Totem e tabù linguistici: dal “politicamente” inglese al linguaggio inclusivo [1]

Il concetto del linguaggio “politicamente corretto” nasce negli ambienti della sinistra statunitense degli anni Trenta per poi affermarsi negli anni Ottanta e diventare di massa. Questa impostazione è divenuta la linea guida dei più prestigiosi atenei universitari che hanno persino stilato dei regolamenti (gli speech codes) che si sono imposti come modello con le sue rigidità. Curiosamente, ci sono schiere di intellettuali italiani, inclusi i linguisti, pronti a tuonare contro chi si oppone agli anglicismi, perché questo approccio viene accostato agli elenchi dei forestierismi banditi dalla Reale Accademia durante il fascismo, e contrapposto alla libertà di espressione (“la libertà di essere schiavi”, direbbe qualcuno). Eppure, molti di questi intellettuali sono gli stessi che hanno aderito con entusiasmo al politically correct che negli anni Novanta è stato così “trapiantato” anche in Italia, un Paese che, giorno dopo giorno, assomiglia sempre più a una colonia culturale, e linguistica, la cui classe dirigente è formata da collaborazionisti felici di scimmiottare tutto ciò che arriva d’oltreoceano, a cui si sottomettono a costo di rinnegare e riscrivere la nostra storia e le nostre radici.

L’intento di usare un linguaggio non discriminante verso le minoranze può essere anche nobile, ma i risultati che ha prodotto sono molto discutibili, e il politicamente corretto è di fatto un approccio molto controverso. Tra le critiche più fondate c’è quella di confondere i nomi e la forma (cioè la lingua) con la sostanza e i veri problemi. Le parole sono importanti, certo, ma siamo sicuri che per non essere razzisti sia così importante non proferire la parola “negro” o mettere in discussione l’esistenza delle “razze”?

Il politicamente corretto e le nuove definizioni che partono dagli stessi presupposti rischiano di ridursi a un sostanziale “stile eufemistico” un po’ ipocrita. E tra le altre accuse che sono state avanzate ci sono quelle di indurre al conformismo linguistico e di costituire una limitazione della libertà di espressione molto spesso condotta con un furore “religioso” che ricorda quello della “caccia alle streghe”.

Comunque la pensiate, vorrei riflettere su un altro aspetto della questione che mi pare sia stato assai trascurato.

Questo approccio, più che essere universale, è quello degli Stati Uniti, e non è affatto neutrale.

 

Politicamente corretto o politicamente “americano”?

La sensibilità egualitaria del “politicamente corretto” verso le minoranze non è così neutra e universale come ce l’hanno venduta: risente del punto di vista degli Stati Uniti. Il suo trapianto in Europa fa parte del progetto di esportazione – piuttosto colonizzatore – della propria cultura che si basa sull’assunto che “i valori americani sono universali”, per citare Condoleezza Rice quando era consigliera del governo Bush per gli affari esteri.

Eppure, proprio definire gli statunitensi come americani non è affatto politicamente corretto. L’America è un continente (o due, a seconda dei criteri di classificazione che cambiano da continente a continente), ma pare che a nessuno importi del fastidio che prova un messicano o un peruviano quando si identifica l’America con gli Stati Uniti. “Il condomino che si dichiara il padrone del continente” (per citare Gabriele Valle), come se tutti gli altri Paesi dell’America non esistessero. Come ci sentiremmo se l’Europa venisse fatta coincidere per esempio con la Germania, ed europei diventasse sinonimo di tedeschi, visto che è la nazione in questo momento più importante?
Ciononostante, gli statunitensi si definiscono americani, e noi, nel nostro servilismo, li seguiamo. Il sogno “americano” è quello degli Stati Uniti. Tutto il resto non lo vediamo (e “la faccia triste dell’America” è solo un incubo).

Anche un’espressione come “scoperta dell’America” è frutto di una visione eurocentrica e colonialistica, visto che quelle terre esistevano ben prima della nostra scoperta. Ma ancora una volta pare che nessuno si occupi più di questi dettagli linguistici. La nuova moda è invece quella di contestare il “Columbus Day” e di abbattere le statue di Colombo con un furore iconoclasta piuttosto talebano che ha che fare con il fondamentalismo e il revisionismo storico. Non fu Colombo – che come è noto ignorava di aver “scoperto l’America” e aveva sbagliato strada e continente – a compiere il più grande genocidio della storia.

