sinistra dovrebbero capire che l’inglese è accessibile solo ai ceti alti, al contrario dell’italiano patrimonio di tutti, e usare anglicismi poco trasparenti, rendere l’inglese una seconda lingua obbligatoria o farne la lingua della formazione è un disegno che crea fratture e disuguaglianze sociali, e che sta portando a una “diglossia neo-medievale” che esclude molti cittadini.

Non comprendere questo fatto e lasciare la tutela della lingua alla destra è una posizione miope e per loro controproducente. Ma fuori da ogni ideologia e ogni partito, tutti i politici dovrebbero riflettere sul fatto che nel nostro Paese non esiste alcuna politica linguistica. Esistono leggi contro la contraffazione dei nostri prodotti o che tutelano il nostro patrimonio paesaggistico, artistico e culturale, ma sembra che quello linguistico non faccia parte della nostra cultura; e così capita che il progetto di un portale per “celebrare e raccontare il patrimonio culturale italiano in tutte le sue forme e offrirlo al pubblico di tutto il mondo” lo si chiami in inglese, ITsART! Non intervenire sulla lingua, come si interviene sugli altri aspetti che contraddistinguono il nostro Paese, significa lasciarla morire. Il fatto che l’unico esempio di politica linguistica italiana risalga al fascismo non significa che sia quella la via da riproporre! Basta guardare a cosa accade in Francia, in Spagna o in Svizzera dove la promozione della lingua non ha niente a che vedere con il passato del nostro ventennio. Tutelare l’italiano sempre più schiacciato dall’inglese globale, semmai, dovrebbe essere accostato alla Resistenza!

E allora chi è più nostalgico? Chi non sa vedere altro che la politica linguistica del fascismo o chi ha capito che la politica linguistica è un’altra cosa?

Non vogliamo fare alcuna “crociata”

Le crociate non ci piacciono, e la tutela dell’italiano non c’entra nulla con le crociate. La nostra lingua è minacciata dall’invasione degli anglicismi che in parte sono il risultato dell’espansione delle multinazionali americane che esportano la loro tecnologia, le loro merci, la loro cultura e insieme a queste anche il loro lessico e la loro lingua madre che si vuol far diventare la lingua internazionale.
Purtroppo la nostra classe dirigente sembra colonizzata, e ha in testa solo l’inglese e ciò che arriva dagli Stati Uniti, con la conseguenza che l’espansione della newlingua delle multinazionali è agevolata dall’interno, da una schiera di persone – dai politici ai giornalisti – che abusa degli anglicismi e in questo modo li fissa nell’uso (cashback, jobs act, covid free) facendoli apparire più solenni persino quando sono solo pseudoinglesi.

E allora chi sono i crociati? Coloro che vogliono tutelare e promuovere l’italiano e il plurilinguismo o coloro che vogliono imporre a tutti la lingua e i termini dei Paesi dominanti?

Non ci ispiriamo alle proposte di Fratelli d’Italia

Il 25 marzo, in occasione del Dantedì, qualche onorevole come Fabio Rampelli e Giorgia Meloni ha rispolverato una vecchia proposta di legge che di tanto in tanto ripropongono.

La nostra proposta è stata inoltrata il 22 marzo, ma da questo sito promuovo da anni le stesse richieste, che l’anno scorso sono state abbozzate in una petizione al presidente della Repubblica Mattarella.
La proposta di legge di Fratelli d’Italia, già presentata in una variante del 2018, conteneva alcune frasi copiaincollate da questo sito (lo avevo già scritto e spiegato a suo tempo), dunque non siamo noi a ispirarci a questo tipo di proposte, che sono tra l’altro profondamente diverse dalle nostre, nelle soluzioni prospettate e nei principi di partenza.

La legge di Fratelli d’Italia è incentrata soprattutto su una riforma costituzionale e su un generico appello alla legge Toubon che ne ammira gli aspetti proibitivi. Gli unici punti di contatto con la nostra proposta sono nell’evitare l’inglese nel linguaggio istituzionale e nella richiesta di inserire l’italiano nell’articolo 12 della Costituzione (quello che fissa i colori della bandiera). Questa seconda richiesta, però, ha per noi un valore simbolico più che pratico, in quanto la Corte Costituzionale ha già più volte sancito che l’italiano è la nostra lingua. Dunque, al centro delle nostre proposte ci sono altre cose, e le 11 richieste avanzate sono molto più concrete, incentrate sulla promozione e il convincimento attraverso campagne mediatiche e soprattutto legate al tema del plurilinguismo. Fratelli d’Italia, al contrario, auspica e promuove “la creazione di una generazione pienamente bilingue, con la perfetta padronanza della lingua inglese”, e non vedo una convergenza sulle nostre richieste che riguardano i Prin, la legge Madia. la dfesa dell’italiano come lingua della formazione o la sua tutela in Europa per fare in modo che ritorni a essere lingua di lavoro.

Per firmare e appoggiare la legge schiaccia l’immagine!

Fatta chiarezza su questi aspetti, non mi resta che ribadire che la nostra proposta di legge viene “dal basso” ed è assolutamente slegata da ogni ideologia di partito, dalla sinistra alla destra.

I tentativi di coinvolgere i parlamentari che seguiranno saranno rivolti ai responsabili della cultura (e non solo a loro) di ogni schieramento, per tentare di dare vita a una corrente per l’italiano il più possibile trasversale.

Utopistico?

Certamente. Ma bisogna almeno provarci, ed è sempre meglio che lamentarsi e non fare nulla.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. Le immagini, i collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Massacrare l’italiano e parlare itanglese non significa “stare al passo con i tempi”!

Di Antonio Zoppetti

Sono appena tornato da un viaggio di lavoro e ho ancora in testa il martellamento della comunicazione delle Ferrovie dello Stato dove, in tempi di pandemia, i biglietti sono in modalità conctaless, ed è attiva la nuova modalità del self check-in. Come si legge sul sito del Gruppo Fs itanglesi: “consente al viaggiatore di certificare con un click [con la “k”] la propria presenza a bordo, riducendo le verifiche fisiche del ticket da parte del controllore (…). Intelligenza artificiale, digitalizzazione e gestione dei dati sono driver per contenere l’emergenza” e la nuova app di Fs “è ormai pronta per il lancio negli store”.

Sul Frecciarossa mi hanno anche dato un sacchettino chiamato Health & safety kit, cioè una mascherina usa e getta, una lattina di acqua e una bustina di disinfettante. Potrei andare avanti a lungo a illustrare questa nuova comunicazione “al passo con i tempi” unita ai posti di blocco dei gate delle stazioni, tra esercito, polizia, uomini in giallo con la scritta cleaner service sulla tuta che si occupano della pulizia e altri con health service o cose del genere che prendono la temperatura. Tutto ciò lascia l’impressione di vivere in un Paese occupato. Non c’è alcuna polemica sulle misure contro il/la covid che tutti speriamo svanisca presto, sia chiaro. Ma l’occupazione linguistica è ormai innegabile. E non è affatto passeggera.

La cosa più grave è che arriva dalle istituzioni.

Vax manager e screenshot

Sul sito della regione Lombardia, che insieme alle Fs è un altro potente apparato che diffonde l’itanglese, possiamo leggere che “le ATS territoriali hanno individuato un referente vaccinazioni disabili territoriale, il Vax Manager.”

Vax manager? Non ci bastavano i no vax, il vax day… né i covid manager, i covid hospital, i covid pass, il covid free… e il qualunque cosa in inglese + covid!
Le radici inglesi (e pseudoinglesi) si ricombinano in tutti i modi e prendono vita. Questi non sono più prestiti isolati, sono una nuova grammatica generativa che sta stravolgendo la nostra lingua. Le porzioni di Dna linguistico inglesi sono sempre più prolifiche, e questo lessico del nuovismo in itanglese sta uccidendo l’italiano, che non sa più esprimere con le sue parole tutto ciò che è nuovo da almeno vent’anni. Gli anglicismi sono così tanti e si diffondono e allargano così rapidamente che non è più possibile farne una lista.

Carla Crivello mi segnala l’ultima sentenza della Cassazione: sancisce che gli screenshot hanno la stessa valenza documentale della fotografia, per cui la schermata, la cattura dello schermo, il fermo immagine di una chat, la sua fotografia, insomma, costituisce prova legale (Cass. Pen., sez. III, n. 8332/2020). Così screenshot è diventato ormai il nome uniforme e ufficiale delle sentenze. Il che è solo uno degli infiniti esempi di anglicismi anche in questo ambito (tra mobbing, stalking e tanti altri).


Senza un’istituzione che fissi le regole dell’italiano e le alternative all’ingese come nelle banche dati terminologiche e nelle leggi francesi o nelle prescrizioni che esistono nella lingua spagnola non ne usciamo.

Se leggiamo i giornali, la frequenza dell’inglese fa rabbrividire. Se accendiamo la televisione anche. Martedì scorso Giovanni Floris (Di martedì, La7) intervistava un espertone nutrizionista a proposito del comfort food. Il luminare rispondeva con sapienza che cosa significa, e spiegava perché certi alimenti hanno queste caratteristiche appaganti che inducono a non smettere come fosse una fondamentale scoperta degli ultimi tempi (una ciliegia tira l’altra si diceva nello scorso millennio) che evidentemente viene dall’America! A nessuno è venuto nemmeno in mente di dire semplicemente cibo consolatorio. No. Il cibo è ormai food, l’italiano non esiste e c’è solo l’inglese.

Vogliamo parlare della Rete?
In questo momento sto scrivendo un post per il mio blog su WordPress, che mi impone questo linguaggio, e le funzioni dell’interfaccia mi parlano di homepage, link, feedback, layout, widget, plugin


È tutto così. Il mondo in cui siamo immersi è questo e parla questa newlingua dal sapore orwelliano.

Che cosa può fare il cittadino? L’uomo della strada, la casalinga di Voghera… chiamatelo come volete. Non può che imparare dalle parole dell’esperto che sfoggiando l’inglese mostra la sua superiorità. E non può che ripetere le parole del giornalista che dovrebbe fare il divulgatore, ma dice solo comfort food, senza alternative, introducendo una sorta di termine-nome-proprio.
Come avviene con screenshot, con il linguaggio del Fs, con quello della regione Lombardia, dei giornali, della tv, della Rete, e delle merci.

Grow shop e canaperie

Le parole nuove sono inglesi, ma accanto a queste c’è una sostituzione sempre più ampia anche delle parole vecchie, del nostro lessico storico.

