La frequenza degli anglicismi in italiano, spagnolo (e francese)

La linguista Elena Álvarez Mellado ha elaborato un algoritmo in grado di conteggiare gli anglicismi che compaiono quotidianamente sui giornali, e pubblica questi dati sull’Osservatorio Lázaro, che analizza 8 testate spagnole (quindi i dati si riferiscono solo ai giornali della Spagna, non a quelli ispanoamericani). Stando a un articolo su ElCastellano.org (grazie a Gretel che me l’ha segnalato), da aprile a oggi le parole inglesi sono ricorse circa 70.000 volte, dunque in media 400 al giorno (di cui 90 compaiono su El País). Naturalmente non sono tutte diverse, circa 200 sono anglicismi a bassa frequenza e tendono a non ripetersi, mentre l’altra metà delle occorrenze è fatta da parole che si ripetono spesso.

Che cosa significa che un giornale come El País usa mediamente 90 anglicismi al giorno? Sono pochi? Sono tanti?
Per comprenderlo ho fatto una cosa abbastanza semplice. Sono andato sulla versione del Corriere della Sera in Rete, ho fatto il copia e incolla della pagina principale, e ho contato gli anglicismi.

Il risultato? 111 anglicismi solo nei titoli e nei sottotitoli di ciò che appare in prima pagina! Figuriamoci se il conteggio avvenisse nell’intero giornale! In sostanza non c’è confronto con la situazione spagnola.

Per la cronaca queste sono le 111 occorrenze che ho trovato in ordine di apparizione, compresi i “doppioni” nell’edizione del 26/10/2020 (ore 13): login, news, staff, drive-in, big data, sport, lockdown, smart working, post, reportage. leader, semi-lockdown, online, web, streaming, family, business, streaming, talk, smash, noodles, social, quarterback, cliff diving, XXL, web, smart, app, bar, stop, staff, «superbrain», «superbrain», online, widget, set, look, drive-in, online, tilt, download, killer, test, liberty, newsletter, computer, pc, email, sport, sport, rock, band, stop, shopping, tech, master, master, streaming, fire, smart, action cam, black, «full self-driving», autopilot, post, streaming, streaming, smartphone, cyberpunk, trekking, lockdown,«one pot», first lady, cook awards, star, must, punk, “over anta”, beauty, perennial, star, “over” 50, sponsor, record, newsletter, thriller, lockdown, app, food, gallery, semi-lockdown, round, blog, gay, tech, self-tape, web, trading, post, coding, lockdown, football, touchdown, urban foliage, online energy talk, jolly, blog, lost in galapagos, copyright, cookie policy, privacy, declaration.

Se si aggiungessero altre circa 40 parole come hackerate, un ibrido, chef e festival, che ormai son da considerare anglicismi più che francesismi, e svariati latinismi di importazione dall’inglese come focus, bonus, ecobonus, forum… si arriverebbe a 150.
Di solito la media è questa, non ho notato che l’edizione presa come campione fosse più anglicizzata di quelle che si trovano tutti i giorni.
Il numero totale delle parole presenti era di circa 5.900, e si potrebbe erroneamente concludere che quelle inglesi sono solo il 2%, ma non è affatto così. Il numero dei nomi propri, dei marchi, delle località è altissimo (sono circa 1.500 parole da escludere), e se aggiungiamo che nel conteggio ci sono le preposizioni, le congiunzioni e simili parole ad altissima frequenza… il numero di quelle inglesi comincia a essere davvero pesante. Tutto ciò non è paragonabile a quanto avviene in Spagna.

Passando dal numero degli anglicismi sui giornali alla frequenza delle singole parole, sul sito dell’Osservatorio Làzaro è possibile vedere quali sono stati i 20 anglicismi più ricorrenti da ottobre a oggi, in ordine di frequenza, e cioè rispettivamente:
online, app, look, influencer, reality,
podcast, streaming, marketing, software, ranking,
newsletter, smartphone, shock, coach, boom,
rider, sprint, show, thriller, casting.

Scorrendo la lista viene da sorridere, perché mancano parole che in italiano sono ormai “necessarie” e frequenti come lockdown o smart working, e oltre al caso di sport, in spagnolo deporte, mancano quelle che da noi sono diventate “di base” (secondo Tullio De Mauro) come computer, mouse, killer… e altre molto in voga come news, recovery fund, screening, leader, social…

Comunque sia, ho provato a cercare questi 20 anglicismi più frequenti nei giornali spagnoli anche negli archivi di Ngram Viewer basati sulle frequenze di Google libri, sia nella lingua italiana sia in spagnolo e francese. I due archivi non sono omogenei, ma il senso è di comprendere se anche la frequenza di queste parole inglesi, oltre al numero, in Italia sia maggiore.


