Le percentuali degli anglicismi nella stampa

Le parole sono importanti, certo, ma anche i numeri non scherzano, soprattutto quelli delle statistiche, che vanno interpretati. Troppo spesso non si spiegano ma si piegano, si usano per far loro dire quello che si vuole, o semplicemente si prendono delle cantonate nel leggerli in modo sbagliato. Per comprendere cosa intendo in modo intuitivo basta fare qualche semplice esperimento.

Mettiti a tuo agio. Rilassati e fa’ un bel respiro.
Adesso immagina…

Esperimento n. 1: gli anglicismi nei giornali

anglicismi nei giornaliImmagina un libro. Un libro normale, in italiano. Non quelli scritti troppo fitti o con i caratteri molto piccoli. Un libro nella media, di quelli che hanno magari 26 righe per ogni pagina, e ogni riga ha in media 10 parole. Anzi, per arrotondare, immagina un libro con qualche riga in più, diciamo 30. Trenta per dieci: ogni pagina ha in media 300 parole. È un esempio plausibile.
Stai leggendo questo libro, e nella prima pagina ti capita di notare che ci sono 3 parole inglesi. E lo stesso nella seconda, e poi nella terza… Ogni pagina contiene 3 anglicismi. Sono troppi? Ti danno fastidio? Ti piacciono e ti sembrano pochi? Non importa. Qualunque sia la tua percezione stai leggendo un testo che ha l’1% di anglicismi.

Adesso fermati, e guarda quando questo libro è stato pubblicato. Supponiamo che sia uscito nel 1996, e che sia un libro in linea con quanto risultava in qualche studio sulla presenza dell’inglese nei giornali dell’epoca. Per esempio quelli che aveva scandagliato Marja quando faceva la sua tesi di laurea e aveva rilevato che mediamente gli anglicismi erano l’1% nella rivista Chi e il 2,3% in Panorama (Marja Komu, “Anglicismi nella stampa italiana”, tesi di laurea in Filologia romanza, Università di Jyväskylä, maggio 1998, p.26).
Oppure immagina un libro più recente, diciamo del 2011, con un linguaggio un po’ meno anglicizzato, come i 7 giornali spogliati da Paola che ha calcolato percentuali di anglicismi tra lo 0,65% e l’1,87, una media più bassa, ma non molto diversa dal libro immaginario che stai leggendo. Paola aveva confrontato i suoi dati con quelli di uno studio precedente proprio sugli stessi giornali, compiuto da Moss nel 1992; erano tutti aumentati di un pochino, da +0,22% di Panorama, a +0,88% di Sorrisi e canzoni TV (Paola Deriu , “Gli anglicismi nella stampa italiana del XXI secolo”, in Letterature Straniere &. Quaderni della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Università degli Studi di Cagliari, 2011, n. 13, pp. 165-190; e H. Moss, “The incidence of anglicism in modern Italian: considerations on its overall effect on the language”, in The Italianist: Journal of the Department of Italian Studies, University of Reading, 1992, pp. 129-136).

Ora immagina che gli anglicismi siano davvero di più dell’1%, e che siano come nei dati più alti, tra l’1,87% e il 2,3%. Diciamo il 2%.
Riprendi a leggere il libro dei tuoi sogni. Adesso ci sono 6 anglicismi per pagina. In ogni pagina. Sono ancora pochi per inquinare la lingua italiana in modo preoccupante?

Immagina allora che diventino 9 per pagina. Il 3%.
Hai immaginato? Bene. Dunque non resta che concludere l’esperimento numero 1.

Leggi la seguente affermazione e chiediti se sei d’accordo con il nesso tra le premesse e la conclusione:

“Un sondaggio recente sugli articoli dei maggiori quotidiani ha mostrato che gli anglicismi non sono poi tantissimi; si affollano nei titoli, dove le dimensioni contano e le parole brevi fanno comodo, ma restano meno del 3% nel testo degli articoli.”
Riccardo Gualdo, Anglicismi (vol. 8 de Le Parole dell’italiano), Rcs Corriere della sera, Milano 2020, p. 55.

Non sono riuscito a capire a quale studio si faccia riferimento, perché non lo trovo citato in bibliografia, ma non appena ho letto questa frase mi sono preoccupato parecchio. Sia per l’aumento rispetto alle percentuali più basse di cui si parlava fino a pochi anni fa, sia perché quel numerino “3%”, anche se approssimato per eccesso, sotto l’effetto psicologico del numero basso e innocente, nasconde altre enormità. Ma per comprenderle occorre un nuovo sforzo di immaginazione.

E domandarsi anche: ma “il 3%” di che, esattamente?

Esperimento n. 2: la frequenza degli anglicismi e dei sostantivi

emilio isgroFa’ finta che il libro immaginario che ha 300 parole per pagina sia un libro di 100 pagine, 30.000 parole in tutto. Se l’1% sono in inglese ci sono 300 anglicismi, cioè si può riempire una pagina intera, raccogliendoli (sarebbero 900 = 3 pagine, nelle statistiche citate da Riccardo Gualdo, ma preferisco non pensarci). Adesso aprilo in una pagina a caso e guardala concentrandoti non solo sulle parole, ma anche sugli spazi bianchi che le dividono, come è più facile fare in un’opera di Emilio Isgrò. Noterai che alcune parole sono lunghe o lunghette, mentre altre sono cortissime, di uno, due o tre caratteri. Quelle piccine non spiccano come le altre, ma sono tante. Tantissime di queste parole saranno “e”, “che”, gli articoli (il, lo, la, un), le preposizioni (a, di, da, per). La struttura di un testo è formata da poche manciate di parole che sono state definite “grammaticali” o “funzionali”, e ricorrono con un’altissima frequenza. Sono sempre le stesse, e tengono insieme le altre parole che invece hanno un’occorrenza bassissima. I nomi, per esempio, secondo gli studi di frequenza di Tullio De Mauro sono circa il 20% in un testo scritto di tipo giornalistico, e ognuno è diverso dagli altri, salvo eccezioni. Ognuno ricorre una volta sola, forse due o tre in casi meno comuni.

Adesso rileggi la tua pagina aperta a caso. Tra queste 300 parole, se guardi quelle più lunghette, potrai contare forse 60 sostantivi (il 20%), mentre i verbi saranno magari tra il 10% (calcolati nel Veli di De Mauro) e il 15% (Dizionario di riferimento raccolto da Ibm basato su 3,8 milioni di occorrenze di quotidiani e testi di agenzia). Dunque ci saranno 60 nomi e 30 o 40 verbi, e poi puoi sommare gli aggettivi e altre parole ancora, ma l’intelaiatura della pagina è fatta in buona parte dalle “parole funzionali” che si ripetono. Nella Divina Commedia, per esempio, la parola più usata è “e” che ricorre 3.884 volte.
Gli anglicismi, per il 90% sono nomi o locuzioni nominali. Non ci sono verbi, non ci sono “parole funzionali” inglesi. Le 3 parole inglesi della tua pagina saranno probabilmente comprese tra i 60 nomi che le statistiche prevedono: sono dunque il 5% dei nomi che designano le cose (ma se fossero il 3% delle parole, invece che solo l’1%, diventerebbero ben 9 nomi in inglese su 60, cioè il 15% dei sostantivi che hai letto).

