Sul sito dell’Accademia della Crusca, qualche giorno fa è stata pubblicata una consulenza linguistica di Claudio Giovanardi sulla traducibilità di know how che si conclude con “una prognosi infausta per qualsiasi ipotesi di traduzione italiana”.
Le motivazioni sono basate sul fatto che l’anglicismo veicolerebbe “una nozione complessa, bisognosa di una lunga perifrasi esplicativa” e che avrebbe una “collocazione iniziale” nei linguaggi tecnico-scientifici, anche se poi si è riversata nel linguaggio comune.
Credo però che si possano fare “prognosi” differenti.
Know how: è possibile tradurlo? Certo che sì: competenze
La traducibilità di know how in italiano si può constatare con qualche esempio contestualizzato tratto dai primi articoli che escono cercando la locuzione su Google notizie:
♦ “Cooperazione, passione e motivazione le chiavi per diffondere il know-how finanziario e favorire la parità di genere” (Adnkronos, 9 maggio 2019).
Possibilità espressive diverse: competenze (conoscenze, esperienze) finanziarie.♦ “Gruppo Sme.UP: architetture IT, know-how dirompente al servizio delle aziende” (Data manager, 6 maggio 2019).
Possibilità espressive diverse: competenze (capacità, conoscenze, cognizioni, specializzazioni, esperienze) dirompenti.♦ “Sanità: incontri a Mosca per scambi know how e cooperazione tra la Russia e la Puglia” (L’obiettivo 28 aprile 2019).
Possibilità espressive diverse: competenze (conoscenze, cognizioni, specializzazioni, esperienze, tecniche).
In questi esempi i giornalisti hanno scelto l’inglese, ma è perfettamente lecito esercitare scelte differenti italiane esprimibili in una sola parola, come accade all’interno degli articoli, dove l’anglicismo dei titoloni è talvolta sostituito dai sinonimi italiani. Dunque non riesco a condividere l’affermazione che “in contesti di lingua comune dovremmo probabilmente usare conoscenze (o competenze, o esperienze) pregresse o qualcosa del genere”; non mi pare che ci sia bisogno di specificare “pregresse”, lo trovo inutile e ridondante (è evidente che le competenze siano già state acquisite). Togliendo l’aggettivo, rimangono numerose alternative di una parola sola, e se si guarda “l’economia linguistica” non risultano particolari svantaggi: know how non è “una sola parola”, soprattutto se scritto senza il trattino di unione, è solo un po’ più corto (8 caratteri, spazio o trattino incluso, contro 10 di competenze).
Nel linguaggio comune l’accezione tecnica non sembra caratterizzante: in molti esempi tratti dalla stampa si aggiunge l’aggettivo “tecnico” o “tecnologico” proprio per rimarcarne l’ambito:
♦ “Dall’operaio al manager, tutti devono avere un solido know-how tecnico” (Corriere della Sera, 11/12/ 2018);
♦ “Ingenti volumi con elevato know-how tecnico che garantisca la migliore qualità…” (La Repubblica, 3/11/2014);
♦ “Sull’innovazione prodotta dal know-how tecnologico” (La Repubblica, 24/04/2019);
♦ “Il progressivo abbandono della pratica del trasferimento forzato del know how tecnologico per le aziende Usa che vogliano lavorare in Cina” (Il Messaggero 4/4/2019).
La collocazione in ambiti tecno-scientifici, inoltre, non sembrerebbe appartenere all’inglese, ma sarebbe semmai il risultato della sedimentazione dell’anglicismo all’interno della nostra lingua, cioè un’accezione peculiare dell’italiano.
Know significa sapere e how significa come.
L’Oxford english dictionary dà una definizione che rimanda alla conoscenza pratica, all’abilità e alla competenza (“Practical knowledge or skill; expertise”), tutte parole esistenti in italiano, e aggiunge tra gli esempi d’uso proprio: “technical know-how”.
La domanda che bisognerebbe rivolgere alla Crusca è allora molto semplice. Perché in italiano know how dovrebbe essere “intraducibile” (prognosi infausta) mentre in francese e in spagnolo è perfettamente tradotto (prognosi fausta) con espressioni comuni e non tecniche?
Perché in italiano è intraducibile, ma in francese e spagnolo si traduce?
In francese si dice semplicemente savoir-faire (ma da noi questa espressione si è acclimatata con un’accezione diversa legata al costume) come si può leggere sul Grand dictionnaire terminologique (GDT) del Québec. Cercando poi l’espressione inglese sulla Wikipedia si finisce sulla pagina del corrispondente francese.