Di seguito riporto le tabelle con i risultati, nel periodo 1990-2019.
Primi 5:

In francese influencer coincide con il verbo influenzare, dunque il risultato non fa testo, ed è questa la ragione della frequenza altissima. Dunque gli anglicismi sono molto più frequenti in italiano in tutti i casi.


Dal 5° al 10° posto:

Con l’eccezione di podcast e ranking, molto gettonati in Spagna, le altre frequenze degli anglicismi sono più alte in italiano.

Dal 11° al 15° posto:

A parte il caso di coach, in Francia molto in uso, l’italiano è la lingua più propensa a ricorrere all’inglese anche in questa tabella.

Dal 15° al 20° posto:

Sprint e casting sono più usati in francese, per il resto l’italiano è la lingua che ricorre all’inglese più spesso.

Questi nuovi dati si aggiungono a quelli che ho pubblicato nel libro Diciamolo in italiano (Hoepli 2017) e in tanti altri articoli (cfr.: Italiano, francese, spagnolo e tedesco davanti agli anglicismi, La terminologia della colonia Italia, Appelli alla Crusca e traducibilità di anglicismi come know how…) che mostrano come nello spagnolo e nel francese le cose sono molto diverse che da noi.

Per tentare di fare qualcosa di concreto e arginare il fenomeno rivolgo a tutti l’ultimo appello per firmare la petizione #l’italianoviva, in cui chiediamo di avviare una campagna contro l’abuso dell’inglese proprio come si fa in Francia e in Spagna.

Tra pochi giorni verrà chiusa e le firme saranno inviate al presidente Mattarella.

Palato e parlato: gli anglicismi in cucina

“Maccherò, m’hai provocato e io ti distruggo” recitava Alberto Sordi in Un Americano a Roma. In quella scenetta immortalava come la tendenza a voler fare gli americani (che negli stessi anni cantava anche Carosone) si infrangesse davanti a un piatto di pasta. Ma oggi la pastasciutta non è più “sexy” e l’aberto-sordità che a partire dagli anni Cinquanta ci ha spinti a ricorrere sempre più spesso agli anglicismi ha perso il suo carattere ridicolo ed è diventata tragicamente seria. È il tratto distintivo di politici, tecnici, imprenditori, giornalisti… Attraverso l’ostentazione dell’itanglese, l’intera nostra classe dirigente si eleva sociolinguisticamente, si riconosce e identifica in un ben preciso gruppo di appartenenza con meccanismi non diversi da quelli con cui gli adolescenti si identificano attraverso determinati gerghi, abbigliamenti o gusti musicali. Ma mentre i fenomeni giovanili sono confinati appunto nel gergale, l’itanglese ha conquistato i principali centri di irradiazione della lingua, e da lì penetra sempre più profondamente nell’italiano comune di tutti i giorni. La nostra americanizzazione è ormai così profonda che ha stravolto anche la nostra tavola, oltre che la nostra lingua.

Il fascino della cucina (e della lingua) italiana

La gastronomia italiana è un’eccellenza dalla tradizione storica con una risonanza mondiale enorme, e lo stesso vale per la lingua italiana che ne veicola i prodotti (cfr: “Italiano: ammirato nel mondo e disonorevole in patria”). La contraffazione dei nostri alimenti attraverso nomi italianeggianti – che nella colonia Italia si esprime con prodotti italian sounding – ha un fatturato che è il doppio di quello dei prodotti originali – che chiamiamo made in Italy – e ha superato i 60 miliardi di euro, nel mondo. Negli Stati Uniti, solo le imitazioni dei nostri formaggi, a partire dal parmisan, fruttano ben 2 miliardi di dollari all’anno (cfr. Sara D’Agati, “Tutti pazzi per l’italiano, la lingua delle insegne”, La Repubblica, 31 ottobre 2016). Dovremmo riflettere su queste cose. Non è un caso che non esista un mercato analogo di finti prodotti francesi o spagnoli, ed è significativo che la parola “toscano” aggiunta sotto il logo dell’acqua Panna abbia portato all’aumento delle vendite del 14% in 18 mesi, come ha dichiarato il direttore comunicazione della San Pellegrino, Clement Vachon riferendosi al mercato internazionale. Nei ristoranti di lusso dei Paesi anglofoni, da New York all’Australia, nei menù si trova la parola vino, perché questa parola italiana è quella che evoca tutta l’eccellenza del prodotto. Eppure da noi si moltiplicano le insegne contro scritto Wine Bar, e i nostri marchi (o se preferite: brand) sempre più spesso puntano all’inglese, per proporsi all’estero. E così la risposta – tutta italiana – al fast food si chiama Slow Food, un marchio che punta sull’italianità della nostra gastronomia si chiama Eataly, e un imprenditore bergamasco che mira a lanciare nel mondo la sua polenta espresso la chiama PolentOne.