Sono sempre pochi? Vogliamo dire che l’italiano non ha alcun problema e salvarlo conteggiando gli articoli e le preposizioni?
Va bene. Però non è ancora finita. Potrebbe andare peggio. Potrebbe piovere…

Esperimento numero 3: le forme, i lemmi e le parole che non valgono

potrebbe piovere frankenstein juniorRileggi la tua pagina casuale. Scommetto che incontrerai almeno una volta il verbo “avere” o il verbo “essere”. Certo, è probabile che non sia all’infinito come lo si trova sul vocabolario, ci sarà forse “è”, o “erano”, o “ha”, “avranno”, “avuto”… Non importa. Tutte queste parole sono “forme” diverse, sono tipi, ma sono tutte varianti di una stessa parola, cioè il verbo “essere”, oppure il verbo “avere”. Sono lo stesso lemma, il modello privo di flessioni registrato nei dizionari (dove non si trova “rossa”, “rosse” o “rossi”, c’è solo “rosso”).
E allora come valutare le 300 parole per pagina? “Parola” ha più di un significato, è una “parola” che può ingannare.
Quante parole ha la Divina Commedia? Ce ne sono 101.499, ma se invece di contarle in questo modo automatico, una per una, conteggiamo i tipi, le forme, il loro numero scende a 13.770. Se ordiniamo tutti questi tipi in ordine di frequenza si parte da “e” (una sola parola che ricorre 3.884 volte), poi c’è “che” (si trova 2.292 volte), “la” (2.254) e così via fino alle parole che ricorrono una sola volta. Tutte insieme, se si conteggiano anche i “doppioni”, sono oltre 100.000, altrimenti diventano meno di 14.000 (che è il 13,37% del totale).
Se ci mettiamo a “lemmatizzare” queste forme, cioè a conteggiare “avere”, “hanno”, “avrà”… non come parole diverse (tipi), ma come una sola parola flessa ricondotta la suo lemma come accade nei dizionari, il loro numero si riduce ancora di più.

Ecco, adesso tutto è più chiaro, spero. Si capisce forse meglio che bisogna sempre fare attenzione a parlare di “parole” e vedere di volta in volta che cosa si intenda, per non farsi fregare.
Anche se forse non lo sapevi, a questo punto hai compreso benissimo cos’è un andamento zipfiano per lemmi. Si chiama così dal nome dello studioso George Kingsley Zipf, che ha studiato per primo come in un testo le parole abbiano questo andamento. Un piccolo numero di parole funzionali che ricorrono tantissime volte, seguito da una lunghissima lista di parole che ricorrono poche volte, e da moltissime altre che compaiono una sola volta. Di sicuro è ciò che capita anche nella tua pagina aperta a caso.

Non resta che domandarsi: ma allora come si può valutare l’effettiva presenza degli anglicismi sui giornali?

Per capirlo ci può venire in aiuto un lavoro di Tullio De Mauro del 1989 che, supportato da Ibm, ha “macinato” con questi criteri scientifici di lemmatizzazione una gran quantità di articoli di Ansa, Il Mondo, L’europeo e La Domenica del Corriere (usciti tra il 1986 e il 1987), che complessivamente erano costituiti da 26 milioni di parole. Il suo scopo era di individuare i 10.000 lemmi più usati nella lingua italiana. I procedimenti statistici per questa scelta erano molto più complessi e rigorosi di quanto ho semplificato fin qui. Ma c’è almeno un altro criterio importantissimo da calcolare e che non si può trascurare.

Bisogna eliminare la parole “che non valgono”, per farla semplice e per non barare.

In un articolo di giornale non ci sono solo i vocaboli che si trovano nei dizionari, ci sono anche i numeri e le date, o i nomi di persona. Donald Trump o Giuseppe Conte, 4 parole, non sono propriamente né italiane né inglesi, ai fini dei conteggi sugli anglicismi. Anche i nomi delle aziende, poco importa se siano in italiano (Scavolini), in inglese (Microsoft) o in itanglese (Eataly). Fanno numero, ma sarebbe bene escluderle. I testi vanno insomma “puliti” prima di dare delle statistiche che altrimenti risultano inquinate, e sarebbe bene anche distinguere le parole che ricorrono tante volte da quelle che ricorrono una sola, oltre a ragionare sulle differenze tra forme e lemmi.

De Mauro, nella sua lemmatizzazione, si è posto persino il problema degli omografi, per essere davvero preciso: (io) sono e (essi) sono, sono parole diverse ma entrambe riconducibili al verbo essere, mentre (il) danno e (essi) danno sono due parole e due lemmi diversi, da conteggiare separatamente. Nel risultato di questo lavoro, il Veli (Vocabolario Elettronico della Lingua Italiana) con i 10.000 lemmi più utilizzati nel 1986-87, gli anglicismi erano il 2% (per l’esattezza l’1,9% attraverso il criterio statistico scelto, ma poiché veniva introdotto un algoritmo di correzione che poteva essere discutibile, senza questo intervento sarebbero stati il 2,1%).

Se oggi si utilizzasse lo stesso metodo di analisi, si scoprirebbe che gli anglicismi dei giornali sono almeno raddoppiati, se non triplicati, dagli anni Ottanta. Ma ciò richiede un lavoro colossale, dunque gli studi moderni a cui si è fatto riferimento operano in un altro modo che non è paragonabile a questo: non si possono confrontare i risultati del 2% di De Mauro con quelli del 3% di oggi, perché sono due cose completamente diverse, non sono dati omogenei (in sintesi: concludere che l’aumento è dell’1% significherebbe mettere assieme mele e pere, questo deve essere chiaro).

Oggi si fanno conteggi differenti, aggiungerei scompensati (avevo parlato anche di “statistiche drogate“), perché sono piuttosto grezzi da una parte e invece raffinati solo dall’altra: si conteggiano le parole di un articolo di giornale (in modo grezzo), si vanno a contare gli anglicismi, che come è noto sono invariabili e quasi sempre con funzione di sostantivo, e questa lista, bella pulita e raffinata, si confronta con il numero delle altre parole “sporche”, che per la maggior parte sono “e” e “parole funzionali”, includono le forme flesse di uno stesso lemma, e contengono anche le parole che non valgono. In questo modo il numero degli anglicismi si diluisce. Se, nonostante questo annacquamento, nei giornali fossero davvero il 3% sarebbe un’enormità di cui ci si dovrebbe preoccupare invece di concludere che “3” è un numero piccolo.

Dagli anni Ottanta a oggi, nei dizionari, gli anglicismi son più che raddoppiati. Nel Devoto Oli sono passati dai 1.600 del 1990 a oltre 3.500 (ma non è molto diverso da ciò che si evince dai conteggi dello Zingarelli). Questo dizionario ha poco più di 3.200 pagine. Ciò significa che, aprendolo a caso, non importa in quale pagina si finisca, in ognuna c’è un po’ più di un anglicismo. Certo, può capitare che siano concentrati maggiormente in alcune pagine e che in altre non ci siano, ma la media è questa. Prima di incontrare un francesismo, invece, ci sono da sfogliare più di 3 pagine (sono nell’ordine di 1.000), mentre bisogna voltare almeno 30 pagine prima di incontrare un ispanismo o un germanismo (che sono rispettivamente un centinaio). E probabilmente questi altri forestierismi, in tutto il libro che hai immaginato, li puoi contare con le dita, o non ci sono affatto.