Accanto al revisionismo storico e alla sensibilità per non discriminare solo ciò che fa comodo, c’è poi il revisionismo linguistico che è stato esportato e ormai trapiantato in Italia in modo profondo. Come è accaduto, per esempio, che una parola come “negro” sia diventata un tabù?

A partire dagli anni Ottanta, negli Stati Uniti, dove il razzismo era ed è tangibile, parole come black, nigger o negro, considerate dispregiative, furono sostituite da afroamericano.

In Italia negro non aveva affatto questa connotazione, di africani e stranieri se ne vedevano ancora pochini a dire il vero, e il problema del razzismo nostrano era ancora legato ai pregiudizi contro i “terroni”. Negro era una parola neutra, usata da secoli nei testi scientifici, presente normalmente nel linguaggio comune e nel doppiaggio cinematografico. Negli anni Sessanta Lola Falana era l’amatissima “Venere negra”, era “negro” il “tremendo” (con tutte le ragazze) Rocky Roberts, e Edoardo Vianello cantava i “Watussi altissimi negri” in modo gioioso.

Dagli anni Novanta in poi i traduttori cominciarono ad applicare i criteri statunitensi anche alla nostra lingua, e nel giro di un decennio l’uso secolare dell’italiano è stato modificato dall’alto: i mezzi di informazione colonizzati, da un giorno all’altro, ci hanno inculcato l’idea che dire in un certo modo significava essere razzisti. Non era affatto vero, ma il nuovo clima culturale nato a tavolino si è imposto, aiutato dall’indice puntato contro chi non si adeguava, tacciato di razzismo. Un intervento moralizzatore sull’uso storico della nostra lingua, non giustificato, perpetuato proprio dagli stessi che si appellano alla sacralità dell’uso che non andrebbe normato in nome di un descrittivismo linguistico che è piuttosto altalenante.

In questo modo si sono affermate alternative ipocrite come “di colore” (ma di quale colore si parla? il nero!), oggi in disuso in favore di neri e afroamericani. Intanto, poco importa che si chiamino negri o neri, l’omicidio di George Floyd a Minneapolis da parte di alcuni poliziotti, e i numerosi altri casi di analoghi soffocamenti che stanno emergendo, hanno portato alle rivolte che occupano le prime pagine di tutti i giornali. E allora che cosa è più importante? Cambiare il nome alle cose o cambiare la sostanza? Meglio parlare di negri, con rispetto, o definirli neri discriminandoli?

Naturalmente, se una comunità si sente discriminata da un uso linguistico spregiativo è più che doveroso tenerne conto e usare un linguaggio non offensivo. Il punto è che il politicamente corretto spesso non è invocato da chi si sente discriminato, ma da altri che predicano la correttezza dall’alto come una religione. L’unione ciechi, e i ciechi con cui mi è capitato di parlare, se ne fregano bellamente di essere chiamati “non vedenti”. Moltissime donne non approvano le ideologie di chi vorrebbe “educare” dall’alto e propone un’idea dell’essere femminista che appartiene solo a una parte del mondo femminile. Provate a parlare con un’avvocato o un’architetto (dove un apostrofato sta per una) per sentire come preferiscono essere definite. La maggior parte di esse rivendica con orgoglio il nome della sua professione al maschile. Provate a dire loro che questo è un retaggio maschilista di cui sono vittime, e non stupitevi se avranno una reazione piccata.

Come nota Massimo Arcangeli:

“da bidello a collaboratore scolastico, da netturbino a operatore ecologico o da infermiere a operatore sanitario; i poveri e i padroni restano tali anche se li si riqualifica come non abbienti e imprenditori; i pazienti che divengono assistiti non hanno alcuna ricaduta, nemmeno da effetto placebo, sulla qualità del servizio sanitario.”