Un lettore mi segnala che i negozi di canapa legale e dei suoi derivati si chiamano grow shop.
Pochi sanno che sino ai primi del Novecento l’Italia era il primo produttore mondiale di canapa (secondo alla Russia per quantità, ma non per qualità) e che le distese di canapa si estendevano dall’Emilia sino al Veneto, ma anche al Sud. Con l’eccezione di qualche rimedio analgesico che era piuttosto comune preparare nelle farmacie (cfr. Giorgio Samorini, L’ erba di Carlo Erba, Nautilus Edizioni 1996), il principio psicoattivo della canapa era da noi più o meno sconosciuto, anche perché le varietà italiane avevano una percentuale di thc bassissima. I canapai vivevano su un’economia plurisecolare dove della canapa, come del maiale, non si buttava via niente. Si ricavavano i tessuti, la carta (senza il problema del disboscamento), le gomene delle navi, l’olio per le lampade, i semi erano usati per l’alimentazione del pollame… Pochi sanno che in tempi di autarchia fascista Mussolini creò il consorzio della canapa e nazionalizzò la produzione italiana per contrastare il mercato estero dei tessuti di cotone e juta e che era industrializzato e più conveniente. Intanto le gomene delle navi furono sostituite dai cavi di acciaio, la medicina erboristica fu sconfitta dalla farmacologia chimica. La Bayer a fine Ottocento brevettò e mise sul mercato un paio di farmaci da banco destinati a cambiare la storia. Uno era l’aspirina, l’altro l’eroina. Avete capito bene, sì, l’eroina! Presto fu però ritirata dal mercato per i suoi effetti devastanti e più tardi, negli Usa, dopo il fallimento del proibizionismo degli alcolici, nacque un potente movimento proibizionista contro le droghe e in particolare la marijuana, la droga dei “messicani e dei negri” di cui vennero denunciate le catastrofiche (e false) conseguenze sociali con una campagna mediatica di ampia portata. Circolavano pseudocumentari per le scuole e per i circuiti cinematografici che mostravano scenette come quella di un fratello e una sorella che dopo aver fumato marijuana si abbandonavano all’incesto per poi suicidarsi gettandosi dalla finestra. Per le pressioni americane, l’Onu sarebbe arrivata persino a perseguire esplicitamente l’intento di estirpare la pianta – sì: la pianta non la sostanza che se ne ricavava – dalla faccia della terra; e dietro non c’era solo la retorica fondamentalista del proibizionismo, c’erano anche ben altri interessi economici, visto che l’economia storica della canapa era in competizione con altre economie che riguardavano l’area angloamericana.

Ho divagato, lo so. Ma il punto è che oggi proprio dagli Stati Uniti importiamo una nuova prospettiva che recupera la canapa come prodotto ecologico e sostenibile, e in questa ventata di antiproibizionismo anche della sostanza psicoattiva per usi medici o ricreativi, tutto sembra una novità d’oltreoceano che si esprime con i loro “termini”. Canaperia non viene in mente a nessuno e la secolare storia produttiva dell’Italia è sepolta dall’anglonuovismo e dimenticata. Ma tanto ormai i negozi sono shop e store. E il cerchio si chiude.

Crocheter e knitter, caregiver e delivery…

In Rete e su YouTube si stanno affermando parole come crocheter e knitter per indicare chi lavora a maglia con uncinetto o ferri, e Irene, un’appassionata di queste pratiche, si chiede come si potrebbe dire in italiano.

Nell’italiano storico esiste magliaio/a per indicare chi lavora a maglia, e telarista che era però riferito a chi lavora al telaio. Il lavoro a maglia è antico, e lo è anche lo sferruzzare (verbo che compare abbondantemente nei testi letterari) da cui si può legittimamente ricavare sferruzzatore/trice, perfettamente comprensibile e che ha già una sua presenza. Storicamente lo sferruzzare era legato al “fare la calza” e per indicare le donne che sferruzzavano si parlava anche di “calzettaie”, oggi poco riproponibile. Esisteva anche “agucchiante” derivato da ago/agucchiare (dal diz Battaglia: Negri 2-837: “La donna del popolo agucchiante alla finestra appare come un’umile cosa”) e si usava anche “infilzare” (nel lavoro ai ferri: avviare la maglia, mettere i punti, sferruzzare). Nella nostra lingua ci sono i merletti ma non le merlettatrici e anche cucitore è un vocabolo più ampio, come tessitore. Sembra insomma che non ci sia mai stata l’esigenza di dare un nome alle lavoratrici a maglia, fuori da magliaia, lo stesso significato generico dell’inglese, mi pare, solo che oggi lo importiamo con una restrizione del suo significato come fosse un tecnicismo che indica una cosa ben precisa. Dunque magliaia non va bene. E quando si sente l’esigenza di una parola nuova l’italiano storico si butta, non si recupera.
Se si proponesse la parola infilzatrice si risponderebbe che è ridicola, o troppo generica o poco appropriata; se si proponesse sferruzzatrice l’obiezione potrebbe essere: “Sferruzzare non può essere che con i ferri. Inoltre adottare lo stesso termine creerebbe confusione.” Uncinettatrici? Uncinettole? Inventare parole sembra che non appartenga più alla nostra cultura. Adattare meno che mai. E allora suvvia… Importiamo dall’inglese!

Ma perché? Mi chiedo. Perché l’italiano non può evolvere, estendere il significato del suo lessico in senso lato come è avvenuto per secoli, e perché sferruzzare non si può recuperare, così come navigare oggi non significa tecnicamente solo “andar per mari” ma anche consultare la Rete? Non mi pare che ciò porti alcuna confusione. Da dove nasce l’idiozia che sia necessaria una parola specifica per ogni cosa, quando la lingua è metafora e le parole hanno un significato che non si può slegare dal contesto?

Un’altra lettrice ha rivendicato tutta la differenza tra badante, una professione, e caregiver, l’assistente familiare che bada ai parenti in difficoltà ma non è una figura riconosciuta ufficialmente. Ma perché badante – lett. colui che bada, participio presente di badare – non può estendersi a indicare in senso più ampio anche queste persone? Che cosa c’è di male se dico che faccio da badante ai miei genitori anziani? Dove sta scritto che il campo semantico di badante è solo nel prendersi cura a pagamento?

Certo, nell’uso questa è l’accezione che si è imposta, ma l’uso si cambia e si amplia, la lingua evolve. Perché dovrebbe evolversi solo attraverso l’inglese? E così i caregiver vogliono il loro riconoscimento in inglese, e lo stesso avviene quando nascono i sindacati dei rider o dei pet sitter, in un contesto sociale dove a nessuno viene neppure in mente di trovare parole italiane; e questo li danneggia, perché poi non riescono a far arrivare a tutti le loro legittime richieste, tanto che Zaia – dunque un presidente di regione, non propriamente l’uomo della strada – in una recente uscita televisiva ha definito un caregiver come un autista dei disabili, dando un’interpretazione tutta sua della parola che collegava forse a car, cioè automobile.

Cosa accomuna tutti questi anglicismi?

Sotto il proliferare di ogni singolo anglicismo c’è una mentalità ormai radicata che ci fa considerare l’italiano solo nei suoi significati storici, mentre ciò che è nuovo si deve differenziare attraverso una nomenclatura in inglese. È la logica per cui oggi, se diciamo calcolatore, pensiamo agli apparecchi di una volta, perché quelli moderni si chiamano computer. Eppure in inglese sono ancora computer come quelli di una volta, così come in francese erano e sono ordinateur, e in spagnolo computador. Solo in italiano abbiamo sostituito la parola che usavamo, altrove le parole si evolvono, da noi usarle viene spesso considerato ridicolo.

C’è persino un commentatore che ha osservato che delivery non è come la consegna a domicilio, in quanto ti possono portare la pizza anche in ufficio, non solo dove hai il domicilio!
Ci rendiamo conto del livello che stiamo rasentando?

Perché avviene tutto questo?
La risposta è nel linguaggio delle ferrovie, della Cassazione, della regione Lombardia, della tv, dei giornali, della Rete, della tecnologia, delle merci globalizzate… Stiamo al passo con i tempi! Usiamo l’inglese e massacriamo l’italiano! Facciamolo morire. C’è addirittura chi ha fatto della massima “i termini non si traducono”, la sua (pessima) prassi di lavoro terminologico. Se una parola esiste già, bene, altrimenti la si importa in inglese. Se l’inglese è già in uso, poi, questo uso diventa sacro e insostituibile! L’italiano, in altre parole è morto! La possibilità di creare un neologismo, di adattare o di allargare vecchi di significati e di intervenire sull’uso – come avviene nelle banche dati terminologiche francesi e spagnole – non è nemmeno contemplata.

Davanti alla retorica ipocrita dell’uso “sovrano”, sacro e inviolabile, gli anglomani anglopuristi non raccontano che l’uso non è affatto qualcosa di “democratico” e popolare che che viene dal basso, dalle esigenze dei parlanti, come fanno credere. L’uso che si impone dal basso è di solito bollato come errore, e dunque scrivere “qual’è” con l’apostrofo, o usare “piuttosto che” con il significato di “oppure” invece di “anziché” sono condannati (aggiungo per chiarezza: giustamente!), benché largamente diffusi. Invece l’altro uso, quello dell’inglese imposto dall’alto, dai mezzi di informazione alle istituzioni, viene osannato come tecnico, necessario, internazionale e al passo con i tempi. In questo caso l’uso è sacro. Persino quando a far la lingua non sono più i nativi italiani, ma le multinazionali d’oltreoceano che si espandono e ci impongono le loro parole come follower, snippet, leasing, cheeseburger… Invece, quando si deve intervenire sull’uso per cambiare la storia e introdurre il linguaggio inclusivo, il politicamente corretto (entrambi importati dagli Usa) o la femminilizzazione delle cariche, ecco che educare a parlare nel giusto modo diventa non solo possibile, ma auspicabile e doveroso. Due pesi e due misure che remano in un’unica direzione: importare il pensiero unico che sempre più spesso si esprime in una sola lingua.

La newlingua orwelliana

E nei Paesi anglofoni cosa accade? Pensate che anche loro non traducano i termini stranieri?

