La rinuncia dell’accademia della Crusca

Dopo mesi e mesi di silenzio, la settimana scorsa è apparso il comunicato numero 22 del gruppo Incipit dell’accademia della Crusca contro il linguaggio anglicizzato del Piano scuola 4.0, seguito poco fa dal numero 23 che denuncia il passaggio dallo spid al sistema IT Wallet invece che al portafoglio digitale, come avevo già denunciato nel mio ultimo articolo.

Visto che in pochi conoscono il gruppo Incipt, ancora meno ne leggono i contenuti, e quasi nessuno, non dico segue, ma nemmeno prende in considerazione le indicazioni proposte, sarà utile ricordare di cosa si sta parlando.
È stato costituito nel 2015 dopo una fortunata petizione rivolta alla Crusca della pubblicitaria Annamaria Testa che ha raccolto 70.000 firme contro l’abuso dell’inglese. Nel recepire questo grido collettivo di protesta, l’accademia ha deciso di avviare una sorta di commissione composta da alcuni accademici, oltre che dalla pubblicitaria, per “monitorare i neologismi e forestierismi incipienti, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana e prima che prendano piede”, perché si dà per scontato che, una volta acclimatate e radicate, le nuove parole poi non siano più arginabili.

Questa premessa, invece di parlare esplicitamente di “anglicismi” parla di “neologismi” e “forestierismi”, ma per chiamare le cose con il loro nome, tutti i comunicati hanno a che fare con l’inglese perché l’afflusso di parole straniere di altra provenienza è poco significativo, fuori dalle prese di posizione di principio che affondano le loro radici nel purismo. Il problema non sono i forestierismi ma gli anglicismi. E venendo ai neologismi, dallo spoglio dei dizionari – vorrei gridarlo forte a chi fa finta di non capirlo – circa la metà delle parole nuove del Duemila è in inglese crudo. Magari la nostra lingua fosse ancora viva e in grado di produrre le proprie parole senza importarle direttamente dall’inglese, e senza inventare pseudoanglicismi come smart working o caregiver, per fare riferimento proprio a due espressioni biasimate da Incipit.

Il principio per cui sia possibile intervenire solo nella fase incipiente di circolazione delle parole, va detto, non è una legge naturale davanti alla quale non si può fare nulla. È il risultato di un’anomalia tipicamente italiana che proprio l’impostazione della Crusca favorisce, visto che all’estero le politiche linguistiche di Paesi come la Francia o la Spagna sono state in grado di arginare molti anglicismi che sono regrediti anche dopo una prima fase di alta circolazione.

Nel caso del francese e dello spagnolo la differenza principale rispetto alla situazione nostrana è che le accademie fanno le accademie, e hanno perciò una missione prescrittiva, mentre la Crusca si vanta di essere descrittiva, e cioè di non voler intervenire sulla lingua che si limita a studiare, invece che orientare. A ciò si aggiunge il diverso contesto storico-sociale: in Francia e Spagna le accademie operano in un contesto dove esistono leggi per la tutela della lingua, banche terminologiche istituzionali che traducono ogni cosa in modo ufficiale, e in più in generale una società dove non c’è alcun senso di inferiorità verso l’inglese né alcuna vergogna di tradurre, adattare o pronunciare gli anglicismi nella propria lingua.

In questo contesto, la creazione del gruppo Incipit è stata una ventata di novità che appariva come un prezioso cambio di rotta, anche se si è rivelato un progetto fatto di buoni propositi le cui modalità non sono in grado di incidere sulla realtà.

Tullio De Mauro ne contestò da subito l’impostazione entrando nel merito della fase incipiente che andrebbe maggiormente precisata. Una parola come benchmark – notava – è entrata come tecnicismo del linguaggio economico-finanziario vent’anni prima che il suo significato si estendesse al linguaggio comune come alternativa più prestigiosa di punto di riferimento o pietra di paragone. Dunque, come ho scritto in Diciamolo in italiano molti anni fa, poiché gli anglicismi spesso penetrano nei linguaggi specialistici e poi, a distanza di molti anni, raggiungono anche quello dei giornali perdendo la loro specificità di settore, ci vorrebbe un doppio argine: il primo terminologico, per tradurre da subito le parole di settore come avviene in Francia e in Spagna, e il secondo per affermare le alternative quando si verifica il salto dal tecnicismo alla lingua.

