Nella seconda parte di questo articolo ho provato a mostrare che nella lingua italiana non esiste alcuna corrispondenza tra il genere grammaticale di una parola e il sesso a cui si riferisce (è solo una tendenza). L’attacco contro il maschile generico, e le nuove prescrizioni per intervenire sull’uso storico della lingua dei parlanti, si basano su assiomi ideologizzati che esulano dalla grammatica e si possono ragionevolmente mettere in discussione. Sostenere che il maschile generico sia “discriminatorio” è un’interpretazione forzata che non tutti condividono, comprese moltissime donne: androcentrismo e discriminazione sono concetti diversi e non necessariamente sovrapponibili.
Da qualche anno la questione del “sessismo della lingua” e della femminilizzazione delle cariche si sta fondendo con l’ideologia del “linguaggio inclusivo” che arriva dagli Stati Uniti e si sta espandendo anche nei Paesi di lingua romanza in un dibattito molto acceso che non riguarda più solo le donne, ma coinvolge la messa in discussione del genere binario (maschio/femmina).
Traduzione ed emulazione: la globalizzazione delle ideologie
Il pensiero interventista dell’inclusività coinvolge movimenti, riviste e istituzioni di ogni tipo che creano direttive, linee guida e prescrizioni. Per esempio l’Associazione Americana di Psicologia (American Psychological Association, ma americana significa statunitense, visto che l’America è un continente molto più ampio e variegato) ha stilato delle linee guida per il linguaggio inclusivo valide anche nei confronti di chi non si identifica con un solo genere specifico e per identificarsi utilizza il pronome “they”. Operazioni di questo tipo si trovano in molte altre guide di università che hanno preso analoghe posizioni, e le stesse norme si ritrovano rilanciate attraverso riviste, siti e articoli di giornale. Lo scopo è quello di convincere tutti a cambiare il modo di parlare e di arrivare alla revisione del linguaggio delle istituzioni e della stampa, anche attraverso la politica.
Questo meccanismo di propaganda è abbastanza collaudato. Negli anni Ottanta, per esempio, un ampio gruppo di fondamentalisti statunitensi che puntavano all’abolizione del darwinismo nelle scuole ha fabbricato il cosiddetto “creazionismo scientifico” – che di scientifico non aveva proprio nulla – per poi esercitare pressioni politiche attraverso movimenti di cittadini chiedendo che venisse insegnato nelle scuole al posto o accanto alla teoria dell’evoluzione. L’iniziativa si è estesa con un certo successo raggiungendo temporaneamente l’obiettivo in qualche Stato tra i più conservatori, e l’eco di tutto ciò è arrivata poi in Italia, quando la ministra dell’istruzione Letizia Moratti ha cercato di importarlo anche da noi, per fortuna senza successo. Nel caso del linguaggio inclusivo i promotori sono invece “progressisti” e il terreno dello scontro non è la messa in discussione della scienza, ma della lingua. Il meccanismo di espansione in ambito internazionale è però molto simile. Uno dei centri di propagazione più importanti è quello dei movimenti internazionali per i diritti di omosessuali e persone transgenere. Da questi ambienti abbiamo da tempo importato in Italia, insieme alle idee, anche la terminologia in inglese: gli omosessuali sono ormai diventati gay, il nuovo anglo-eufemismo non discriminatorio che si porta con sé il gay pride e un’esplosione di termini in cui le minoranze a rischio discriminazione non sono capaci – o non vogliono – esprimersi in italiano: ripetono transgender, queer… in una diramazione di anglicismi sempre più ampia che comprende anche moltissimi acronimi inglesi (LGBT = Lesbian, Gay, Bisexual and Transgender, FtM = Female to Male e MtF = Male to Female…).
Il cavallo di Troia che porta tutto ciò dai Paesi anglofoni agli altri è nelle traduzioni, esattamente come è accaduto negli anni Novanta con la parola “negro” che da un giorno all’altro è stata sostituita con “nero” e si è diffusa la convinzione, storicamente falsa, che dire negro fosse da razzisti.
Poiché l’inglese è considerato la lingua sovranazionale – e la lingua è lo strumento da controllare per poter diffondere le idee – questi movimenti non trascurano di certo il problema delle traduzioni dell’inclusività nelle altre lingue, come si può leggere in un articolo che affronta la questione dello spagnolo e in altri apparsi su The Linguist (la rivista di un’associazione di linguisti del Regno Unito) che parlano proprio della traduzione “gender-neutral” in italiano.