Ho appena letto uno studio specialistico sulla traduzione in inglese dei termini giuridici del codice penale italiano e del diritto romano, e le scelte traduttive sono orientate alla lingua del ricevente, mica attente a non profanare la lingua di provenienza. Visto che per loro non esiste il concetto di “ergastolo” non è che lo importano in italiano, non essendo deficienti lo traducono letteralmente con life sentence. La Corte di Cassazione è un organo che non esiste negli ordinamenti di common law, dunque il “ricorso per cassazione” diventa “appeal to the Court of Cassation”, adattato: non dicono certo Cassazione! Ma fuori dalla terminologia, anche l’inglese comune è richissimo di parole estere che però ha fatto sue attraverso l’adattamento (come avviene normalmente nelle lingue sane) a cominciare da quelle italiane. Disegno è diventato design, schizzo sketch, maschera mascara, maneggio ha generato manager, novella novel… mentre noi oggi reimportiamo queste nostre parole con il restyling in inglese. Siamo ormai colonizzati linguisticamente, e il nostro servilismo è sempre più assurdo.

Tra i consigli d’autore sulla scrittura, George Orwell, nel saggio La neolingua della politica (1946), consigliava: “Mai usare un’espressione straniera, un termine scientifico o la parola di un gergo speciale se si riesce a trovare un equivalente nella lingua quotidiana” (p. 65). Inoltre, scriveva: “Non c’è davvero bisogno delle centinaia di espressioni straniere ormai di uso comune in inglese” e addirittura tuonava contro le radici latine e greche (p. 37) che suonavano più solenni di quelle anglosassoni.

Gli anglomani, se amano così tanto l’inglese, dovrebbero fare come gli inglesi! Dovrebbero riflettere maggiormente sulla necessità di recuperare la propria lingua, invece di trasformare l’angloamericano nella newlingua che ricorda proprio quella del grande fratello di 1984.

Voglio concludere con una citazione di Orwell tratta dal bel libro appena uscito a cura di Massimo Birattari (La neolingua della politica, Garzanti, Milano 2021, p. 59, grassetto mio):

“…la decadenza della nostra lingua è forse curabile. Coloro che lo negano sosterrebbero, se mai volessero produrre un’argomentazione, che la lingua si limita a riflettere le condizioni sociali presenti, e che non possiamo influenzare il suo sviluppo armeggiando direttamente con parole e costruzioni. Dal punto di vista del tono generale e dello spirito di una lingua, questo potrebbe essere vero ma non lo è nei dettagli. Parole ed espressioni sciocche sono spesso scomparse, non per mezzo di un processo evolutivo ma grazie all’azione consapevole di una minoranza.”

Anche l’italiano di oggi riflette le condizioni sociali presenti. Non so se l’itanglese è curabile. Di sicuro è necessario combatterlo attraverso una battaglia culturale non rivolta contro i singoli anglicismi, ma contro la nostra anglomania, il nostro servilismo e il nostro senso di inferiorità. Non è questione di fare i puristi, come lo era Orwell che se la prendeva con i cattivi scrittori e anche con le brutte espressioni angloamericane. La questione riguarda l’ecologia linguistica, e cioè la sproporzione dell’inglese e il numero degli anglicismi che ha ormai superato ogni limite tollerabile dal buon senso e sta snaturando completamente la nostra lingua.

È necessario promuovere e difendere l’italiano non per principio, ma perché sta soccombendo.

Lo abbiamo chiesto l’anno scorso al presidente Mattarella e oggi lo chiediamo in modo più articolato in una proposta di legge per l’italiano (ringrazio le oltre 650 persone che la stanno appoggiando con le loro firme).

E poiché lo Stato non fa alcuna campagna contro l’abuso dell’inglese, come accade invece in Francia o in Spagna, non resta che provare a fare qualcosa attraverso l’azione consapevole di una minoranza.

Questi sono i video di una campagna fatta dai volontari del portale Italofonia. Una minoranza senza finanziamenti né riconoscimenti, ma che non si arrende.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. Le immagini, i collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Dantedì, una raccolta firme e un giorno di lotta

Di Antonio Zoppetti

Sembra che il Dantedì sia stato ufficializzato il 25 marzo – ipotetica data di inizio del viaggio dell’aldilà – come una ricorrenza anche per gli anni a venire.
Il rischio di queste feste, tuttavia, è che si trasformino in celebrazioni retoriche, dove una volta all’anno si portano i fiorellini sulla tomba dell’italiano come nel giorno dei morti, per poi procedere con la sistematica distruzione del nostro lessico gli altri 364 giorni.

Negli anni anni bisestili c’è un giorno in più per farlo, e nel 2020 abbiamo cominciato a chiamare come fosse normale i centri ospedalieri “hub”, i focolai “cluster”, il lavoro da casa “smart working”, i tamponi in macchina “drive through”, la sperimentazione clinica “trial”, il confinamento “lockdown”, le goccioline “droplet”, il tracciamento dei contatti “contact tracing”, i piani per la ripresa “recovery fund/plan”, gli anti-mascherina “no mask”, le consegne a domicilio “delivery”, i rimborsi “cahsback”…
Ricorrere a questi “prestiti sterminatori” significa diffondere l’itanglese e rinunciare alla nostra lingua. Le nostre parole sono sostituite sempre più spesso da quelle inglesi e pseudoinglesi, che si affiancano a ogni genere di neologismo (che coincide sempre più con “anglicismo”) in un’anglo-mania diventata una nevrosi psico-sociale compulsiva.

La commemorazione dantesca dovrebbe diventare un giorno di lotta, un’occasione per ricordare a tutti che la nostra lingua è schiacciata dal numero degli anglicismi, dalla loro frequenza e dalla profondità con cui si radicano. Tutto ciò non ha nulla a che fare con il purismo, è una questione di ecologia linguistica e di sproporzioni lessicali che il nostro idioma non è più in grado di sostenere senza snaturarsi.

Firma la proposta di legge per la tutela dell’italiano!

A 700 anni dalla morte del Sommo Poeta, perché la nostra lingua possa invece vivere, 7 persone hanno presentato una proposta di legge a tutela dell’italiano minacciato dall’inglese, alla Camera e al Senato, seguendo i canali istituzionali previsti in base all’articolo 50 della Costituzione che permette ai cittadini di inoltrare petizioni e richieste legislative su questioni di comune necessità. Il testo è scaricabile anche in formato Pdf, e contiene 11 punti di intervento.

In attesa di una risposta dalla Camera, la proposta è stata subito annunciata all’Assemblea del Senato nella seduta n. 307 del 24 marzo 2021 con il numero 795 ed è stata assegnata alla 7a Commissione permanente (Istruzione pubblica, beni culturali) “che ne curerà i seguiti secondo quanto previsto dall’articolo 141 del Regolamento del Senato.” Ma non è automatico che si proceda con la discussione, potrebbe anche essere archiviata.

Per questo motivo stiamo raccogliendo le firme di chiunque ci voglia sostenere.

Il peso della proposta dei 7 sottoscrittori avrà tutto un altro effetto se sarà appoggiata da altri 70, 700, o 7.000 cittadini…

Dunque chiediamo a tutti di unirvi a noi, di esprimere il vostro appoggio e di diffondere l’esistenza della nostra iniziativa tra gli amici, sulle piattaforme sociali, sui vostri siti e tramite il passaparola (cancelletto: #litalianoviva).

Per aggiungervi alla richiesta di proposta di legge potete inviare un messaggio attraverso questo modulo: https://attivisti.italofonia.info/proposte/legge-vivalitaliano-2021/

Le adesioni pervenute saranno raccolte e inviate a qualche parlamentare di riferimento con la richiesta che inserisca la petizione nell’ordine del giorno, perché si discuta e non sia archiviata.

Il nostro patrimonio storico si difende così, con gesti concreti e non con le chiacchiere.

La mobilitazione inizia simbolicamente l’indomani del Dantedì 25 marzo 2021, proprio mentre alcuni giornali, enti, comuni e manifestazioni hanno parlato invece del “Dante day”: l’espressione in itanglese solo due giorni fa restituiva su Google circa 27.400 risultati, il 26 marzo sono diventati 52.100, sono cioè raddoppiati!

Intanto, la Commedia è già diventata “comedy” nei palinsesti televisivi e nelle denominazioni dei generi cinematografici. Aiutateci ad arginare l’anglodemia, e a non trasformare la lingua di Dante nell’Infernal Tour della Divina Comedy di Don’t Alighieri:

Nel mezzo degli step di nostra vita

mi ritrovai in location oscura,

che la best practice si era smarrita.

Ahi a dirne about è cosa dura

on the road selvaggio sì hard e forte

che nel mio inside rinova la paura!

Tant’è strong che il benchmark è la morte;

ma per il tracking del good ch’i’ vi trovai,

dirò delle altre news ch’i v’ho scorte…

Grazie!

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Una proposta di legge per l’italiano

Dopo le parole di Draghi sugli anglicismi che lasciano sperare in una maggiore sensibilità sulla questione rispetto alle precedenti legislature, e visto che a 4 mesi dal suo inoltro non è pervenuta alcuna risposta alla petizione sull’abuso dell’inglese al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ho provato un’altra via per rivolgermi alle istituzioni.


L’articolo 50 della Costituzione prevede che i cittadini possano rivolgere petizioni per provedimenti legislativi, e seguendo i canali previsti, insieme a qualche altro sottoscrittore, ho presentato oggi un proposta di legge alla Camera e al Senato.

Di seguito rendo pubblico il testo dell’iniziativa.

Questo è il mio modo di omaggiare i 700 anni dalla scomparsa di Dante: non con le celebrazioni retoriche, le chiacchiere e i musei, ma con i fatti e le iniziative concrete perché la nostra lingua possa continuare a vivere.
E prossimamente…
(continua).

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Petizione per provvedimenti legislativi a tutela e promozione della lingua italiana minacciata dall’abuso dell’inglese

Petizione presentata e sottoscritta ai sensi dell’articolo 50 della Costituzione da Antonio Zoppetti e da Daniele Tarricone, Giorgio Cantoni, Luigi Quartapelle, Giancarlo Consonni, Jean-Luc Laffineur, Bruna Zambrini.