Il progetto Incipit ha funzionato?

Accanto ai limiti concettuali di Incipit, quello che mi pare emerga dopo nove anni dalla sua costituzione è soprattutto la sua inutilità pratica. Il gruppo sin dal suo esordio si è caratterizzato nell’intervenire non nella lingua di tutti, dove vige il principio per cui ognuno parla come vuole (un principio che dovrebbe essere precisato con qualche paletto se si vuole evitare che la “libertà” di espressione non si trasformi nella distruzione delle regole dell’italiano e nella sua trasformazione per esempio in itanglese) ma di vigilare il linguaggio istituzionale, dove il ricorso all’inglese pone problemi di trasparenza, oltre che di ufficialità della comunicazione.

Che cosa ha prodotto questo pacato interventismo fatto di buoni consigli attraverso questa modalità? Nulla.

Tra gli anglicismi messi in discussione, nel comunicato numero 3 del 2016, si raccomandava “lavoro agile” al posto di “smart working” che all’epoca era un tecnicismo di settore e di bassa frequenza. Con l’esplodere del covid e del lavoro a distanza o da casa (come si dice in Francia e in Spagna) il telelavoro o il lavoro da remoto che gli inglesi chiamano home o remote working e non “smart, sono stati accantonati dai giornali e dalle istituzioni e oggi c’è solo l’inglese, a quanto pare.

A proposito di covid, quando questa parola è apparsa, la Crusca era intervenuta per indicare che sarebbe più corretto parlare della covid, al femminile visto che è una malattia e non un virus, una posizione ignorata e talvolta sbeffeggiata dai mezzi di informazione che hanno continuato a usare immotivatamente il maschile a orecchio. In Francia, al contrario, davanti allo stesso problema l’Académie française è intervenuta con le stesse osservazioni, ma i giornalisti e la società dei parlanti – avendo un punto di riferimento normativo che non è un’imposizione dall’alto sulla loro libertà espressiva, ma è una consulenza utile per capire come parlare e scrivere in modo corretto – oggi usano normalmente il femminile. Invece da noi l’autorità dell’accademia non c’è, c’è quella del singor Uso, che però non è come si vuol far credere qualcosa di “democratico” che viene dal basso e dal popolo, è il signor Uso imposto al popolo dai giornalisti, dagli addetti ai lavori e in sintesi da una classe dirigente anglomane che sa solo ripetere e importare ciò che pesca dall’anglosfera.

La domanda da porci è allora semplice: poiché dei punti di riferimento per la coesione della lingua ci vogliono – o perlomeno ci vorrebbero – ha più senso che esista un ente riconosciuto da tutti e preposto a questa funzione o lasciare ogni decisione in balia dell’uso imposto da chi si trova nelle posizioni dirigenziali del potere e spesso nell’ignoranza dell’italiano? E se la politica investisse ufficialmente la Crusca di questo compito, le cose non potrebbero cambiare in meglio?

Il ruolo della Crusca

L’accademia della Crusca è seduta su una storia secolare in cui si poneva come prescrittiva, e nell’abbandonare questo presupposto ha posto le basi per il proprio suicidio. A cosa ci serve? Per studiare la lingua senza intervenire ci sono già le università, e ci sono anche altre istituzioni private di acclarata fama come la Treccani o la società Dante Alighieri che promuove la nostra lingua. La Crusca si inserisce tra queste senza essere né carne né pesce, perché la sua funzione non è quelle della accademie francesi e spagnole che fanno il loro lavoro di accademie normative. Soprattutto, l’intento dichiarato di rimanere sul piano descrittivo viene sbandierato nel caso degli anglicismi, nonostante Incipit vada in altra direzione, ma in altri ambiti i cruscanti e più in generale i linguisti non si fanno alcuno scrupolo a intervenire.

