Coronavirus e mascherine contro lo sputazzamento dell’inglese

In questi giorni tragici che tutti stiamo vivendo può sembrare blasfemo riflettere sul virus linguistico che Castellani chiamava morbus anglicus. Ci sono problemi ben più gravi e urgenti. Ciononostante, nel linguaggio dell’informazione interamente occupata dalla nuova emergenza, il mio fastidio di fronte all’uso degli anglicismi è sempre più forte.

smart working droplet

Non importa se tutto ha avuto inizio in Cina, ciò che è nuovo si deve esprimere in inglese, come al solito. La stampa diffonde neologismi come droplet, che viene spacciato come un tecnicismo (“Tecnicamente, il droplet – dall’inglese drop, che significa goccia – è la dinamica di trasmissione che avviene attraverso piccole gocce di acqua che spargono i germi nell’aria quando la fonte e il paziente sono vicini. Ad esempio, si verifica quando il contagio avviene starnutendo, parlando, tossendo”, Giornale di Brescia, 1/3/20).
La parola diventa insensatamente sinonimo di “distanza di sicurezza”, attraverso uno pseudo-ragionamento  che decurta ogni cosa tranne l’inglese e che ben si evince negli articoli di giornale: “Gli inglesi le chiamano ‘droplet’, e la ‘distanza droplet’ è quella oltre la quale si è ragionevolmente tranquilli di essere al sicuro dal contagio” (“Cosa vuol dire ’droplet’ e perché c’entra con la distanza che dobbiamo tenere dalle persone infette”, La Stampa, 2/3/20); “Coronavirus e droplet: ecco la distanza di sicurezza anti-contagio” (Corriere della Sera, 2/3/20).

I mezzi di informazione, che un tempo hanno unificato l’italiano e che oggi lo stanno trasformando in itanglese, blaterano questa nuova lingua inventata, la diffondono e la insegnano in modo errato e irresponsabile. Parole storiche come inalazione o distanza di sicurezza cedono di fronte alla balla delle parole inglesi più corte e incisive, anche quando sono pseudanglicismi. Neologismi creativi come distanza anti-sputazzo (tutto sarebbe preferibile a droplet) non vengono neppure contemplati, di fronte all’anglomania dosata con l’incompetenza.

E così, ieri sera, un servizio di approfondimento culturale del telegiornale pontificava che il coronavirus che ci sta devastando è caratterizzato dalla sua struttura “a ganci” che si chiamano “spike”.

Come sarebbe a dire che si chiamano spike?

Questa non è cultura è colonialismo linguistico. Letteralmente sono punte, spine, chiodini, spuntoni, in italiano anche spicole. Non si chiamano affatto “spike”, questo è un nome inglese, ma diventerà italiano se l’informazione lo battezza, lo spiega e lo riporta così, senza alternative. Questa è la conseguenza della medicina, e della scienza, che si studia in inglese, che porta a una nomenclatura e a una terminologia in inglese, e a pensare in inglese, perché l’italiano  non si pratica più e si perde.

Oltre ai mezzi di informazione anche i siti istituzionali diffondono in questi giorni in inglese lo “smart working”, che nei contratti in italiano si chiama (o forse si chiamava o dovrebbe chiamare) “lavoro agile”, e che non è altro che il lavoro da casa, a distanza, da remoto, il telelavoro. Allo stesso modo, in questa sudditanza da coloni, le lezioni a distanza, in Rete o da casa sono solo e-learning, e gli italiani che si affacciano ai balconi alla stessa ora cantando e manifestando il loro inno alla vita e ad andare avanti fanno flash mob.

Mentre si sentono i primi imbecilli pronunciare “coronavairus” per sentirsi più “americani” (forse le mascherine se le dovrebbero mettere per non depauperare il nostro patrimonio linguistico), mi domando se non sia arrivato il momento di riflettere e se invece di andare fieri di questi patetici scimmiottamenti non sia il caso di vergognarcene e di riappropriarci con orgoglio di essere italiani. Più che considerare tutto ciò che evoca l’inglese come un modello da imitare, forse è arrivato il momento di dire chiaramente che è più sano evitarlo, se vogliamo elevarci socio-linguisticamente e spezzare il nostro immotivato senso di inferiorità.

