Di Antonio Zoppetti
Nelle ultime settimane l’itanglese dei giornali ha raggiunto dei picchi notevoli anche grazie a una serie di manifestazioni tutte italiane, tranne che nella lingua.
A Vinitaly, di cui è già pronta la campagna per la prossima edizione, gli amanti del vino sono definiti Wine Lover, c’è il Design Award, e gli appuntamenti internazionali, di cui il sito invita al save the date, sono in inglese: tutto si chiama Around the World, e oltre alle date, anche le città come Belgrado sono tradotte in inglese.
Le motivazioni di queste scelte sono legate a un voler essere “internazionali” puntando sulla lingua inglese rivolta all’esterno e all’itanglese sul piano interno. Eppure, nei ristoranti di lusso dei Paesi anglofoni, da New York a Melbourne, i menù propongono il “vino”, perché questa è la parola italiana che evoca la nostra eccellenza nel mondo, e non Wine.
È bizzarro avere a che fare con i tanti che sono pronti a spiegarci che è giusto e “necessario” introdurre in inglese ciò che arriva dagli Stati Uniti perché è normale che le culture esportino nella propria lingua i settori dove sono forti. Ma questi stessi personaggi, quando si tratta di esportare i nostri punti di forza – dal Made in Italy all’Italian Design – sono pronti a spiegarci anche tutto il contrario, e cioè che è giusto e necessario usare l’inglese, perché è la lingua internazionale. Il risultato è che non c’è che l’inglese in questo curioso import-export basato su due pesi e due misure.
Quale altro Paese storpia il proprio nome in inglese, invece che esportarlo nella propria lingua? La scelta di Vinitaly al posto per esempio di Vinitalia è come chiamare Pirandello Louis invece di Luigi, riscrivere con “Italy’s Brothers” l’inno nazionale, proclamare il Green, il White e il Red i colori della nostra bandiera, magari con la scusa di una standardizzazione internazionale dei Pantone.
Passando dal Wine al Food, che dire della manifestazione Woman in Food, abbreviata in Wif?
Mentre fortissime pressioni sociali, spesso proprio in nome del politically correct, spingono per educare tutti all’inclusione o alla femminilizzazione delle cariche, perché “ogni parola ha le sue conseguenze” e dunque è giusto e normale intervenire sull’uso per cambiare il modo cui ci siamo sempre espressi, in questi stessi ambienti riformatori che introducono la sorellanza accanto alla fratellanza, non c’è invece alcuna attenzione per l’anglicizzazione della nostra lingua, e tra Cook e food stylist, l’inglese viene ostentato come se ci fosse da andarne fieri. Su questo aspetto guai a intervenire! Guai a parlare di politica e pianificazione linguistica, sul fronte dell’itanglese, perché invece che guardare a cosa si fa oggi in Francia in Spagna, in Svizzera e nelle moderne democrazie, i nostri intellettuali sembra che sappiano guardare solo ai tempi del fascismo, quando le parole straniere vennero messe al bando e sono pronti a spiegarci che la lingua non si può di certo imporre dall’alto. Di nuovo si adottano due pesi e due misure, la pianificazione linguistica è perseguita su alcune questioni e negata per altre. E allora abbasso la discriminazione della donna, ma viva la discriminazione dell’italiano, degli italiani e delle italiane!
Mentre a Milano impazza quello che un tempo era il Salone del mobile, la parola d’ordine è una sola: rinominarlo con la Week Design, in attesa forse che anche il Fuorisalone divenga l’OutDesign. Il “renaming” è imposto dall’alto e i giornali sono i cani da guardia di questo revisionismo linguistico che hanno il compito di diffondere: Week, Week e se non basta: Weekend!
Intanto, nella nostra demenza culturale, abbiamo pensato di anglicizzare anche il logo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, per presentarci così, in inglese, a tutto il mondo, senza riflettere sull’impatto, fuori dai Paesi anglofoni, di questa scelta miope, perché siamo convinti che anche tutti gli altri siano – come noi – una provincia degli Usa. Dunque, invece di tradurre e puntare al plurilinguismo nel presentarci in Francia, Spagna, Germania e ovunque, ci presentiamo direttamente in inglese come fossimo un Paese anglofono.
In una recente pubblicità rivolta alla Francia (Histoire d’or à l’italienne) promossa dal nostro Ministero e dall’Italian Trade Agency (nome tipicamente italiota) è successo un bel pasticcio, perché le associazioni francesi si sono inviperite proprio perché il nostro inglese viola le loro leggi.
