Di Antonio Zoppetti
Nell’anno delle celebrazioni dantesche, il Mur (Ministero dell’Università e della Ricerca) ha appena emanato un decreto (dl 73-2021) con cui viene istituito il nuovo Fondo Italiano per la Scienza (FIS) e, ancora una volta, indovinate un po’ in quale lingua è possibile presentare i progetti?
In italiano?
Certamente no!
Si possono presentare soltanto in lingua inglese, altrimenti saranno considerati “irricevibili” e dunque esclusi. E in inglese dovranno tenersi anche gli eventuali colloqui orali legati alle discussioni o alle interviste in merito.
A darne la notizia dalle pagine del Corriere, il 5 ottobre, è stato Paolo Di Stefano, uno dei pochi giornalisti che hanno a cuore la lingua italiana. Qualche giorno dop è intervenuto anche il presidente della Crusca Claudio Marazzini, e sul sito dell’Accademia ha dedicato alla vicenda il tema del mese con un pezzo intitolato “La lingua di Dante non può parlare di scienza. Il MUR esclude l’italiano nel bando per i fondi FIS” che si conclude con l’auspicio che le ragioni di questa scelta siano rese note. A essere “irricevibile” non è solo la lingua di Dante, si potrebbe aggiungere, ma anche quella di Galileo, padre non solo della scienza, ma anche della prosa scientifica italiana che è poi diventata il modello di scienziati come Francesco Redi, Antonio Vallisneri, Lazzaro Spallanzani… in un contesto internazionale dove la scienza si è sviluppata soprattutto nelle lingue locali attraverso uno strappo con il latino dei teologi. Ma oggi la scienza plurilingue rischia di essere spazzata via dall’inglese in modo sempre più prepotente, con la differenza che mentre il latino era una lingua di intermediazione neutra – non era la lingua madre di nessuno – oggi il globalese è la lingua naturale dei popoli dominanti che la vogliono imporre a tutti gli altri e si guardano bene dall’apprendere le lingue (e le culture) altrui. Le nostre istituzioni, invece di fare gli interessi degli italiani e dell’italiano, hanno ormai sposato questo modello e sono diventati collaborazionisti del monolinguismo a base inglese che “fiorisce sul cimitero degli altri idiomi” per citare lo scrittore africano Ngũgĩ wa Thiong’o che ha vissuto sulla sua pelle la regressione delle lingue della sua terra schiacciate dalle scuole e dai regimi coloniali.
Il linguicismo del Fis è legittimo?
Il Fis – dove la “i” di Italiano cela forse l’acronimo di Fondo in Inglese per la Scienza – ricalca le categorie anglofone dell’ERC (European ResearchCouncil) e destina una quantità di denaro consistente, 50 milioni di euro per il 2021 e altri 150 milioni a partire dal 2022. Sono soldi di tutti noi cittadini italiani, ma per accedervi dobbiamo rinunciare alla nostra lingua madre e passare sotto le forche caudine di una presunta lingua internazionale che non ci appartiene, ma ci viene imposta senza che nessuno ci chieda se siamo d’accordo.
Questa dittatura dell’inglese a cui ci costringono le nostre stesse istituzioni è una scelta scellerata che si può definire “linguicismo”, per usare la definizione della ricercatrice finlandese Tove Skutnabb-Kangas. Come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo è la discriminazione in base alla lingua madre che porta a giudizi sulla competenza o non competenza nelle lingue ufficiali o internazionali.
Il punto è che rivolgersi alle istituzioni nella nostra lingua dovrebbe essere un diritto di tutti, e cancellarlo con l’obbligo dell’inglese è una discriminazione. Sulla legittimità di decisioni come queste la Corte di Giustizia dell’Unione europea, che difende il plurilinguismo, si è già espressa in più di un’occasione. A proposito di concorsi, per esempio, il comunicato stampa n. 40/19, 26 marzo 2019 ha sancito che “le disparità di trattamento fondate sulla lingua non sono, in linea di principio, ammesse”, a meno che non esistano “reali esigenze del servizio”, ma in questi casi devono essere motivate “alla luce di criteri chiari, oggettivi e prevedibili”. Nel decreto del Fis non si ravvisa alcuna motivazione che giustifichi l’inglese obbligatorio, né alcuna reale esigenza di servizio. C’è solo un’inammissibile disparità di trattamento fondata sulla lingua.
La vicenda non è un caso isolato, si inserisce in un disegno che da qualche decennio viene imposto a piccoli passi, ognuno dei quali costituisce un pericoloso precedente che apre la strada all’anglificazione della scienza, della ricerca e della scuola in modo sempre più autoritario e a scapito dell’italiano. Già i Prin (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) da qualche anno in Italia devono essere presentati in inglese, e poiché lo abbiamo tollerato ecco che adesso si alza l’asticella, in attesa dei prossimi provvedimenti che si inseriranno in questa stessa logica in modo sempre più profondo.
La politica dell’inglese obbligatorio
Facendo un passo indietro, abbiamo già visto qualcosa di simile con la riforma Madia che ha improvvisamente reso la conoscenza dell’inglese obbligatoria nei concorsi della Pubblica amministrazione sostituendo il requisito di conoscere “una lingua straniera” con “la lingua inglese”. A sua volta questo provvedimento riprendeva la riforma Gelmini del 2010 che ha reso l’inglese un requisito necessario per gli insegnanti, e devono conoscerlo a un livello pari al First Certificate dell’Università di Cambridge indipendentemente dalla disciplina che insegnano.