Le misure di contenimento della nuova pandemia che il nostro Paese ha intrapreso seguono l’esempio della Cina, che ci ha mandato medici, mascherine e supporti con un gesto di solidarietà che non si è visto da parte di altri Paesi. L’Italia è stato il primo Paese europeo ad avere il coraggio di attuare, suo malgrado e a suo modo, la via cinese. E mentre un medico inglese, Christian Jessen, ha dichiarato che le nostre misure sono una scusa per prolungare la siesta, il nostro paradigma sta diventando quello che anche gli altri Paesi vicini si stanno preparando a seguire, dalla Spagna alla Francia. In Europa l’Italia è dunque un modello, attualmente. Nei grandi Paesi extracomunitari anglofoni, invece, gli uomini di Stato dai capelli di paglia per il momento propongono altre strategie. Nel Regno Unito Johnson ventila l’ipotesi di non fare nulla lasciando contagiare (e crepare) la popolazione per affidarsi a un’immunità di gregge smentita dalla scienza. Oltreoceano, vige un sistema sanitario dove chi non ha la propria assicurazione privata non può permettersi le cure mediche. Questo sistema barbaro è forse destinato a entrare in crisi davanti all’attuale emergenza. Anche se per decenni una politica italiana scellerata ha cercato di scimmiottarlo attraverso tagli al nostro sistema sanitario pubblico, il nostro modello per fortuna non è stato smantellato, anche se è stato ridimensionato. E oggi è possibile constatare con mano quale modello sia più auspicabile.

La pretesa superiorità incondizionata del mondo angloamericano, che seguiamo anche linguisticamente in preda alla nostra albertosordità, davanti al nuovo scenario pandemico è più che mai un modello da mettere in discussione. In questo momento sono più che mai fiero e orgoglioso di non essere né inglese né angloamericano, ma di essere italiano. Non solo linguisticamente.

26 pensieri su “Coronavirus e mascherine contro lo sputazzamento dell’inglese

  1. Prima dell’epidemia mi è capitato di parlare con chi ha portato lo smart working nella mia azienda, scoprendo un’elevata sensibilità alla questione. Mi diceva, con passione, che per telelavoro si intende ricreare in casa propria la postazione dell’ufficio, invece con lo smart working si può lavorare ovunque, senza per forza essere fissi da qualche parte. Sottigliezza che non avrebbe escluso l’espressione “lavoro agile”, che mi sembra renda bene l’idea di un lavoro “senza fissa dimora”.
    Quella itanglese sarà un’epidemia che non riusciremo mai a vincere…

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    • Questa è una buona prassi, affiancare sempre un anglicismo, perquanto gettonato, dalla sua alternativa, in modo da farla circolare. Tuttavia non credo che la cristallizzazione di “smart working” sia così comprensibile rispetto a telelavoro o lavoro a distanza/da casa/remoto. Lavoro agile è sicuramente più tecnico-contrattuale, ma sarebbe bene diffonderlo. 🙂

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  2. Capisco zoppaz, ma ora stai tranquillo. Nel frattempo ci sono alcune piccole ma buone notizie :

    – Giuseppe Conte, durante il suo ultimo discorso di rassicuramento, si è almeno sforzato di usare l’espressione “lavoro agile” e quindi evitando l’anglicismo “smart working” tanto abusato dai media; è vero che Conte fino ad’ora non faceva altro che rivolgersi quasi esclusivamente con l’ “itanglese” (ne avevi già parlato in “Io accuso…”), ma il fatto che ora abbia finalmente evitato “smart-working” a favore di “lavoro agile” (come scritto nella costituzione) lo vedo come un buon passo in avanti (sperando solo che non sia soltanto un cambiamento occasionale);
    https://italofonia.info/coronavirus-il-discorso-in-italiano-di-von-der-leyen-e-le-parole-di-conte/

