In Italia può sembrare “estremista” constatare che il globalese – cioè l’inglese planetario esportato in tutto il mondo dalla globalizzazione – fa parte di un progetto di colonizzazione culturale, economica e linguistica che segue le stesse logiche di quelle della Roma imperiale (vedi la scorsa puntata → “Colonialismo linguistico e globalizzazione a senso unico”). Eppure queste posizioni sono date per scontate in molti Paesi, persino all’interno della letteratura inglese. Robert Phillipson, un linguista britannico autore di libri osteggiati e non tradotti (come Linguistic imperialism, Oxford University Press 1992), ha osservato che la politica di George W. Bush ha premuto l’acceleratore sul processo di colonizzazione statunitense, e che la sua consigliera per gli affari esteri Condoleezza Rice lo ha dichiarato esplicitamente: “Il resto del mondo trarrà un vantaggio migliore dagli Stati Uniti che perseguono i propri interessi, poiché i valori americani sono universali.” Esportare la “civiltà” universale ai popoli incivili e inferiori è da sempre la giustificazione del colonialismo per esportare i propri interessi. E l’imposizione della lingua è funzionale e strategica in questo disegno.
Il problema è che da noi manca il dibattito e la nostra posizione appare sempre più quella di coloni collaborazionisti. Non c’è alcuna attenzione per la tutela del nostro patrimonio linguistico sul fronte interno, e su quello esterno pare che nessun politico si ponga la questione di quale dovrebbe essere la lingua d’Europa, o meglio: quali! Diamo per scontato che l’inglese, ormai praticamente extracomunitario, sia l’unico modello possibile per essere internazionali e non promuoviamo l’italiano all’interno dell’Unione Europea, che di fatto lo sta estromettendo da lingua del lavoro, nonostante sulla carta dovrebbe avere gli stessi diritti di inglese o francese (vedi anche → “La petizione per l’italiano come lingua del lavoro”).
Fuori dai nostri confini le cose vanno molto diversamente. Non solo in Francia, dove esiste una forte politica linguistica, in Spagna, dove ci sono una ventina di accademie che governano e promuovono una lingua diffusa negli altrettanti Paesi che conta 400 milioni di madrelingua, o in Svizzera, che ha investito moltissimo nella promozione dell’italiano schiacciato dal tedesco e dal francese in nome del plurilinguismo che contraddistingue questo stato; ma persino in una nazione dall’idioma estremamente anglicizzato come la Germania.
Per essere davvero internazionali dovremmo semplicemente partecipare al dibattito che c’è all’estero.
Gli altri Paesi davanti alla dittatura dell’inglese
Il professore tedesco Jürgen Trabant dell’Università libera di Berlino, per esempio, si occupa di pluralismo linguistico, e nelle sue riflessioni su quale debba essere il modello di multilinguismo dell’Europa, ha denunciato che si contrabbanda come “plurilinguismo” la strategia dell’inglese globale (da lui chiamato “globalese”) per cui le lingue locali sono viste come un ostacolo sulla via che dovrebbe portare tutto il pianeta a un bilinguismo dove l’inglese è la lingua internazionale affiancata dalla lingua naturale locale vissuta come un “accidente” da superare. Nelle sue analisi denuncia che l’Europa sta andando incontro a una forma di “diglossia moderna neomedievale”, cioè una situazione dove esistono due lingue gerarchizzate che possiedono due diversi ruoli sociali: l’inglese è quello alto, colto e aristocratico, la lingua locale è quella popolare e della vita di tutti i giorni. Questo intellettuale non è certo un estremista, Tullio De Mauro lo ha definito “uno dei maggiori linguisti europei”, e il suo libro Globalesisch, oder was? (Il global english o cos’altro?) negli scorsi anni ha avuto un notevole successo perché non era una denuncia isolata. Sempre secondo De Mauro, infatti, la politica e la stampa tedesche sono molto più attente di noi a questi temi e
“– dal presidente Joachim Gauck ad Angela Merkel – seguono le questioni del multilinguismo, dagli asili nido all’intera vita sociale. La questione della lingua si pone oggi in Europa come una questione politica, anzitutto di politica democratica, e non solo come questione istituzionale di rapporti ufficiali tra gli stati per la vita formale delle istituzioni dell’Unione. Ma è anche una questione di cultura e di scuola. (…) Se vogliamo che l’Europa a 28 si trasformi in uno stato federale non è più eludibile la questione della lingua come questione politica di democrazia. Trabant critica l’idea che un inglese di servizio, senza radici nella cultura, risolva da solo il problema. Il Globalesisch è accettabile solo se lo faremo convivere con la ricchezza intellettuale della molteplicità di lingue dell’Europa.”