Queste prove tecniche di anglificazione si sono viste anche nel 2012 quando è scoppiato il caso del Politecnico di Milano che, appoggiato dal Miur, continua a puntare all’insegnamento in inglese e all’estromissione dell’italiano dall’università. Ancora una volta esisteva un precedente meno sfacciato, quello del Politecnico di Torino che, nell’anno accademico 2007-2008, aveva deciso di erogare alcuni corsi di laurea triennale direttamente in inglese, e per incentivare questo passaggio aveva reso gratuita l’iscrizione al primo anno per gli studenti che decidevano di partecipare, scoraggiando in questo modo, e discriminando, chi studiava in italiano.
Anno dopo anno la dittatura dell’inglese guadagna terreno e si fa più esplicita e spavalda. L’italiano retrocede e il plurilinguismo è sempre meno un valore e sempre più considerato un ostacolo alla comunicazione internazionale monolingue, invece che una ricchezza.
Inutile dire che le relazioni pericolose tra il globalese e l’itanglese hanno una forte attinenza. Nel decreto del Fis gli anglicismi pullulano e hanno il sopravvento sull’italiano nella gerarchia concettuale. Si sciolinano espressioni come Life sciences, Physical Sciences and Engineering e Social Sciences and Humanities, mentre gli stanziamenti seguono gli schemi denominati Starting Grant e Advanced Grant. Si parla come fosse la cosa più naturale di deliverable e milestone, di Host Institutions (organizzazioni ospitanti), di leaders – dove il plurale si fa ormai con la “s” – di track record e del loro livello di leadership…
Progetti in inglese e spiegazioni in itanglese: lo sfregio per la nostra lingua fa parte dello stesso pacchetto.
Mentre poche voci isolate hanno denunciato l’accaduto, e cioè Michele Gazzola, Paolo Di Stefano e Claudio Marazzini (oltre al tempestivo articolo di Giorgio Cantoni su Italofonia.info), queste gravissime decisioni passano abbastanza inosservate e non trovano spazio sui giornali. Un grande quotidiano e un grande intellettuale – rispettivamente il Foglio e Antonio Gurrado – si sono invece schierati come al solito a favore dell’inglese. Questo giornalista anglomane che in passato ho già citato perché sosteneva che tradurre la nostra Costituzione in inglese aiuterebbe a sbarazzarsi dell’ambiguità della lingua italiana e dei suoi concetti astrusi, oggi si illumina davanti al nuovo decreto, e saluta la cancellazione dell’italiano e l’obbligo dell’inglese come la via per uscire dal nostro provincialismo. Come se il provincialismo (e il servilismo) non abitasse al contrario nella sua mente da colonizzato e collaborazionista del globalese, incapace di vedere cosa accade all’estero, e incapace di decifrare gli effetti collaterali distruttivi delle scelte che calpestano il plurilinguismo. Questo signore ignora del tutto (e lo ammette candidamente scrivendo di non avere dati in proposito) il dibattito sull’inglese sottrattivo emerso proprio nei Paesi dove all’università si insegna in inglese, dall’Olanda alla Svezia che sta facendo una sostanziale marcia indietro. Per lui l’inglese è solo qualcosa che si aggiunge, “poiché le conoscenze si accumulano e non si cancellano”, in una visione delirante (tra l’altro nel caso del Fis non si aggiunge proprio nulla, al contrario si elimina la nostra lingua) dove la discriminazione è chiamata la “scrematura” di chi non ha avuto esperienze all’estero e vive nell’asfittica realtà universitaria italiana. Come se l’estero coincidesse con l’anglosfera, ci fosse solo quella e tutto il resto non esistesse o non avesse valore. Al contrario, Paolo Di Stefano, nel suo articolo di uno spessore ben diverso, ci ricorda che all’estero “gli equivalenti del Fis sono rispettosi del multilinguismo, ma in Italia chi non si butta tra le braccia dell’inglese con fede cieca è subito accusato di provincialismo antimoderno.”
Dai lamenti all’azione
Sarebbe ora di reagire, sarebbe ora che si parlasse di questi temi anche in Italia e con uno spirito critico diverso da quello di certi giornalai espressione di una classe politica che vuole rottamare la nostra lingua, ma che forse dovremo ricordarci di mandare a casa noi alle prossime elezioni. E sarebbe ora di passare dai lamenti all’azione.
Voglio ricordare a tutti che quasi 1.700 persone hanno già firmato il loro sostegno alla petizione di legge che ho presentato alla Camera e al Senato, che oltre alla richiesta di promuovere l’italiano e smetterla di usare anglicismi nel linguaggio istituzionale, chiede appunto che sia possibile presentare i Prin nella nostra lingua e che siano rivisti i criteri che rendono obbligatorio l’inglese nei concorsi. Purtroppo nessun parlamentare ha risposto o preso in considerazione le nostre richieste. E viste le nuove prese di posizione delle nostre istituzioni, per fermare questa strisciante strategia di cancellazione dell’italiano forse non resta che rivolgersi alla Corte di Giustizia dell’Ue, come davanti a simili decisioni linguiciste hanno fatto talvolta con successo varie associazioni della lingua in Francia, Germania, Belgio e in altri Paesi ancora.
PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]