 

In difesa della razza

A proposito di razzismo, la nuova moda che arriva dagli Stati Uniti è quella di negare l’esistenza delle razze. Come se fosse questo il problema del razzismo. Di nuovo, le modalità con cui certi scienziati e certi movimenti affermano questa nuova visione sono impregnate di toni da fanatici religiosi, che non accettano critiche (eresie) nel loro riscrivere la scienza.

Sino al Novecento, il concetto di “razza” in biologia era abbastanza ben connotato. Si parlava di genotipo (cioè le caratteristiche genetiche microscopiche) e di fenotipo (cioè i caratteri macroscopici esteriori visibili a tutti). Il neodarwinismo si basava sull’individuazione delle specie, a loro volta divisibili in razze (varietà all’interno di una stessa specie). Era soprattutto la possibilità di riprodursi che segnava la distinzione tra specie e razza, poco importa che si parlasse di uomini o animali: la distinzione qualitativa tra uomo e animale appartiene storicamente al clero e alla religione cattolica, al fondamentalismo, non alla biologia e alle scienze della natura che la Chiesa ha storicamente osteggiato e represso in ogni modo. In linea di massima la riproduzione tra specie diverse non può avvenire, al contrario di quanto accade per le razze, e questo era il criterio di demarcazione tra i due concetti.
Questa distinzione non era perfetta, aveva le sue sfumature e i casi di specie affini che possono procreare sono molti, dall’asino e cavallo che generano mulo o bardotto, agli incroci innaturali tra tigre e leone che portano al “ligre”. Persino l’incrocio tra Homo sapiens e Neanderthal, specie differenti, è stato studiato di recente. Ma gli uomini appartengono alla stessa specie, questo è quello che li accomuna biologicamente, e i fenotipi, o le razze, comunque siano geneticamente determinati, non si possono negare.

Tutte le definizioni scientifiche hanno i propri limiti e quello che bisogna dire chiaramente è che né le specie, né le razze sono “oggetti reali” (“Platone, vedo il cavallo ma non la cavallinità” diceva Antistene), sono solo concetti o categorie (in senso kantiano) che utilizziamo per descrivere il mondo.

Oggi il fenotipo è stato cancellato dai nuovi scienziati riduzionisti, che reinterpretano tutto esclusivamente dal punto di vista genetico. E in questa ridefinizione dei concetti, molti concludono che le razze non esistono e si scagliano con violenza religiosa contro chi non è d’accordo, bollato come razzista o antiscientifico. Ciò è una bella menzogna, e ancora una volta ha a che fare con il fondamentalismo più che con la scienza.

Su questi presupposti – che sono solo un cambio di paradigma concettuale e non una “scoperta” della verità scientifica che dopo Popper non è più sostenibile – qualcuno vorrebbe cambiare addirittura la Costituzione! Come se affermare “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua…” fosse razzista!

Non importa quale sia l’atteggiamento davanti a queste ridefinizioni (personalmente continuo a difendere il concetto di razza), ognuno è libero di ricorrere alle categorie concettuali che preferisce, ma ciò che deve essere chiaro è che la discriminazione non passa dalla messa in discussione della “razza”, ma dall’accettazione delle diversità, comunque si chiamino.
Il punto è che non siamo tutti uguali, ed è proprio nel riconoscere il valore e il diritto della diversità che sta la civiltà e l’essere “corretti”. E ciò vale anche per le culture e per le lingue, dove la varietà è ricchezza, non un ostacolo all’affermazione del pensiero unico basato sulla lingua unica, l’inglese globale, imposto a in tutto il mondo come un valore universale e la lingua internazionale.

 

Totem e tabù linguistici

Il politicamente corretto parte dal presupposto che modificare il nostro modo di parlare porterebbe a modificare il nostro modo di pensare. Questo presupposto è sicuramente fondato, e già Wilhelm von Humboldt, per esempio, aveva posto l’accento sul fatto che la lingua è l’organo formativo del pensiero e che attraverso di essa impariamo a ragionare. Ma se dietro le nuove parole c’è solo una riverniciata ipocrita con intenti eufemistici e superficiali, questo presupposto viene a cadere. Non cambia affatto le cose.