E i 300 anglicismi che ti sono ti sono capitati quali erano? Un conto è dire che sono 300 tutti diversi, e un conto è dire che ce ne sono magari solo 80, e che alcuni ricorrono più volte e altri una sola. Chissà qual era il criterio dello studio che li quantifica nel 3%.
Probabilmente molti anglicismi del tuo libro sono da ricercarsi nell’elenco dei 129 che sono stati inseriti da De Mauro in una altro lavoro statistico, il Nuovo Vocabolario di Base (NVDB), cioè la lista delle circa 7.000/7.500 parole che si usano di più e costituiscono oltre il 90% di quelle con cui ci esprimiamo di solito. Nel 1980 gli anglicismi erano nell’ordine della decina (all lettera B c’era solo bar). Nell’ultima edizione del dicembre 2016 erano ben di più. Allora mi son messo a sfogliare tutte le voci e a contarli manualmente, e ho visto che erano decuplicati e che sono 129, se non me ne è scappato qualcuno (e senza conteggiare parole macedonia come salvaslip). Ma non credo, perché è lo stesso numero che riporta anche Gualdo, e anche se non cita la fonte, lo avvalora.

Questo aumento dell’inglese non si vede solo nei dizionari come il Devoto Oli o lo Zingarelli, ma anche nel NVDB e nelle frequenze di uso dei giornali, c’è poco da negare e poco da stare tranquilli. Di fronte a questo diluvio, chi dice che non sta succedendo niente e aspetta che la “scure del tempo” faccia cadere nel dimenticatoio gli anglicismi, che sarebbero solo delle parole passeggere, rischia di aspettare tutta la vita, perché intanto non fanno che aumentare.

Non si può giocare con la solitudine dei numeri “proni” davanti alle statistiche buttate lì, e dire per esempio che quello che Arrigo Castellani aveva chiamato Morbus anglicus era il solito becero allarmismo. Era lungimiranza, la sua. E a dire che è poco più di un’influenza… si rischia di comprendere che non è così un po’ troppo tardi.

Aggiornamenti sul contagio lessicale del virus a corona

Nei giorni scorsi è uscito sul Corriere.it un riepilogo delle tappe della pandemia da virus a corona (con tanto di linea del tempo denominata naturalmente timeline). Lo trovo molto utile per riflettere sui cambiamenti linguistici che, nel giro di un mese, hanno portato a un’anglicizzazione senza precedenti, per rapidità e dimensioni.

L’incipit è significativo: (23 gennaio 2020) “Wuhan in lockdown. Il mondo scopre il coronavirus”. Successivamente si legge: (8 marzo 2020) “La Lombardia in lockdown”; mentre il giorno dopo, forse per evitare la ripetizione dell’anglicismo, si titola: “Chiude tutta l’Italia” e “lockdown” finisce subito sotto nella spiegazione: “Passano 24 ore e dalla Lombardia il lockdown si estende a tutta l’Italia” (“chiude”, da solo, era forse poco chiaro senza l’inglese).

A due mesi dalla comparsa del virus la lingua dei giornali somiglia sempre più a un pastrocchio che non si può che definire itanglese, e oggi reinterpreta il proprio linguaggio di gennaio e febbraio con queste nuove parole e categorie che prima non usava.

Ecco come titolavano i giornali il 24 gennaio davanti a quelle che per un certo periodo sono state denominate “le misure cinesi”.

24 gennaio cina isolata

Isolamento, chiusura, quarantenalockdown non esisteva ancora, al contrario della sintesi che oggi ne fa il Corrierone.

Anche quando il virus è arrivato da noi si sono dichiarati alcuni comuni (tra cui Codogno) “zone rosse”, poi si è blindata la Lombardia, e il 9 marzo si è chiusa tutta l’Italia, e di “lockdown” non si parlava affatto. Il lessico si appoggiava al “tutto chiuso” (chiusura, chiudere), al blocco, alla quarantena, all’isolamento, alle serrate e persino al coprifuoco risemantizzato con perdita del significato letterale legato alle ore serali (ma anche quarantena ha del resto perso l’originario riferimento alla durata di “40” giorni).

giornali e coronavirus prima del lockdown

Poi è successo che il virus ha interessato anche i Paesi anglofoni, e l’11 marzo l’Oms (che si esprime in inglese) ha dichiarato la pandemia e ha cominciato a parlare di “lockdown”. Mentre, dopo le “misure cinesi”, i provvedimenti del nostro governo diventavano per molti Paesi il “modello italiano” da seguire nelle democrazie, noi abbiamo pensato bene di rinominare il nostro modello in inglese!

Successivamente ai primi casi più o meno isolati (occasionalismi), il 17 marzo “lockdown” ha fatto la sua comparsa nei titoli del Corriere e di altri giornali. La stessa sera ha fatto capolino in televisione, era una parola ancora sconosciuta, così sconosciuta che nel pronunciarla, nella puntata di Dimartedì, Giovanni Floris ha detto “lockout”. “Lockout” circola da tempo e con bassa frequenza soprattutto nel linguaggio della “pallacanestro” [antica espressione per designare il basket, Ndr] per indicare gli scioperi (lett. serrate) di giocatori o dirigenti della NBA (National Basketball Association). Forse per questo si è generato qualche qui pro quo che si trova anche in Rete, per esempio in un articolo della Stampa (“Cercano eventuali trasgressori del «lockout», trovano alcuni spacciatori di droga”). Ma questi lapsus testimoniano la volontà di usare un inglese forzato di cui non si sente proprio il bisogno.

Come è andata a finire è sotto gli occhi di tutti. Da quel 17 marzo si parla solo di lockdown, nelle timeline del Corriere e in televisione. L’italiano, con tutti i suoi sinonimi e sfaccettature, è relegato a sinonimia secondaria.

Nella foto è possibile vedere, a titolo puramente evocativo, una delle più autorevoli fonti giornalistiche che si adopera per il sistematico genocidio delle nostre parole in nome della stereotipia a base inglese, facendo in questo modo vivere – più che morire – le “fake news” e uccidendo invece le “bufale”, le ”notizie false” e il nostro lessico.

gabanelli

Cercando “lockdown” sul sito del Corriere.it, si nota che a oggi ci sono quasi 600 articoli che impiegano questo termine, e i raffronti con gli anni precedenti si possono vedere nell’immagine qui sotto (nel 2018 non era mai stato usato).

lockdown

Una curiosità: provate a cercare parole come “lockdown” o “droplet” in un giornale di lingua spagnola come El País o in uno di lingua francese come Le Monde, oppure sulla Wikipedia spagnola o francese così diverse da quella italiana

Credo che questi confronti siano molto utili per chi crede che certe parole siano “internazionalismi”.