L’interferenza con lo spagnolo è nata dal fatto che è una lingua parlata da molti abitanti degli Usa, che si sono perciò scontrati con il problema dall’interno. L’interferenza con l’italiano, invece, non ha altre motivazioni se non il fatto che siamo diventati intellettualmente sterili, e la nostra cultura si riduce all’importazione acritica di tutto ciò che nasce oltreoceano, per complesso d’inferiorità e desiderio di “voler fare gli americani”.
L’esaltazione del neutro, del genere non binario e dello scevà
Attraverso questi meccanismi, le prescrizioni del linguaggio inclusivo si stanno diffondendo anche in Italia attraverso libri, corsi aziendali o siti che spuntano come funghi. Per esempio questa → guida pratica sostiene con grande disinvoltura che nell’italiano scritto sarebbe “pratica diffusa” (ma quando mai?) sostituire le desinenze finali dei plurali con l’asterisco (grazie a tutt*); ma poiché nel parlato si rivela impronunciabile, si sarebbe diffusa – sempre a loro dire – anche la “u” finale: “Grazie a tuttu, spero vi siate divertitu”. Ma anche questa soluzione ha i suoi limiti: sembra dialetto, ed è troppo simile al maschile, si legge. E allora ecco – finalmente – la nascita di una grande proposta inclusiva che arriva dal sito Italianoinclusivo: l’introduzione dello schwa per il singolare (ǝ) e lo schwa lungo per il plurale (з). Lo schwa (parola tedesca di origine ebraica) in italiano sarebbe scevà, ma cosa può importare dell’italiano a chi lo vuole riformare a questo modo? E si pronuncia, guarda caso, come “la vocale più frequentemente usata nella lingua inglese”. Come se di inglese non ne avessimo ormai abbastanza.
Dietro questo interventismo linguistico che si sta propagando c’è una visione che esalta il corpo neutro voluta da chi, in nome del progressismo, “non considera la natura e prepara in realtà la strada alla costruzione del cyborg postumano”, per citare il filosofo Michel Onfray. Questa prospettiva si basa su una
“irragionevole negazione dell’anatomia, della fisiologia, della genetica e dell’endocrinologia consustanziale all’ideologia post-strutturalista e decostruzionalista. Il corpo non è più un dispositivo naturale e si è trasformato in un archivio culturale.
L’opzione culturalista (…) postula nondimeno che noi non nasciamo né di sesso maschile né di sesso femminile, ma neutri e che diventiamo ragazzi o ragazze solo per questioni di cultura, di civiltà, di società e d’indottrinamento, attraverso stereotipi che andrebbero decostruiti sin dalla scuola.”[Teoria della dittatura, Ponte alle Grazie, 2020, p. 206]
Onfray evidenzia come questa ideologia che ci vuole “decostruire” le menti nasca da un’interpretazione semplificata del Secondo sesso di Simone de Beauvoir che sostiene che “donna non si nasce, lo si diventa”. In questo suo argomentare che “la fisiologia non rappresenta affatto un destino” la filosofa non nega affatto l’anatomia, a dire il vero, e infatti ci si sono parecchie pagine dedicate alle mestruazioni e ai loro effetti sulla vita delle donne. Comunque sia, personalmente sono poco interessato a entrare nella diatriba, trovo invece inaccettabile che il terreno dello scontro sia la lingua, e che sia in atto un tentativo di riformarla a questo modo. È il pensiero unico spacciato come universale che Onfray denuncia nella sua Teoria della dittatura. E il controllo della lingua – come nel Grande fratello di Orwell – è lo strumento primario.
In Italia il dibattito sulle desinenze discriminatorie non è ancora esploso, si sta solo affacciando, ma è possibile che nei prossimi tempi emergerà con veemenza come sta accadendo nei Paesi di lingua spagnola e anche francese.
Il linguaggio inclusivo alla conquista dei Paesi ispanici
In un articolo sul Washington Post (“Teens in Argentina Leading the Charge to Eliminate Gender in Language”, Samantha Schmidt, 12/05/19) si esaltano gli adolescenti argentini che stanno riscrivendo le regole dello spagnolo in modo da utilizzare il neutro e la cultura del genere, sostituendo le desinenze “a” e “o” simbolo di maschile e femminile con la “e” che suona come neutra in un dibattito globale (ma per chiamare le cose con il loro nome: globale = esportazione dei modelli statunitensi in tutto il mondo) che vede le istanze di matrice femminista saldarsi con quelle dei sostenitori delle identità non binarie. Nell’articolo si citano almeno cinque università argentine che hanno dichiarato di accettare questo “spagnolo inclusivo” nei compiti a scuola, mentre una pronuncia di un tribunale ha consentito di usare questo neutro anche ai giudici. Per un resoconto sulla questione che in Argentina sta suscitando dibattiti dai toni molto accesi, e spesso fanatico-religiosi, rimando a un articolo di Isa che vive lì e che ne riassume bene i contorni (e la ringrazio per gli scambi di idee e di materiale).
