La terminologia della colonia Italia

Luis Mostallino è un lettore che mi ha scritto qualche tempo fa segnalandomi il disastro terminologico del sistema operativo dell’iPhone in “italiano”, se così si può ancora chiamare questa lingua. Dopo qualche scambio di vedute, ha deciso di segnarsi tutti gli anglicismi presenti e di inviare la sua lettera di protesta alla Apple. Poi ha fatto una cosa relativamente semplice in teoria, nella realtà un po’ più complicata perché il “device” non gli faceva aggiornare il “software” se prima non si era “loggato”, per usare il linguaggio del settore. Comunque sia, superando le difficoltà tecniche di questo tipo, è finalmente riuscito a impostare l’interfaccia in lingua francese e poi spagnola. Con tanta pazienza ha provato a segnarsi tutti gli anglicismi nelle rispettive localizzazioni, e non c’è paragone. Anche se di sicuro qualche parola gli sarà sfuggita, e dunque il risultato conterrà qualche lacuna e imprecisione, le differenze sono macroscopiche: in italiano ci sono circa un centinaio di termini inglesi, che si riducono a meno di una ventina in francese e in spagnolo.

Riporto l’elenco del glossario ordinato alfabeticamente; in grassetto ci sono le voci inglesi che sono presenti anche nelle altre lingue. Le parole in rotondo, invece, fuor dall’italiano sono tradotte.

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Ogni commento è superfluo, ma qualche riflessione è invece dovuta.

La nostra lingua è diventata inadatta a esprimersi in questo settore, e non è più autosufficiente come lo era negli anni Settanta. Non c’è solo il fatto che l’italiano è stato mutilato in ambiti come l’informatica (e tanti altri), dove circa la metà della terminologia così marcata nei dizionari è in inglese puro. Non c’è nemmeno solo l’ennesima prova della profonda differenza tra l’anglicizzazione dell’italiano e quella delle altre lingue romanze. Emerge invece tutta la differenza tra le lingue – e le società – sane e quelle che si stanno creolizzando nel lessico e nella mente.
L’espansione delle multinazionali, e della loro lingua veicolata insieme alle merci e ai prodotti culturali, da noi non è arginata da una pressione interna contraria che difende le proprie radici. Da noi non esistono accademie come quelle spagnole o quella francese che combattono gli anglicismi, creano e promuovono sostitutivi, difendono il loro patrimonio linguistico e lo fanno evolvere, invece che lasciarlo divorare da una lingua cannibale. Né ci sono banche dati terminologiche orientate alla traduzione come quella del Quebec. Da noi non esistono leggi che tutelano la nostra lingua, non esiste proprio il concetto di una “politica linguistica”, e i nostri politici ostentano gli anglicismi nella loro comunicazione e anche nel linguaggio istituzionale. I nostri intellettuali e la nostra classe dirigente collaborazionista agevolano dall’interno il ricorso all’inglese, dal linguaggio lavorativo a quello della scuola, da quello tecnico-scientifico a quello dei mezzi di informazione, dalla cultura sino agli ambiti più frivoli del costume e della società.