L’imposizione dall’alto della terminologia in inglese

Qualche sera fa ho sentito in televisione qualcuno, con tono da scienziato, dispensare perle di cultura sulla differenza tra il “droplet” e le “goccioline” con arrampicamenti di specchi che ne fissavano impalpabili limiti nel fatto che le seconde cadono a terra, le prime sarebbero più piccole e rimarrebbero nell’aria e altre simili fesserie. Dall’iniziale “distanza droplet” con cui in un primo tempo i mezzi di informazione hanno iniziato gli italiani, in un baleno queste “goccioline” inglesi sono diventate un tecnicismo che ci viene calato dall’alto come la parola giusta, esatta, scientifica, che per i profani e la fabrizio pregliasco dropletsplebe si può solo avvicinare con un goffo “gocciolina”. Droplet ricorre nelle conferenze stampa della Protezione civile con alta frequenza, e in bocca ai tanti che mostrano con queste scelte lessicali di essere dei veri esperti. Significativa è l’uscita del virologo Fabrizio Pregliasco, nella trasmissione “Quarto grado” del 17 aprile scorso: “Le goccioline, ormai lo sanno tutti, si chiamano droplets…”. Lo sanno tutti perché non fate che ripeterle. Un po’ come Mentana, che qualche sera fa, durante il suo telegiornale, dopo aver pronunciato “lockdown” si è fermato un attimo a pensare, per poi aggiungere: “Come ormai si dice”.
mentana lockdown“Come ormai si dice?” Si dice perché voi lo avete detto fino alla nausea senza alternative al punto che sembra che ormai non si possa farne più a meno! Prima si inroduce l’anglicismo e lo si diffonde, poi ci si nasconde dietro l’alibi dell’uso. Un bel corto circuito vizioso!
Dire che le goccioline si chiamano “droplets” è un’affermazione “criminale”, da un punto di vista della nostra lingua, e rivela un’inconsapevole quanto precisa e pericolosa visione del mondo: l’inglese è “la” lingua superiore della scienza e della verità, che si può adattare solo in una sorta di impreciso italiano vissuto come dialetto locale (da notare la “s” del plurale sempre più spesso pronunciata negli anglicismi da personaggi che finiranno per imporla come si imporrà il “qual’è” con l’apostrofo, di cui si intravedono già i primi segnali).

È la stessa logica distruttiva degli esperti che ci spiegano che la proteina di superficie del virus a corona si chiama “spike protein”, come ho sentito in un servizio televisivo. “Spike” lo avevo già segnalato: in inglese è semplicemente uno “spuntone”, e così è stato chiamato lo “spuntone” che caratterizza la corona del virus (nessun tecnicismo, in inglese). In un primo tempo è arrivato non tradotto, perché la scienza parla l’inglese, e non c’è un ricercatore che voglia tradurre il sacro dio inviolabile di questa lingua irraggiungibile. Dunque si importa spike come fosse il verbo divino, e quando subito dopo si scopre la proteina di superficie del coronavirus, viene divulgata in inglese: si è scoperta la spike protein. Anche questo ho sentito, quando un esperto, dall’alto delle sue competenze, ha spiegato agli spettatori che si chiama così. Si battezza ciò che è nuovo in inglese, con una terminologia che diffonde il lessico dell’Italia e incolla (in italiano c’è anche spinula, per indicare le formazioni appuntite in ambito zoologico, biologio e patologico).

La nuvola degli anglicismi che ci avvolge

Accanto agli anglicismi più nuovi e frequenti, come droplet o smart working ce ne sono innumerevoli altri nel lessico ai tempi del coronavirus. Così tanti che sono “incontabili”. Sono occasionalismi, uscite estemporanee che portano a un travaso dell’inglese invece che alla sua traduzione; sono parole di bassa frequenza che circolano nelle bocche di giornalisti, esperti, politici, virologi, bloggatori, tronisti… e di quanti cercano di darsi un tono di maggior precisione usando parole dal suono inglese, spesso incomprensibili o sparate a vanvera. È un malcostume che ricorre spesso anche nei “servizi televisivi” di chi invita a scegliere la propria “informazione responsabile” che di responsabile ha sempre meno. Ogni conduttore e giornalista alza il tiro in una gara a chi ne spara di più in itanglese. Questo fenomeno è difficile da quantificare, ma complessivamente porta l’inglese in primo piano, e anche quando non afferma un singolo anglicismo, che rimane solo un’espressione usa e getta, fa dell’inglese la lingua superiore.

formigliA “Piazza pulita” del 17 aprile, Corrado Formigli ha cominciato a parlare di “covid pass” per indicare ciò che fino a settimana scorsa era detto “patente di immunità”. Un’espressione che ben si sposa con i covid hospital, e che a sua volta si appoggia a day hospital… in un’abitudine a dire hospital al posto di ospedale.

Questo percolare dell’inglese, talvolta con ricombinazioni all’italiana, è difficile da quantificare, perché si tratta sempre meno di singoli “prestiti”, e sempre più di un ricorso immotivato all’inglese puro o impuro sempre più ampio, che complessivamente forma una “nuvola di anglicismi” – come l’ho chiamata altre volte – che avvolge molti discorsi in modo sempre più denso. Tra questa moltitudine di parole inutili, anche se molte rimangono nell’aria come goccioline solo per poco tempo, prima di svanire, ci abituiamo sempre più ai suoni inglesi come fossero la cosa più naturale. E qualcuna di queste parole, inevitabilmente, finisce per affermarsi, pianta i suoi “spuntoni” e si radica. È la panspermia dell’inglese che si riversa ovunque e che attecchisce dove trova le condizioni per farlo. L’Italia è una sorta di colonia economica e cultuale degli Stati Uniti caratterizzata dal terreno più fertile. Siamo privi di anticorpi. Così, le parole inglesi, dopo aver messo radici al posto delle nostre (o aver fatto morire le nostre), sempre più spesso si moltiplicano, si strutturano in famiglie. Le obbligazioni sono bond, e quindi dopo gli eurobond questo virus ci ha portato i coronabond e ora i recovery bond, i “buoni per la ripresa”.

Scherzavo, un mesetto fa, quando scrivevo “strano che non si dica smart learning, per coerenza con lo smart working”, eppure una ricercatrice del Politecnico di Torino, intervistata nell’ennesima trasmissione sulla pandemia l’altro giorno parlava, con la massima serietà e naturalezza, di “smart didattica”, e non di didattica a distanza; la stessa espressione che si ritrova con grande disinvoltura sulla pagina di una docente dell’Università di Perugia (“studenti tutti pronti e reattivi nella nuova modalità di smart-didattica. Buon lavoro!!?”).