Ognuno mangia e parla come vuole, naturalmente. Ma l’analisi del linguaggio della cucina è interessante per comprendere come ci stiamo americanizzando, nel modo di mangiare e di parlare allo stesso tempo.

Dalla nouvelle cousine al “new cooking” dell’epoca dei MasterChef

La nostra esterofilia è storica almeno quanto la nostra cucina. Un tempo era il francese a penetrare maggiormente nel linguaggio della gastronomia. Fino all’Ottocento, in questa tendenza prevaleva l’adattamento in italiano del lessico che importavamo, e il pudding inglese, per esempio, inizialmente era stato adattato con puddingo e pudino, e più tardi divenne budino per l’influsso del francese boudin. Sulla fine del secolo Pellegrino Artusi aveva elevato la lingua della gastronomia ai livelli di un’opera letteraria basata sui modelli letterari del toscano, ma nel Novecento ha avuto inizio la tendenza a importare le parole in modo crudo e, a proposito di cucina, i francesismi culinari costituivano una buona fetta dei “barbarismi” condannati in epoca fascista. Nonostante qualche italianizzazione più o meno di successo (come besciamella o brioscia) sopravvivono ancora oggi: baguette, béchamel, bonbon, brioche, champagne, champignon, consommé, crêpe, croissant, entrecôte, omelette, mousse, pâté, pinot, profiterole, vol-au-vent

Importare i nomi delle pietanze tipiche di un Paese in lingua originale non è “necessario” (come dimostra l’esempio del budino), ma è comprensibile e si riscontra per i prodotti di quasi tutte le altre culture. La moda della cucina etnica e di degustare piatti esotici negli ultimi anni è cresciuta moltissimo, e ha modificato molto anche il nostro modo di mangiare. In generale, nell’ambito gastronomico la quantità di forestierismi è superiore a quella degli altri linguaggi di settore e con l’eccezione del cinese (l’adattamento è più frequente: involtini primavera, maiale in agrodolce, ravioli al vapore…) i nomi dei piatti e delle pietanze rimangono quasi sempre invariati: kebap, sushi e sashimi, falafel, zighinì, wanton fritti, paella, burrito… Nonostante gli stereotipi radicati per cui in Inghilterra si mangia da schifo e negli Stati Uniti l’alimentazione è insana, nel nuovo Millennio sono arrivati nuovi prodotti, soprattutto dolci, con nomi inglesi. E si sono diffusi con grande velocità parole come marshmallow, brownie, muffin, pancake o plumcake


Stefano Ondelli è autore di uno studio molto ben documentato sui forestierismi culinari (“Dal ‘crème caramel’ al ‘cupcake’: l’invasione degli anglicismi in cucina, al ristorante e al bar”, in Italiano LinguaDue, V. 9 N. 2, 2017, pp. 373-383) e ha analizzato il sopravvento del lessico inglese sul francese attraverso lo spoglio di 423 articoli usciti tra il 2002 e il 2016. Questa tendenza non riguarda solo la cucina e gli ambiti dove il francese ha sempre primeggiato, come la moda (dalle paillette siamo passati al glitter, dai fuseaux ai leggins, dallo chic al glamour e più in generale al cool), ma tutta la lingua italiana. Tullio De Mauro ha mostrato che, a partire dagli anni Novanta, il primato del francese è stato superato dall’inglese in generale (cfr. “I forestierismi nei dizionari: quanti sono e di che tipo”). E infatti Ondelli mostra proprio che negli articoli di gastronomia gli anglicismi sono utilizzati anche fuori dall’ambito culinario, fanno parte del linguaggio giornalistico più generale (2.024 parole generiche contro 1.460 di settore). L’inglese è l’unica lingua straniera che ha questa caratteristica; nel caso degli altri idiomi, i forestierismi sono quasi sempre legati alla cucina, compreso il francese che fa parte del lessico culinario 3 volte su 4 (872 termini culinari contro 249 generici). Ciò significa che, accanto ai nomi delle pietanze, i francesismi riguardano per esempio categorie più generali (dessert, menu, buffet), le tecniche di cottura (uovo alla cocque) oppure figure come sommelier, maître e chef. Come Stefano Ondelli ha riassunto in un articolo sulla Treccani (“L’inglese: un intruso in cucina?”), i francesismi “continuano a dominare nella descrizione della preparazione delle pietanze (brisé, flambé, fumé, glacé, gratin e gratiné, julienne, sauté, sablé ecc.)” con l’eccezione dei prodotti dolciari che nel nuovo Millennio si sono moltiplicati, e degli alcolici che invece hanno da sempre primeggiato (drink, cocktail, whisky…). Il che è in sintonia con le marche presenti nei 129 lemmi di “cucina” registrati sul dizionario AAA.
Ondelli mostra che l’inglese prevale oggi soprattutto nei nomi commerciali (marchionimi), negli aspetti legati alla comunicazione e alla distribuzione (food blogger, food delivery, take away…), ai ruoli (executive chef), ai risvolti sociali (happy hour). Gli anglicismi che denotano ingredienti (curry, ketchup e kiwi), piatti (hamburger, sandwich) o utensili da cucina (freezer, mixer) non hanno una frequenza esagerata.