Un esempio tra i più bizzarri riguarda proprio la parola “anglicismo” comparsa per la prima volta nel Settecento nella rivista la Frusta letteraria di Baretti, che scherzosamente ipotizzava che si sarebbero presto visti anche gli anglicismi oltre ai dilaganti francesismi dell’epoca. In tempi recenti, Tullio De Mauro – credo per prendere in giro proprio i principali critici dell’anglicizzazione che per lungo tempo non considerava un problema – cominciò a far circolare la tesi che si dovesse invece dire “anglismo” e che “anglicismo” fosse a sua volta un’interferenza dell’inglese. Questa posizione non mi ha mai convinto, visto che il signor Uso tanto mitizzato ci aveva già consegnato una parola non solo stabilizzata, ma anche in linea con le analoghe voci dello spagnolo (anglicismo) e del francese (anglicisme). Eppure, anche se nel “Morbus Anglicus” Castellani si scagliava contro gli anglicismi, successivamente è accaduto che tutti insieme o quasi, gli accademici e i linguisti da un giorno all’altro si siano messi a parlare solo di anglismi, come se fosse un termine più preciso e tecnico. In realtà è semplicemente preferito, come un tratto socio-distintivo degli addetti ai lavori, mentre gli “anglicismi” sono diventati una sorta di voce popolare che ha una frequenza maggiore ma non viene mediamente impiegata dagli “esperti”. In questa innovazione nata contro il signor Uso, oltretutto, mentre i cruscanti parlano di “anglismi” continuano però a parlare di “anglicizzazione” invece che di “anglizzazione”, anche se per coerenza dovrebbero forse andare fino in fondo nel loro “revisionismo neologico” per incasinare ulteriormente le cose.

Un altro intervento di certi linguisti per cambiare l’uso, nato mi pare dalle posizioni soprattutto di Luca Serianni, è stato quello di mettere in discussione la “regola” di scrivere “sé stesso” con l’accento invece di “se stesso” che si era affermato nella scuola e nell’editoria del Novecento, una regola che – a torto o ragione – esisteva, ed era seguita da tutti gli editori come l’Einaudi (che continua a seguirla) e da tutti gli autori, come Calvino. Oggi la regola si è riscritta, e ancora una volta il cambiamento non arriva né dalle esigenze del popolo né dal basso, ma dalle riflessioni dall’alto di grammatici che quando vogliono non rinunciano affatto a voler essere prescrittivi. Questi esempi mostrano bene come si intervenga sul lessico anche nelle fasi consolidate più che incipienti, e mentre in nome del politicamente corretto – non a caso di matrice angloamericana – si è intervenuti sull’uso mettendo al bando parole come “negro”, mentre calcolatore è stato sostituito da computer, i negozi diventano store, il settore dell’alimentazione food… proprio la Crusca è intervenuta per regolamentare la femminilizzazione delle cariche nel modo più corretto, il che non è un male, è un bene, solo che lo si dovrebbe fare con le stesse modalità anche davanti all’inglese, invece di usare due pesi e due misure.

La polemica sul linguaggio anglicizzato della scuola

Chiarite queste premesse, torniamo ai nuovi comunicati di Incipit. Sull’insensatezza del passaggio dell’identità digitale dello spid a IT Wallet, invece che parlare di portafoglio digitale, mi sono già espresso. Quanto alla polemica con il linguaggio anglicizzato del piano scuola 4.0, non è la prima volta che Incipit interviene. Lo aveva fatto con il comunicato numero 6 del 2016 (“Termini aziendali nelle università”), e poi nel 2019 con la condanna della lingua del sillabo del Miur. Qualche giorno dopo partecipai a una trasmissione in radio sulla questione, insieme all’allora presidente Marazzini, all’accademico Sgroi e alla portavoce dell’allora ministra Fedeli. Davanti al minuetto in cui quest’ultima fingeva di prendere atto delle critiche, di non voler mettere in discussione l’italiano e di far credere che si trattasse di un episodio isolato, riuscii a farla stizzire, con le mie considerazioni, e dissi – ma lo ribadisco anche oggi – che l’itanglese delle scuole-aziende era una ben ponderata scelta che prepara volutamente al linguaggio del lavoro che è ormai l’itanglese.

Insomma, la battaglia della Crusca che rimane ferma ai singoli anglicismi è una battaglia persa, perché il problema non sta nelle singole parole – oggi il piano è strutturato in “step” chiamati Background, Framework o Roadmap – ma nella rinuncia all’italiano che sta a monte di ogni singolo caso. Il conflitto è qui, nello scontro tra due modelli linguistici che sono — come ogni volta che riaffiora la questione della lingua — l’epifenomeno di un cambio della classe dirigente che impone una nuova lingua (come Gramsci ci ha insegnato). E allora bisogna combattere questo porgetto di newlingua, l’itanglese, più che gli anglicismi, anche perché il numero di questi ultimi è tale che Incipit, per la seconda volta, ha rinunciato “a proporre sostituzioni di singoli termini, cosa impossibile in un comunicato come questo” e preferisce proporre di mettere “in circolazione una versione del Piano ‘tradotta’ per gli utenti comuni non specialisti, o, più semplicemente, si unisca al documento un glossario interpretativo autentico, in cui si fornisca una spiegazione univoca degli anglismi utilizzati, non solo per verificarne la necessità, l’uso appropriato e la coerenza, ma anche per renderne chiaro a tutti, operatori della scuola e cittadini, il reale contenuto del programma.”