Andando a vedere gli esempi concreti di traduzioni francesi, quando si vuole rimarcare l’accezione tecnologica si aggiunge molto semplicemente savoir-faire technique, come negli esempi fatti sopra in italiano.
Anche in spagnolo l’anglicismo viene affiancato senza problemi dall’espressione conocimiento fundamental, stando alla Wikipedia, mentre nel Dizionario panispanico dei dubbi, come ricorda Gabriele Valle, si consiglia di tradurlo con saber hacer, cioè saper fare (che è poi il significato letterale di savoir-faire): “L’esistenza di questa locuzione spagnola rende non necessario l’uso dell’anglicismo know-how, molto usato nell’ambito imprenditoriale”.
A questo punto tutto è più chiaro: la prognosi di know how e di moltissime altre parole del genere non è la stessa ovunque, altrove non è affatto intraducibile. Siamo noi italiani che abbiamo qualche problemino a tradurre gli anglicismi, perché le condizioni culturali in cui viviamo sono molto diverse da quelle dei Paesi francofoni e ispanofoni: all’estero si va fieri della propria lingua, e non si registra un complesso di inferiorità davanti all’inglese. In Italia manca questa cultura, mancano queste condizioni sociali. Forse abbiamo qualche “patologia” (per seguire le metafore di Morbus anglicus e di prognosi) se persino il maggior organo che custodisce la nostra lingua, la Crusca, assume posizioni inaudite nelle accademie spagnole o in quella francese.
I limiti di azione del Gruppo Incipit
Se know how non avesse equivalenti italiani perfetti, si potrebbero coniare, in teoria. Per esempio “competecnica” o qualcosa di meglio, visto che il suggerimento di esperienzativo proposto da un lettore viene bocciato. Ma la nostra accademia non segue questa via, e questo è un altro grande limite italiano che ci differenzia dai Paesi vicini: la volontà di non proporre neologie alternative da parte delle istituzioni, unita all’atteggiamento che giustifica l’intraducibilità di certi anglicismi, ci sta riempiendo di parole inglesi.
Le campagne mediatiche e istituzionali contro l’abuso dell’inglese, in Francia e Spagna, promuovono e diffondono gli equivalenti autoctoni, ma quando mancano i traducenti coniano nuove parole.
La Crusca non opera in questo senso. Davanti all’inglese, l‘unica neoconiazione che si è registrata è quella di Francesco Sabatini che nel 2016 ha proposto “adozione del configlio” al posto di stepchild adoption (comunicato n. 5 del Gruppo Incipit), ma nel 2018 (comunicato n. 9) è stata fatta sparire e tra le alternative riassunte c’è solo adozione del figlio del partner, che ricorre a un anglicismo per sostituirne un altro, un modo di operare che ha suscitato non poche perplessità e critiche da parte di molti. Tra le altre critiche mosse al gruppo c’è quella di aver rilasciato, dal 2015, soltanto 12 comunicati con le alternative a una ventina di parole inglesi, il che ha un valore soltanto simbolico che può essere molto importante, ma non ha prodotto strumenti di utilità pratica.
Comunque sia, la costituzione del Gruppo Incipit non ha come scopo quello di combattere gli anglicismi – questo va gridato molto forte – ma solo di frenare quelli incipienti, agendo quando appaiono e dando per scontato che se una parola si radica è poi impossibile scalzarla. Ciò non è vero, come sarà chiaro tra poco, ma soprattutto questa filosofia contiene anche altri elementi di debolezza.
Per prima cosa non è facile capire quando un forestierismo appare, siamo avvolti quotidianamente da nuvole di anglicismi, ma è difficile prevedere quali siano occasionalismi passeggeri e quali si stabilizzeranno. Tullio De Mauro ha notato come molte espressioni (per esempio benchmark) si fossero accreditate nell’uso tecnico già decenni prima che il termine si diffondesse nell’uso comune.
Questo non vale solo per gli anglicismi, anche tsunami (per fare un esempio giapponese che De Mauro ha usato per definire lo tsunami anglicus dei nostri giorni) era registrato nei dizionari dagli anni ’60 come tecnicismo, prima che si riversasse nell’uso comune e diventasse popolare in seguito alla tragedia che nel 2004 ha sconvolto l’oceano Indiano. Dunque, visto che prima di radicarsi gli anglicismi sono spesso preceduti da un “periodo di latenza” (come ha osservato Michele Cortelazzo), il Gruppo Incipit dovrebbe creare un doppio argine, per essere efficace: diffondere le alternative italiane innanzitutto nei linguaggi di settore, quando appaiono (ma anche questo è un compito arduo) e in seconda battuta alzare gli argini quando si riversano nel linguaggio comune per i motivi più disparati. Se non si crea il primo argine sarà più difficile che funzioni il secondo, perché quando una parola esce dal suo ambito specifico per diventare popolare, i giornali la ripropongono bella e pronta senza traduzioni. È così che i tecnicismi inglesi, che nei linguaggi di settore vengono tradotti sempre meno, tracimano poi nel linguaggio mediatico: know how oppure benchmark, spread, spending review…
Ma da dove viene la strategia di contrastare solo gli anglicismi incipienti, invece di promuovere le alternative italiane di fronte all’interferenza dell’inglese come fenomeno complessivo?