E allora cosa distingue l’inglese dagli altri forestierismi culinari?
A mio avviso è proprio il fatto che i nomi dei piatti si inseriscono in un modo di parlare anglicizzato che è molto più ampio (e in questo risiede anche la profonda differenza con l’interferenza storica del francese). Nel caso delle lingue degli immigrati arabi o africani, la cucina è l’unico ambito in cui si registra una certa interferenza linguistica. Gli italiani non conoscono una parola di arabo o di cinese. L’unico terreno di scambio linguistico è quello gastronomico. Wanton fritti, kebap, sushi e sashimi, falafel, lo zighinì degli eritrei… i forestierismi culinari non escono dai nomi delle pietanze, ma nel caso dell’inglese non è affatto così. “L’italiano è impermeabile alle lingue degli immigrati, risente invece dei modelli culturali ed economici statunitensi, che non sono presenti sul territorio a questo modo, ci arrivano in altre forme” (Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 9).

Quali sono queste forme?

Televisione e mcdonaldizzazione

Nell’analizzare le frequenze della parola chef (parola francese in uso anche nell’inglese) nelle statistiche di Ngram Viewer, Stefano Ondelli aveva concluso che nel nuovo Millennio la sua occorrenza era tornata a essere alta come negli anni Trenta, quando eravamo francomani, e si domandava se questo fatto fosse da mettere in relazione con la trasmissione di origine britannica Masterchef.
I dati che aveva a disposizione erano sbagliati, perché dagli ultimi aggiornamenti di Google che hanno incluso i libri sino al 2019 le cose sono molto diverse rispetto alla versione che aveva a disposizione ferma al 2008. La parola chef, in realtà, non è frequente come negli anni Trenta, ma ricorre almeno 10 volte di più. E la causa non è solo la trasmissione Masterchef, ma il fatto che questa trasmissione sia diventata un modello di tantissime altre che ne ripercorrono lo schema, e che le trasmissioni di cucina di stampo angloamericano siano diventate un genere onnipresente sul piccolo schermo.


Contrariamente a quanto si pensa, l’anglicizzazione “pesante” della nostra lingua non è iniziata negli anni Novanta con la globalizzazione, ma nel decennio precedente. Stando alle marche di Devoto Oli e Zingarelli, se negli anni Quaranta e Cinquanta gli anglicismi costituivano il 3% delle nuove parole (una percentuale fisiologica accettabile), negli anni Sessanta sono diventati il 6%, negli anni Settanta il 10% e negli anni Ottanta hanno raggiunto circa il 15%, diventando qualcosa di molto ingombrante che negli anni Novanta è quasi raddoppiato raggiungendo il 28% per poi toccare il 50% dei neologismi nel nuovo Millennio (cfr. “L’aumento di anglicismi e neologismi in inglese: nuovi dati”). Che cosa è accaduto negli anni Ottanta, quando, con grande acume, Arrigo Castellani ha lanciato il suo grido di allarme del Morbus Anglicus?

Sono convinto che la spiegazione sia molto semplice: la diffusione delle tv commerciali. E il caso MasterChef è solo un esempio tra i più eclatanti che dimostra come dalla culinaria siamo passati al cooking in onda, cioè al cool on air dove tutto ciò che è inglese suona cool.