I minorati degli anni Cinquanta sono divenuti handicappati, poi sostituiti con portatori di handicap, poi con disabili (altro calco dell’inglese), poi divenuti diversamente abili. Ma oggi il fronte degli interventisti sull’uso in nome del linguaggio non discriminate (rinominato il “parlare civile” visto che “politicamente corretto” è oggetto di polemiche sempre più ampie) sconsiglia anche questa nuova espressione e propone persona con disabilità.

Questo modo di procedere e di intervenire sull’uso in modo moralizzatore, dall’alto, non porta a nulla, perché non appena una nuova definizione concepita per suonare neutrale si afferma, ecco che subito dopo diviene nuovamente dispregiativa e occorre cambiarla. Non sono i “nomi” ciò che è importante, ma i concetti sottostanti che designano.

E allora, per cambiare le cose, bisognerebbe andare un po’ più a fondo, e rendersi conto che il linguaggio è una spia dell’inconscio, per dirla con Freud. Attraverso le parole esprimiamo ciò che abbiamo dentro e ciò che siamo. Per non essere razzisti non serve negare (o ridefinire) il concetto di razza. Occorre un approccio culturale più serio. E dietro le buone pratiche del parlare civile, del politicamente corretto e del linguaggio inclusivo non c’è solo la volontà di usare un linguaggio non discriminante. C’è il trapianto di una nuova cultura, basata sulla lingua angloamericana, che si sta sovrapponendo dall’alto alla nostra, ne modifica l’uso e introduce nuovi tabù che storicamente non ci appartengono.

Nel nuovo assetto che si sta delineando il totem (cioè il sacro, nella concezione freudiana) è rappresentato dalla cultura e dalla lingua inglese. E non aderire a questa nuova religione genera i nuovi tabù linguistici: “negro”, “razza”… in una concezione dove ormai il linguaggio non discriminante si esprime attraverso le categorie culturali d’oltreoceano e addirittura attraverso anglicismi crudi (gay, down…) che diventano “il” politicamente corretto. Il dibattito sul “linguaggio inclusivo” che sta prendendo piede è un esempio lampante…

 

Continua

24 pensieri su “Totem e tabù linguistici: dal “politicamente” inglese al linguaggio inclusivo [1]

  1. C’è su YouTube un video delizioso, la registrazione di una trasmissione generalista britannica in cui è andato ospite Chris Rock, il comico americano: parlare la stessa lingua non vuol dire appartenere alla stessa cultura. Essendo Rock noto per i suoi tanti discorsi sui problemi razziali americani, sul fatto che sia giusto che i bianchi non possano più usare “la parola con la n”, il presentatore britannico – proveniente cioè da una cultura totalmente diversa – gli chiede qualcosa su cosa voglia dire “essere negro in America”. Malgrado la conversazione fosse politicamente corretta, l’uso di quella parola gela la stanza. Il comico capisce la situazione, si trova in un Paese straniero che non necessariamente ha le stesse politiche linguistiche del proprio, così ci scherza su (nello studio c’è anche ospite Tom Hanks, raggelato dalla situazione, e Chris comincia a dire «Tom Hanks mi chiama sempre “il suo negro”», mettendo l’attore in imbarazzo) ma è palese che anche culture che parlino la stessa lingua abbiano differenze profonde. Figuriamoci culture di lingue diverse, anche se poi la differenza si cerca di annientarla solo a parole.
    Ultima cosa. Recentemente la comica Amy Wong ha raccontato che una femminista americana ha portato avanti una battaglia per bollare “politicamente scorretta” una parola, giungendo a toglierla di mezzo: la parola è bossy, e la motivazione è che essendo riferita sempre alle donne, per indicare quelle che tendono a comandare, è sessista: a nessun uomo viene rivolta quella parola, dando per scontato che uomo “per natura” tende a comandare. (Questa sì un’idea sessista!) Quindi la parola è tolta di mezzo… ma il concetto che indica è ancora là!