Certe volte dal non detto emergono cose più interessanti che in ciò che viene esplicitato. E questa “rinuncia” mi pare che contenga elementi importanti proprio negli anfratti del silenzio. La parola “itanglese” non compare nemmeno una volta nel sito della Crusca, che nei suoi criteri rimasti alla distinzione dei prestiti di lusso e di necessità, sembra non accorgersi che l’interferenza dell’inglese esce dal concetto di “prestito” che si ostina a non abbandonare. L’itanglese, lo denuncio da anni, è invece una newlingua che nel suo scardinare le regole ortografiche e morfologiche dell’italiano storico ne spezza la continuità e la comprensibilità e si allarga nel nostro lessico con porzioni di inglese sempre più ampie, dai prestiti sintattici con inversione della collocazione (covid hospital, social media manager), agli pseudoanglicismi che mi pare riduttivo interpretare come “prestiti apparenti”, e si allarga attraverso la coniazione di parole ed espressioni ibride che non sono più né italiane né inglesi.

Invece di chiedersi: “Saranno davvero ‘prestiti di necessità’ tutti quelli introdotti nel Piano?” il gruppo Incipit dovrebbe prendere atto dell’inadeguatezza di questo approccio e affrontare le cose con un altro spirito. Già la domanda, seppur retorica, contiene la distruzione del criterio che pone. Se la distinzione tra prestito di necessità e di lusso possedesse un senso, una razionalità o un barlume di scientificità esisterebbero dei criteri non soggettivi per rispondersi da soli. O vogliamo entrare nelle diatribe sul sesso degli angeli per stabilre la presunta necessità di ogni anglicismo che nasce solo dalla volontà di abbandonare l’italiano?

E la rinuncia a “tradurre” un documento scritto in una newlingua fumosa a base inglese, che ricorda la neolingua di Orwell in cui si cancella il passato e si riscrive la storia, implica proprio che non abbiamo più a che fare con l’introduzione di qualche parola inglese, ma con una sorta di lingua creola che, come i volgari sorti ai tempi dello sfaldamento del latino, comincia a porre dei problemi di comprensibilità con la lingua madre. Al punto che è necessario tradurla o affiancarla dalla veterolingua per il popolino. Ma le nuove generazioni che si formano in questa newlingua non sono il popolino, sono la futura classe dirigente che parlerà la lingua che si insegna loro, la metterà in pratica e la trasmetterà.

Invece del gruppo Incipit, sarebbe ora di agire in modo sistematico e con ben altre prospettive. Qui serve un gruppo Explicit per la restituzione dei “prestiti”, per la disanglicizzazione dell’italiano e per la riappropriazione della nostra lingua schiacciata dall’inglese. Serve una rifondazione cruschista che restituisca questo ente allo spirito con cui è stato fondato, che gli dia lo stesso ruolo delle accademie francesi e spagnole, e che lo inserisca all’interno di una pianificazione linguistica che dovrebbe appartenere alla politica e coinvolgere la nostra intera società. Altrimenti l’italiano è spacciato.

