Lettera a Giorgia Meloni e agli altri deputati sulla tutela dell’italiano

Giorgia Meloni

Gentile Giorgia Meloni,

scrivo simbolicamente a lei perché è alla guida di un partito, ma mi rivolgo anche a tutti gli altri firmatari della proposta di legge sulla lingua italiana numero 678, presentata il 31 maggio 2018, dal titolo Disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana e istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana.

Leggendo questo atto sono rimasto sbalordito nel ritrovare nel vostro testo le mie precise parole. Mi riferisco a frasi come:

Da tempo la globalizzazione e il monolinguismo stereotipato che conducono all’inglese rappresentano un pericolo per le lingue locali. In Francia e in Spagna lo hanno capito e hanno adottato provvedimenti, in Italia no (cfr. il finale del mio articolo “La politica linguistica francese: impariamo dalla legge Toubon [1]”).

In Italia, invece, non esiste alcuna politica linguistica, anzi, il linguaggio della politica, nel nuovo millennio, si è anglicizzato sempre di più introducendo le parole inglesi nelle leggi, nelle istituzioni e nel cuore dello Stato (cfr. finale del primo capoverso di “L’italiano degli svizzeri: question time? No grazie”.

Ho scoperto con incredulità che queste mie parole sono state addirittura pronunciate in un dibattito parlamentare!

Passato lo stupore davanti a queste e alle altre citazioni senza virgolette, è subentrata la gioia nel constatare che evidentemente la mia battaglia sta cominciando a circolare e a diffondersi.

È evidente che qualcuno del suo ambiente e della sua squadra ha letto quello che ho scritto su questo mio sito personale. E allora, forse, potrebbe leggere anche questo nuovo articolo. E se le mie parole sono state apprezzate al punto di venire incorporare in un disegno di legge, forse anche le seguenti potrebbero essere ascoltate e recepite, in futuro, da chi ha la possibilità di proporre delle leggi.


Il Consiglio Superiore della Lingua Italiana (CSLI)

Partendo dal presupposto che la lingua italiana è un bene culturale e sociale che non viene tutelato, diffuso e promosso a sufficienza, in Italia si parla da anni dell’istituzione di un Consiglio Superiore della Lingua Italiana (CSLI). Ma le tante proposte di legge che sono state avanzate (e che hanno posto anche l’accento sul problema dell’anglicizzazione della nostra lingua) non hanno avuto alcun seguito.

Oltre al vostro recente disegno, penso per esempio a quello proposto il 21 dicembre 2001 da alcuni senatori, tra cui Andrea Pastore (PDL), ripresentato anche l’8 giugno del 2008 (Disegno di legge n. 354), a quello del 22 maggio 2013 (in cui si faceva riferimento anche al problema degli anglicismi e del loro numero) o a quello del 27 ottobre 2016.

Accanto a queste proposte avanzate perlopiù dai deputati e dalle forze politiche che appartengono alla destra, ce ne sono state altre (anche queste senza seguito) da sinistra, come quella del 21 dicembre 2012 il cui primo firmatario era il radicale Marco Beltrandi, e che proponeva anche la promozione dell’esperanto come lingua sovranazionale.

Nello stesso anno proprio i radicali hanno presentato una petizione che è risultata trasversale, ed è stata firmata da innumerevoli parlamentari di ogni schieramento: “No question time”. Si chiedeva di esprimere in italiano l’espressione con “cui si indicano da anni le risposte del governo alle interrogazioni parlamentari”. Ma ancora una volta non ha avuto un esito positivo.

In Svizzera, invece, senza troppe chiacchiere si dice molto semplicemente l’ora delle domande, in Parlamento e anche sui giornali (vedi Ticinonews o Tio).

È necessario superare le posizioni ideologizzate

Sono convinto che la lingua italiana sia un patrimonio di tutti, che dovremmo averne cura tutti e che la sua difesa, tutela e promozione non sia di destra né di sinistra. Per citare Annamaria Testa:

La nostra lingua è un bene comune. È un patrimonio di cultura, di bellezza, di storia e di storie, di idee e di parole che appartiene a tutti noi, che vale, che ci identifica come individui, come cittadini e come Paese”.