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    • Interessante! Il punto è che noi stiamo trapiantando una cultura che non ci appartiene, e pure i loro tabù linguistici diventano nostri. La cosa assurda è la superficialità e l’ipocrisia di questa confusione tra nomi e cose… ti anticipo un pezzo della seconda puntata: anche “ebreo” è stato usato in senso dispregiativo in passato, prima del nazismo, durante e dopo. Ma a nessun ebreo verrebbe in mente di definirsi in altro modo: e guai a chi usa questa parola in senso dispregiativo! Ecco, invece di difendere e lottare contro la discriminazione vera, il politicamente corretto opera con il cambiare le parole, dà una bella verniciata come se il problema fosse quello. E i nostri intellettuali sono dei poveretti colonizzati che si adeguano! Incapaci di reagire e anche di capire, evidentemente.

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      • Infatti la citata comica si lamentava che essendo una donna che si definiva fieramente bossy, ora non sapeva più con che parola auto-definirsi! 😀
        Gli scontri in America di questi tempi dimostrano che decenni passati a cancellare the N word dai dizionari non ha ridotto di un solo grammo l’odio che rimane, dietro quella parola. È come curare una malattia limitandosi a cambiarle nome.

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  2. Sono molto d’accordo su quello che dici (e lo già letto altrove, anche dai blog come quello di Daniele Imperi). Di solito, nella vita di tutti i giorni, preferisco nascondere queste discussioni sul linguaggio della “correttezza politica” (soprattutto quando si parla di minoranze etniche o di omosessualità, che sono gli argomenti più delicati).

    A proposito del “politicamente corretto”, bisogna stare attenti anche a quel branco di estremisti intolleranti ed impositivi che si spacciano per “attivisti” in difesa di determinate minoranze sociali (es. minoranze etniche, femministe, omosessuali ecc.) quando in realtà vogliono solo strumentalizzarle per soddisfare il proprio ego capriccioso (ed il loro portafoglio) rischiando però di far danni sia alla minoranze stesse (che non approvano la loro visione distorta dell’inclusività) sia al resto (compreso il mondo dell’intrattenimento).

    Sto parlando di quegli individui che negli Stati Uniti vengono conosciuti con l’espressione peggiorativa “Social Justice Warriors” (cioè “Guerrieri delle Giustizie Sociali”, abbreviato spesso in SJW).

    https://it.wikipedia.org/wiki/Social_justice_warrior

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    • I giustizieri sociali non necessariamente lo fanno per interesse e sono in malafede. Il punto è che sono fondamentalisti, cioè credono di avere la verità in tasca e la vogliono imporre agli altri. A colpire è il loro “furore religioso” che non ammette dissensi e bolla gli avversari come eretici, razzisti e via dicendo. Una società sana possiede gli anticorpi che dovrebbero mobilitarsi contro questa tirannia di un’oligarchia di baroni. Se invece si leggono certe posizioni di intellettuali e sociolinguisti su queste vicende si vede che la nostra classe dirigente è fatta da collaborazionisti che hanno smarrito ogni senso critico, e sono completamente zerbinati. La cosa che più mi fa imbufalire è che sono gli stessi che dicono di essere descrittivi, di aver rinunciato a essere prescrittivi/normativi in campo linguistico, e si appellano all’uso, sacro e inviolabile. Ma fanno finta di non vedere che questo “uso” è imposto alla gente dall’alto, è un’artificiale imposizione elitaria che sa solo importare la visione statunitense. Gli elenchi delle parole del “parlar civile” dell’università che ho collegato sono un evidente tentativo di essere bavosamente prescrittivi, in nome di un’ideologia e non certo di criteri scientifici. E la vergogna è che nessun linguista denuncia il loro approccio paragonandolo alle liste di prescrizione di epoca fascista. Questo trattamento è riservato solo a chi cerca di divulgare alternative italiane agli anglicismi, a quanto pare. E allora il tabù non è essere prescrittivi: giù la maschera! E’ violare la religione del nuovo totem: la cultura e la lingua angloameriana.