Premessa

L’espansione dell’inglese globale legato ai fenomeni di mondializzazione sta stravolgendo in modo consistente l’assetto di tutte le lingue del mondo, ponendo gravi problemi di snaturamento delle identità linguistiche locali. Questo fatto ha delle ripercussioni concrete su molti aspetti della società, da quelli storico-culturali a quelli, molto più pratici, legati alla comprensione e alla trasparenza da parte dei cittadini di fronte alla comunicazione mediatica, lavorativa e anche istituzionale. Il fenomeno dell’anglicizzazione, in Italia molto pesante, non ha perciò nulla a che vedere con questioni astratte legate al “purismo”, alla “lotta ai barbarismi” o alle chiusure davanti all’internazionalizzazione che caratterizza la nostra epoca. È un problema di numeri e di buon senso.

Qualche dato

♦ Dallo spoglio dei dizionari risulta che dal 1990 a oggi, gli anglicismi non adattati sono passati da circa 1.700 a 4.000 (cfr. Devoto Oli).*
♦ Dalle analisi di dizionari come Devoto Oli e Zingarelli emerge che tra le parole che sono nate negli anni Quaranta e Cinquanta gli anglicismi crudi rappresentavano circa il 3,6%. Questo numero negli anni Sessanta è salito a quasi il 7%, negli anni Settanta ha superato il 9%, negli anni Ottanta il 16%, negli anni Novanta il 28% e oggi costituisce quasi il 50% delle parole nate negli anni Duemila. A preoccupare non sono solo la sproporzione e l’aumento esponenziale, ma il fatto che nel Nuovo millennio l’italiano sta cessando di evolvere per via endogena, e ciò che è nuovo viene espresso principalmente in inglese crudo.
♦ Passando dalla presenza delle parole inglesi alla loro frequenza, tutti i dati mostrano che gli anglicismi sono usati sempre più spesso dai mezzi di informazione, e hanno colonizzato il lessico di tanti ambiti strategici della nostra lingua: l’informatica, la formazione, il lavoro, l’economia, la tecnologia, la scienza… (in alcuni settori l’italiano ha perso la capacità di esprimersi con il proprio lessico) e sono entrati in modo molto ampio persino nel linguaggio politico, delle leggi e delle istituzioni.
♦ Dagli ambiti di settore gli anglicismi stanno poi penetrando sempre più anche nel linguaggio comune e addirittura in quello fondamentale: nel dizionario delle 7.000 parole “di base” di Tullio De Mauro (quelle che compongono oltre il 90% dei vocaboli utilizzati normalmente) nel 1980 si contavano una decina di inglesismi, ma nell’edizione del 2016 sono decuplicati e ce ne sono 129.

Il problema non sta nelle parole come bar, film, sport o scanner, che in buona sostanza si pronunciano e scrivono secondo le nostre regole e producono ibridazioni italiane (barista, filmare), né nell’accettazione di anglicismi ormai storici, bensì nella quantità e frequenza di quelli nuovi che violano il nostro sistema fono-ortografico e stanno creolizzando il nostro lessico e il nostro patrimonio linguistico.

* Per avere un parametro di riferimento: i francesismi erano e sono nell’ordine di un migliaio, gli ispanismi nell’ordine di un centinaio o poco più, lo stesso vale per i germanismi, mentre per le altre lingue l’interferenza si esprime attraverso le decine di parole.

La situazione negli altri Paesi

Il ricorso sistematico e compulsivo all’inglese da alcuni decenni sta portando a una trasformazione dell’italiano storico in una lingua ibrida che è stata definita itanglese,* sul modello del franglais di cui si parla in Francia. In Spagna il fenomeno è chiamato spanglish, in Germania Denglisch, e ovunque sono nate analoghe definizioni: il greenglish denunciato recentemente dall’ex ministro dell’Istruzione greco Georgios Babiniotis, il runglish della Russia post-comunista, mentre in Asia c’è l’hinglish per l’hindi, il konglish per il coreano, il tinglish per il thai, il japish o l’englanese per il giapponese, e via dicendo.

Stando a numerose ricerche effettuate attraverso l’analisi delle testate giornalistiche, che rispecchiano l’andamento più generale della lingua, tra le lingue romanze solo nel caso del romglese, la variante del rumeno, il numero degli anglicismi è simile al caso italiano, mentre la loro penetrazione in Francia e in Spagna non è paragonabile alla nostra, né per il numero né per il rilievo.

Le ragioni di questa diversa situazione sono storiche e culturali, ma soprattutto politiche. Lo spagnolo è parlato in una ventina di Paesi e le accademie di ognuno di questi lavorano in modo coordinato per mantenere l’uniformità della lingua sovranazionale anche con sostitutivi agli anglicismi. In Francia, la legge Toubon è arrivata dopo una serie di altri provvedimenti legislativi che hanno attraversato i governi di destra e di sinistra, dai tempi di De Gaulle a quelli dei mandati socialisti. All’estero in molti hanno da tempo compreso il problema e varato politiche linguistiche e provvedimenti. In Islanda esiste ufficialmente persino la figura del neologista, visto che l’islandese è una lingua davvero a rischio, in Europa. In Italia non siamo mai intervenuti, e l’approccio del “liberismo linguistico” si sta trasformando in un anarchismo selvaggio dove la nostra lingua è schiacciata dall’egemonia dell’inglese. L’italiano è paradossalmente più tutelato in Svizzera – dove il question time si chiama l’ora delle domande – che nel nostro Paese: lì negli ultimi anni si sono fatti enormi investimenti per la promozione dell’italiano visto che davanti al francese e al tedesco risulta in minoranza, nel loro modello plurilinguista.

* Dalla semplice importazione degli anglicismi stiamo passando alla nascita di nuove “regole” per la formazione delle parole: dilagano centinaia di ibridazioni come screenare; se usiamo work, di conseguenza paliamo anche di working e worker, spesso ormai declinato con la s del plurale workers; ricombiniamo le radici inglesi in espressioni come smart working o covid hospital e covid free, si afferma la regola del “no + inglese” in espressioni come no mask, e in pseudoanglicismi come no vax, no panic

In conclusione

Queste sono le premesse che ci hanno spinto a presentare la seguente proposta per la promozione della lingua italiana e un disegno di legge a sua tutela.
Il 2021 è l’anno delle celebrazioni dantesche e dell’istituzione del Ministero per la transizione ecologica: crediamo ci si debba finalmente occupare anche della tutela della lingua italiana in una prospettiva legata al tema dell’ecologia linguistica, oltre che ambientale. L’uscita del Regno Unito dall’Europa, infine, potrebbe essere l’occasione anche per rilanciare la nostra lingua come lingua di lavoro nella UE e promuoverla maggiormente all’estero.

Di fronte a un’anglicizzazione sempre meno sostenibile, chiediamo perciò che si intervenga a tutela dell’italiano con la costituzione di un organismo ufficiale dello Stato che operi almeno attraverso tre diverse prospettive: la promozione culturale, la legislazione e la valorizzazione all’estero che può rappresentare un’enorme risorsa economica.

Di seguito 11 punti concreti di intervento.

§ Misure di promozione della lingua italiana e contro l’abuso dell’inglese

1) Avviare una campagna mediatica contro l’abuso dell’inglese

Lo hanno già chiesto oltre 4.000 persone in una petizione rivolta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È una strategia praticata con successo in Francia e in Spagna. I costi sarebbero irrisori e i canali istituzionali per le campagne di sensibilizzazione sociale e le “pubblicità progresso”, dal bullismo alla discriminazione contro le donne, esistono già, basterebbe usarli anche per non discriminare la nostra lingua.

2) Dare il via a un’analoga campagna nelle scuole

Servirebbe a fare riflettere e aprire un dibattito sull’abuso dell’inglese anche tra le nuove generazioni.

3) Emanare linee guida e raccomandazioni per il linguaggio dell’amministrazione e quello istituzionale

Questo approccio è già stato inaugurato con un certo successo – e con la consulenza dell’Accademia della Crusca – per la femminilizzazione delle cariche lavorative. Si potrebbero emanare analoghe linee guida e raccomandazione anche per evitare l’abuso degli anglicismi, come è stato fatto per esempio in Svizzera (qui un esempio: https://www.bk.admin.ch/bk/it/home/documentazione/lingue/strumenti-per-la-redazione-e-traduzione/raccomandazioni.html).

§ Interventi legislativi

4) Evitare gli anglicismi nei contratti di lavoro

In Francia è vietato e alcune multinazionali sono state sanzionate pesantemente per le loro violazioni. Da noi, invece, accade per esempio che un’azienda come Italo abbia sostituito la figura del capotreno con il train manager non solo nella comunicazione ai passeggeri, ma persino nei contratti di lavoro, mentre nascono i sindacati dei rider o dei pet sitter.
Con un approccio alla francese,* magari più moderato, dovremmo fare in modo che le mansioni di lavoro si esprimano in italiano, per rispetto della nostra lingua, dei cittadini e della trasparenza loro dovuta. Per le nuove professioni espresse solo con nomi in inglese, ancora una volta il ruolo della Crusca potrebbe essere strategico nell’individuazione e nella coniazione di sostitutivi italiani.

* Gli articoli 6, 7 e 8 della legge Toubon, volti alla tutela dei lavoratori, precisano che i contratti di lavoro, le offerte d’impiego e i documenti interni all’impresa, imposti ai lavoratori o a loro necessari per lo svolgimento del lavoro, siano compilati in francese.

5) Valorizzazione dell’Accademia della Crusca

Al contrario delle accademie di Francia e Spagna, la Crusca non ha oggi un ruolo “normativo” e la sua storica missione lessicografica della costituzione di un vocabolario ufficiale le è stata sottratta ai tempi del fascismo. Senza arrivare a una sua ricostituzione o rifondazione, in modo più morbido, si potrebbe però rifinanziarla e investirla di un potere più forte e più ufficiale, rendendola un punto di riferimento per la politica linguistica come organo principale di consulenza, e coinvolgendola in un’opera di individuazione, ma anche di creazione, di sostituivi italiani agli anglicismi, potenziando il Gruppo Incipit e ufficializzandolo. Le accademie di Francia e Spagna coniano neologismi alternativi a quelli inglesi che vengono poi promossi da campagne mediatiche, e molti di essi, anche se non tutti, vengono poi recepiti dai parlanti e dai giornali con successo. Ciò costituisce un arricchimento della lingua locale, invece che una sua regressione.

6) Inserire nella Costituzione che la nostra lingua è l’italiano

Anche se la Corte Costituzionale si è espressa più volte sancendo che l’italiano è la lingua ufficiale, questo aspetto non è chiaramente espresso nella Costituzione e si potrebbe aggiungerlo come nella Costituzione francese, e come la Crusca ha proposto un paio di volte senza successo. Nell’articolo 12, dove si fa riferimento ai colori della nostra bandiera, si potrebbe aggiungere che l’italiano è la lingua ufficiale. Ciò non pregiudica né l’utilizzo delle lingue regionali né le minoranze linguistiche già esplicitamente tutelate in altri articoli.