E allora, la prima riflessione che vorrei porre è che per fare qualcosa di concreto, che non rimanga chiuso nei cassetti, sarebbe forse necessario puntare al supermento di ogni schieramento o partito per rivolgersi maggiormente a tutti in modo trasversale. Le posizioni in campo su questo tema non riguardano la destra o la sinistra, sono di altra natura. La sfida del presente e del futuro è un’altra: c’è chi è consapevole che la nostra lingua sia un patrimonio dal salvaguardare come si salvaguarda l’arte, la gastronomia e tutte le nostre eccellenze. E poi ci sono gli angloentusiasti, che non sono politicamente schierati, semplicemente vedono nella cultura e nella lingua angloamericana un modello superiore che vogliono scimmiottare, si vergognano di dirlo in italiano e preferiscono consapevolmente usare parole inglesi incuranti, a questo modo, di depauperare e fare regredire la nostra lingua. Questi signori si annidano soprattutto nella nostra classe dirigente che diffonde un linguaggio aziendale sempre più anglicizzato cui la formazione non sa fare altro che ammiccare (dal MIUR alle scuole di formazione private); sono tra i tecnoscienziati che teorizzano l’uso dell’inglese nella scuola e nella scienza; sono tra i giornalisti; lavorano per i colossi internazionali che ci propinano le interfacce dei programmi informatici in itanglese; sono anche tra i tanti linguisti scollati dalla realtà che sostengono che l’italiano non sia in pericolo e che ci dicono, senza essere supportati dai numeri, che non sta accadendo nulla di grave e che va tutto bene. Ma questa classe dirigente si annida anche nella politica, a destra e a sinistra.

Forse, allora, perché le proposte della costituzione del CSLI e della tutela dell’italiano abbiano un seguito e una realizzazione bisognerebbe uscire da ogni posizione ideologizzata per fare qualcosa di trasversale e di largamente condivisibile.

C’è una larga fetta della popolazione che non può più dell’insensata moda di ricorrere all’inglese che sta depauperando la nostra lingua. Ci sono linguisti del calibro di Luca Serianni che si sono espressi in modo favorevole all’istituzione del CSLI (“Ancora sul Consiglio Superiore della Lingua Italiana”, in Lingua Italiana d’Oggi, II, pp.55-66, 2005), ci sono le 70.000 persone che in un mese hanno firmato la petizione Dillo in italiano, ci sono “eroi” come Giorgio Pagano che è  arrivato al punto di fare lo sciopero della fame, per richiamare l’attenzione sulla questione. Ci sono i 126 docenti che hanno firmato una lettera di protesta al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per opporsi alla decisione dell’ex Rettore del Politecnico di Milano Giovanni Azzone di rendere obbligatorio l’insegnamento solamente in lingua inglese nei corsi magistrali e dottorali, estromettendo così la lingua italiana dalla formazione superiore di ingegneri e architetti. Ci sono le proteste di quanti sono riusciti a fermare il progetto del 2015 di rinnovare il logo del comune di Roma sostituendo lo storico SPQR con il nuovo motto Rome and You…

Questa larga fetta di popolazione, di consumatori e di elettori non è inquadrabile attraverso la destra o la sinistra. E per rispondere alle loro esigenze bisognerebbe riuscire a creare proposte di legge allargate, a costo di attenuare e ammorbidire le soluzioni proposte dai singoli schieramenti.

Dare il buon esempio e iniziare da piccoli passi concreti

Sono convinto che, oltre ai disegni di legge, la politica dovrebbe cominciare forse con il dare il buon esempio.

È curioso, a questo proposito, che si usino due pesi e due misure per le pari opportunità della lingua e delle donne. Se nel 2007 la Presidenza del Consiglio dei Ministri (Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche) è intervenuta sulla lingua (con l’ausilio dell’Accademia della Crusca) nel regolamentare la femminilizzazione delle cariche e se le pubbliche amministrazioni si sono adeguate ottenendo un cambiamento nella lingua istituzionale e addirittura influenzando quella dei giornali e dei dizionari (ministra, sindaca…), sul fronte degli anglicismi non solo non si sta facendo nulla di concreto, ma anzi, gli apparati dello Stato li introducono nel linguaggio istituzionale con grande disinvoltura.