Occorre guardare oltre la prospettiva del Gruppo Incipit
Scrive Giovanardi:
“Il DELI di Cortelazzo-Zolli ci dice che know how è diffuso in italiano a partire dal 1955 e che il vettore è stato la stampa periodica. La probabilità di successo di un traducente italiano è legata alla tempestività con cui viene proposto e usato. Se si dà all’anglicismo la possibilità di attecchire nella lingua (tanto più nella lingua comune) diventa difficile pensare di poterlo scalzare. Potremmo oggi sensatamente pensare di sostituire con un corrispondente italiano parole come film o sport? La risposta è no”.
Credo che nessuno voglia scalzare parole come film o sport, in primo luogo perché sono addirittura ottocentesche, ma soprattutto perché non violano il nostro sistema grafico e fonetico, e per questo sono state assimilate senza troppi problemi generando anche una serie di derivati perfettamente italiani nella loro struttura: filmino, filmare, sportivo, sportività… Lo stesso non si può dire di know how.
In ogni caso, affermare che non è possibile arginare un anglicismo ormai radicato può essere vero da un punto di vista statistico in Italia, ma non è affatto vero logicamente né è applicabile a quanto avviene all’estero. E qui si ritorna al solito problema: ha poco senso combattere i singoli anglicismi, bisogna creare un nuovo atteggiamento, tentare una rivoluzione culturale e lavorare per seminare le condizioni perché anche nel nostro Paese si spezzi la “strategia di dirlo in inglese” e si possa tornare a parlare in italiano senza vergogna e complessi di inferiorità. Questo è il terreno della battaglia, un terreno che dovrebbe essere salvaguardato dalla politica e dalle istituzioni, non solo dalla Crusca.
Gli anglicismi, incipienti o stagionati, non sono erbacce da estirpare dai dizionari, sono semi infestanti di cui bisogna denunciare gli effetti a catena nocivi (per la nostra lingua) per far sì che la gente non li coltivi. Non avrebbe senso bandire una parola radicata come meeting. Quello che ha senso è promuovere incontro, convegno, congresso, assemblea, e a seconda dei contesti riunione, raduno, conferenza, simposio, tavola rotonda… Davanti alla percezione che l’inglese sia più evocativo (l’inglese in generale, non un singolo anglicismo), bisognerebbe convincere i parlanti che la nostra lingua è bella e preferibile, per fare regredire le frequenze dell’inglese, non per cancellarlo.
Risultati del genere si possono ottenere solo attraverso una rivoluzione culturale basata sulla valorizzazione e la promozione del nostro patrimonio linguistico. Significa far capire ai politici che introdurre parole come jobs act e navigator sarà per loro controproducente, in termini elettorali. O ai giornalisti che i lettori preferiscono parole italiane e chiare, rispetto agli anglicismi. Significa creare le condizioni per cui un imprenditore parli con orgoglio di missione e visione, invece di mission e vision, che un parrucchiere o un truccatore si definiscano così, invece di hair stylist e makeup artist, che un aspirante attore preferisca iscriversi a un corso di recitazione e non di acting, o che un blogger si presenti come un bloggatore perché gli suona meglio. Significa far passare l’idea che gay non è politicamente più corretto di omosessuale, è solo più corto, che spread non è più preciso di differenziale, forbice o forchetta, e che parlare del giusto dressing non ci eleva rispetto a il saper vestire, ci rende semmai ridicoli, visto che in inglese indica una salsina per l’insalata (al massimo si dovrebbe parlare di clothing).
Solo cambiando le motivazioni sociolinguistiche che stanno impoverendo l’italiano potremmo assistere alla regressione dell’inglese, anche di quello radicato. Dare per scontato che è impossibile scalzare l’inglese, e arginarne la frequenza, significa assumere una posizione politica ben precisa: quella di non volere intervenire. Una strategia diversa rispetto a quelle di Francia e Spagna dove al contrario si lavora per creare una nuova cultura, e le accademie non sono lasciate sole, sono affiancate da altre istituzioni e dallo Stato. Ecco perché da loro le “prognosi” sono fauste e la regressione di anglicismi radicati è possibile!