7) Sancire che l’italiano non può essere estromesso come lingua della formazione

La lingua dell’università, della scuola e della formazione deve essere l’italiano, e l’insegnamento non può avvenire attraverso l’erogazione esclusiva di corsi in inglese, come di fatto sta accadendo in alcuni atenei (il caso del Politecnico di Milano è il più eclatante). Questo è un diritto degli studenti e degli italiani che non può essere cancellato, fatto salvo che le scuole straniere, pensate per accogliere studenti di cittadinanza straniera, o gli istituti che erogano insegnamenti a carattere internazionale, sono esclusi da questo obbligo.

8) Ripristinare l’italiano come lingua dei Prin

I Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (Prin) dovrebbero contemplare la possibilità di essere presentati in italiano, non solo in inglese (mentre l’italiano è ridotto a un’inutile opzione facoltativa); il diritto di rivolgersi alle istituzioni italiane o europee in italiano non può essere messo in discussione.

9) Cancellazione dell’obbligo di conoscere l’inglese, come unica seconda lingua, nella pubblica amministrazione

La riforma Madia (legge n. 124 del 7 agosto 2015, “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, articolo 17, lettera e) ha sostituito l’obbligo di conoscere una lingua straniera come requisito per i concorsi nella pubblica amministrazione con l’obbligo della sola lingua inglese. Si tratta di un principio che va contro il plurilinguismo inteso come valore e ricchezza culturale e porta all’affermazione della sola lingua inglese indipendentemente dall’ambito. L’obbligo di conoscere una seconda lingua, dunque, dovrebbe essere ripristinato, e solo a seconda dell’ambito si potrebbe specificare che coincide con l’inglese (laddove questa lingua è realmente un requisito), altrimenti si tratta di un provvedimento discriminatorio.

§Valorizzazione dell’italiano all’estero e sul piano internazionale

10) Adoperarsi perché l’italiano ritorni a essere lingua di lavoro in Europa

L’Italia dovrebbe difendere la nostra lingua anche nell’Unione Europea, e lavorare perché ritorni a essere lingua di lavoro, come lo era un tempo, e come oggi lo sono l’inglese, il francese e il tedesco. L’uscita del Regno Unito, oltretutto, rende di fatto l’inglese una lingua madre minoritaria rispetto a quelle comunitarie, parlata solo in Irlanda e a Malta, che hanno però indicato come lingua ufficiale il gaelico e il maltese; dunque è possibile spingere maggiormente verso un modello multilingue che non escluda l’italiano, nell’interesse del nostro Paese e di tutti i cittadini.

11) Trasformazione della lingua italiana in un bene da esportare

Il governo dovrebbe lavorare per promuovere maggiormente l’italiano all’estero, visto che gode di una nomea molto apprezzata. Basti pensare ai prodotti alimentari dal nome italofono – un fenomeno che non esiste per i prodotti francesi o spagnoli – che rappresentano una fetta di mercato enorme.
Questo progetto può attuarsi attraverso la creazione di posti di lavoro per l’insegnamento, ma anche attraverso la valorizzazione della cultura e della lingua italiana in tutto il mondo, che può trasformarsi in una grande risorsa economica. In questo processo, anche le denominazioni delle nostre manifestazioni, eventi e e iniziative dovrebbero essere in italiano, invece di puntare a progetti di cui ITsART, da poco presentato ufficialmente per promuovere la cultura italiana in tutte le sue forme (tranne la lingua), rappresenta l’ennesimo caso di rinuncia all’esportazione del nostro patrimonio linguistico.


PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. Le immagini, i collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Manifesto per una politica linguistica italiana

Di Antonio Zoppetti

«buon giorno. Ho 97aa. Vi scrivo perchè da alcuni anni, da quando molti giornali e riviste, compresa Famiglia Cristiana a cui sono abbonata, utilizza parole straniere, per capire un articolo devo chiedere sempre aiuto ai figli e nipoti. E se non ne avessi? Vi sarei grata se faceste una segnalazione affinchè la situazione possa migliorare, per noi anziani della vecchia generazione.
Grazie

Maria Bordignon»

Ho ricevuto questa lettera che mi ha toccato, e non sapendo bene che altro fare voglio renderla pubblica. Mi è parso un lamento di sconforto su cui dovremmo riflettere tutti.

Chi ha oggi 97 anni ha assistito al nascere e all’affermarsi dell’italiano come patrimonio comune, e attualmente sta assistendo a una sua trasformazione radicale, perché l’aumento degli anglicismi che si sono accumulati nell’arco di una vita lo ha snaturato al punto di non essere più comprensibile.

Si può anche sostenere che questo nuovo “italiano” sia quello della modernità, del presente e del futuro. Si può continuare a ostentarlo parlando in questo modo. La nostra classe dirigente sembra andarne fiera, e lo impiega come tratto distintivo per identificarsi ed elevarsi sociolinguisticamente. L’itanglese è il modello che stanno diffondendo i mezzi di informazione, gli imprenditori, i tecnici, gli scienziati, e in generale molti uomini di cultura, e dunque viene sempre più emulato dai parlanti, che nell’epoca di Internet sono anche sempre più scriventi. C’è chi preferisce questo linguaggio e se ne riempie la bocca e la penna convinto che sia internazionale e necessario, e c’è chi, davanti a parole come lockdown o cahsback calate dall’alto senza alternative, non può fare altro che ripetere l’inglese senza alcuna possibilità di scegliere, anche quando non approva e preferirebbe equivalenti italiani. In altri casi fatica addirittura a comprendere e pronunciare questi vocaboli stranieri.

Questo nuovo anglo-italiano è promosso all’interno del nostro Paese da “collaborazionisti” che si trovano a occupare i posti chiave dei centri di irradiazione della lingua. Con questo linguaggio acuiscono un processo mondiale di diffusione del globalese, frutto dell’espansione delle multinazionali statunitensi e legato alla globalizzazione, che coincide sempre più con l’americanizzazione delle merci e, insieme a queste, della società e della cultura. Questa forte pressione esterna, in sintesi, non solo non trova delle resistenze interne che si registrano per esempio in Francia o in Spagna, ma viene addirittura favorita.

Eppure si può anche dissentire da questa “strategia degli Etruschi”, che si sono sottomessi da soli alla romanità sino a esserne inglobati e scomparire. L’italiano, che in patria stiamo depauperando in modo irresponsabile, all’estero è invece considerato una lingua bellissima e se puntassimo sulla sua promozione e valorizzazione potremmo anche trasformarlo in una risorsa dai risvolti economici che al momento non vengono presi in considerazione. Lo ha ricordato qualche giorno fa Andrea Riccardi in un articolo sul Corriere della Sera (“Investire sull’italiano per rilanciare il paese”, 15/1/21): “Non è un caso che i brand nella nostra lingua siano secondi solo a quelli in inglese. Insegnare più italiano significa a termine «vendere» più Italia in tutti i sensi”.

Il paradosso dell’articolo è che vuole difendere l’italiano facendo un ricorso agli anglicismi piuttosto ampio (anche questo è un indicatore che la dice lunga sul livello che abbiamo raggiunto): Recovery, brand, design, made in Italy… sono espressioni in parte senza troppe alternative praticabili e in parte scelte lessicali di largo uso.

Chi considera la nostra lingua come un patrimonio che andrebbe promosso e tutelato – come si fa per l’arte, la storia, la natura, la gastronomia e tutte le eccellenze che ci contraddistinguono, ci identificano e di cui possiamo andare fieri – dovrebbe cominciare a farsi sentire. Siamo ormai a un bivio, e forse abbiamo già superato il punto di non ritorno.
È giunto il momento di schierarsi e di fare qualcosa, sempre che lo si voglia fare. Dovremmo agire subito, per cercare di salvare il salvabile, e gridare forte che chi sta dalla parte dell’inglese, chi lo diffonde, chi si limita a osservare l’anglicizzazione senza intervenire è responsabile della morte dell’italiano o della sua creolizzazione lessicale che lo ha trasformato in altra cosa rispetto alla lingua di Dante.

La politica linguistica dell’inglese

Fino a qualche anno fa, in Italia, parlare di politica linguistica era un tabù che evocava lo spettro del fascismo, come se l’unico esempio possibile fosse quello, e non ciò che avviene oggi in Paesi civili come la Francia, la Spagna, la Svizzera, l’Islanda, e tanti altri.

Da noi la maggior parte dei linguisti si vanta di avere nei confronti dell’italiano un approccio descrittivo più che prescrittivo, ed è mossa dallo spirito per cui la lingua va studiata e non difesa. A dire il vero non tutti sembrano studiare così a fondo l’interferenza dell’inglese, per troppi anni sottovalutata, minimizzata e persino negata.
Se le balene o i panda si stanno estinguendo, se la terra si sta riscaldando, gli specialisti non possono limitarsi a constatare in modo generico che è normale, perché i cambiamenti climatici e le specie a rischio ci son sempre stati. Dovrebbero prendere posizione e fare qualcosa, se non vogliono essere complici di questi fenomeni. Lo stesso vale per la nostra lingua, è ora di intervenire e di riflettere sull’ecologia lessicale spezzata da un’interferenza dell’inglese che è diventata eccessiva e distruttiva. E chi nega questo fenomeno e proclama che è tutta un’illusione ottica forse dovrebbe cercare di spiegarlo alla signora Maria, che molto più concretamente è rammaricata dal fatto di non comprendere più quello che scrivono i giornali. L’italiano non si può lasciare solo ai linguisti e solo alle loro analisi astratte non sempre in grado di cogliere la realtà. La lingua è di tutti e riguarda noi tutti. Dunque è una questione politica, nel senso più nobile del termine.

Purtroppo i nostri politici non solo non se ne occupano, non solo sono i primi a introdurre anglicismi nel linguaggio istituzionale e della loro comunicazione, ma sembra che non capiscano l’importanza di una politica linguistica per l’italiano, e che siano più interessati a tutelare l’inglese.