[Tullio De Mauro, “Un’Europa e molte lingue”, Internazionale, 2104]
Mentre da noi è in atto una battaglia sull’insegnamento in inglese nelle Università, come si è tentato di fare nel 2015 al Politecnico di Milano, nella convinzione che questo significhi essere internazionali, spesso si esalta o si porta come esempio quanto accade in vari Paesi del Nord Europa dove questi modelli si sono già affermati. In questo scenario, l’Olanda si può considerare un Paese “modello”, dal punto di vista della globalizzazione: l’inglese è considerato la seconda lingua dal 95% della popolazione, dunque il processo di colonizzazione si è compiuto da tempo, perché si è sempre ritenuto che per competere con l’internalizzazione fosse meglio parlare la lingua globale. Eppure proprio in questo Paese si stanno cominciando a vedere gli effetti nocivi di questa strategia, e Annette de Groot (”L’internalizzazione uccide la lingua locale”), professoressa di linguistica all’Università di Amsterdam, parla apertamente del loro “bilinguismo squilibrato”: l’inglese non si è semplicemente “aggiunto”, ma corrisponde a una perdita dell’olandese e della propria identità. Sono in tanti a lamentare il peggioramento della qualità della comunicazione che è avvenuto, soprattutto nel caso di temi complessi, perché l’inglese non è la lingua madre né dei professori né degli studenti. Un accademico olandese che si occupa di comunicazione come Cees Jan Hamelink parla perciò degli effetti “sottrattivi” dell’apprendimento della lingua globale attraverso concetti come quello della “macdonaldizzazione”. Anche in Danimarca, Norvegia, Svezia e Finlandia hanno questi stessi problemi con l’inglese della scienza e dell’università, e il dibattito riguarda come intervenire politicamente proprio per regolamentare un uso dell’inglese equilibrato e rispettoso della lingua nazionale che sia appunto un’aggiunta al repertorio nazionale, e per fare in modo che non sia invece sottrattivo e che a pagare le spese dell’internazionalizzazione colonialistica siano le lingue locali. Se questi problemi se li pongono in questi Paesi, lo dovremmo fare anche noi a maggior ragione, perché la nostra è una lingua romanza, che non deriva dai ceppi germanici come per esempio molte lingue del Nord, e l’impatto è più pesante. È evidente che studiare in inglese per esempio medicina o altre materie scientifiche all’università porterà alla perdita del lessico tecnico-scientifico italiano. Vogliamo davvero sottrarre questi ambiti alla nostra lingua per passare a quella inglese? È questo il prezzo da pagare per essere internazionali? Bene, non tutti sono d’accordo su questo prezzo, c’è anche chi vede il multilinguismo come un valore, e non come un ostacolo.
Ma c’è ancora di più. Se l’affermazione dell’inglese come lingua franca in Europa sta minacciando la ricchezza linguistica del nostro continente, come denuncia per esempio in Romania Ovidiu Pecican, docente dell’università Babeş-Bolyai di Cluj e articolista di România Liberă, in molti altri casi la minaccia non riguarda né la “ricchezza” né l’ibridazione, coinvolge direttamente l’estinzione delle lingue. La finlandese Tove Skutnabb-Kangas, che insegna nell’università danese di Roskilde e nell’accademia universitaria di Vasa in Finlandia, si batte da anni per i “diritti linguistici” delle popolazioni e delle minoranze, linguistiche e culturali, denunciando che ci sono tantissime lingue minori che scompaiono dal nostro pianeta con una velocità maggiore di quella della scomparsa delle specie viventi. La stessa denuncia del tunisino Claude Hagège (Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano 2002) che ha calcolato che nel mondo “ogni anno muoiono venticinque lingue: un fenomeno di dimensioni spaventose”. Se oggi quelle vive sono circa 5.000, fra un secolo saranno la metà, se non cambia qualcosa. “È un olocausto che fluisce senza sosta, apparentemente nell’indifferenza generale” e la principale minaccia è proprio l’inglese, che “svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle lingue”. Un problema che è gridato anche da uno dei più grandi intellettuali africani, Ngugi wa Thiong’o, molte volte candidato al premio Nobel che per ora non gli è mai stato assegnato e autore di Decolonizzare la mente (Jaca Book, 2015), che in una recente intervista su la Repubblica invitava a ribellarsi all’inglese (“Scrittori, ribelliamoci all’inglese“, 02 Agosto 2019, di Pietro Veronese), la lingua colonizzatrice che “fiorisce sul cimitero degli altri idiomi”.
Questi sono gli effetti collaterali del colonialismo linguistico, della dittatura dell’inglese e del progetto internazionale di renderlo la lingua globale. Questo è il dibattito che si registra all’estero e che coinvolge le istituzioni, la politica, l’università e gli intellettuali.
Nel mondo si stanno scontrando due opposte visioni, quella dominante e imperialista che vorrebbe esportare l’inglese ovunque per i propri vantaggi economici e quella etica che vede nel multilinguismo una ricchezza da salvaguardare che non ha prezzo. In Italia il dibattito non c’è. Le sole reazioni che si possono riscontrare sono fuori dagli ambiti istituzionali. L’atto eroico di Maria Agostina Cabiddu che è riuscita a bloccare la soppressione dei corsi universitari in lingua italiana da parte del Politecnico di Milano con le raccolte di firme e con i ricorsi ai tribunali. Le denunce di una scienziata come Maria Luisa Villa che si batte per l’italiano come lingua della scienza. Le voci fuori dal coro come quella di Giorgio Pagano, o di Diego Fusaro che, con riferimento a 1984 di Orwell, si scaglia contro la “neolingua” dei mercati. Posizioni che appaiono come “eccentriche”, “esagerate” e nel peggiore dei casi “estremiste”, nel vuoto e nell’indifferenza della politica, delle istituzioni e dei mezzi di informazione di un’Italia ormai inglobata nel pensiero unico al punto di non vedere l’alternativa. Quello che rimane è il silenzio e i collaborazionisti che confondono il buon senso con il fanatismo. Ma il fanatismo è nell’anglomania, non nella sua critica.
(Continua)