La regressione dell’inglese in Francia e in Spagna
“L’Accademia di Francia ha proposto inutilmente di sostituire dopage a doping”, scriveva nel 1988 Gian Luigi Beccaria (Italiano. Antico e nuovo, Garzanti, Milano, p. 220).
A quei tempi era difficile misurare l’efficacia di questi provvedimenti, ma oggi, se si analizzano le frequenze di doping e dopage attraverso uno strumento statistico come Ngram Viewer di Google, vediamo che le cose si sono evolute diversamente.
Come si può vedere l’anglicismo è regredito. Benché i provvedimenti per la difesa del francese esistessero da ben prima, nel 1994 è arrivata anche la legge Toubon a migliorare le cose (proprio da quell’anno il francesismo sale e l’anglicismo scende). E chi nega la validità delle indicazioni di Ngram (magari solo quando gli fa comodo) può trovare molte altre conferme di questa tendenza, a cominciare dalle ricerche che si possono fare su un giornale come Le Monde (al 12/5/2019 doping restituisce 261 articoli contro i 7.093 di dopage) per finire con la Wikipedia francese dove la voce doping non esiste: si è reindirizzati a dopage.
Tutto questo non può che avere una ricaduta su come i francesi parlano!
Gli italiani, invece, che cosa possono fare se non ripetere doping che leggono sui giornali e sentono in tv senza alternative? Drogaggio o dopaggio (quest’ultimo non è neppure riconosciuto dal mio correttore ortografico) esistono solo nei dizionari, ma non li usa nessuno perché nessuno li promuove.
Container
Un altro esempio è quello di container e conteneur. Cercando l’anglicismo sulla Wikipedia finiamo alla voce autoctona che recita:
“Nell’ambito dei trasporti, un conteneur (forma raccomandata in Francia dalla DGLFL e in Canada da l’OQLF) o container, è un cassone metallico…”.
Il DGLFL è sostanzialmente il ministero della cultura, e l’OQLF è un’organizzazione pubblica del Quebec, ma anche l’Accademia francese non si sognerebbe mai di proclamare container come intraducibile. Lì si opera per tradurlo (in questo caso con una parola di uso comune, in barba a chi lo etichetta come un tecnicismo o internazionalismo necessario) e per promuovere l’uso della traduzione senza vergognarsi della propria lingua. Il risultato è ancora una volta la regressione della frequenza dell’anglicismo, che esiste, non viene “estirpato”, ma si usa poco perché si preferisce il francese.
Brainstorming
Un terzo caso emblematico, grazie alla politica linguistica e all’intervento dell’Académie française, è quello di brainstorming, un termine che ha cominciato a diffondersi negli anni ’50. Sul sito della Crusca si legge che è intraducibile, invece in Francia, negli anni ’60, proprio un membro dell’Accademia, Louis Armand, ha coniato l’alternativa spremi-meningi (remue-méninges) che non ha soppiantato l’inglese, però esiste e ne ha arginato la diffusione.
Naturalmente, non tutte le alternative proposte hanno successo, alcune non sono recepite e praticate, ma comunque la gente può scegliere come parlare. In spagnolo, a riprova che non esiste nulla di intraducibile, brainstorming è stato tradotto con pioggia di idee (lluvia de ideas) che ha avuto un certo successo.
Noi potremmo dire per esempio parole in libertà, ma chi proporrebbe questo equivalente? E, soprattutto, chi lo promuoverebbe se non abbiano un analogo delle accademie estere e non abbiamo una politica linguistica istituzionale? Il punto è racchiuso qui. Nel dotarci anche noi di organi istituzionali che vogliano promuovere la lingua.
After shave
Anche in Italia sono possibili regressioni dell’inglese, ed esistono dei precedenti, benché sporadici. Un esempio è quello di after shave di fronte a dopobarba.
Si vede chiaramente che l’anglicismo ha avuto un’impennata negli anni ’70, e cercando sugli archivi dei giornali si può scoprire che era dovuta soprattutto alle pubblicità, che in quel periodo avevano puntato sull’inglese. Poi, però, qualcosa è cambiato e le pubblicità sono tornate a preferire l’italiano, con la conseguenza che l’anglicismo è regredito, e ancora oggi è possibile trovare, nei reparti dei supermercati, le confezioni di prodotti che hanno più frequentemente una comunicazione in italiano. Se così non fosse ripeteremmo ciò che leggeremmo sulle scatole che ci vendono.