Il presidente della Crusca Claudio Marazzini è ritornato da poco sulla questione dei Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (Prin) che dal 2017 si devono presentare in inglese. In un articolo sul sito dell’Accademia ha reso pubblica una lettera che ha inviato l’anno scorso al ministro dell’Università Gaetano Manfredi in cui auspicava che fosse possibile presentare questi progetti anche in italiano. Si tratta di una richiesta molto moderata espressa dalla parola “anche”, e personalmente non sono affatto così moderato, credo che, nello spirito del plurilinguismo che – in teoria – contraddistingue l’Europa, tutti i cittadini europei abbiano il diritto di rivolgersi alle istituzioni nella propria lingua. Comunque sia, il ministro non gli ha mai risposto.
Qualche giorno fa è però arrivata una replica indiretta, attraverso una dichiarazione a un giornalista, in cui emerge la preoccupazione non per la nostra lingua, ma solo per la comprensibilità dei progetti da parte di chi li riceve, perché non possiamo permetterci che le risorse vadano sprecate. Per questo il ministro ha deciso di mantenere l’obbligo dell’inglese. Questa scelta, invece di difendere l’italiano, va nella direzione contraria, lo degrada e relega a lingua di serie B, privo di diritti davanti a un inglese che assomiglia sempre più alla lingua dei “padroni”. Questa presa di posizione esclude molti italiani e contribuisce a dividere i ceti alti da quelli bassi che non hanno accesso alla lingua di rango “superiore”. Sta portando a una nuova “diglossia neomedievale” – per riprendere le parole di un linguista come Jürgen Trabant – quando la cultura si esprimeva in latino ed era accessibile solo a chi lo conosceva, mentre i ceti poveri e ignoranti si esprimevano in volgare. Ma l’inglese non è come il latino usato allora per la comunicazione sovranazionale, che non era la lingua madre di nessuno, è invece come il latino della Roma imperiale che imponeva il proprio idioma ai popoli dominati.
Gli stessi Paesi anglofoni sono ben consapevoli dell’importanza della lingua, perché la lingua è potere. Il progetto che mira a portare tutti i Paesi sulla via del bilinguismo, dove l’inglese è la lingua internazionale e le lingue locali sono vissute come un ostacolo alla comunicazione globale, è un disegno che offre loro vantaggi enormi anche dal punto di vista economico. Questa nuova forma di imperialismo linguistico, teorizzata lucidamente da Churchill, a noi non conviene affatto, ed è una vergogna che la nostra classe politica remi in questa direzione, e la appoggi, mentre allo stesso tempo depaupera l’italiano e non fa certo i nostri interessi. Sembra che tutti siano attenti solo a diffondere e proteggere l’inglese, che veniva posto in primo piano già ai tempi del modello scolastico delle tre “i” di Berlusconi e Moratti (Informatica, Inglese, Impresa), e che si ritrova non solo nei balzelli linguistici come quelli del Prin, ma anche nella riforma Madia che ha sostituito l’obbligo di conoscere una “lingua straniera” nei concorsi pubblici con la dicitura “lingua inglese” (un vero schiaffo al plurilinguismo), oppure nella decisione di certi atenei di estromettere l’italiano dalla formazione universitaria. Ci vorrebbe una quarta “i”, quella dell’italiano.

Un ristoro per l’italiano

Il 2021 ci ha portato due eventi che potrebbero essere l’occasione per una svolta, o perlomeno per aprire un dibattito che manca nel nostro Paese: inaugurare una politica linguistica a favore dell’italiano.

Sul piano interno ci sono le celebrazioni per i 700 anni dalla morte di Dante, e su quello esterno c’è l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Quest’ultimo fatto potrebbe aprire le porte per far tornare l’italiano a essere lingua del lavoro in Europa, come lo era un tempo e come lo sono il francese e il tedesco. Ma nessuno o quasi ne parla, soprattutto i nostri politici, che non lo hanno difeso quando è stato estromesso, e oggi sembra che non si pongano nemmeno la questione. Passando dal piano globale a quello interno – e le due cose sono collegate perché gli anglicismi sono i detriti dell’inglese internazionale, oltre che il frutto della nostra anglomania – le celebrazioni dantesche potrebbero essere un’occasione per rilanciare l’italiano come lingua da praticare, invece che vergognarcene, e per promuoverlo e farlo evolvere, invece di ricorrere solo alle parole inglesi. Ma non si vedono questi segnali e l’impressione è che lo si voglia commemorare più che farlo vivere. L’iniziativa di creare un museo dell’italiano, senza una politica linguistica che lo rivitalizzi, può trasformarsi nel suo opposto e sancirne la sua morte. Se si annuncia il progetto di un portale per “celebrare e raccontare il patrimonio culturale italiano in tutte le sue forme e offrirlo al pubblico di tutto il mondo” e lo si chiama in inglese, ITsART, si sta svilendo il nostro patrimonio linguistico, invece di tutelarlo.

Per questo è nata la proposta di una lettera al ministro Dario Franceschini, che al momento è stata inoltrata da più di 200 persone, in cui chiediamo una politica linguistica a favore dell’italiano, e esprimiamo il nostro dissenso davanti all’inglese del Prin o della legge Madia.

Non è possibile che, in Italia, un dizionario che promuove le alternative agli anglicismi sia lasciato all’intraprendenza e alla buona volontà dei privati, invece che essere realizzato dalle istituzioni o dalle accademie come avviene in Francia e Spagna. E la signora Maria, che evidentemente lo consulta per sopravvivere nella lettura dei giornali, mi ha scritto a quell’indirizzo forse pensando che sia un sito istituzionale.

Nell’anno dantesco, e soprattutto davanti ai tanti ristori previsti in questo momento difficile, bisognerebbe pensare a qualche misura anche per l’italiano.
Non c’è bisogno di investire grandi somme, ci sono varie cose che si potrebbero realizzare senza dispendio, basta volerlo. Per esempio:

1) Inserire nella Costituzione che la nostra lingua è l’italiano
La Crusca l’ha proposto un paio di volte senza successo, ma si potrebbe ritentare. Nell’articolo 12 si fa riferimento ai colori della nostra bandiera, ma non c’è nulla sulla nostra lingua. Si potrebbe aggiungere che è l’italiano, e specificarlo chiaramente, come è stato fatto nella Costituzione francese.

2) Evitare gli anglicismi nel linguaggio istituzionale
In Francia è esplicitamente vietato, per rispetto non solo della loro lingua, ma anche dei cittadini e in nome della trasparenza che si deve per esempio alla signora Maria. Oltre 4.000 cittadini lo hanno chiesto sottoscrivendo una petizione rivolta al presidente Mattarella, anche se per ora non è pervenuta alcuna risposta.

3) Evitare gli anglicismi nei contratti di lavoro
Anche questo in Francia è vietato, e alcune multinazionali sono state sanzionate pesantemente per non averlo fatto. Da noi, invece, accade per esempio che un’azienda nostrana come Italo abbia sostituito la figura del capotreno con il train manager non solo nella comunicazione ai passeggeri, ma persino nei contratti di lavoro. Ci rendiamo conto dell’assurdità, e delle ricadute linguistiche, di queste scelte? Ormai l’italiano è stato escluso dai ruoli lavorativi che sempre più si esprimono in inglese. Fare circolare le alternative ufficiali italiane dovrebbe essere un dovere, per uno Stato.

4) Varare una campagna mediatica contro l’abuso dell’inglese
Questa è la seconda richiesta inserita nella petizione a Mattarella, e anche questa è una strategia praticata con successo in Francia e in Spagna. I costi sarebbero irrisori rispetto per esempio ai 4,5 milioni stanziati per il museo della lingua italiana, e i risultati sicuramente più efficaci. I canali istituzionali per le campagne di sensibilizzazione sociale, dal bullismo alla discriminazione contro le donne, esistono già, basterebbe usarli anche per non discriminare la nostra lingua.

5) Dare il via a una campagna per la promozione dell’italiano nelle scuole
È un progetto già caldeggiato da Gabriele Valle che in passato ha avanzato proposte simili alle mie, e la sua realizzazione potrebbe fare riflettere e aprire un dibattito sull’abuso dell’inglese anche tra le nuove generazioni.

5) Ripristinare l’italiano come lingua del Prin
I Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale dovrebbero contemplare la possibilità di essere presentati in italiano.

6) Lavorare perché l’italiano ritorni a essere una delle lingue del lavoro in Europa
Esiste una petizione in proposito, ne ho parlato più volte. La nostra classe politica dovrebbe difendere la nostra lingua anche nell’Unione Europea.

7) Sancire che l’italiano non può essere estromesso come lingua della formazione
L’università deve insegnare in lingua italiana, e non erogare i corsi in inglese. Questo è un diritto degli studenti e degli italiani da difendere, che non può essere cancellato o messo in discussione.

Mi piacerebbe raccogliere questi suggerimenti, e anche altri che dovessero arrivare, in un documento da rivolgere alle istituzioni sottoscritto da quante più persone possibili. Non so se ci riuscirò, né se qualcosa si riuscirebbe a portare a casa. Ma ci voglio provare, se non altro per fare emergere che esiste anche un’altra visione che non è rappresentata da nessuno. E il 2021 mi pare un momento propizio.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

ITsART: la cultura italiana si esprime in inglese? (lettera aperta a Franceschini)

Onorevole Ministro Dario Franceschini,

ci rivolgiamo a Lei e ai responsabili del progetto ITsART, finanziato dal Suo ministero, per esprimere tutto il nostro sconforto di fronte allo svilimento della nostra lingua.

Leggiamo sul sito ITsART.tv che questa nuova piattaforma si propone di “celebrare e raccontare il patrimonio culturale italiano in tutte le sue forme e offrirlo al pubblico di tutto il mondo”. Una così lodevole iniziativa possiede però un nome in inglese, e questo fatto è l’ennesima testimonianza di come il nostro patrimonio linguistico non venga considerato parte di quello culturale. Siamo infastiditi davanti all’abuso di anglicismi e pseudoanglicismi che caratterizza oggi il linguaggio della politica, dell’imprenditoria, dei mezzi di informazione, della cultura e ormai della stessa lingua italiana.

Nell’anno in cui ricorrono i 700 anni dalla morte di Dante, e in cui nascerà un Museo della lingua italiana nella città di Firenze, la nostra impressione è che la si voglia commemorare invece che praticare e farla evolvere. Per secoli è stata lingua di cultura, di scienza, di arte, di tecnologia, e uno dei motivi unificanti della nostra nazione, come proprio Dante avrebbe voluto. Attraverso l’arte, un tempo abbiamo esportato le nostre parole in tutto il mondo, e alcune sono diventate internazionalismi in settori come la pittura, la scultura, la musica, la gastronomia… Ma tutto ciò sembra appartenere al passato, e se oggi pensiamo di esprimere le nostre eccellenze in inglese siamo davvero un popolo in declino.