A partire dagli anni Quaranta, era stato soprattutto il cinema il principale grimaldello del mito americano che ha portato in Europa l’ammirazione per gli stili di vita d’oltreoceano. Questi modelli culturali hanno fatto presa sulle masse che successivamente si sono trasformate in nuovi mercati a cui vendere ciò che al cinema si poteva soltanto vedere. Fino gli anni Settanta la televisione non si era ancora americanizzata e le prime trasmissioni popolari come Colombo, Charlie’s Angels, Furia cavallo del West o Happy Days rappresentavano ancora una piccola fetta dei palinsesti. I film, in larga parte statunitensi, venivano passati solo due volte alla settimana, e per precisi accordi con l’Anica, mai la domenica, per non danneggiare il mercato cinematografico. Con l’avvento delle reti private, e in particolare con le televisioni della Fininvest, tutto è mutato in un lampo. Mentre i palinsesti diventavano non più solo pomeridiani e serali, ma riempivano tutta la giornata, tra il 1982 e il 1984 l’azienda di Berlusconi, che non aveva la possibilità della diretta, puntò soprattutto sulla messa in onda di telefilm e film (in larga parte americani) conquistando un’enorme fetta di mercato. Come ha ricordato Carlo Freccero, il successo di questa iniziativa ha spinto la Rai ad acquistare subito dopo un pacchetto di 100 film e ad adeguarsi ai modelli della tv commerciale (cfr. “Quando il cinema era seriale. Modalità d’uso del film nella tv italiana” di Carlo Freccero, in Link, Idee per la tv, 3/2004, pp. 1-29, e “Rai, la tv che ha fatto il cinema” intervista a Massimo Fichera, ivi, pp. 23-25”), ponendo fine una volta per tutte ai modelli “pedagogici” precedenti. In questa fame di film entrarono anche le pellicole che un tempo non sarebbero mai state distribuite nei circuiti cinematografici e insieme ai protagonisti e alle vicende si importavano anche gli stili di vita americani, sempre più veicolati da parole inglesi. I giovani che si ritrovavano a mangiar hamburger nei fast food di Happy Days erano una realtà che non ci apparteneva. Ma subito dopo, e non per caso, in Italia è scoppiato il fenomeno di Burghy, il primo fast food – tutto italiano, del marchio Cremonini – che è diventato il modello sociale di una parte dei giovani e dell’epoca dei paninari. Mentre la pubblicità ci martellava con il ritornello “Hamburger, hamburger, drink e patatine, allegria e felicità” abbiamo cessato di parlare di svizzere e medaglioni per passare agli hamburger, che nel decennio successivo si sono affiancati a cheeseburger, chicken nuggets e pietanze dal nome quasi sempre in inglese quando McDonald’s si è insediato in Italia assorbendo Burghy dopo una guerra per il controllo dei fast food che è durata un decennio.

La crescita di “hamburger” e la diminuzione della frequenza di “svizzere” e “medaglioni” che sono però parole generiche. Probabilmente si è smesso di usarle per indicare l’alimento e dunque le loro frequenze sono diminuite per questo motivo.

In questo modo siamo passati dal frappè al milkshake. Parla come mangi, si dice, e oggi mangiamo e parliamo sempre più all’americana. Questo fenomeno è molto diverso dalla moda della cucina etnica, che nasce dal basso. Molti ristoranti eritrei, indiani, cingalesi e via dicendo sono inizialmente sorti per iniziativa degli immigrati che aprivano questi locali per i connazionali, e solo successivamente sono diventati di moda e si sono aperti alla clientela italiana. Le catene dei fast food, invece, sono la conseguenza di operazioni globali pianificate dall’alto, dalle multinazionali che si espandono alla conquista del mondo, e che sono supportate proprio dalla televisione.

Con la moltiplicazione dei canali televisivi e satellitari del XXI secolo tutto è lievitato in modo esponenziale. L’esplosione delle trasmissioni di cucina, la nascita di emittenti come Food Network che ci sommergono soprattutto di ricette statunitensi, e le infinite trasmissioni sul modello di MasterChef hanno creato questa nuova cultura gastronomica che si riflette anche nel linguaggio. Nel suo articolo, Ondelli scriveva che, nel settembre 2016, su 66 trasmissioni del genere riportate dalla Wikipedia, 13 contenevano nel titolo un anglicismo (Il boss delle cerimonie, Torte da record…), ma oggi la situazione è decisamente cresciuta e sulla stessa pagina le trasmissioni sono raddoppiate: 113 di cui 49 hanno un nome in inglese, e chef è la parola che ricorre di più.