“Qui in Argentina – mi scrive Isa – nel giro di pochi anni vari movimenti sono riusciti a sdoganare formule per i plurali in ‘e’ ‘x’ e ‘@‘ per rendere neutri i sostantivi… al punto che sono usati anche degli istituti di istruzione superiore e l’associazione di traduttori locali ha persino fatto un seminario sulla traduzione inclusiva (!) con tanto di esercitazione pratica.
Su Facebook molti scrivono così e il partito peronista che ha vinto le ultime elezioni si è presentato con il nome di Frente para todes” (variazione del plurale corretto todos).
Il dibattito è così acceso che chi non aderisce a questa visione è additato di essere discriminatorio e condannato come fosse un razzista. Non si accettano visioni alternative, il fanatismo con cui il linguaggio inclusivo viene imposto non ammette opposizioni. Chi non è d’accordo con il nuovo totem commette sacrilegio: il tabù. Il linguaggio inclusivo include e ingloba nella propria visione unica e totalitaria – ma così facendo divide – e riduce il pensiero critico a pensiero che discrimina.
L’origine del plurale latinx (con la “x” inclusiva) nella lingua spagnola arriva dalle comunità “queer” della Rete – stando a un articolo su The Establishment – ed è così diventato un identificatore ampiamente utilizzato sia su piattaforme sociali come Tumblr sia nel lavoro accademico. Molti studiosi e attivisti, infatti, lodano la capacità dell’iniziativa di “includere meglio”. E addirittura sono stati riscritti libri come Il piccolo principe in uno spagnolo di genere neutro, con una mentalità da revisionisti-epuratori davvero aberrante, che in Italia non abbiamo visto nemmeno durante il fascismo (ma forse presto potremo anche noi avere edizioni dei Promessi Sposi inclusivi, chissà… io li sto già riscrivendo in itanglese, nel frattempo). Eppure gli intellettuali di sinistra non si scagliano contro queste iniziative, salutate invece come etiche. Di “etico” e giusto, però, c’è ben poco. L’ideologia inclusiva se ne frega di proposte veramente etiche, come per esempio l’esperanto, che sarebbe una lingua internazionale davvero neutrale, visto che è artificiale e concepita per essere appresa in pochi mesi risolvendo il problema della comunicazione tra i popoli, e ponendo fine all’imposizione globale della lingua naturale di popoli dominanti che non si sognano di imparare altre lingue e culture per comunicare, preferiscono imporre la loro lingua madre a tutto il globo. E i predicatori del linguaggio inclusivo, in Italia, non dicono una parola sulla discriminazione dell’italiano a favore degli anglicismi, che usano e preferiscono. Persino gli antiglobalisti più estremi da centro sociale si definiscono no global, parlando di fatto la lingua delle multinazionali che dicono di osteggiare e combattere. Sembrano ignorare che l’espansione della globalizzazione, nel suo estendere i modelli di mercato, coinvolge anche la lingua, e la dittatura dell’inglese si chiama appunto globalese. E ignorano il genocidio delle lingue in tutto il mondo, specialmente in Africa, proprio a opera dell’inglese. Un linguicidio denunciato da studiosi come Claude Hagège (Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, 2002; Contre la pensée unique, Paris, Éditions Odile Jacob, 2012), Robert Phillipson (Imperialismo linguistico inglese continua. Esperanto Radikala Asocio Editrice) o scrittori africani come Ngugi wa Thiong’o (Decolonizzare la mente, Jaka Book 2015).
Insomma, non è l’etica o la razionalità ciò che muove la propaganda delle nuove crociate culturali basate sulla diffusione del pensiero unico inclusivo. È l’ideologia. Una ben precisa ideologia di matrice statunitense. Questa dottrina che vuole riscrivere la lingua non nasce dai linguisti, ma sgorga da altri ambienti politicizzati.
E le istituzioni linguistiche che posizioni hanno?