Come uscire dalla crisi dell’italiano?
A questo punto è evidente che l’operato della Crusca non è certo paragonabile a quello dell’Académie française o delle accademie spagnole (che sono una ventina). Il che non è un giudizio qualitativo, ma una constatazione politica. Quando il servizio di consulenza della nostra accademia scrive che know how, brainstorming o selfie (in francese égoportrait) sono intraducibili o non hanno “sinonimi perfetti” sta adoperando un criterio molto diverso dagli organismi analoghi degli altri Paesi, e con queste prese di posizione invece di favorire l’allargamento di significato delle parole italiane contribuisce a diffondere l’inglese.
La filosofia linguistica dominante nel nostro Paese ha un approccio descrittivo della lingua, più che prescrittivo/normativo. In altre parole, dopo secoli di purismo, la tendenza è quella di osservare come la lingua evolve senza intervenire, rinunciando sempre più all’idea di correggere, di prescrivere cosa è giusto e cosa è sbagliato, e davanti a questa prospettiva “osservatrice” e non interventista poi succede che i mezzi di informazione equivochino le cose traducendo questo approccio in titoloni semplicistici come “la Crusca sdogana scendi il cane” e simili. Ma di fronte all’inglese, bisognerebbe forse recuperare un po’ di normativismo e puntare maggiormente a una sintesi tra descrizione e prescrizione che permetta all’italiano di evolvere senza perdere la propria identità. Il liberismo linguistico ben sintetizzato da Gian Carlo Oli per cui la lingua non va difesa, ma va studiata, ha fallito. Ci sta portando verso l’itanglese e la regressione dell’italiano. Le pressioni esterne della globalizzazione, anche linguistiche, vanno contrastate, non aiutate dall’interno da una classe dirigente e da intellettuali che vedono nella cultura e nella lingua inglese il punto di riferimento. L’italiano ha bisogno di essere tutelato, perché da solo non ce la fa, senza snaturarsi.
Purtroppo non si vede nulla di istituzionale all’orizzonte (almeno di serio). Davanti all’abuso dell’inglese nascono al contrario tante iniziative private tra loro scollegate.
Penso agli scioperi della fame di Giorgio Pagano.
Penso all’iniziativa “Dillo in italiano” di una pubblicitaria come Annamaria Testa che nel 2015 ha raccolto 70.000 firme e che ha portato alla costituzione del Gruppo Incipit, che però non basta.
Penso al “foro Cruscate”, fondato dal professor Marco Grosso e da Paolo Matteucci, matematico e fonetista, che da anni è attivo nella lotta contro il morbus anglicus con una comunità di utenti che discutono di traducenti con enorme rigore e competenza.
Penso a Gabriele Valle e al suo sito e libro Italiano Urgente che invita a seguire i modelli delle alternative agli anglicismi che si adottano in Spagna.
Penso a un traduttore come Giulio Mainardi che ha messo in rete il proprio “Dizionarietto di traducenti”.
Penso a un avvocato come Maurizio Villani che ha denunciato e raccolto gli anglicismi che si moltiplicano nei documenti fiscali rivolgendosi con una petizione al Gruppo Incipit.
Penso a una professoressa come Giuliana Della Valle, una mamma di quattro figli che ha deciso di aprire un sito e lanciare il suo appello alla Crusca e all’onorevole Marco Bussetti.
Di appelli come questi ce ne sono anche tanti altri, ma forse non andrebbero rivolti alla Crusca, ma alla politica. E tutti questi tentativi di creare sostitutivi che possibilità hanno di entrare nell’uso, se manca una politica linguistica che li possa diffondere?
Creare alternative a tavolino è “un simpatico ma infruttuoso gioco di società”, per riprendere le parole di Claudio Giovanardi. Come dargli torto?
Senza un progetto più ampio che abbia al centro la tutela del nostro patrimonio linguistico la traduzione non ha alcun senso pratico. E se la Crusca non incarna questo ruolo lo dovrebbe incarnare lo Stato, oppure proprio lo Stato dovrebbe investire ufficialmente la Crusca di questo compito.
Per arginare l’avanzata dell’inglese e la regressione della lingua italiana, in questo momento storico, l’unica via che mi pare praticabile è un movimento dal basso, che unito, abbia la forza di chiedere alla politica e alle istituzioni un intervento concreto, dall’alto, per la tutela e la promozione del nostro patrimonio linguistico. Come avviene nei Paesi a noi vicini.
È questo il senso della comunità Attivisti dell’italiano.