L’aumento di frequenza degli anglicismi

Insieme ai vari anglicismi che coincidono sempre più con i neologismi (la nostra lingua è sempre meno capace di produrne di autonomi, su base endogena, e non fa che importare dall’angloamericano a costo di inventarseli), in questo momento così buio per il nostro Paese, ma anche per la nostra lingua, aumentano anche le frequenze degli anglicismi già radicati. In questo modo l’inglese è sempre più invadente, sempre più pervasivo. Gli anglicismi diventano degli automatismi, che saliviamo in riflessi incondizionati come il cane di Pavlov. Invece di dire che è necessario mappare, monitorare, fare controlli a campione o di massa della popolazione, nelle parole di Luca Zaia (sabato 18 aprile, “Petrolio” Rai 2) c’è solo lo screening, per due o tre volte ribadito anche con lo “screenare la popolazione attraverso i kit sierologici”.

zaia

Il conduttore gli rispondeva parlando di “app per il contact tracing”, e non per il tracciamento dei contatti, in un guazzabuglio di altri anglicismi ben radicati, da privacy a welfare, che aumentano di giorno in giorno la loro frequenza.

Ancora una volta può essere utile vedere l’aumento di occorrenze di questo tipo di anglicismi sul sito del Corriere. Basta fare un po’ di ricerche per scoprire che cluster è ormai usato al posto di focolaio, e che in soli 3 mesi e mezzo la frequenza di alcuni anglicismi ha superato abbondantemente quella dell’intero anno scorso. Nei picchi di stereotipia anglicizzata che caratterizzano i primi 3 mesi del 2020, screening è stato usato quasi il doppio delle volte rispetto all’intero 2019; così come voucher. Lievitano anche i test, gli hospital, e persino il jogging, dopo le polemiche sul vietare o meno le corsette, in un lessico che è sempre meno italiano e sempre più itanglese.

frequenze anglicismi corrirere della sera
Ricerche effettuate il 19 aprile 2020.

La guida per evitare gli anglicismi nella pubblica amministrazione è scritta in itanglese!

Un lettore (grazie Carlo!) mi ha segnalato un articolo uscito su La Repubblica il 17 febbraio 2020, “Abrogare il feedback e erogare la mission: il cattivo italiano dei burocrati” (di Riccardo Luna) che saluta l’impegno nel bandire il burocratese e gli anglicismi dalla pubblica amministrazione (mi si consenta di scriverla in minuscolo come nella Treccani invece che in maiuscolo come indicato nella guida di cui si parla) e di cui riporto un passo:

“Qualche giorno fa è uscita la prima Guida al linguaggio della pubblica amministrazione, appena rilanciata dal ministro dell’Innovazione Paola Pisano. E’ un documento interessante, che (…) elenca le parole da usare e non usare. (…) Gli inglesismi vengono quasi tutti banditi (…) Tutto ciò può sembrare una banalità e invece non lo è: in un paese con oltre dieci milioni di non utenti di internet, quasi tutti in età avanzata e scolarità elementare, è un dovere creare una rete inclusiva e facile. Il problema è che la Guida non è obbligatoria: è un consiglio. In quanti lo seguiranno? Sarebbe bene monitorarlo.”

Appena ho letto il pezzo me ne sono rallegrato. Ma poi ho contato fino a dieci e mi son detto: “Ma dai… ma ti pare davvero che in Italia si promuova l’italiano al posto dell’inglese? Non sarà la solita ‘marchetta’ per parlar bene di iniziative finte, senza leggere, senza approfondire, senza alcuno spirito critico, limitandosi a ribattere i comunicati stampa di chi se le suona e se le canta da solo? E soprattutto: la guida di cui si parla starà davvero seguendo le linee guida che dice di dispensare?”

Sfogliando il dizionarietto con “Le parole della Pubblica Amministrazione” si può effettivamente constatare che viene promossa una manciata di alternative agli anglicismi:

best practice/buona pratica;
citizen satisfaction/soddisfazione dei cittadini;
disclaimer/avvertenza;
feedback/riscontro;
Frequently asked questions (Faq)/Domande frequenti;
guideline/linee guida;
help desk/assistenza;
meeting/riunione/incontro;
speaker/relatore/relatrice;
tool/strumento;
username/nome utente.

A questi 11 anglicismi (11! Che sforzo titanico!) se ne aggiungono altri due: mission e vision che curiosamente non sono affiancati da missione e visione, no: al posto di mission – si legge – “preferisci termini alternativi (es. valori, scopi, obiettivi) a seconda dei contesti”; vision; “Trova termini più semplici per descrivere i progetti futuri della pubblica amministrazione, per esempio scenario futuro o obiettivi di lungo periodo. Comunque sia, a queste 13 parole si aggiunge poi touch screen, dove la forma italiana “schermo tattile” non è però consigliata, ma semplicemente riportata come possibile (il giornalista di Repubblica la etichetta come alternativa “improbabile”, evidentemente assuefatto al linguaggio praticato dai suoi colleghi). Altre parole inglesi sono invece ammesse senza riportare alternative (email, newsletter, online…).

Questo lodevole impegno contro l’abuso dell’inglese (o meglio: di 15 anglicismi sì e no) è affiancato anche da due fondamentali consigli sulle parole straniere:

Preferisci quando possibile i termini in italiano”
e
“Le parole straniere di uso comune non si declinano in italiano: ‘l’amministrazione ha comprato dieci tablet’, non ‘l’amministrazione ha comprato dieci tablets’.

Tutto qui? Vabbè è già qualcosa… è sempre meglio di niente…

 

Predicare benino e razzolare malissimo

Peccato che questi consigli siano disattesi, proprio dal sito che li eroga.

Nel capitolo Come strutturare il contenuto, appena sotto al consiglio “che i documenti siano scritti in modo chiaro, semplice e accessibile per tutti i cittadini”, nel paragrafo “Documenti allegati, pdf”, per approfondire si rimanda (anzi c’è il link) ai tool cioè una parola che la stessa guida sconsiglia di utilizzare!

tool

E mentre si parla di trasparenza e di linguaggio comprensibile a tutti i cittadini, la prima pagina della Guida al linguaggio della Pubblica Amministrazione recita che è possibile “creare delle issue e delle pull request direttamente su GitHub.” Nella stessa prima pagina si legge che la guida fa “parte del kit di Designers Italia dedicato alla progettazione, gestione e produzione di contenuti nei siti della Pubblica Amministrazione” e si invita ad andare al “content kit” dove si legge che sono “strumenti per organizzare un workflow per la creazione e gestione ordinaria e straordinaria dei contenuti”.

Issue? Pull request? Workflow? Content kit? Ma che lingua parla questa guida al linguaggio?
Basta vedere i “designers kit” per rendersene conto: sono scritti in puro itanglese.

Tra i “materiali all’interno del kit” ci sono “Workshop sul linguaggio” (“seminario” è troppo italiano?), esercizi di “editing collaborativo”, modello di “redesign dei contenuti in lavorazione”, board, “esercizio di card sorting” e di content journey

Nel “kit” di Designers Italia “dedicato alla progettazione, gestione e produzione di contenuti nei siti della Pubblica Amministrazione” spiccano i Developers, i Designers e i Docs (ma non si raccomandava di evitare la “s” dei plurali?), oltre alla road map e a tutto il resto.

designers

Ed eccoli, i design kit:

design kit

Dove sta l’italiano? Ma ci prendono in giro? Questa comunicazione per mettere al centro il cittadino è in inglese!

Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro. Sia sulla qualità di un pezzo giornalistico che esalta questo sito come una buona pratica che spera venga seguita, sia su una simile guida che si esprime in itanglese dicendo che bisogna evitarlo, come chi, nelle barzellette, afferma di non essere razzista ma che ci sono in giro troppi negri.