Mentre ormai si parla della mcdonaldizzazione del mondo, l’americanizzazione della nostra cucina è diventata e sta diventando sempre più profonda. Gian Luigi Beccaria aveva osservato che nell’italiano si sono imposti i nomi di molti cibi regionali che sono diventati nazionali solo quando sono stati industrializzati e distribuiti ovunque. I grissini, dal piemontese gersin, sono così finiti sulle tavole di tutti gli italiani e sono diventati un nome industriale, esattamente come è successo a parole un tempo dialettali come mozzarella, fusilli, caciotta, fontina (Italiano. Antico e nuovo, Garzanti 1988, p. 83). I dolci fritti del carnevale, invece, che per la loro friabilità sono più difficili da industrializzazione, visto che si sbriciolano facilmente, secondo Beccaria ancora oggi hanno nomi locali e non possiedono un nome nazionale perché non sono prodotti su scala nazionale, e dunque si trovano a seconda dei luoghi chiacchiere, frappe, crostoli, galani, nuvole, bugie, sfrappole e via dicendo (Misticanze. Parole del gusto, linguaggi del cibo, Garzanti 2009, p. 171).
Passando dal locale al sovranazionale, con l’inglese avviene lo stesso. La grande distribuzione opera su scala mondiale ed esporta cibi statunitensi dal nome in inglese. Ho già ricostruito la storia dei marshmallow, che i traduttori di Linus avevano chiamato toffolette, quando ancora questi prodotti non esistevano nei nostri mercati. Ma quando sono arrivati tutto è cambiato. E non ci resta che ripetere quello che leggiamo sulle confezioni delle scatole. La lingua è fatta anche di queste cose, e ciò non vale solo nel caso della gastronomia (l’informatica docet). Televisione ed espansione dei mercati viaggiano spesso insieme, hanno così sfornato negli ultimi anni prodotti (e parole) sconosciuti sino a dieci anni fa, ma oggi comuni. Basta frequentare i siti di ricette per trovare le apple pie, per esempio. Torta di mele suona come la torta della nonna, se usiamo l’inglese è perché la ricetta si basa sulla tradizione anglosassone. Anche quella è una torta della nonna, in fondo, ma sembra tutta un’altra cosa. E così mentre le torte diventano cake ci americanizziamo nella lingua, intesa allo stesso tempo come organo del gusto e della comunicazione. Palato e parlato.

La gerarchia degli anglicismi e la rete di locuzioni inglesi

A questo punto tutto è più chiaro. Il fenomeno dell’itanglese non è un fatto solamente linguistico. L’esempio del lessico della cucina indica in maniera lampante che non è possibile scindere l’analisi linguistica da quella sociale, culturale ed economica. Questi aspetti sono intrecciati e si alimentano a vicenda in un processo di trasformazione della nostra società che risente sempre più della globalizzazione, che si chiama così ma coincide sempre più con l’americanizzazione.
In questo mutamento, gli anglicismi si inseriscono sempre più spesso a un livello alto della gerarchia delle parole, un fatto che mi pare sia ignorato (insieme a tanti altri salienti) dai linguisti. Non tutte le parole sono sullo stesso livello, infatti. Se gli anglicismi nei giornali compaiono soprattutto a caratteri cubitali nei titoli, e dunque hanno un risalto e una penetrazione molto pesante, lo stesso sta accadendo per molti linguaggi di settore, dove ricorriamo all’inglese prevalentemente per indicare i concetti chiave. E così il nome di una manifestazione culturale si esprime ormai quasi sempre in inglese (per darsi un tono internazionale) anche quando è italiana, le librerie diventano bookshop, l’economia diventa economy, l’ecologia green, le leggi act, le tasse tax… Tornando all’esempio della cucina, ho già ricostruito la storia di food, una parola che è apparsa per la prima volta agli inizi degli anni Ottanta attraverso l’espressione fast food. Da allora la circolazione di locuzioni con food è esplosa. Il cibo per gli animali è diventato pet food, il cibo di strada street food, il cibo a domicilio food delivery, il crudismo raw food, il cibo spazzatura junk food (o trash food), il cibo al cartoccio finger food, quello consolatorio confort food, l’arte dell’impiattare food design, un chiosco furgone truck food, e tra i food corner nei supermercati e il food porn, espressione dopo espressione, l’inglese ha preso il sopravvento sull’italiano, e ormai nel settore della grande distribuzione l’intero settore alimentare è chiamato del food, e contrapposto al non food che riguarda le altre tipologie di merci. Queste locuzioni si intrecciano a loro volta in una rete di altre che si basano sulle stesse radici, e si allargano nel nostro lessico sempre più anglicizzato diramandosi come un cancro. Pet food non è isolato, si appoggia a pet sitter, che insieme a dog sitter e cat sitter ripercorre l’espressione baby sitter, a sua volta basata sulla prolificità di baby che diventa un prefissoide produttivo che si ricombina con parole sia italiane sia inglesi (baby-criminalità, baby-gang…).