Io non lo so, davanti al crollo del Partito Democratico, quanto abbia inciso anche il linguaggio anglicizzato renziano (dall’anglicizzazione istituzionale di jobs act, volountary disclousure e tax anziché tasse, al linguaggio fatto di slide, flexicurity o democratic party). Ma di certo per chi vuole raggiungere chi è infastidito dall’eccesso dell’inglese, e dargli voce, è necessario prima di tutto usare un linguaggio non anglicizzato anche nella propria comunicazione personale, politica e istituzionale.

È giusto guardare a quanto avviene negli altri Paesi europei, a cominciare dalla Francia, dove nella Costituzione è scritto che la lingua è il francese, mentre nella nostra l’Articolo 12 specifica i colori della nostra bandiera, ma non fa accenno alla nostra lingua istituzionale. Forse sarebbe allora interessante provare a riproporre per la terza volta (non c’è il due senza il tre) l’iniziativa dell’Accademia della Crusca che chiedeva che anche nella nostra Costituzione si inserisca che la lingua ufficiale è l’italiano (La Crusca lo ha proposto, invano, nel 2006 e nel 2014).

Sicuramente è giusto anche guardare al modello della legge Toubon, magari per prendere ciò che c’è di buono e per migliorarla, più che emularla semplicemente. Davanti alle soluzioni repressive, che nel vostro disegno di legge si esprimono per esempio attraverso le multe, qualcuno potrebbe facilmente invocare l’esempio sbagliato della politica linguistica fascista. A dire il vero non fu il fascismo a introdurle, erano già state proposte e approvate a fine Ottocento, anche se allora l’intento era quello di “battere cassa” tassando le insegne dei negozi in lingua straniera più che tutelare la nostra lingua (cfr. il portale storico della Camera dei Deputati, 2° Tornata del 13 maggio 1874, pp.3628-3629). Ma è strano che, davanti alle tasse sulle insegne straniere dei negozi, c’è chi è pronto a urlare che fu questo l’inizio della guerra ai barbarismi di epoca fascista ma non dice nulla a proposito del fatto che in molti comuni esiste già qualcosa di molto simile, basta qualche regola di buon senso.

A Bologna “dal 1° gennaio 2012 non sono autorizzabili insegne con scritte in lingua straniera che non siano accompagnate da contestuale traduzione letterale in italiano”. Ma anche a Torino (“Qualora i mezzi pubblicitari contengano un messaggio in lingua straniera o dialettale, si richiede la traduzione dello stesso in lingua italiana”), a Pistoia, a Prato e in molte altre città.

Naturalmente questi provvedimenti non hanno nulla a che vedere con la tasse sulle insegne di epoca fascista, sono fatti in nome della trasparenza che è dovuta ai cittadini italiani, per il loro rispetto, più che per dichiarare guerra ai barbarismi. E lo stesso dovrebbe avvenire nel caso del linguaggio istituzionale, nelle scuole, nel lavoro e nella politica…

Personalmente non sono favorevole alle misure costrittive e punitive, ben vengano le multe per ogni tipo di violazione, ma oltre alla legge Toubon ci sono altri esempi forse più virtuosi cui guardare, come quelli di Spagna e Svizzera, che puntano non alla repressione, ma alla promozione e alle campagne di sensibilizzazione. Proibire le insegne straniere genera malcontenti, promuovere una campagna per l’uso dell’italiano (campagne Pubblicità Progresso, interventi nelle scuole…) non avrebbe particolari costi e sarebbe forse più efficace: il modello che sogno non è quello di multare le insegne con scritto Wine bar, ma la speranza che la gente, opportunamente sollecitata, diserterà questo genere di esercizi preferendo le enoteche (nei ristoranti di lusso di New York si dice vino, perché è quella la parola più evocativa e di prestigio che ammicca all’eccellenza italiana). E allora le insegne saranno spontaneamente sostituite dai proprietari di questi locali, se non vogliono chiudere, senza bisogno di alcuna multa e costrizione.