    – In quanto a “droplet”, al di fuori dei media e dei giornalisti (che probabilmente hanno mal compreso l’angliscimo dalle fonti inglesi) , il Ministero della Salute Italiano così come il decreto ufficiale del 1° marzo 2020 del governo non ha mai usato quello pseudo-anglicismo (al massimo parla di “goccioline del respiro”, “secrezioni salivari” o “goccioline di saliva”) ;
    https://italofonia.info/droplet-langlicismo-sbagliato-da-coronavirus/

    – In quanto alla “gaffe” di Di Maio nella pronuncia di “coronavairus, esso fortunatamente non è stato preso sul serio, anzi in tanti ci hanno scherzato; comunque sia, la maggioranza dei media pronuncia ancora all’italiana “coronavirus” e spero che rimanga così…
    https://italofonia.info/dal-coronavairus-allo-smart-working/

    Sulla tua ultima conclusione hai ragione: noi italiani, proprio approfittando di questo periodo, dovremmo cominciare a moderare completamente l’uso degli anglicismi e quindi smettere di imitare l’America (visto che adesso il mondo anglosassone non ha mosso alcun dito per aiutarci rispetto alla Cina). Tuttavia noi cittadini dobbiamo prima dare una “svegliata” alla nostra classe dirigente (a cominciare dai buffoni dei politici) e ai nostri giornalisti affinché la smettessero di illudersi nell’anglomania (altrimenti come faremo a sensibilizzare sulla tutela dell’italiano senza il supporto della politica? Infatti). Stesso discorso anche per le università (ovviamente la politica del Politecnico di Milano di imporre solo e soltanto l’inglese come lingua per i corsi principali rappresenta un triste ostacolo, ma non solo quello, per la maggioranza dei cittadini che vogliono avvicinarsi alle materie tecnico-scientifiche, visto pure il forte calo dei laureati usciti da quei settori).

    Non vorrei essere troppo ottimista o troppo pessimista, ma spero ancora che un giorno possa cambiare davvero qualcosa per il nostro paese (non solo nella lingua, ma anche per tutto il resto). Un saluto. 😉

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    • Ciao, ho notato che anche la Raggi ha usato “lavoro agile” recentemente, quanto a Conte non so se è stato solo un episodio, il suo linguaggio è molto anglicizzato, come quello dei siti istituzionali, e comunque l’anglicismo prevale nei mezzi di informazione. “Droplet” è stato proferito due ore fa nella confereza stampa giornaliera della protezione civile. Poi è vero che non è nel decreto. CoronavAIrus è stato pronunciato anche da Cottarelli (che idiota non è) a Piazza Pulita del 12 marzo, anche se poi si è corretto, mentre sistematicamente è usato da Edward Luttwak, per es. nella scorsa puntata “Di martedì” e in modo lucido, visto che nonostante il suo stentato italiano sentiva benissimo le pronunce altrui… ma poi mi è capitato di sentirlo anche in altri contesti di giornalisti impazziti, il punto è che avere in testa sempre e solo l’inglese porta persino a queste follie, che non mi sembrano solo un “gaffe”, ma qualcosa di più profondo e indicativo (consapevole che non sia destinato a prendere piede). Quanto all’ottimismo, io non lo sono, ma mi batto per cambiare le cose: senza un cambiamento di modelli e di mentalità la vedo dura ipotizzare cambiamenti linguistici. Un saluto 🙂

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  3. Concordo, ma in particolare voglio farti un applauso (virtuale, niente balconi) per il discorso sulla nostra sanità pubblica, tanto preziosa quanto bistrattata e misconosciuta.
    A proposito di droplets, suggerirei un’alternativa altrettanto tecnica e, quantomeno, latina, che non necessita di penosi addendi al termine “goccioline”: quella roba, siore e siori, si chiama correttamente aerosol.