Basta guardare questi titoli di giornale per vedere come siamo messi: non solo impera il food, ma anche la cucina diventa cook e tutto è inserito nell’anglicizzazione più totale, dove i premi diventano award, i concorsi sono contest e challenge

La cucina italiana è diventata l’italian food e noi, e la lingua italiana, siamo fritti come le patatine che ormai si cominciano a chiamare chips.

Dal multilinguismo all’inglese obbligatorio

I concorsi per l’assunzione dei nuovi insegnanti che partiranno in ottobre hanno suscitato polemiche e dibattiti, nella politica e sui giornali. Il Movimento 5 stelle e Italia Viva hanno difeso la scelta “meritocratica” della ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, il Pd voleva posticipare tutto per non aggravare la difficile situazione della scuola durante la pandemia, la Lega e Fratelli d’Italia avrebbero voluto confermare i precari già nelle scuole… In tutto questo rumore – forse per nulla – la cosa più assordante è però il silenzio su un particolare che viene taciuto e che è ben più importante di ciò che emerge dal teatrino della politica e dal chiacchiericcio mediatico.

La novità è che nei concorsi scuola 2020 la conoscenza dell‘inglese è divenuta un requisito obbligatorio. Come specificato negli articoli 8 e 9 del Decreto 201 del 20 aprile 2020, la prova preselettiva e la prova orale accerteranno la conoscenza della lingua inglese almeno al livello B2 del Quadro Comune Europeo di Riferimento. Si tratta di un livello alto che prevede la comprensione di testi complessi e specialistici astratti e concreti, la capacità di comunicare in modo fluente, e un’esposizione chiara, esaustiva e articolata.

Il problema non è solo che (quasi) nessuno parla di questa novità, ma soprattutto che nessuno sembra porsi il problema del perché, e della legittimità, di questo cambiamento.
Perché mai un insegnante di materie come l’italiano o la matematica dovrebbe conoscere obbligatoriamente l’inglese? Dov’è l’inerenza tra il requisito dell’inglese e la materia insegnata? E perché l’inglese e non altre lingue?

La risposta del Ministero dell’Istruzione è stata laconica:

L’accertamento delle competenze linguistiche, previsto nell’ambito di tutte le procedure concorsuali, è stato limitato alla lingua inglese in virtù del novellato articolo 37 del d. lgs. 165/2001. Il d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75 (successivo al d.lgs. n. 59/2017), ha infatti sostituito, in via generale e per tutte le pubbliche amministrazioni, all’accertamento ‘di almeno una lingua straniera’ quello della sola lingua inglese” (Fonte: Orizzonte Scuola).

Il decreto invocato (n. 75 del 2017) è a sua volta l’attuazione della cosiddetta Riforma Madia, che (legge n. 124 del 7 agosto 2015, “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, articolo 17, lettera e) introduceva per i tutti i concorsi pubblici della pubblica amministrazione l’accertamento “della conoscenza della lingua inglese e di altre lingue, quale requisito di partecipazione al concorso o titolo di merito valutabile dalle commissioni giudicatrici, secondo modalità definite dal bando anche in relazione ai posti da coprire.

La legge Bassanini (n. 127/1997) prevedeva da tempo l’accertamento delle competenze informatiche e di una lingua straniera – non per forza l’inglese – per i concorsi pubblici, ma questa direzione che spingeva verso l’inglese si trovava già nel concorso del 2012 indetto dall’allora ministro Francesco Profumo, ed era presente nella legge 107 del 2015 che all’articolo 7 definiva come obiettivi formativi prioritari “la valorizzazione e il potenziamento delle competenze linguistiche, con particolare riferimento all’italiano nonché alla lingua inglese e ad altre lingue dell’Unione europea, anche mediante l’utilizzo della metodologia Content language integrated learning”. Ma mentre prima era sufficiente la conoscenza di una qualsiasi lingua straniera, con la riforma di Marianna Madia l’inglese è diventato obbligatorio per legge per tutti coloro che vogliono accedere ai concorsi pubblici. Basta cambiare una virgola e spostare due parole ed ecco che, zitti zitti, il gioco è fatto. Tutto si ribalta e si introducono nuove prassi che stravolgono completamente i principi formativi trasformando un disegno che dovrebbe promuovere il multilinguismo in un provvedimento che è il suo contrario e sancisce la dittatura del solo inglese.