PS
Per le cose serie, a proposito di comunicazione istituzionale, strumenti per la redazione, linguaggio che arriva a tutti in italiano, e raccomandazioni sull’uso degli anglicismi… consiglio chi ne ha bisogno di buttare via gli italian designers kit e di rivolgersi ai siti svizzeri come questo. La tutela dell’italiano, la nostra lingua, in Svizzera, è fatta in modo molto più responsabile.

Virus a corona: diamo il benvenuto al nuovo anglicismo “wet market”

– Dobbiamo mettere online le news del coronavirus. Ce la fai a farmi un pezzo sulla chiusura dei wet market entro due ore?
– Web market?! Ma non si diceva e-commerce? Chiudono Amazon perché non rispetta le direttive per i lavoratori? O intendevi il web marketing?
– Ma che stai dicendo? Wet market! Il mercato degli animali vivi di Wuhan! Si sta muovendo Animal Equality e anche l’Onu… Sveglia!
– Ah, il mercato del pesce di Huanan, non avevo capito.
– Ma qu
wet market1ale mercato del pesce? Wet market! Devi titolarlo wet market.
– Lo abbiamo sempre chiamato mercato della città di Wuhan, mercato del pesce, o a cielo aperto… temo che non lo capisca nessuno. E se scrivessimo “il mercato degli animali vivi”, come nella petizione italiana di due mesi fa? Io ve l’avevo segnalata, ma mi avete bocciato il pezzo…
– Non rompere i coglioni come al solito, lascia stare le petizioni italiane. Adesso ci son quelle internazionali. E mettici qualcosa anche sullo spillover.
– Il salto di specie dei virus? In italiano sarebbe zoonosi se vogliamo usare una parola scientifica.
– Zoonosi non lo capisce nessuno, troppo tecnico!
– Be’ neanche spillover se è per questo… tanto vale usare una parola italiana visto che…
– Ma ci fai o ci sei? Il titolo è Coronavirus: il grido di Animal Equality: “chiudete i wet markets, paradiso degli spillover”.
– Markets? Ma la s del plur…
– Sbrigati! E che non ti venga in mente di cambiare una virgola. Se vuoi spiegare lo fai all’interno dell’articolo; il titolo lo lasci così, deve catturare l’attenzione, se glielo spieghi subito capiscono al volo, e col cazzo che lo leggono poi.
– Be però anche zoonosi, allora, potrebbe richiamare l’attenz…
– Se non fossimo in modalità smart working ti metterei le mani addosso! Tu da domani finisci a scrivere necrologi! Non capisci un cazzo di giornalismo…

* * *

Sulla stampa l’avevano fino a ieri chiamato il “mercato” di Huanan della città di Wuhan.
La seconda definizione più gettonata era “mercato del pesce”, in qualche caso anche “ittico”. Qualcuno aveva azzardato “il mercato a cielo aperto di Wuhan”, i più pignoli parlavano di “mercato di animali selvatici” o di “specie selvatiche”.
Poi sono cominciate a circolare le prime sporadiche traduzioni di “mercato umido” o “bagnato” (“Il virus ha avuto origine nella città cinese di Wuhan, forse in un ‘mercato umido’, uno dei mercati di prodotti alimentari freschi di origine animale…”). All’inizio i giornalisti usavano l’italiano, ma è stato solo uno sprazzo, e verso fine marzo l’anglicismo ha cominciato a comparire come tecnicismo tra parantesi: “La pandemia da Covid-19 avrebbe preso il via dal ‘mercato bagnato’ (Wet market) di Wuhan, in Cina, uno dei numerosi luoghi di commercio di…” (Altreconomia, 25/3/2020). Subito dopo è arrivata l’inversione di prospettiva, prima l’inglese e poi, tra parentesi, l’italiano.  In un bell’esempio di prosa giornalistica nell’itanglese che caratterizza una testata come Il Sole 24 ore, il 28 marzo si leggeva questo titolone: Dal “wet market” allo “spillover”: come nasce una pandemia. All’interno del pezzo l’inglese era in primo piano, come fosse la terminologia intraducibile di cui non si può fare a meno: “…si ipotizzava che sarebbe successo in un ‘wet market’, un mercato di animali (esotici e selvatici) venduti e mangiati in Brasile o in Cina…”.
E adesso? Pesce d’aprile, il mercato del pesce è definitivamente wet market, siamo diventati “internazionali”, anzi, statunitensi.
2 aprile: “Chiudiamo per sempre i wet market! La petizione con le scioccanti immagini dei mercati umidi asiatici” (greenMe.it); 3 aprile: “Le crude immagini dei ‘wet market’ in Cina. Gli animalisti: ‘L’Onu li vieti per sempre’” (Adnkronos)…

Il 6 aprile i wet market sono ormai su tutti i giornali, sul Corriere, La Stampa, il blog di Beppe Grillo… la frittata sembra fatta.

wet market

E pensare che solo un paio di mesi fa una poverina italiana che si chiama Vera Catalano aveva lanciato una petizione per chiudere “i mercati che vendono animali vivi”; ci rendiamo conto di quanta arretratezza, ingenuità e ignoranza nello scrivere queste cose in italiano (che tra l’altro è molto più lungo)?
Per fortuna adesso ci sono l’Onu e le organizzazioni internazionali a spiegarci quali sono le parole che i nostri giornalisti devono usare.
Wet market. La mia previsione è che entro stasera o domani tutta la nostra bella schiera di giornalisti televisivi non dirà altro. Già mi pregusto come si riempiranno la bocca le Lilli Gruber, i Floris, i Formigli, i virologi e gli esperti degli speciali Mentana, negli approfondimenti di tg 1, 2, 3… stella! Tutti tronfi di usare il loro amato itanglese, per poi rivolgersi sornioni alla telecamera spiegando all’italietta analfabeta che non padroneggia i loro tecnicismi da esperti: letteralmente “mercati umidi”, sono i mercati dove bla bla bla. Spiegazione effettuata! Poi basta, si procede con l’inglese.

Mi piacerebbe essere lì con loro e domandare: scusate… mi chiedevo… ma come lo chiameranno in Cina un wet market? Qualcuno se lo sarà chiesto? No? Non vi interessa la parola cinese? Capisco, non ve ne frega niente del cinese e preferite importare dall’inglese… Speriamo che presto lo dicano anche loro così, i cinesi dico… se non altro per vietare questi mercati in modo comprensibile a tutti, se li devono chiudere i cinesi, forse loro sanno come si dice…

Ci rendiamo conto di quanti anglicismi assurdi stiamo importando in quest’emergenza? E con che rapidità si radicano? Nel giro di una settimana siamo travolti dalla frequenza dei picchi di sterotipia ed è come se li usassimo da sempre.

Il 17 marzo, davanti al timido comparire di lockdown, scrivevo: “Vuoi vedere che questa parola oggi in prima pagina sul Corriere digitale diventerà ‘la’ parola che useremo nel futuro al posto di isolamento, blocco, quarantena?”. Sembra passato un secolo, eppure prima del 17 marzo ancora non si usava. Adesso non si sente dire altro in tv.