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    • Aerosol certo, insieme a nebulizzazione, vaporizzazione… anche se “droplet” viene usato ormai come sinonimo di distanza di sicurezza, con la perdita del riferimento a goccia che viene sottintesa.
      Grazie dell’applauso, purtroppo è cosa risaputa e acclarata che i tagli alla sanità degli ultimi 20 anni sono superiori ai 25 miliardi che adesso si cerca di tirare fuori dai cassetti per tamponare i disastri. Le unità di terapia intensiva sono diminuite parecchio, e in Francia e in Germania ne hanno molte di più in percentuale sulla popolazione. Io ho un passato come volontario in ambulanza, e conosco un po’ la situazione degli ospedali e dell’ambito che ho bazzicato per una decina di anni, un tempo… Il tentativo di andare verso la privatizzazione della sanità è stato deleterio, sono sconvolto all’idea che adesso mancano medici e infermieri, e anticipano le abilitazioni per risolvere l’emergenza, dopo aver introdotto nelle università il numero chiuso!
      Credo che passata la buriana si debbano rivalutare e rivedere tante cose della sanità, e non solo, compresi aspetti che contraddistinguono il sistema sociale tipico dell’Europa che è profondamente diverso, e migliore, di quello dei Paesi anglofoni che scimmiottiamo e che chiamiamo welfare.

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  4. Mi domando se (passata l’emergenza coronavirus con [-‘vi:r-]) non sia l’ora di porre seriamente all’ordine del giorno la questione del coordinamento della neologizzazione: non potrebbero le autorità competenti – culturali, scientifiche, politche – di tutte le decine di stati di lingua neolatina cercare d’accordarsi per elaborare progetti di creazione armonizzata di neologismi quale alternativa agli anglismi, attingendo al patrimonio comune di radici e meccanismi derivazionali propri in genere di tutte le lingue romanze? Già oggi si può osservare che, diversamente dal linguaggio quotidiano (che non permette o permette solo parzialmente di comuniacre ignorando totalmente la lingua dell’interlocutore), il linguaggio scientifico o comunque astratto delle lingue neolatine è abbastanza intercomprensibile, essendo come si sa in larga parte costituito da latinismi, grecismi, e anche francesismi ben assimilati.
    L’insieme dei popoli neolatini (di prima lingua) per consistenza supera largamente (per ora?) quello dei popoli anglofoni (parimenti contando solo quelli di prima lingua), non si tratterebbe quindi affatto di isolarsi in una nicchia comunicativa, come potrebbe sembrare se, p.es., una simile strategia (beninteso comunque legittima) venisse applicata, che so io, alle lingue ugrofinniche.

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    • Ciao Giovanni, gli internazionalismi come li intendi tu, basati sulle radici comuni delle lingue sorelle, erano quelli di cui parlava Leopardi, e il linguaggio della scienza basato sul latino come lingua comune era il progetto scientifico-linguistico di Linneo e di Lavoisier, ma sono approcci che appartengono al passato. Anche l’esperanto è una valida soluzione teorica basata su simili principi, ma è da sempre stato osteggiato. Nel mondo ispanico e francofono c’è una maggiore attenzione a questi temi, anche se in chiave di difesa della propria identità linguistica più che con una visione internazionale. Gabriele Valle e anche la scienziata Maria Luisa Villa invitano l’Italia ad ancorarsi alle soluzioni ispaniche, proprio perché lo spagnolo è una lingua affine parlata da almeno 500 milioni di madrelingua, al contrario dell’italiano che è ben poca cosa in confronto, ma sono inviti che cadono nel vuoto. In Italia non c’è alcuna attenzione per la questione, né politica, né istituzionale, né scientifica. La Crusca non è certo come le analoghe accademie spagnole e francesi, non ha alcuna volontà né potere prescrittivo, ingloba anche linguisti che negano l’anglicizzazione o sostengono che non sia un problema, senza un linea comune. Il Politecnico di Milano eroga oprmai i corsi in inglese, di fatto… Insomma non vedo possibilità concrete riguardo a quello che auspichi, nel nostro Paese ma nemmeno a livello europeo. Credo però sia importante lavorare per diffondere questa prospettiva e creare lentamente le condizioni per cui se ne possa parlare. Un saluto.