6 pensieri su “La rinuncia dell’accademia della Crusca

  1. Articolo impeccabile che rappresenta in modo puntuale e sistematico un pensiero che da molti anni mi frulla dentro (senza osare confessarlo): ossia che L’ACCADEMIA DELLA CRUSCA NON SERVE A NULLA! Buona tuttalpiù a dare qualche consulenza e chiarimento sulla lingua italiana, ma certo non a rappresentarla e, quando serve, a difenderla e indirizzarla.
    Il dramma, secondo me, è che la lingua italiana in Italia non è sentita come valore identitario da difendere e corroborare e tale mancanza da un lato inibisce interventi legislativi a difesa della lingua che, ove fossero proposti, sarebbero subito tacciati per intenti fascistoidi e dall’altro fa sì che non esista nemmeno un blocco naturale al dilagare dell’anglicismo, come invece avviene in altri paesi europei (soprattutto nell’Est Europa) che pur non hanno Accademie attrezzate ed agguerrite come in Spagna, in Francia o in Islanda in modo naturale creano dei blocchi all’invasione anglo-americana (per esempio traducendo adattando ecc.).
    Leggi che difendono il patrimonio artistico o paesaggistico (dopo le nefandezze del dopoguerra dagli anni ’50 fino ad almeno gli anni ’80) nel sentire comune e nella coscienza popolare sono percepite come più che mai necessarie. Nessuno oggi mette più in discussione l’opportunità di esaminare gli aspetti artistici e paesaggistici su qualunque opera si intende realizzare, ponendo conseguentemente dei vincoli o dei veti.
    Invece la necessità di Leggi che proteggano il patrimonio linguistico non è affatto sentita e Leggi di difesa linguistica non sarebbero affatto bene accette: sarebbero, anzi, immediatamente ricondotte a misure impositive tipiche dei regimi dittatoriali, come il fascismo nel caso italiano.
    In sostanza, in Italia manca proprio l’idea di patrimonio linguistico che tuttalpiù maturerà quando ormai sarà tardivo e con una situazione probabilmente irrecuperabile, come già si è visto in altre parti del mondo (col Gaelico in Irlanda, col Brettone in Bretagna, col Cornico in Cornovaglia) o, guardando a casa nostra con certe isole linguistiche, col grico in Salento e il grecanico in Calabria.
    A quel punto si faranno magari tentativi di recupero estremo che, quasi sempre hanno un qualcosa di folcloristico ma che mai resuscitano il morto dandogli nuova vitalità e nuova dignità.

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    • La rinuncia DELLA Crusca è un titolo che, giocando sulla rinuncia ALLA Crusca di Verri, vuole sottolineare che il gruppo Incipit, nel rinunciare a tradurre l’itanglese ne sta finalmente ammettendo l’esistenza, e anche il criterio dei prestiti di lusso e necessità che sostiene mi pare in una crisi senza soluzione.
      Detto questo la Crusca ha un valore simbolico, come istituzione, e anche uno pratico nel suo operato di studi, di promozione, di consulenza e via dicendo… il punto è che se rinuncia a essere un ente normativo – il che avviene per motivi interni all’accademia ma anche esterni, visto che la politica e la società civile non la “calcolano” – rimane un’istituzione privata la cui autorevolezza non è diversa da quella di università, Treccani, la Dante… credo che invece avremmo bisogno di un’autorità che funzioni da punto di riferimento, che poi questo sia la Crusca, un consiglio superiore della lingua italiana (che la Crusca non ammette) o qualunque altra soluzione più condivisibile è un’altra faccenda. Certo è che qualunque forma di punto riferimento ufficiale, se non è incluso in un processo sociale e culturale più ampio, è destinato a rimanere inascoltato. Nel suo operare un po’ a sprazzi il gruppo Incipit è isolato, non ascoltato, poco conosciuto e questo è in parte dovuto alla rinuncia della Crusca al suo storico normativismo, e in parte al fatto che la politica e la società civile non ne riconoscono il ruolo guida: la controversia sulla lingua del Miur va avanti da anni, e nessuno nelle scuole-azienda si sogna di recepire le critiche, anzi… il ricorso all’itanglese è un ben preciso modello linguistico di rottura proprio con il vecchio italiano, che si persegue in nome della modernità, anche se è una “modernità” coloniale. Non dimentichiamo che la Crusca, nella storia, è stata soppressa più volte dalla politica e più volte la politica l’ha riaperta e anche investita ufficialmente della sua funzione di custode del vocabolario: così ha fatto Napoleone nell’Ottocento, e nella direzione opposta è andato il fascismo che l’ha invece esautorata. In sintesi la Crusca è un organo la cui funzione dipende proprio da queste cose.

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  2. In certi ambienti è dura eliminare gli anglicismi, quindi sostituire l’itanglese con l’italiano. Proprio alcuni giorni fa un tipo su LinkedIn, rispondendo a un mio commento, scrisse che l’azienda avrebbe potuto fare un “survey” (suppongo un sondaggio) e che in quella “industry” (suppongo in quel settore industriale) non era nuovo il comportamento.