Le accademie spagnole, quelle francese e la Crusca
Per fortuna c’è anche chi si oppone duramente al revisionismo linguistico del linguaggio inclusivo fatto a tavolino. L’Accademia francese ha assunto delle posizioni irremovibili, in proposito, estromettendo la possibilità di inserire questi cambiamenti nel linguaggio istituzionale. Davanti alle regole di una “scrittura inclusiva” che si vuole imporre come norma ha lanciato un allarme all’unanimità mettendo tutti in guardia e rinominando questo revisionismo della lingua storica come “aberrazione inclusiva” con una dichiarazione ufficiale sul loro sito e altre varie prese di posizione.
Anche per molti linguisti spagnoli la forma neutra dal punto di vista del genere è una “aberrazione”. La Reale Accademia Spagnola ha dichiarato che questi cambiamenti grammaticali sono “inutili e artificiali”, ha preso posizione contro il “todes” inclusivo (al posto di todos che include anche todas), e si è pronunciata contro la “Guida all’uso non sessista del linguaggio” che aveva stilato e diffuso l’Università di Murcia.
La ministra spagnola Carmen Calvo nel 2018 aveva chiesto di riscrivere la Costituzione sostituendo i nomi maschili generici con forme più inclusive, il che avrebbe comportato il raddoppio di almeno 500 parole, come riferisce The Guardian (“La battaglia linguistica di genere neutro che ha diviso la Spagna”), ma sembra che l’economia linguistica – che detta legge quando si giustificano gli anglicismi preferibili alle formule italiane mediamente più lunghe – sia trascurabile, in questo caso.
Un membro della Reale Accademia Spagnola (“membra” suona male), Josefina Martínez, ha definito questa proposta uno “sproposito” e le sue dichiarazioni sono state ben riassunte da Gabriele Valle:
“In spagnolo, il maschile è inclusivo, il femminile no. E, forse provocatoriamente, [Martínez] lanciò una sfida: qualcuno pretende seriamente che il codice della strada si rivolga a guidatori e guidatrici, che l’ospedale si riferisca a malati e malate, che il fedele, recitando l’Ave Maria, dica «prega per noialtri e per noialtre, peccatori e peccatrici»?”
[“La lingua non porta pena: sul sessismo, tra Italia e Spagna”].
La Crusca ha invece un atteggiamento molto diverso.
Non ho trovato prese di posizione da parte dell’Accademia nei confronti delle proposte dello scevà o delle desinenze neutre, anche perché in italiano per il momento queste riforme ortografiche non hanno preso troppo piede, e chi usa questo linguaggio in Rete lo fa come i bimbominkia che usano la crittografia (xké, c6?) più che per riformare la lingua. Però queste soluzioni stanno cominciando a circolare e a essere proposte, e visto che si tratta di una tendenza internazionale che ha toccato concretamente altre lingue romanze forse sarebbe bene prendere posizione e stroncarle sul nascere, nel pieno spirito della filosofia del gruppo Incipit che dovrebbe arginare gli anglicismi nella loro fase incipiente, prima che si radichino.
In generale, però, la Crusca ha mostrato di accogliere di buon grado il linguaggio inclusivo. Da anni ha preso posizione e prodotto pubblicazioni sulla femminilizzazione delle cariche, stilando guide per un linguaggio non sessista nelle amministrazioni. La già citata pubblicazione di Cecilia Robustelli, avvalorata dalla Crusca, predica l’oscuramento del genere e la ripetizione di maschile e femminile, consiglia le formule come tutti/e i/le consiglieri/ e soprattutto – posizione per me inaccettabile, come non la accettano le accademie di Francia e Spagna – sostiene che esista un’equivalenza del genere grammaticale delle parole con il sesso delle persone, un’interpretazione ideologizzata, più che grammaticale.
Dunque, mi pare proprio che la Crusca per questi temi abbia rinunciato a essere un’istituzione descrittiva, che osserva l’evoluzione della lingua senza intervenire. È scesa in campo concretamente e ci ha messo la faccia (per usare qualche stereotipo di stampo giornalistico). Nel caso degli anglicismi, al contrario, è molto più timida. Nel 2015 ha dato vita al gruppo Incipit che avrebbe dovuto monitorare il fenomeno e arginare le parole inglesi e pseudo-inglesi con sostitutivi italiani, ma in cinque anni si è limitata a diramare 13 comunicati che contemplano meno di 30 parole. Senza alcuna pretesa di avvicinarmi alla competenza dell’Accademia, nel mio piccolo e da solo, nel settembre del 2018 ho pubblicato il dizionario AAA (Alternative Agli Anglicismi) che contemplava le alternative e i sinonimi di ben 3.500 parole inglesi in circolazione sulla stampa, ma oggi le voci sono oltre 3.700: 200 in più in 2 anni (grazie alle segnalazioni della comunità che è nata intorno al progetto). E allora l’Accademia avrebbe forse potuto fare qualcosa di più. È vero che alcuni accademici – dal presidente Marazzini al professor Sabatini – sono intervenuti più volte pubblicamente contro l’abuso dell’inglese, ma la Crusca come istituzione non ha mai stilato guide pratiche per evitare gli anglicismi nel linguaggio istituzionale come ha fatto nel caso del sessismo (e come chiede la petizione a Mattarella litalianoviva che invito tutti a diffondere).