Per fare chiarezza, il Content and Language Integrated Learning a cui si fa riferimentoche abbiamo introdotto direttamente l’acronimo inglese CLIL visto che siamo un popolo colonizzato che rinuncia sempre più alla nostra lingua – in italiano si chiamerebbe “Apprendimento Integrato di Contenuto e Lingua”, ed è stato proposto in ambito europeo da un economista dell’università di Oxford, David Marsh, nel 1994. La filosofia del progetto era quella di introdurre nelle scuole alcune ore in cui una certa materia venisse insegnata direttamente in una lingua straniera, per favorire l’acquisizione dei contenuti disciplinari e dell’apprendimento di una lingua in colpo solo. Non voglio entrare nel merito di questa proposta didattica di cui non condivido affatto i principi – credo che l’insegnamento di una materia e l’insegnamento di una lingua siano due cose separate che è bene tenere separate e non confondere – bisogna però precisare che riguardava “una lingua straniera” qualsiasi, non necessariamente l’inglese. Come si vanta il Miur: “Il nostro è il primo paese dell’Unione Europea a introdurre il CLIL in modo ordinamentale nella scuola secondaria di secondo grado.” Ma in questa attuazione, di fatto, la lingua straniera scelta è quasi esclusivamente l’inglese.

Fatte queste premesse, dalla prassi si è passati alla norma. Quello che accade oggi è che, per legge (!), la conoscenza di una lingua straniera da parte degli insegnanti e dei dipendenti della pubblica amministrazione è cancellata e sostituita dal solo inglese. Il requisito è obbligatorio, e la conoscenza di altre lingue è solo un di più facoltativo.

Le reazioni a questi imbrogli, realizzati a piccoli passi e in silenzio, si sono visti nel 2017 a proposito del concorso per entrare nell’Inps. Dopo anni di attesa, quando finalmente è uscito il bando è arrivata la sorpresa: tra i requisiti di accesso c’era proprio il possesso di una certificazione linguistica, rilasciata dagli enti autorizzati, attestante almeno il livello B2 della lingua inglese. La certificazione non è obbligatoria per legge, tuttavia chi bandisce un concorso può benissimo includerla nei requisiti, e dunque poco cambia. Nel totale silenzio mediatico – qualcuno ha mai sentito un dibattito televisivo in proposito? – ci sono stati vari ricorsi da parte di potenziali candidati che non erano in possesso della certificazione; in qualche caso il Tar del Lazio li ha accolti (come nel decreto n. 06807 del 18/12/2017), mentre in altri li ha respinti (come nella sentenza n. 1206 del 01/02/2018), perché il profilo di un analista del processo, per esempio, prevedeva la conoscenza dell’inglese.

Ma, nel caso degli insegnanti, qual è il senso della conoscenza obbligatoria dell’inglese nella maggior parte dei casi? Qui non c’è in gioco solo il divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro in nome delle pari opportunità (come nell’articolo 27 del D. Lgs. 165/2001). C’è una discriminazione anche nei confronti delle altre lingue e culture, che diventano improvvisamente di serie B di fronte all’inglese. Dietro provvedimenti del genere c’è una sotterranea e viscida imposizione dell’inglese come la sola lingua internazionale che è tutto il contrario del multilinguismo.

Mentre l’Italia non ha alcuna politica linguistica nei confronti dell’italiano, nei confronti dell’inglese le cose sono molto chiare. Il nostro Paese è in primo piano nell’attuazione del progetto colonialistico di condurre tutti i Paesi sulla via di un bilinguismo dove le lingue locali sono viste non come una ricchezza culturale, ma come un ostacolo alla comunicazione internazionale che deve avvenire nella lingua madre dei popoli dominanti. Invece di favorire lo studio delle lingue, si favorisce lo studio del solo inglese. È il progetto dell’imperialismo linguistico lucidamente prospettato da Churchill e in seguito perseguito dalla politica linguistica internazionale statunitense, dal piano Marshall in poi. Giorno dopo giorno, attraverso una politica graduale fatta di piccoli provvedimenti che passano silenziosi – visto che la cultura e i mezzi di informazione della colonia Italia sono in mano a collaborazionisti anglomani – agevoliamo dall’interno la dittatura dell’inglese globale. E accettiamo queste cose in servile silenzio, senza nemmeno che ci sia un dibattito. In questo modo, passetto dopo passetto, anno dopo anno, l’italiano ha cessato di essere la lingua del lavoro in Europa, la domanda per i Progetti di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) del MIUR, dal 2017, deve essere scritta soltanto in lingua inglese, al Politecnico di Milano si insegna di fatto in inglese, l’inglese è diventato un requisito per entrare nella pubblica amministrazione… e l’italiano? Quello la nostra politica lo vuole mettere in un bel museo. Il ruolo che gli spetta e gli spetterà sempre di più se andiamo avanti a questo modo. E l’anglicizzazione della nostra lingua è solo l’effetto di questa sottomissione politica, economica e culturale ben più ampia e profonda.