    Ormai molti non sanno più esprimersi nella loro lingua madre, se non facendo ricorso all’inglese. Questo non significa soltanto che l’italiano sta perdendo parole, ma che gli italiani le stanno dimenticando o, peggio, ne ignorano proprio l’esistenza.

    Il bello dell’Accademia della Crusca è che nel sito non si parla di “homepage”, ma di pagina di entrata.

    Nel sito nella sezione “Lingua Italiana > Parole nuove > Che cosa intendiamo per neologismo?” è scritto “Fra le parole scelte non deve stupire, né in negativo né in positivo, la presenza di prestiti non adattati dall’inglese: la trattazione degli anglismi, infatti, non ha il valore di un battesimo o di una certificazione. In attesa di un’eventuale stabilizzazione di queste parole nella forma in cui le presentiamo o in quella di possibili traducenti (a cui spesso accennano gli stessi autori), gli articoli e le schede del sito hanno lo scopo di lanciare una ciambella di salvataggio a chi voglia conoscere, in modo chiaro e con una trattazione scientifica, il significato di parole ormai largamente circolanti, la loro origine, la loro forza e tutto ciò che su di esse c’è da sapere.”

    Purtroppo la stabilizzazione di queste parole non è più “eventuale”.

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    • Sono d’accordo che in certi ambienti non è possibile evitare gli anglicismi, ma non perché siano “necessari” da un punto di vista linguistico, bensì perché la lingua modello basata sull’inglese spacciato per moderno o internazionale è un fenomeno sociale. L’atteggiamento non interventista dei cruscanti, che fa suo il non interventismo di Ascoli del Proemio contro la soluzione manzoniana e della commissione Broglio che voleva orientare la lingua dopo l’unificazione, si basa sulla “selezione naturale”. Ma questa segue la legge del più forte, cioè l’inglese, e hai voglia a gettar ciambelle… da questo punto di vista l’accademia non ha mai realizzato un dizionario delle alternative con intenti organici, cosa che fanno in Francia e Spagna ma che in Italia ho provato fare in qualche modo io. In ogni caso un conto è avere le ciambelle di salvataggio e le alternative, un conto è fare in modo che la gente le usi o le preferisca, invece che lasciarle nel cimitero delle parole. E questo è un processo extralinguistico. Il punto è che nel caso degli anglicismi bisognerebbe operare, socialmente, per equipararli alle parole ostili, e il recupero dell’italiano passa per gli stessi meccanismi con cui la lingua si orienta in altre direzioni: femminilizzazione delle cariche, parole scorrette, razziste, sessiste… non sono figlie di un vocabolario calato dall’alto, sono il frutto di pressioni politico-sociali molto forti. Purtroppo queste forme di orientamento che cambiano la lingua in certi contesti sono proprio le stesse che impongono l’inglese in altri.

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  3. Un esempio di regressione ha interessato la parola “recovery” che i “giornalisti” usavano in modo indistinto per il piano e per il fondo di ripresa. A un certo punto, per magia (o per qualche direttiva dall’alto o per puro conformismo) hanno cominciato a dire PNRR (acronimo non meno fumoso, se non lo spieghi).
    Quanto allo spid, è anche l’ennesima presa in giro degli italiani che prima hanno dovuto spendere tempo e denaro per ottenerlo (me compreso, anche se sto all’estero) e adesso i politici vogliono buttare, tanto per sprecare altri soldi. Per inciso, nel Regno Unito (dove la carta d’identità non esiste, quindi non c’è il “fornitore di identità” che in Italia è la Repubblica) accedi direttamente al portale del Governo per pagare le tasse, il bollo auto ecc. Ma questo è un altro discorso…. Parole sì, etica no.

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    • La regressione dell’inglese avviene perlopiù non per gli anglicismi registrati nei dizionari, che sono abbastanza stabili, ma per le espressioni (di ordini grandezza superiori) che nascono dal riversamento dell’inglese. Molti angicismi di questa continua panspermia sono meteore passeggere, ma tra queste ci sono poi le parole che attecchiscono e alla fine sono bolate come necessarie. Recovery è parola legata a un momento storico forse effimero, e Pnrr è più maneggevole, ma non mi stupirei che recovery si imponga presto in altri ambiti con altri accostamenti.

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