Pensiero, linguaggio e linguisti

I linguisti non sembrano i più adatti a comprendere quello che sta accadendo. I loro approcci sono astratti, utilizzano categorie di classificazione dei forestierismi vecchie e ridicole; chiamano i forestierismi “prestiti”, che non sottraggono la parola a chi ce l’avrebbe “prestata” e soprattutto che non si restituiscono affatto. Personalmente preferisco chiamarli “trapianti”. Alcuni sono trapiantati a forza, provengono dalla pressione esterna di una lingua dominante, molti altri li trapiantiamo e coltiviamo noi stessi, visto che abbiamo la mente sempre più colonizzata, e ricorriamo spesso ai trapianti geneticamente modificati di radici inglesi coniando parole il cui senso è quello di apparire in inglese senza esserlo. Accanto a questi “prestiti apparenti”, molti linguisti continuano a parlare di “prestiti di lusso” e “di necessità”, o parlano di anglicismi intraducibili o insostituibili senza accorgersi – o meglio: senza ammettere – che in questo modo giustificano il ricorso all’inglese e il circolare di ciò che è perfettamente traducibile e tradotto in Francia e Spagna, non c’è alcuna “necessità” nel farlo. Le loro dissertazioni sugli anglicismi, sulla presunta insostituibilità di parole come selfie o brainstorming, ricordano la caricatura dell’home ridicule, cioè il Visconte La Nuance di Edmondo De Amicis (L’idioma gentile, Fratelli Treves editori, Milano 1905), che ricorreva al francese perché ogni espressione aveva a suo dire una sfumatura di significato, una nuance appunto, che l’italiano non possedeva. Senza rendersi conto di essere tragicamente ridicoli, questi studiosi si perdono nella classificazione maniacale e sempre più analitica di tutti i processi teorici che coinvolgono il lessico senza vedere, fuori da questi schemini avulsi dalla realtà, cosa sta avvenendo. I più deficienti (da deficere, nel senso più etimologico e meno offensivo che possiate immaginare, per carità!) davanti all’interferenza dell’inglese credono che sia tutto normale, e continuano a ripetere che le lingue evolvono, e sono sempre evolute, anche per via esogena (= per l’interferenza di altre lingue) senza studiare, e capire, come si sta “evolvendo” l’italiano; senza cogliere le profonde differenze storiche tra ciò che accade oggi e ciò che è accaduto in passato, e senza scorgere gli elementi di novità, per esempio rispetto a quando a influenzarci era il francese. E così, mentre hanno classificato tutti i possibili modi in cui una parola può essere “produttiva” (suffissi, confissi, prefissi, alterazioni, composti…), parlano di ibridazioni (downloadare, fashionista…) senza andare a quantificarle, senza accorgersi che il fenomeno che ho chiamato degli anglicismi “prolifici”, nel caso del francese non esisteva, e che i derivati ibridi dell’inglese sono ormai centinaia e centinaia, e crescono ogni giorno formando una rete di corpi estranei che si allarga nel nostro lessico come un cancro (anche il cancro è “produttivo” del resto). Invece di studiare l’interferenza dell’inglese nella sua portata, i linguisti preferiscono limitarsi a individuare i meccanismi astratti di ibridazione. Come se un medico spiegasse a un malato che non respira che le malattie sono normali e ci sono sempre state, che è sopravvissuto alle influenze del passato e dunque sopravviverà anche a questa, come se invece di misurare quanta febbre ha il paziente gli si spiegasse che l’innalzamento della temperatura si chiama iperpiressia, mentre quello intanto muore. Ma i linguisti italiani non sono medici. Sono “descrittivisti”, seguaci di un liberismo linguistico il cui motto è che “la lingua non va difesa, ma va studiata” che è ormai sfociato nell’anarchia nella sua accezione più distruttiva. In realtà sono descrittivi solo nel caso dell’interferenza dell’inglese, non si fanno scrupoli a condannare l’uso davanti a “errori” così diffusi che rischiano di diventare la norma (dal “qual’è” con l’apostrofo al “piuttosto che” usato con il significato di “oppure”), né a cercare di cambiare l’uso nel caso del linguaggio inclusivo o della femminilizzazione delle cariche. Il loro “descrittivismo” altalenante coincide sempre più con l’americanizzazione dei loro cervelli.


Mi tornano in mente figure e approcci di ben altro spessore. Ripenso al filosofo, logico e matematico viennese Ludwig Wittgenstein che nel suo Tractatus, pubblicato 100 anni fa, scriveva: “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (5.6). Il linguaggio descrive la realtà, e non è possibile pensare e descrivere la realtà in modo indipendente dal linguaggio. Purtroppo il linguaggio e la realtà dell’informatica sono oggi in itanglese.

A proposito del rapporto tra pensiero e linguaggio, andando indietro di un altro secolo, nel 1820 il linguista tedesco Wilhelm von Humboldt (Über das vergleichende Sprachstudium, cioè “Sullo studio comparato delle lingue”; tradotto in italiano con il titolo La diversità delle lingue) comprese proprio come il linguaggio influenzi il nostro modo di pensare. Un’idea che si ritrova anche in 1984 di George Orwell (pubblicato nel 1949) dove infatti la dittatura lavora alla stesura di un dizionario della neolingua che tra le altre cose punta proprio alla riduzione e alla distruzione delle parole, funzionale al controllo del pensiero.