La mia impressione è che, a parte qualche condanna generica e ramanzina al vento, non voglia intervenire sulla questione dell’inglese in modo sistematico. Tra l’intervento sul sessismo e sull’anglicizzazione, prevale nettamente il primo aspetto.
Tra le pochissime prese di posizione di Incipit c’è l’invito a sostituire stepchild adoption con “adozione del figlio del partner”, cioè la sostituzione di un anglicismo con un altro (una formula mista e lunga), giustificata dal fatto che “partner” è ormai di uso comune, come si legge nel comunicato n. 5, del 15 febbraio 2016. In realtà si sarebbe potuto dire “coniuge”, ma non va bene perché implica un matrimonio, mentre esistono anche le coppie di fatto. Ci sarebbe “convivente”, ma se poi i genitori fossero separati? Adesso è di moda dire “congiunto”, grazie a Giuseppe Conte, ma si sarebbe potuto anche proporre “compagno”… E allora perché la scelta di partner?
A mio avviso la risposta è semplice: è una parola inclusiva, e va bene sia per gli uomini sia per le donne. In questo caso sembra proprio che la questione del linguaggio inclusivo abbia avuto la meglio su quella degli anglicismi!
A dire il vero il professor Francesco Sabatini ha proposto un neologismo di formazione rigorosa, bellissimo, chiarissimo, conciso e inequivocabile: adozione del “configlio”. Tuttavia, nel comunicato n. 8 del 20 gennaio 2017 che riassume tutto l’operato del gruppo Incipit (una ventina di anglicismi) “configlio” è sparito. Non sarà che accanto all’orrore per la creazione dei neologismi a tavolino che evoca il purismo e il neopurismo ci sia anche il fatto che poi si discriminano le configlie?
E che dire delle consulenze linguistiche sul sito dell’Accademia che giustificano selfie che sarebbe differente da autoscatto o dichiarano brainstorming intraducibile e know how di difficile sostituzione mentre le stesse parole sono invece tradotte e condannate dalle accademie di Francia e Spagna?
Sul sito Italianoinclusivo si legge:
“Le lingue evolvono. Le prime volte che si è sentita la parola “sindaca” probabilmente ci si è accapponata la pelle. La seconda, un po’ meno. Ora, è già percepito come accettabile, se non del tutto normale, e ciò nonostante secoli di uso solo al maschile. Stessa cosa per le altre lingue: ancora oggi, in inglese, c’è chi si oppone strenuamente al singular they. Ma più passa il tempo, più si sta facendo parte integrante dell’uso comune e percepito come sempre più normale.
Il modo migliore, quindi, per superare questa sensazione è usarlo costantemente.”
Ecco, credo che sostituendo in questo passo le parole sindaca e singular they con autoscatto al posto di selfie le cose siano più chiare.
Questi siti, come quelli istituzionali e la Crusca stessa usano due pesi e due misure: consigliano, prescrivono ed educano nel caso del linguaggio inclusivo, mentre nel caso di anglicismi come selfie sostengono che le sfumature dell’inglese sarebbero diverse e li giustificano. Ma non è vero, il significato è identico (come sostiene anche il Devoto Oli), e affermare che autoscatto non è come selfie è un atteggiamento che ho chiamato anglopurista: si parte dall’uso della parola inglese (trascurando il significato identico a quello italiano) per affermare che esprime qualcosa di nuovo, e invece di fare evolvere la parola italiana equivalente e rilanciarla invitando a usarla, la si relega al vecchiume – la si cristallizza nel suo significato storico come ai tempi del purismo – facendola così morire. Insomma, pur di non rivedere i significati “puri” storici dell’italiano si preferisce passare all’inglese per indicare tutto ciò che è nuovo.
In conclusione, tra l’introduzione del linguaggio inclusivo, e la giustificazione degli anglicismi, i risultati convergono in una sola direzione: l’americanizzazione della nostra cultura e della nostra lingua.
“E l’Italia è questa qua…” (Elio e le storie tese).