Ci piacerebbe che il Suo ministero aiutasse l’italiano a restare una lingua viva e creativa, utilizzata in tutti i settori e adatta a esprimere il mondo di oggi e di domani, più che farla finire in un museo. Ci piacerebbe che l’Italia cominciasse ad avere una politica linguistica, come accade in Francia, in Spagna, in Svizzera, in Islanda e in tante altre nazioni, ma vediamo che la nostra classe politica si esprime con act e tax, invece di leggi e tasse. E a parte questo linguaggio insopportabile per molti italiani, paradossalmente sembra proteggere l’inglese più che l’italiano, visto che la riforma Madia ha sostituito il requisito di conoscere una “lingua straniera” nei concorsi pubblici con la “lingua inglese”, o che il Miur ha deciso che i progetti di rilevanza nazionale (Prin) devono essere presentati in inglese. Ci piacerebbe che i nostri politici tutelassero l’italiano come la lingua sia degli italiani sia dell’alta formazione universitaria e professionale, che dopo l’uscita del Regno Unito dall’Europa si attivassero per farlo ritornare lingua del lavoro alla Ue, e che permettessero al nostro lessico di tornare ad arricchirsi con parole proprie e con neologismi che non siano solo l’importazione acritica di radici inglesi.

Consideriamo ItsART un vero ossimoro che ci evoca l’albertosordità di Nando Mericoni in Un Americano a Roma, anche se ha perso la sua componente ironica per diventare qualcosa di ridicolo, nella sua tragicità. Voler essere internazionali puntando all’inglese è un approccio deleterio per il nostro idioma, rinnega la nostra grande storia e soprattutto non tiene conto dell’enorme potere evocativo dell’italiano, così amato e apprezzato all’estero, ma così svilito in patria. Crediamo che le nostre istituzioni non debbano vergognarsi di parlare e diffondere la nostra lingua, e dovrebbero invece promuoverla e tutelarla come fanno con le altre nostre eccellenze.

Le domandiamo perciò di riconsiderare la scelta del nome della nuova piattaforma della cultura italiana, e in generale Le chiediamo una riflessione sull’opportunità di una politica linguistica che possa restituire vitalità alla nostra lingua e farne uno strumento di promozione della nostra cultura nel mondo.

La ringraziamo per l’attenzione e Le porgiamo i nostri più cordiali saluti.

Giorgio Cantoni e Antonio Zoppetti

Quella che avete letto è una lettera aperta al Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini che ha voluto l’iniziativa denominata ITsART. Invitiamo chiunque condivida la nostra posizione a unirsi a noi. Lo può fare comodamente dal modulo pronto per l’invio che è stato predisposto sul sito Attivisti dell’italiano a questo indirizzo: https://attivisti.italofonia.info/proteste/itsart/

Così facendo, non solo si potrà aderire con la propria firma e inoltrare il proprio dissenso, ma anche tenere d’occhio il contatore con il numero dei sottoscrittori. ITsART riceverà il messaggio dall’indirizzo di posta di chi compila il modulo, ma il nome e l’indirizzo di chi aderisce non saranno pubblici, verrà mostrato soltanto il numero dei partecipanti senza i loro dati sensibili, nel rispetto della privatezza di ognuno.

Più saremo, più avremo la forza di farci ascoltare.

Anche se non riusciremo a cambiare il nome anglicizzato di questo progetto, lanceremo comunque un segnale forte e chiaro: siamo stanchi di questo continuo svilimento della nostra lingua in nome di un’anglomania che non è solo insensata, ma anche deleteria.

Grazie a chiunque vorrà aiutarci.

Le 3000 firme della petizione a Mattarella

Continuo le mie riflessioni sui perché della petizione a Mattarella, #litalianoviva, che conta ormai 3.000 firme. Provo anche a rispondere ad alcune delle critiche basate sulle sciocchezze e sui luoghi comuni di chi non ha studiato e compreso il problema, né tanto meno lo spirito dell’iniziativa.

La nuova questione della lingua

Non se ne può più di sentir dire che è normale che le lingue evolvano o che il francese e tantissimi altri idiomi hanno influenzato l’italiano sin dai tempi di Dante. Queste sono banalità che non si possono che dare per scontate; bisognerebbe essere un po’ più seri e studiare come la nostra lingua si sta evolvendo.

È semplicemente una questione di numeri: dal secondo dopoguerra a oggi – nell’arco di una sola generazione – gli anglicismi sono almeno quintuplicati. Hanno colonizzato i centri di irradiazione della lingua (il lavoro, la scienza, la stampa, l’informatica, l’economia…), si riversano nel linguaggio comune, aumentano di frequenza, penetrano nel lessico di base e, soprattutto, tutto ciò che è nuovo viene sempre più introdotto in inglese crudo, con il risultato che il 50% dei neologismi del nuovo Millennio è costituito da anglicismi. Il punto non è gridare alla morte dell’italiano per becero allarmismo, è constatare che di fatto è già morto, nel senso che ha cessato di evolvere per via endogena, e che registra una regressione davanti all’inglese anche quando esistono parole italiane che finiscono per essere dimenticate o diventare obsolete davanti ai “prestiti sterminatori”. Gli anglicismi non sono perciò una ricchezza, ma al contrario segnano l’impoverimento e la morte del nostro lessico. La loro penetrazione avviene in modo crudo, senza adattamenti, e dunque sta snaturando la nostra identità linguistica, che non è un concetto filosofico e astratto, ma una cosa molto semplice e concreta: nella maggior parte dei casi gli anglicismi costituiscono dei “corpi estranei” che violano le regole dell’ortografia e della pronuncia dell’italiano. Non c’è alcun problema ad accogliere forestierismi non adattati, se sono contenuti in una percentuale fisiologia, è un fenomeno normale che si riscontra in ogni lingua. Ma quando questa percentuale cresce a dismisura, supera nel giro di 70 anni quella di una lingua come il francese che ha una storia di substrati plurisecolari, quando la somma di tutti i forestierismi di ogni lingua del mondo non arriva alla metà degli anglicismi che abbiamo importato in un lasso di tempo così breve, e che usiamo così spesso, c’è un problema oggettivo. Non siamo più di fronte a un fenomeno normale, ma a una creolizzazione lessicale che stravolge la nostra lingua storica. Questi sono fatti. Ogni critica ne deve tenere conto.

Allora la questione, e il terreno del dibattito, è un altra. Dobbiamo chiederci quale italiano vogliamo. Crediamo che la modernità si esprima con l’inglese e vogliamo che la percentuale di anglicismi della nostra lingua diventi in ogni ambito quella del linguaggio del lavoro o dell’informatica?

Bene lo si dica chiaramente, invece di giocare a fare i negazionisti.

Questa idea dell’italiano, però, per me coincide con l’itanglese, e mi vede dall’altra parte della barricata a combattere quello che considero non un segno di modernità, ma il depauramento del nostro patrimonio culturale. Ciò è tutto il contrario del purismo, ostile da sempre ai neologismi. Viceversa, c’è da auspicare un italiano che si sappia evolvere per via endogena, creando le proprie parole e i propri neologismi, invece che importarli dall’inglese.

Chi ha un’altra idea dell’italiano getti la maschera, si schieri dall’altra parte, e difenda l’itanglese senza fare l’ipocrita. I nuovi puristi del Duemila, quelli che vogliono ingessare l’italiano nella sua forma storica senza farlo evolvere perché tutto ciò che è nuovo si dice in inglese, sono gli anglomani. Sono loro – li chiamo anglopuristi – che vogliono trasformare l’italiano nella “lingua dei morti”.

Questa è la nuova “questione della lingua”. Sarebbe ora di dirlo chiaramente.

Non si tratta di fare la guerra ai singoli anglicismi, si tratta di prendere posizione, e di spezzare la strategia comunicativa che spinge a importare l’inglese crudo senza alternative. Il problema non è linguistico, è culturale. Gli anglicismi non sono “prestiti”, con queste sciocche categorie obsolete non si può rendere conto dell’attuale fenomeno dell’interferenza dell’inglese. Quando il confinamento diventa lockdown, il lavoro da casa smart working, quando si coniano all’inglese espressioni come covid hospital, invece che ospedali covid, e si parla di covid pass, covid free, covid manager, covid like, covid test… il problema non è in questi trapianti e in queste ricombinazioni ridicole prese singolarmente; il punto è che abbiamo perso la volontà di parlare in italiano e siamo passati a una strategia compulsiva (la strategia degli Etruschi) che consiste nella scelta di parlare in itanglese.

Una questione politica, non linguistica

Oggi la nostra classe dirigente – dai mezzi di informazione alla politica, dalla scienza al mondo del lavoro – ha scelto l’itanglese, e in questo modo lo diffonde e lo impone a tutti. Per spezzare questa strategia occorre una rivoluzione culturale e politica. Nello scorso articolo ho mostrato perché non è certo alla Crusca che ci si può rivolgere per cambiare le cose. L’Accademia non ha né il potere né la missione di regolamentare la nostra lingua. Solo la politica potrebbe forse investirla di questo mandato, come avviene per le accademie spagnole e francesi. Lì si creano alternative agli anglicismi e la popolazione è libera di scegliere come parlare. Alcune proposte sono accolte ed entrano nell’uso, altre non vengono invece recepite, ma il risultato è che l’anglicizzazione di queste lingue non è minimamente paragonabile alla nostra. Ognuno è libero di usare il lessico che preferisce, ma la libertà sta nello scegliere, se mancano le alternative cade la scelta, e l’inglese diventa un automatismo senza altre possibilità, diventa la tirannia della minoranza che controlla i centri di irradiazione della lingua e che la impone a tutti.

corriere le monde el pais
Le “reti sociali” o i “fondi di recupero” su Correre, El País e Le monde. Da noi sono anglicismi (i “gruppi tech” in spagnolo sono “grandes tecnologicas”, e persino gli Usa sono detti secondo l’ordine della loro lingua: EEUU).

La petizione per eliminare gli anglicismi almeno dal linguaggio istituzionale – una cosa che in Francia è espressamente vietata dalla legge, ma che non verrebbe nemmeno in mente ad alcun politico, come del resto in Spagna – va rivolta alla nostra classe politica. Ma rivolgersi al parlamento avrebbe senso?