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      • Forse sono stato lievemente frainteso: non intendevo l’integrazione linguistica romanza come alternativa all’inglese nella comunicazione globale – quella a cui appunto puntano o puntavano i fautori dell’esperanto o del latino modernizzato -, quanto alla comunicazione interna dei e tra i paesi romanzi. Qui ciascuna lingua potrebbe aver qualcosa da insegnare, p.es. laddove un anglismo è stato felicemente tradotto in francese le altre lingue potrebbero crearvi calchi, e così analogamente dove fosse arrivato prima lo spagnolo o magari il romancio.
        Sono stato stimolato a queste considerazioni dovendo qualche anno fa constatare che persino riviste specialistiche, edite in Italia, di italianistica o romanistica accettino solo articoli in inglese. Trovo difficilmente immaginabile che chi s’interessa di questi temi, quale che sia la sua origine linguistica, davvero non sia in grado di comprendere un testo scritto in italiano, francese o spagnolo (magari in romeno o in sardo sì, quelle lingue le trovo anch’io difficili).

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        • Capito, l’intercomprensione linguistica è molto interessante in effetti, e c’è chi la teorizza e mette in pratica. Credo che spezzare il monolinguisimo basato sull’inglese nella comunicazione internazionale e favorire il multilinguismo sia una via possibile, anche se non so quanto si voglia mettere in pratica, di fatto. Mentre sul fronte degli anglicismi non vedo segnali di convergenza internazionale sul tradurli in modo unitario.

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  5. Ti aspettavo al varco con la faccenda del droplet e dello smart-working! Non si possono sentire, è veramente allucinante! Spike non l’avevo ancora sentita. ma per favore. E’ ridicolo. E’ veramente ridicolo.
    Anche io ho notato che Conte ha detto “lavoro agile” e mi ha fatto piacere.
    Comunque in questo periodo veramente, ma veramente sto rivalutando l’Italia. Con tutti i casini, gli errori e (comportamenti scellerati di cittadini che vanno in giro ad ammassarsi e che però criticano il sistema), però in Europa non si stanno comportando per niente meglio. E l’accusarci di voler fare la siesta e altre cose simili è veramente incommentabile. Purtroppo se ne renderanno conto (speriamo di no, però, che le cose non vadano male anche a loro)

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    • Credo che passata l’emergenza, anche se sarà una faccenda maledettamente lunga, emergeranno le profonde differenze culturali, prima che linguistiche, degli europei rispetto al mondo anglofono, a cominciare dallo stato sociale. Chissà che una maggiore autonomia culturale rispetto all’attuale “colonizzazione” non abbia anche ricadute linguistiche. Hai ragione, in questo momento l’italetta da barzelletta che contribuiamo a diffondere dall’interno, e che circola anche negli ambienti internazionali, cede il posto a un Paese che è diventato un modello che gli europei si preparano a seguire. Anche questo potrebbe trasformarsi in opportunità, passata la crisi.

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  6. Premettendo “sempre meglio del ridicolo smart working”, lavoro agile lo trovo or-ri-bi-le, chissà perché poi agile… Lavoro da casa o telelavoro mi sembrerebbe molto più sensato e fondato (ma una volta non dicevano home working? Forse mi sfugge qualcosa.

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    • Diciamo che i giudizi estetici sulle parole dipendono dall’uso e dall’abitudine, come notava Leopardi, oltre che dalle idiosincrasie personali. Comunque sia, credo che l’origine di “agile” nel senso di maneggevole, flessibile, elastico, agevole (pensa a un manuale agile) dipenda da una definizione iniziale che era basata sulla flessibilità dell’orario più che sulla distanza. Un tempo si parlava anche di home working sì, talvolta gli anglicismi si sostituiscono con altri… oggi smart sta spopolando (ne avevo parlato qui: https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2019/03/27/dai-prestiti-alle-reti-di-parole-linglese-sempre-piu-smart/) e quindi si amplia, anche se in inglese non si usa “smart working” credo si dica prevalentemente “remote working”. Ma poco importa, la regola è sempre la stessa: non importa che sia inglese ma che suoni così per essere nuovo e di tendenza; da qui le ricombinazioni nostrane con elementi inglesi popolari. Ho sentito talvolta dire anche “smart work” per semplificare ulteriormente l’accostamento delle due radici.