Ma oggi tutto ciò non c’è più, sembra svanito. E l’idea che il linguaggio possa influenzare il pensiero è chiamata l’ipotesi di Sapir e Whorf, tradotta pari pari dall’espressione Sapir-Whorf Hypothesis, perché questi due studiosi statunitensi l’hanno rispolverata e continuata, e così ce l’hanno venduta come se l’avessero concepita loro. Questo dimostra come non solo il linguaggio, ma anche i paradigmi culturali influenzano il nostro modo di pensare.

In una società sempre più americanizzata, abbiamo ormai perso la nostra cultura, il senso della storia dell’Europa e il nostro punto di vista. Tutto sembra provenire dagli Stati Uniti ed essere reinterpretato in chiave americana anche quando non lo è. Dietro l’importazione di questa nuova “cultura” si cela l’ignoranza sempre più profonda delle nostre radici, culturali e linguistiche.

La storia la scrivono i vincitori. Il che vale soprattutto nelle dittature. E davanti alla dittatura dell’inglese abbiamo perso ogni spirito critico. Insieme al lessico inglese, abbiamo importato anche i paradigmi concettuali a stelle e strisce, e smarrito tutto ciò che c’è al di fuori di quella visione che è ormai diventata il pensiero unico.

Se Humboldt aveva capito che il linguaggio influenza il nostro modo di pensare, Freud considerava viceversa il linguaggio la spia dell’inconscio. Sono le due facce della stessa medaglia che mostrano come linguaggio e pensiero siano intrecciati. Se le parole influenzano il pensiero, contemporaneamente sono la chiave per comprendere come pensiamo.

Gli anglicismi che si moltiplicano nell’italiano sono tanti lapsus freudiani che rivelano come ormai siamo completamente colonizzati. Li ostentiamo andandone fieri, e ci vergogniamo della nostra lingua accecati dal servilismo verso una civiltà che ci appare superiore. Al tempo stesso, accettiamo senza resistenze gli anglicismi che le multinazionali dell’informatica e più in generale del lavoro ci impongono, li ripetiamo senza alternative fino a convincerci che sono “necessari”, visto che non abbiamo più gli anticorpi che esistono in Francia o in Spagna. Siamo convinti in questo modo di essere moderni e internazionali, invece che “zerbinati”. E in un circolo vizioso, tutte queste parole inglesi, a loro volta, radicano ancor di più in noi il nuovo modo di pensare, e di vivere, in itanglese.

26 pensieri su “La terminologia della colonia Italia

  1. Complimenti a Luis per l’indagine schiacciante che non lascia spazio ad alcuna interpretazione.
    Non ho pensato a catturare una schermata, ma l’altro giorno mi è capitato un testo davanti… e giuro, ci ho messo qualche secondo a cercare di capire in che lingua era scritto: solamente quando alla fine ho trovato la congiunzione “e” invece di “and” ho capito che era un testo italiano… anche se ovviamente non c’era una sola parola italiana nel testo…

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    • Temo che sempre più spesso si salvi l’italiano con congiunzioni e preposizioni, soprattutto nelle “statistiche” sulle frequenze fatte appunto senza lemmatizzare e senza tener conto delle comparazioni grammaticali: quanti anglicismi ci sono tra i sostantivi di un pezzo? Operando così i numeri non sono quelli bassi che si ottengono con la diluizione basta sui conteggi delle occorrenze di “e”…

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  2. Terrificante da leggere. L’erba cattiva della nostra dirigenza merita soltanto di essere ripulita da zero e sostituirla con l’erba buona, e soprattutto “prodotta in Italia” (e basta con sto Made in Italy!).

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  3. In questi giorni ho notato che la frequenza di video su youtube che parlano degli anglismi sono aumentati, ma tutti tendono a negare il problema. È veramente demoralizzante notare tutto questo, e mi chiedo se questo negare sia dovuto da giovani cresciuti con l’itanglese e non con l’italiano, e che quindi non lo percepiscono come morente, ma in “evoluzione”. Detto in modo semplice: italiano = lingua per NATURA con 30000 anglicismi in ogni frase.