Non mi pare.

Non dimentichiamo che i nostri politici son proprio coloro che contribuiscono a uccidere la nostra lingua storica. Se il politichese, sino a tutto il Novecento, era caratterizzato da formule ampollose, astruse o burocratiche, nel nuovo Millennio è diventato itanglese. Dal jobs act al navigator, il lavoro è job, le tasse sono tax, le leggi act, l’economia è economy, i fondi per la ripresa sono introdotti in inglese, recovery fund, e qualcuno parla di un recovery plan per la pandemia. Gli anglicismi politici registrano un aumento preoccupante: quantitative easing, voluntary disclousure, caregiver, stepchild adoption, spending review, spoils system, devolution e deregulation, election day e family day… E in questo linguaggio fatto di establishment, governance, leadership, impeachment, question time, moral suasion, premiership… ci sono anche figure istituzionali come il garante della privacy, o il ministro del welfare, alla faccia della salute del nostro lessico. I giornali rilanciano e amplificano questo vocabolario politicamente scrorrect, mentre si parla sempre più di premier al posto di presidente del consiglio come è scritto nella nostra Costituzione, o di governatori invece che presidenti delle regioni perché si vuol fare gli americani, anche se il nostro sistema non è federalista.

In questo contesto appare poco proficua una petizione rivolta ai politici. Senza scadere nel qualunquismo, bisogna ricordare che negli ultimi anni sono state presentate innumerevoli proposte di legge o di istituzione di un Csli (Consiglio Superiore della Lingua Italiana) che sono sempre rimaste nei cassetti, per riemergere ciclicamente senza che nulla di concreto sia mai stato fatto.

Nel 2012, una petizione dell’Era propose di dire in italiano “question time” e ricevette consensi da ogni parte politica, ma l’iniziativa lodata da tanti solo a parole, non ebbe nei fatti alcun seguito (in Svizzera si dice invece l’ora delle domande, in parlamento e sui giornali).

corriere ticino ora delle domande
“L’ora delle domande” sul Corriere del Ticino.

Nel 2018, Giulia Bongiorno, ministra della pubblica amministrazione del Governo Conte, scriveva:

“Nei primi giorni da Ministro mi sono stati sottoposti alcuni fascicoli – definiti dossier – dai quali emergeva che i problemi più urgenti da affrontare erano:
1) il blocco del turnover;
2) l’inadeguata valutazione della performance dei dirigenti;
3) il digital divide;
4) la scarsa applicazione (…) dello smart working;
4) l’uso improprio del badge per entrare nel luogo di lavoro.
Per affrontarli avrei dovuto partecipare a numerosi meeting; inoltre, mi si rendeva noto che il budget a mia disposizione era – purtroppo – limitato.
Amo l’inglese (…) Eppure credo sia sbagliato, e fuorviante, accettare questa sostituzione della lingua italiana; parlo di sostituzione perché l’uso reiterato delle parole inglesi fa sì che a volte il corrispettivo italiano si perda. Dunque dico basta, con forza, a questo ibrido che forse vorrebbe far sembrare l’italiano più moderno, ma in realtà lo sta svilendo.”

(Lettera aperta del 19 dicembre 2018 per denunciare l’abuso dell’inglese nel linguaggio amministrativo).

Che cosa è accaduto, da allora, è sotto gli occhi di tutti.

Anche le iniziative come Europarole del Dipartimento delle politiche europee, avviata nel 2018, che doveva tradurre gli anglicismi che circolano nell’ambito dell’Unione Europea si è rivelato un progetto vuoto, e da allora ha raccolto solo 37 parole!
Visto che le istituzioni non lo fanno – da quelle politiche alla Crusca – il più grande repertorio esistente nel nostro Paese è il Dizionario delle Alternative Agli Anglicismi (AAA), che ne ha raccolti ormai 3.700, e nasce da un’iniziativa privata senza alcun finanziamento.

Da queste considerazioni è nata la decisione di rivolgere la petizione non alla politica, ma al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la massima carica dello Stato.

C’è chi ha storto il naso davanti all’opportunità di rivolgersi a lui in questo frangente in cui l’Italia versa in ben altri e più gravi problemi. Eppure il lievitare degli anglicismi ha raggiunto picchi inediti proprio durante la pandemia e, soprattutto, le nostre richieste sono davvero facili, e non costano nulla. Non abbiamo invocato leggi come quelle che ci sono in Francia, né domandato di attuare ciò che la politica ha più volte presentato senza che mai si sia realizzato.
Le richieste consistono, semplicemente, in una supplica, perché il capo dello Stato attui un simbolico richiamo alla politica di non utilizzare anglicismi almeno nel linguaggio istituzionale, per il rispetto, oltre che per la trasparenza, che le istituzioni dovrebbero avere nei confronti dei cittadini italiani e del nostro patrimonio linguistico (non dimentichiamocene, quando saremo chiamati alle urne!).
La seconda richiesta è di favorire una campagna di sensibilizzazione contro l’abuso dell’inglese. Anche questa preghiera non ci pare gravosa, e soprattutto non comporta alcuna spesa, visto che gli spazi delle pubblicità progresso sono già previsti. E come si fanno e si sono fatte contro il bullismo o contro la violenza delle donne, potrebbero farsi anche per promuovere la nostra lingua, di cui non è il caso di vergognarsi.

Crediamo che questa petizione chieda qualcosa che dovrebbe essere dato per scontato, qualcosa che nasce semplicemente dal buon senso e che dovrebbe appartenere a tutti. E facciamo fatica a comprendere come si possa non condividere questo appello.

Eppure, se la petizione #dilloinitaliano di cinque anni fa fu ripresa da tutta la stampa, oggi invece non c’è un solo giornale a tiratura nazionale che ne abbia accennato nemmeno con una sola riga. Le 3.000 firme raccolte nascono solo dal passaparola in Rete e tra la gente, mentre i mezzi di informazione e le istituzioni che dovrebbero occuparsi della nostra lingua in modo ufficiale lo hanno ignorato. Al contrario di quanto hanno fatto invece persone di primo piano della cultura nazionale e internazionale.

 

I firmatari e gli amici dell’italiano

Sin dai primi giorni, la notizia della petizione #litalianoviva è stata ripresa e diffusa dall’Istituto Italiano di Cultura di Lima, che l’ha rilanciata dalle sue pagine Facebook, oppure dal sito Corsica Oggi. In Svizzera è stata segnalata dal Forum per l’italiano in Svizzera, e dalla Rivista.ch. E così la notizia si è sparsa per il mondo, tra i firmatari ci sono italofoni tedeschi, dall’università di Barcellona ha firmato un’importantissima profesora emerita di Filologia Italiana, dall’Australia ha firmato la traduttrice Barbara McGilvray, vincitrice di una medaglia dell’Ordine d’Australia dell’Australia Day, per i suoi meriti nel tradurre in italiano. Voglio riportare qualche battuta tratta da un’intervista che rilasciò in quell’occasione:

Barbara McGilvray
Barbara McGilvray.

– Hai notato delle differenze nell’evoluzione della lingua italiana da quegli anni ’60 in cui eri a Roma all’italiano che si parla oggi? Magari il fatto che oggi sia infarcito di parole inglesi? Una volta non era così…
Io cerco di evitare e parole inglesi in italiano anzi sono iscritta a due o tre gruppi di traduttori in Italia, gruppi virtuali, sull’Internet e lottiamo tutti per evitare di usare neologismi inglesi, preferisco evitarli. (…) Spending review mi fa una rabbia (RIDE), ci sono espressioni perfettamente adeguate in italiano, perché usare quelle inglesi? Non lo so…

– O il jobs act…
Jobs act… un altro, no, no… non ne parliamo…

– La nostra rubrica si chiama La lingua più bella del mondo, sei d’accordo con il nome che abbiamo dato a questo segmento?
Assolutamente! Come no?

Se volte sentire queste parole dal suo delizioso accento anglofono, lo potete fare qui (al min, 4,30 circa).

Tra i tanti che hanno firmato e che mi hanno scritto dall’estero ci sono italofoni dall’Argentina, dal Canada, dalla Francia, e anche dal Regno Unito e dagli Stati Uniti.

Possibile che all’estero ci sia un’attenzione per l’italiano superiore alla nostra?

Evidentemente sì.

Ma non è del tutto esatto. Non bisogna confondere il silenzio stampa e delle istituzioni che si registra in Italia con il sentimento degli italiani. L’indifferenza mediatica non corrisponde alla sensibilità di tante persone di ogni fascia sociale (infermieri, medici, farmacisti, parrucchieri, avvocati, imprenditori, formatori, studenti, insegnanti, mamme, agenti immobiliari… c’è anche un suora). E tra i firmatari ci sono poi diversi politici che appartengono a ogni schieramento: da Potere al popolo e Sinistra alternativa passando per il Pd, i 5 stelle, la Lega, sino a Forza Italia, Fratelli d’Italia e alla destra. Ma soprattutto mi ha colpito la presenza di molti personaggi di spicco della cultura del nostro Paese. Non sempre mi è stato possibile verificare se certi nomi sono davvero illustri o se si tratta di omonimi, e non so se Elena Ferrante è veramente lei o se Paolo Repetti è davvero il fondatore e il direttore della collana Stile Libero di Einaudi. So però di certo che hanno firmato professori universitari o accademici come lo psicologo Fulvio Scaparro, il filosofo Fulvio Papi, scrittori come Elisabetta Bucciarelli (vincitrice del premio Scerbanenco) o come la docente Laura Margherita Volante, traduttori di primo piano come la poetessa Claudia Azzola direttrice della rivista TraduzioneTradizione, giornalisti come Alberto Giovanni Biuso, intellettuali che gravitano intorno alla rivista Odissea diretta da Angelo Gaccione, come il medico Teodosio De Bonis (“Ho deciso di iscrivermi ad un corso di lingua straniera: mi è stato consigliato l’Italiano”), lo scrittore Oliviero Arzuffi, i poeti Antonella Doria, Gabriella Galzio e Nicolino Longo… e una lunga lista di donne e uomini che fanno comprendere che esiste un’altra idea di lingua e di cultura, oltre a quella dominante. E che a opporsi all’insensato ricorso all’abuso dell’inglese siamo in tanti.

Per aiutarci a diffondere la nostra iniziativa, visto che i giornali non lo fanno, passa parola, per favore!

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