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        • Grazie Gretel, purtroppo a denunciare che quello che ci spacciano per “politicamente corretto” è semplicemente sudditanza alla cultura angloamericana pare che lo dica solo io in Italia. Bisognerebbe chiamare le cose con il loro nome. Tra l’altro sul fatto che identificare l’America con gli Stati Uniti è un’offesa per un intero continente è stata fatta una pubblicità della birra Messicana Corona, che inviterei tutti a vedere:

          E la vergogna, schifosa, dei siti universitari che stilano i consigli del parlar civile è che se ne fottono di queste cose, l’unica cosa che interessa loro è il parlar civile che piace agli Stati Uniti, altro che “linguaggio non discriminante”!

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  3. Più che l’attuale ‘stato di minorità’ del popolo italiano, quel che mi rammarica è la cecità completa dinanzi al colonialismo in atto. Ad esempio, non trovo per nulla normale che i media italiani seguano l’attualità degli Stati Uniti come se fosse il nostro paese. Chi se ne frega del 4 luglio, o del giorno del ringraziamento, o delle altre orgie consumiste oltreoceano! Perché i ‘giornalai’ non dedicano né un minuto al 14 luglio francese o al 12 ottobre spagnolo visto che culturalmente e storicamente avrebbero molto più senso? Possibile che l’italiano medio trovi tutto ciò normale? Purtroppo temo che la questione non gli balzi minimamente in mente : “È tanto comodo essere minorenni!”. Ma Kant si insegna ancora a scuola? Forse il problema è proprio questo! 😟

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    • Sono d’accordo con te. Nei tg, del resto, i corrispondenti da New York, vissuto come il centro del mondo, sono finestre fisse. L’attenzione per ciò che viene da lì è sproporzionata. E le ricadute linguistiche sono che Trump parla di “fake news” e noi importiamo virgolettando senza alternative. Ciò è altrettanto frequente per i esrvizi di costume, nuove mode, tendenze… (persino i canali televisivi, oltre alle trasmissioni, dedicati a cosa e come mangiano!); lo scimmiottamento acritico che rivela il nostro complesso di inferiorità è massiccio. Frasi come “un recente studio americano ha dimostrato che…” sono all’ordine del giorno e penetrano con una “potenza evocatrice” che rivela tutta la nostra piccolezza. “Studio americano” poi potrebbe anche essere uno studio fatto in Bolivia… oppure una delle tantissime scemenze da premio Ignobel, ma non importa.
      A sconvolgere è proprio l’assenza di posizioni critiche davanti a questo tipo di “‘americanizzazione”. Possibile che non ci sia più chi – non dico si opponga – ma almeno analizzi questo fatto?
      Ecco perché accuso la nostra classe drigente di collaborazionismo.

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  4. Zoppaz, quasi dimenticavo : riguardo agli altri paesi europei, in Francia e Spagna come viene eseguita la correttezza politica ? Forse ci mettono più buon senso rispetto a Gran Bretagna, Stati Uniti e Italia ?

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  5. [Leggermente fuori tema]
    Sto leggendo molti articoli (in inglese) che riguardano Trump e il governatore della florida, e non mi sembra affatto che nei telegiornali italiani ne stiano parlando molto. È solo una mia impressione, oppure è quello che sta succedendo? Mi sembra come se volessero minimizzare sullo schifo che avviene negli stati uniti.

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  6. Salve Antonio, sicuramente sarai a conoscenza del post della giornalista Mariella Colonna sull’abuso degli inglesismi. Il suo messaggio è stato condiviso e commento positivamente da migliaia di profili. Mi chiedevo se avevi già avuto l’idea di condividere con lei la petizione in vista di un sostegno mediatico per la diffusione dell’iniziativa. A due mesi dal lancio, mancano ancora 1400 firme!

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  7. Secondo me gli statunitensi possono chiamarsi americani. Gli ultimi popoli coesi e orgogliosi: Russia, Cina, Corea del Nord, Giappone e molti stati arabi non si americanizzano. Da circa vent’anni Norvegia e Islanda hanno mutato identità: sono diventati stati americani indistinguibili dagli stati del New England: Maine, New Hampshire, Massachusetts, Vermont, Connecticut e Rhode Island.Noi italiani del Nord siamo e saremo una caricatura degli Usa; il Sud invece molto simile al Messico

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