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    • Non sapevo di questo aumento tubista… quanto alla minimizazione vale anche per i lingusti non solo per le giovani generazioni. Queste ultime però, almeno hanno spesso il coraggio di non negare, e non vedono il problema dell’itanglese, qualcuno lo saluta come il futuro dell’italiano. Una visione pericolosa, ma meno ipocrita e più consapevole delle posizioni di certi linguisti negazionisti che sotto sotto la pensano in modo uguale ma si ostinano ad arrampicarsi sugli specchi per sostenere he non sta succedendo niente.

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  4. Mi piacerebbe anche un Manualetto per la lettura del Courier of the Evening; le parole politiche, economiche geografiche, culturali con relativa traduzione in italiano. Da Ricoveri fan a Mèss. Un Influencer del tubo di Brighton che si definisce Antrepenéér dice spesso di esser caduto in un Baeàss cognitvo. Cosa vuol dire?

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    • Pregiudizio o distorsione cognitiva arrivano a tutti, al contrario del bias… ma farsi capire fa perdere l’uso del linguaggio volutamente oscurato attraverso l’inglesorum per controllare i destinatari e apparire come superiori, anche qundo si è un semplice tronista della Rete, o un tubista, come chiamo gli youtuber. Il manuale per la lettura del Courier of the Evening l’ho creato: https://aaa.italofonia.info (trovi anche “bias”) ma il suo aggiornamento è molto oneroso, perché ogni giorno ne spunta uno nuovo.

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  5. Seguo con vivo intereresse questi articoli ormai da qualche mese, e in questo momento vorrei solo esternare il mio profondo scoramento. Bazzicando diversi siti – e diverse reti sociali – ho notato come sia sempre più pervasivo questo sincretismo linguistico. Ahimé, non mi riferisco ai soli “trapianti linguistici”, ma a un modo di utilizzare indiscriminatamente gli anglicismi. Ecco alcuni esempi:
    – Ho preso una crush.
    – Quel driver ha un mate imbattibile.
    – Oggi si gioca sul clay.
    – Sono sempre on fire!

    Oppure, metà e metà:

    – Dovremmo trovare un equilibrio, middle way is the preferred way.
    – Non ne vale la pena, if you know what i mean.

    Ed è tutto così. Tempo addietro ho concluso un libro di Rampini; risultato? Su 300 pagine avrò letto più di mille parole in inglese.
    Di quando in quando mi sforzo di pulire la conversazione, renderla più intelligibile e maggiormente fluida, ma vengo fondamentalmente tacciato d’essere un vecchio babbione, un po’ petulante. Forse è così, ma pavento il day in cui speakeremo come right now, e sarà un filino too much for uno come mE.

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    • Sei un “boomer” come direbbero in modo dispregiativo i supergiovani che ormai attraverso l’inglese classificano le generazioni ripetendo i concetti della sociologia statunitense: i baby boomer, i millenials, la Z generation… Il punto è che anche le altre generazioni sono ormai colonizzate, e Rampini, naturalizzato statunitense, è uno dei più noti collaborazionisti dell’americanizzazione culturale della nostra “intellighenzia” zerbinata che vede solo ciò che a stelle e strisce. Tra questi ci mettiamo anche la maggior parte dei nostri linguisti, che invece di rendersi conto della situazione sono convinti che non stia accadendo nulla. Hai perfettamente ragione quando dici che “è tutto così”. Anche il mio scoramento è forte, però provo a fare quelche posso: denunciare e provare a creare una nuova cultura, lanciare petizioni, creare il dizionario delle alternative… insomma lotto! Purtroppo sono quasi solo, e gli altri remano contro, ma morire imbracciando il fucile mi pare più bello che morire arrendendosi.