Il 25 marzo, nel segnalare l’avvistamento di anglicismi come smart working, spillover, spike, covid hospital e gli altri, scrivevo: “Finché il problema era solo cinese non si è registrata alcuna interferenza linguistica proveniente dall’Oriente; e anche quando è esploso da noi, la comunicazione era prevalentemente in italiano. Poi l’Organizzazione mondiale della sanità (che si esprime in inglese) ha dichiarato la pandemia e il virus ha contagiato i Paesi anglofoni, dunque tutto è improvvisamente cambiato, e la mia previsione è che sia destinato ad anglicizzarsi sempre più.”

Oggi mi verrebbe da prevedere che a esplodere sarà il wet market, che probabilmente qualcuno non aveva ancora sentito prima di oggi. Ma di sicuro mi sbaglierò, anche perché, come ha osservato qualche grande linguista poco preoccupato per le sorti dell’italiano, queste parole sono solo espressioni usa e getta che passata l’emergenza sono destinate a scomparire. Peccato che il punto è un altro: tutto ciò che è nuovo, persino se viene dalla Cina, diventa inglese. Poco importa che di un centinaio di anglicismi legati al virus a corona (scusate, al coronavirus) la maggior parte passeranno, la verità è che migliaia di altre parole “usa e getta” sono destinate a entrare nella nostra lingua, in un flusso continuo sempre in inglese e sempre più numericamente significativo. Qualunque cosa accadrà in futuro. Molte passano, certo, ma molte altre attecchiscono, si radicano e germogliano. Il linguista replicherà a questo punto che non è grave, perché sono solo i mezzi di informazione a usarle… hai detto niente! Sono quelli che hanno unificato l’italiano, e quelli che oggi lo stanno distruggendo. Come si fa a non capirlo?
Mentre i linguisti di questo tipo ci spiegano che l’interferenza dell’inglese non è reale, è solo una nostra distorsione delle cose perché è limitata ai giornali, o perché è confinata nei settori come quelli della Rete, della tecnologia, della scienza, dell’economia, della moda, dello sport, del cinema, della pubblicità… mi domando, se togliamo tutti questi ambiti, cosa altro rimanga dell’italiano.

anglicismi giornali

Cambi di paradigma culturali e linguistici dopo il coronavirus

Uno spettro si aggira per l’Europa… anzi per il mondo! Carlo Marx non avrebbe potuto prevedere che a mettere in ginocchio il sistema di produzione capitalistico, invece della rivoluzione della classe operaia, sarebbe stato qualcosa di così invisibile e “spettrale” come un virus. E non aveva nemmeno previsto che il capitalismo – un “mostro” vorace che per sopravvivere deve continuamente ampliarsi – avrebbe nei secoli successivi travalicato i confini nazionali per trasformarsi in un Leviatano di ben altro ordine di grandezza che oggi si chiama globalizzazione. Lo “sfruttamento dei proletari” si è trasformato nello sfruttamento di interi Paesi poveri da parte di altri più ricchi e di un’oligarchia di multinazionali che fatturano anche più di uno Stato sovrano. Il mondo è completamente cambiato dai tempi di Marx e le sue analisi economiche non sono più applicabili. Nell’epoca del post-post-industriale, dopo la caduta del muro di Berlino, ad affamare i popoli sono le multinazionali che comprano le terre africane, sottratte alle popolazioni che ci vivono e con cui sopravvivono, per dare vita alle coltivazioni intensive transgeniche. Oggi il mercato della grande distribuzione è più importante di quello della produzione, è quello che detta le regole, fa i prezzi di mercato e affama tutti gli ingranaggi delle filiere, dagli agricoltori italiani e i produttori di latte sardi, ai nuovi schiavi asiatici o africani della manodopera globalizzata. A trainare l’economia c’è il mercato dell’informazione e della comunicazione, dove non è più necessario “appropriarsi dei mezzi di produzione” che un tempo erano nelle mani dei capitalisti. In molti settori basta avere accesso alla Rete per lavorare a distanza, basta aprire un sito per potere sviluppare un’attività di servizi o di vendita, almeno in teoria. Di fatto, sono però i colossi della Rete, che oggi si chiamano Google, Facebook, Amazon… a egemonizzare questi settori. Mentre ci profilano e ci plasmano a loro consumo, le loro succursali in Europa si prodigano per trovare i cavilli per non pagare le tasse, importano da noi i nuovi modelli di lavoro senza diritti così diverso da quello su cui sarebbe fondata l’Italia della nostra Costituzione, e di cui i ciclofattorini chiamati rider o l’esercito dei magazzinieri di Amazon sono l’emblema.

L’espansione di questo modello impone ovunque non solo le stesse “merci”, ma attraverso le merci anche il sistema, le regole, i valori, la mentalità e la cultura di chi le esporta. Anche la lingua fa parte del pacchetto. Questa globalizzazione si pone come una sorta di “alfabetizzazione” di tutto il mondo, che altro non è che una forma di colonizzazione economico-culturale (da sempre la colonizzazione è stata giustificata con l’esportazione della cultura a chi non ce l’ha) che punta all’omologazione mondiale del modello statunitense. Questa esportazione anche linguistica, questa “alfabetizzazione” globale della lingua inglese che schiaccia i modelli locali coinvolge l’economia e il lavoro, la scienza che deve parlare inglese per essere internazionale, la tecnologia, la pubblicità, il cinema… è sempre più pervasiva. È un disegno che affonda le sue radici nel progetto di esportazione del “basic english” degli inizi del secolo scorso e del “globalese” o globish del nuovo Millennio. Si ritrova esplicitamente abbozzato nel discorso del 1943 di Winston Churchill agli studenti di Harvard (“Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente”, Fonte: Winston Churchill – in dialogo con Roosevet – Università di Harvard). Si ritrova nel piano Marshall che attraverso lo stanziamento, allora incredibile, di 17 miliardi di dollari per la ricostruzione dell’Europa ha di fatto rappresentato l’acquisto del nostro continente da un punto di vista economico (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale) e politico (Onu e Nato). Contemporaneamente, nell’Italia della ricostruzione è iniziato il “sogno americano”, l’american dream che consisteva nell’ambire i modelli culturali e lo stile di vita d’oltreoceano. La stessa logica descritta da Tacito con cui i Romani avevano assoggettato i popoli germanici: far bramare la propria cultura e farla vivere come il modello superiore da imitare, in modo che chiamassero “cultura” ciò che faceva parte di un piano di asservimento. Le ricadute linguistiche degli anni Cinquanta sono ben rappresentate dalle caricature di Alberto Sordi di un Un americano a Roma e dalla canzone “Tu vuo’ fa’ l’americano” di Carosone. La penetrazione consistente degli anglicismi nella nostra lingua è nata in quell’epoca, per poi continuare a crescere, esplodere negli anni Ottanta e diventare lo tsunami anglicus del Nuovo millennio. Anche se ci appaiono come serie, tecniche o maggiormente evocative, le neoconiazioni anglomani dei nostri giorni che si intravedono nei jobs act di Renzi o nei navigator di Di Maio, nello smart working mediatico e via dicendo, sono altrettanto ridicole, a ben pensarci. Il fatto è che le ultime generazioni sono cresciute imbevute dalla “cultura” commerciale dei telefilm e dei prodotti statunitensi e oggi per elevarsi sociolinguisticamente parlano in itanglese. La stessa lingua che i mezzi di informazione privilegiano e diffondono in modo irresponsabile. Stiamo agevolando la colonizzazione linguistica con suadenti pseudoanglicismi che inventiamo da soli!