L’irriducibile Daniel De Poli, che da anni si batte contro l’anglicizzazione del francese – tempo fa mi ha segnalato il caso della condanna all’Aeroporto di Metz-Nancy-Lorraine – mi ha subito scritto facendo presente:
“Le menzioni in inglese Ministry of Foreign Affairs and International Cooperation e Italian Trade Agency sono illegali, perché contravvengono all’articolo 3 della legge del 4 agosto 1994 (legge Toubon) che recita:
Qualsiasi iscrizione o annuncio affisso o fatto sulla pubblica via, in un luogo aperto al pubblico o su un mezzo di trasporto pubblico e destinato all’informazione del pubblico deve essere formulato in francese (art. 3).
Per di più, l’uso dell’inglese negli annunci pubblicitari dovrebbe essere evitato poiché molti francesi non capiscono o fraintendono la lingua inglese. Una menzione in francese ha molto più impatto perché è immediatamente comprensibile. Penso quindi che sarebbe auspicabile attivarsi affinché le prossime menzioni siano scritte in francese in Francia, per esempio traducendo in francese, invece che in inglese: Ministère des Affaires étrangères et de la Coopération internationale e Agence italienne pour le commerce extérieur.
Infine, vorrei sottolineare che questo tipo di reato – l’uso illegale dell’inglese – dà luogo ad azioni legali da parte dell’associazione di difesa della lingua francese Francophonie Avenir, che spesso hanno portato a delle condanne. Lo stesso governo di Emmanuel Macron è stato perseguito in diversi casi (casi 3, 4, 5 e 7), e il 20 ottobre 2022 c’è stata la condanna per un uso illegale del marchio Health Data Hub.”
Naturalmente, Daniel De Poli non ha scritto solo a me, ma si è rivolto alle associazioni per la tutela del francese e anche alle nostre istituzioni diffidandole, per il futuro, di presentarsi in Francia come un Paese anglofono. E la sommessa risposta di cortesia che ha ottenuto è la seguente:
“Egregio Sig. De Poli,
la ringraziamo per l’attenzione mostrata verso le attività della nostra Agenzia e per la Sua cortese segnalazione, ricca di spunti informativi.
Siamo a conoscenza dei contenuti e delle prescrizioni della Legge n. 94-665 del 4 agosto 1994, che applichiamo con attenzione nelle nostre attività promozionali volte a sostenere le aziende italiane che desiderano operare sul mercato francese. Le menzioni in inglese cui fa riferimento riguardano in effetti la versione internazionale del logo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale della Repubblica Italiana e il logo stesso dell’Agenzia ICE, oggi Italian Trade Agency.
Alla luce di quanto da lei segnalato, ci riserviamo quindi di approfondire e verificare le modalità più corrette per esporre i loghi ufficiali del Ministero e dell’Agenzia in eventuali futuri annunci destinati al pubblico francese.
Cordiali saluti…”.
Davanti all’ammissione, a mio avviso sconcertante, che la versione “internazionale” del logo non è all’insegna del plurilinguismo ma concepita solo in inglese, non ho molto da aggiungere, a parte vergognarmi e dolermi profondamente della nostra provinciale pochezza che ci sta trasformando in una “colonia” anche dal punto di vista linguistico, oltre che economico, politico, militare e culturale. Voglio però riportare un’altra segnalazione arrivata da Daniele Imperi che mi pare un’ottima conclusione per farci riflettere su dove stiamo andando.
Si tratta di una schermata presa dal profilo Instagram dei nostri Oscar Mondadori. A prima vista sembra un libro in inglese, ma invece è in “italiano”, a partire dal titolo non tradotto, sino alle indicazioni del genere (Contemporary romance), dei contenuti (What’s Inside?), e delle spiegazioni (Doppio PoV, Single mom…). Questo sarebbe il nuovo “italiano”, per certi linguisti che ci spiegano come la nostra lingua sia “vitale” e vispa, o per quelli che ci spiegano che l’anglicizzazione è tutta un’illusione ottica… La realtà è che questo è itanglese, il nuovo modello linguistico della cancel culture diffusa e imposta dall’alto a partire dalle nostre istituzioni, dai nostri mezzi di informazione, e dalla nostra classe dirigente che ha rinunciato all’italiano.