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      • Esatto, un dannato “boomer”, ah! Ad ogni modo, ne convengo: serpeggia tra i giovanissimi, i giovani e i non più giovani. Mia zia, che di anni ne ha quasi 40, la si potrebbe definire un “distributore ambulante d’itanglese”; mia madre, pure – però storpia le parole; i miei coetanei, neanche a dirlo, ci sguazzano come porci nel brago.
        Sui nostri linguisti non mi espongo, ma ricordo d’aver visto Antonelli durante una puntata del programma di Augias, sostenere, con un sorrisetto untuoso, che ” l’italiano non è in pericolo, l’inglese è tutt’ora marginale, appena il 2%” – vado a memoria. Oppure, mi è capitato di ascoltare una trasmissione radiofonica di Rick Dufer, con ospite Vera Gheno. Ora, mi vien da ridere, ma era tutto uno “switchare, triggerare, strong, hater, shitstorm,mainstream…”, qui non c’era il fango, ma un truogolo strabocchevole di anglicismi, e due lurchi intenti a crapulare.
        Per fortuna posso ancora scherzarci su con mia sorella, ché pure lei trova tutto molto stomachevole.
        Trovo del tutto commendevole il suo sforzo e la sua pertinacia, e chissà che per osmosi, un po’ di questi, mi facciano alzare proprio adesso, andare alla finestra, aprirla, affacciarmi e urlare ” sono incazzato nero, e tutto questo non lo accetterò più!”.

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        • Non ho mai risparmiato critiche a linguisti come Vera Gheno (che riesce a spiegare in itanglese che l’italiano non ha alcun poblema) e Antonelli. Non condivido le loro affermazioni, che tra l’altro sono formulate come opinioni e non argomentate attraverso i fatti. Ho confutato le tesi di Antonelli in un libro e su questo sito più di una volta. In particolare Nel 2016 Antonelli scriveva:

          “All’inizio degli anni Settanta, l’incidenza degli anglicismi integrali era al di sotto dell’1% del patrimonio lessicale dell’italiano; oggi – stando a quanto si può ricavare da tutti i principali dizionari dell’uso – non raggiunge il 2%”. (“L’italiano nella società della comunicazione 2.0″, Il Mulino 2016, seconda edizione p. 19).

          Ma non era preoccupato per questo raddoppio, la conclusione era che si trattava di numeri contenuti. Oggi però, nel 2020, scrive:

          “La percentuale complessiva di parole inglesi presente nei principali dizionari italiani non supera il 3%”. (“Prefazione” a Gli anglicismi, di Riccardo Gualdo a p. 7).

          Ma come? Dall’1% gli anglicismi sono passati nel 2016 al 2%, e oggi sono il 3% e non ti preoccupi? I numeri cambiano, raddoppiano, triplicano, ma la conclusione è sempre la stessa: niente di cui preoccuparsi! Questo non è il modo di procedere, la teoria non nasce dai dati, ma li piega ogni volta per affermare la stessa interpretzione a priori, anche quando saranno il 5% saranno sempre pochi. Oltretutto ho anche dimostrato che non si possono “spalmare” gli anglicismi a questo modo, confrontandoli con un lemmario dei dizionari fatto soprattutto di parole storiche. Bisogna ragionare per categorie grammaticali (sono circa il 5% dei sostantivi), per datazione (siamo passati dal 10% delle parole degli anni 70, al 50% di quelle del 2000) e per frequenze calcolate lemmatizzando come faceva De Mauro, e non con i conteggi beceri che si fano oggi che salvano l’italiano statisticamente conteggiando le frequenze di congiunzioni e preposizioni. E poi fuori dai dizionari il riversamente dell’inglese è di un ordine di grandezza superiore.
          Per fortuna ci sono anche linguisti come Marazzini, Sabatini, Serianni e altri che hanno cominciato a esprimere le loro preoccupazioni. Purtroppo non si producono studi quantitativi sul fenomeno, tutto rimane un chiacchiericcio a livello di “secondo me” anche tra i linguisti, il problema è extraliguistico…

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  6. Salve, volevo chiederti cosa pensi della risposta che la Treccani ha dato in questa pagina: “https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/domande_e_risposte/varie/varie_73.html”.
    È solo una mia impressione o anche la Treccani sta cedendo?

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  7. Parole orribili come lockdown si possono italianizzare con chiusura, fare news falsa notizia, food cibo. A volte non leggo i giornali per non leggete gli anglicismi che sono un sintomo di complesso di inferiorità

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