Insomma, quello di cui abbiamo bisogno maggiormente in Italia è semplicemente una campagna culturale: siamo a un bivio e se non spezziamo la follia di dire le cose in inglese (la metà dei neologismi del nuovo Millennio è in inglese) non c’è futuro per l’italiano. Se non capiamo che la nostra lingua deve tornare a essere autonoma, se non ci riappropriamo della capacità di creare neologismi italiani, adattamenti e traduzioni che non violano le nostre regole grammaticali e fonetiche, il destino sarà l’itanglese. La nostra struttura grammaticale non è intaccata, ma il lessico sì, enormemente, e la lingua del Bel Paese si infarcirà solo di sostantivi e locuzioni che sono “corpi estranei”, che violano le nostre regole di pronuncia e di scrittura, si snaturerà sempre maggiormente e sarà in grado di esprimere in italiano solo ciò che appartiene alla storia; diventerà la “lingua dei morti” e perderà la capacità di descrivere il nuovo, il lavoro, la scienza, l’informatica… il futuro.

 

Gentile Giorgia Meloni e gentili deputati tutti, spero vivamente che anche queste mie parole siano lette e magari copiate in un futuro disegno di legge destinato, mi auguro, ad avere un seguito e una qualche forma di concretezza.

Distinti saluti,
antonio zoppetti

3 pensieri su “Lettera a Giorgia Meloni e agli altri deputati sulla tutela dell’italiano

  1. Sono perfettamente d’accordo sull’esigenza di sensibilizzare la classe politica e dirigente in genere sul tema dell’attenzione alla lingua italiana e di contrastare, con mezzi non illiberali,il dilagare dell’inglese nell’italliano (itanglese) e dell’inglese stesso dove non è necessario.

    Tuttavia mi lascia perplesso l’idea d’un Consiglio superiore della lingua italiana, e contrario l’dea di costituzionalizzare l’ufficialità dell’italiano.

    Cominicerò dalla seconda questione: abbiamo il precedente poco incoraggiante della Francia. Anche là s’era detto che la,menzione del francese come lingua della Repubblica era finalizzato a prevenire il dilagare dell’inglese, ma di fatto il Conseil Constitutionnel l’interpreta in chiave di limitazione delle lingue regionali, tant’è vero che non è stata ancora possibile, per motivi d’ordine costituzionale, la ratifica dell’adesione francese alla Carta della Lingue Regionali e Minoritarie del Consiglio d’Europa (a proposito, anche in Italia stiamo aspettando…).
    E qui mi riaggancio alla prima questione: perché la lingua italiana non venga giocata contro le altre lingue presenti nel Paese (come ad esempio sta purtroppo avvenendo in India, dove la politica pro-hindi si traduce nella riduzione degli spazi concessi alel altre lingue autoctone, più che del ruolo dell’inglese: è più facile prendersela con le lingue deboli …) credo che avremmo piuttosto bisogno d’un “Consiglio Superiore dell’Italiano e delle Lingue d’Italia”, che s’occupasse della promozione e valorizzazione dell’intero complesso della ricca, ma malatissima, realtà linguistica del nostro Paese. .

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  2. Ci siamo già confrontati sul tema in altra occasione, mi pare. Non credo che l’istituzione del CSLI o l’inserimento nella Costituzione che l’italiano è la lingua ufficiale sia intrinsecamente connesso con il rischio di penalizzare le minoranze linguistiche, queste sì difese esplicitamente nella nostra Costituzione. Forse potrebbe essere un rischio derivato o un “effetto collaterale” perfettamente evitabile se nel legiferare e nell’istituire si specificasse bene ogni cosa e si tenesse conto dell’importanza della varietà linguisitca locale (che è un discorso diverso). In altre parole sancire che l’italiano è la lingua ufficiale non significa togliere il bilinguismo dalla cartellonistica di Bolzano/Bozen e simili.

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