Ma adesso è successo che in un lampo la globalizzazione si è dovuta fermare; il mostro del globalcapitalismo, che se non cresce implode, si è inceppato, e rischia di crollare sotto il peso delle proprie contraddizioni interne.

Dopo l’influenza “asiatica” del 1957, quella di Hong Kong del 1968 ha impiegato ben 18 mesi per arrivare in Italia, ed esplodere nell’inverno del 1969 e poi nel 1970 uccidendo da noi 5.000 persone (qui un documento dell’Istituto Luce che consiglio vivamente). A quel tempo risale il proverbio inglese “Quando Mao starnuta, il mondo si ammala”, oggi incattivito nella strategia di Trump che si ostina a chiamare l’attuale pandemia “virus cinese”, con evidenti intenti propagandistici. Ma con la globalizzazione i virus viaggiano in aereo con molta più facilità e con una velocità inaudita, e dopo questa crisi globale non potremo dimenticarcene.

La portata di questa pandemia è qualcosa che non si è mai visto, e le sue conseguenze economiche sono sempre più spesso paragonate a quelle della Seconda guerra mondiale.

Che cosa accadrà dopo?

Mentre c’è chi aspetta che la bufera passi per poter ricostruire tutto esattamente nello stesso modo, c’è invece chi pensa che nulla sarà mai più come prima. E vale la piena di chiedersi se non sia il caso di immaginare una ricostruzione diversa.

La storia non procede in modo lineare, ma per salti di paradigma, per citare il filosofo Thomas Kuhn che ha analizzato con questa prospettiva la storia della scienza: ci sono periodi di continuità che poi cambiano piuttosto rapidamente quando vanno in crisi, e in questi momenti di rottura avviene il “salto di paradigma” che dà il via a un nuovo ciclo basato su una differente visione delle cose.
Poiché questa pandemia, annunciata da più di vent’anni come evento estremamente probabile dall’Oms, non sarà l’ultima, nella ricostruzione bisognerà tenerne conto. Come i terremoti non sono eventi “imprevedibili” – sappiamo benissimo che prima o poi da qualche parte capiteranno e bisogna tenerne conto – anche le pandemie figlie della globalizzazione non sono eventi eccezionali e si ripresenteranno. Adesso ne abbiamo dovuto prendere atto, ma purtroppo siamo stati colti di sprovvista, e al momento è in gioco la stessa tenuta dell’Europa, che potrebbe anche saltare davanti a questa prova che ne ha messo in luce tutte le divisioni, mentre in Ungheria sono nate le premesse di una nuova dittatura. Inoltre, bisogna tenere presente che il Regno Unito è diventato un Paese extracomunitario, come lo sono gli Stati Uniti, dove il modello sanitario in cui senza l’assicurazione e la carta di credito non si viene curati è destinato a entrare in crisi. Qualcuno invoca nuovi piani Marshall per la ricostruzione, ma la storia ce lo ha insegnato: bisogna stare molto attenti a questo tipo di misure, che non sono mai filantropiche, comprano qualcosa e investono sul futuro, dunque dovremmo stare molto attenti a non svendere l’Italia e il nostro futuro, davanti a queste prospettive.
Ricostruire tutto come prima può essere pericoloso. Forse è arrivato il momento di un salto di paradigma, di una ricostruzione di un sistema di produzione più sostenibile, che tenga conto per esempio delle indicazioni degli scienziati sul riscaldamento globale, degli allarmi dei movimenti ecologisti, o anche delle riflessioni di pensatori come Serge Latouche che teorizzano la “decrescita felice” e si interrogano sulla necessità (ed eticità) di cambiare il paradigma del consumismo e del capitalismo – come avrebbe detto Marx – ma con ben altre premesse e soluzioni. Il modello economico e politico della globalizzazione che produce continuamente, allo stesso tempo consuma, inquina, deforesta, surriscalda e avvelena la Terra. Questa globalizzazione selvaggia dovrà essere ripensata, visto che la delocalizzazione della manovalanza all’estero poi porta a conseguenze come la scarsità di dispositivi di protezione medica e di “mascherine” in tutto il pianeta, e a una goffa corsa all’autarchia di ogni Paese che punta alla riconversione delle proprie aziende che ricorda quella del fascismo durante la Seconda guerra mondiale. Tra l’autarchia e la globalizzazione selvaggia ci sono delle vie di mezzo più sane, cui puntare. Di sicuro nella ricostruzione dovremo rivedere anche il nostro stato sociale, che sarebbe ora di chiamare così invece che welfare, dal momento che la nostra concezione del lavoro e i nostri modelli sanitari sono diversi, e a mio avviso ben superiori, rispetto ai modelli dei Paesi anglofoni che negli ultimi 20 anni abbiamo cercato di scimmiottare con i tagli e la privatizzazione di cui oggi paghiamo le conseguenze.

La ricostruzione, se ci sarà davvero un cambio di paradigma, potrebbe essere totale: economica, politica, culturale e di conseguenza anche linguistica. Non si può prevedere cosa accadrà. C’è sempre la possibilità di ricostruire tutto come prima e di fare finta di niente; ci può anche essere uno scenario di un mondo ben peggiore di quello attuale. Oppure potrebbe esserci una svolta in cui forse la smetteremo di perseguire la nostra “strategia degli Etruschi” che si sono sottomessi alla romanità che consideravano superiore. Può anche accadere che smetteremo di comportarci come una colonia, in una ricostruzione attraverso nuovi modelli che passeranno per il recupero della nostra identità, della nostra cultura, delle nostre radici e anche della nostra lingua. In una prospettiva non di sovranismi e autarchie, ma di una nuova Europa e di un nuovo scenario mondiale diverso da quello dell’attuale globalizzazione. Dove essere internazionali potrebbe essere qualcosa di ben differente dall’omologazione statunitense, in un nuovo assetto fatto anche di pluralismo e di multilinguismo, visto che l’inglese non è più tra le lingue ufficiali dell’Unione.

Nel frattempo, mentre tutti aspettiamo un dopo, e mentre i mezzi di informazione perseverano diabolicamente nello sciolinare inutili anglicismi, ringrazio tutti coloro che “lo dicono in italiano”: le statistiche del sito sulla grammatica italiana sono schizzate alle stelle e il progetto è entrato nei circuiti che gli insegnanti usano per la didattica a distanza. Ma anche il sito Alternative Agli Anglicismi (sempre più ricco dei vostri contributi) e questo che state leggendo stanno crescendo con un’intensità che mi fa sperare che la mia battaglia contro l’itanglese e il colonialismo linguistico, nella ricostruzione, possa diventare sempre più “contagiosa”.