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      • Infatti, quello è l’assurdo, il paradossale e il pietoso, di cui pochi sono consapevoli: basta che siano parole che sembrano inglesi, anche se poi non esistono veramente o comunque sono usate in maniera del tutto diversa (penso anche al telefonino in tedesco (Handy) o public viewing, usato per definire la visione di gruppofuori casa davanti ad uno schermo di una partita o simili, che in inglese invece è public screening]. Questo dimostra sia l’avanzato grado di colonizzazione, sia l’altissimo grado di, mi si permetta, “fa più figo e (!) preofessionale”.

        PS. Che sia agile, maneggevole, flessibile e agevole è tutto da dimostrare (in tanti casi palesemente no, più che altro un ripiego in mancanza di alternative migliori).

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  7. Forse nasce dal bisogno di mimetizzarsi degli italiani. Ci sono due pulsioni per ricorrere all’itanglese. I settentrionali lo adottano per non esser scambiati per meridionali (mafiosi, permalosi etc). I meridionali lo adottano per darsi un tono, sembrare migliori, come Totò quando detta la lettera a De Filippo.

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    • Personalmente non concordo; i settentrionali lo usano per darsi un tono, per mostrarsi alla moda, aggiornati e professionali – più che mimetizzazione (quello secondo me è più tipico dei tedeschi), alla base c’è un complesso di inferiorità (e vari sensi di colpa mai rielaborati a livello di nazione).

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  8. Quando ho iniziato a sentire “smart working”, ma soprattutto “droplet” ti ho pensato tantissimo. In un paio di commenti su facebook “droplet” è addirittura diventato “doppler”, e a questo proposito credo che non sia necessario commentare ulteriormente… Quanto a “smart working”, come hai scritto anche tu in un commento, credo sia una nostra invenzione, dato che il concetto di “smart work” ha un’accezione leggermente diversa in inglese e di solito viene utilizzato in contrapposizione a “hard work”.
    Sinceramente la cosa che mi preoccupa di più non è tanto l’uso spropositato degli anglicismi in questo caso, quanto l’incoscienza. Parliamo di una situazione delicata cavolo, in cui bisognerebbe trasmettere le informazioni nella maniera più accurata e trasparente possibile. E invece no.

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    • Rido per l’effetto droplet/doppler… anche il drag-and-droplet non sarebbe male (o drug&drops? = droga e caramelline gommose alla frutta)… la ricombinazione all’italiana di elementi inglesi è foriera di cose ridicole, purtroppo troppo spesso son presentate come serie: 2 ore fa con la massima serietà Mentana discuteva pateticamente su la7 con Milena Gabanelli di smart working come fosse la cosa più normale del mondo, senza che nessuno si ponesse nemmeno il problema del senso di usare una tale espressione di cui si riempivano la bocca…

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  9. Il termine VIRUS, pronunciato come [vairus] non si può sentire.E’ un termine latino e il Latino si pronuncia come vi si legge.
    L’Italia dovrebbe esser figlia del mondo latino ma chi pronuncia la parola ‘vairus’ si dimostra un figliastro.
    Per farla breve, non ha assolutamente senso!
    In Castigliano addirittura la parola computer è divenuta computadora o ordenadora(elaboratore);

    Io una volta ho usato il temine “corriera” anzichè ‘pullman’ e sono stato deriso tutto il tempo.

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    • Anche noi fino agli anni ’80 potevamo dire calcolatore o elaboratore, adesso haimé c’è solo il computer e le nostre parole sono relegate al vecchiume e morte, non si possono utilizzare, al contrario di francese, spagnolo e anche inglese dove si usava e si usa ora la stessa parola. Sul pullmann io dico anche torpedone, e che mi deridano pure, si trova nei Peanuts e ho appena rivisto “Intigo internazionale” di Hitchcock e torpedone era usato nella versione italiana in modo normale. Un saluto, grazie

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