L’anglicizzazione dell’italiano durante il coronavirus

Durante la pandemia, gli anglicismi hanno cambiato il nostro modo di parlare con un’intensità senza precedenti, per il numero e per la rapidità con cui molte parole si sono radicate. Ho trattato questo argomento più volte su questo diario, e in un articolo sul portale Treccani (“La panspermia del virus anglicus”) ho provato a ricostruirlo in modo più organico.

Noto che questa tendenza continua anche dopo il picco epidemico. Per esempio con il diffondersi di “staycation” per designare il turismo di prossimità. È un neologismo inglese che i giornali non si possono far scappare, occorre trapiantarlo al più presto, o almeno provarci. Esprimere lo stesso concetto con parole nostre più trasparenti non è altrettanto importante, evidentemente.

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Tra i nuovi anglicismi che si sono affacciati negli ultimi dieci giorni, più o meno legati alla coda della crisi del coronavirus, c’è il family act, una rinuncia a usare l’italiano che si commenta da sola.

Sta prendendo piede anche il cashless. Si sente dire così dagli esperti che rivestono un concetto di cui si parla da molti anni di questo suono nuovo. La sua presa si basa sul fatto che cash al posto di contanti e liquidità è già in uso da tempo e che less è presente come suffisso in molte altre parole inglesi che non traduciamo: contactless, il pagamento senza contatto o a sfioramento, cordless e wireless (rispettivamente apparecchi o connessioni senza fili), ticketless (biglietto digitale, telematico, virtuale), homeless (senzatetto)…

A proposito della rete di anglicismi che si allarga, e che non sono affatto prestiti isolati, noto che il recovery sta prendendo vita; poche settimane fa è stato trapiantato il recovery fund (fondi per la ripresa), poi è arrivato il recovery plan. Un anglicismo tira l’altro, come le ciliegie, come le patatine: ancora uno e poi basta… Decurtato all’italiana, semplicemente recovery, sui giornali si impiega così per indicare un piano di recupero straordinario, che richiama un significato già da tempo circolante in informatica (il ripristino o recupero dei dati), e il disaster recovery, un sistema per il recupero dei dati e più in generale un protocollo o una procedura per emergenze o catastrofi.

Questo crescere dell’inglese è sotto gli occhi di tutti. Ma quello su cui vorrei riflettere è l’altra faccia della medaglia.

Davanti al pullulare degli anglicismi per descrivere tutto ciò che è nuovo, quante sono invece le nuove parole italiane che sono sorte? Qual è stata la capacità della nostra lingua di evolversi per via endogena, in questo periodo?

Questa mi pare che si possa considerare la prova del nove, molto utile per comprendere lo stato di morte dell’italiano.

I cambiamenti linguistici dell’italiano durante la pandemia

Per riflettere sulla cristallizzazione dell’italiano che si sviluppa quasi esclusivamente attraverso gli anglicismi, voglio partire da un’intervista a una sociolinguista che non ritiene che l’anglicizzazione costituisca un problema. Vera Gheno, in un articolo su Wired intitolato “La lingua della pandemia: come il coronavirus ha cambiato il nostro modo di parlare” non fa alcun accenno agli anglicismi. Davanti a un titolo del genere, mi ha davvero stupito che la cosa più eclatante sia stata ignorata, perché attraverso questa scelta si costruisce una narrazione che più che fotografare la realtà appare funzionale alle proprie tesi sul ruolo non devastante dell’inglese sull’italiano.

“Quando ci troviamo di fronte a un concetto nuovo – scrive giustamente Vera Ghenoabbiamo bisogno che la nostra lingua si modifichi per poterlo esprimere e quindi nascono parole nuove; oppure accade che parole che prima avevano un significato lo cambino e lo adattino a nuovi contesti (è il fenomeno che in linguistica si chiama slittamento semantico, o risemantizzazione funzionale).”

Ma passando da queste considerazioni astratte e ovvie alle cose concrete, quali sono queste parole nuove italiane?

Stando a quanto si legge nell’articolo, tutto si può riassumere nell’apparire di “paucisintomatico” e nella risemantizzazione di “tamponare” che non significa più solo incocciare la macchina davanti o arginare: adesso indica anche fare tamponi diagnostici.

Ecco come la nostra lingua si è saputa evolvere. Non c’è molto altro. Nell’articolo si parla dei mutamenti della connotazione di “positivo” associata ai risultati medici (una persona positiva evoca questo), che non è nulla di nuovo rispetto a quanto è accaduto con l’Hiv; della fortuna di “resilienza”, di un passaggio dal noi al voi che esprimerebbe la diffidenza verso l’altro, dell’aumento di parole di ambito domestico tra panificazione e cucina, delle metafore belliche (che però appartengono da sempre all’ambito della medicina, checché se ne dica) che rendono gli infermieri “eroi”. C’è il ritorno di parole manzoniane come untore, insomma, nulla di nuovo sotto il sole sul fronte interno, o comunque nulla di eclatante. È questa l’evoluzione della nostra lingua?

Di fronte a queste pochezze bisognerebbe pesare almeno neologismi come lockdown, droplet, recovey fund, staycation e bisognerebbe annoverare intere famiglie di anglicismi come covid hospital, covid pass, covid manager, covid like… Bisognerebbe sottolineare che lo smart working è passato da tecnicismo a parola comune e sta generando la smart didattica, bisognerebbe dire che si sono radicate parole come cluster, trial, screenare… e che sono aumentate le frequenze di trend, hub, conference call, voucher, delivery… Non sono questi, e moltissimi altri anglicismi, ciò che maggiormente ha cambiato il nostro modo di parlare, e soprattutto quello dei mezzi di informazione?

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Negli archivi del Corriere.it, nei primi 6 mesi del 2020 la frequenza di cluster è addirittura decuplicata rispetto all’intero 2018; quella di voucher spicca in modo significativo rispetto agli anni passati.

Fuori dai pochi esempi di Vera Gheno, se ampliamo le ricerche alle parole italiane nuove o evolute, rimane il vuoto, o comunque la rarefazione estrema.

Tra i neologismi ci sono cose insignificanti e di scarso peso come covidiota (calco dell’inglese covidiot) o lo scherzoso coglionavirus, titolo di un libro. C’è la comparsa del distanziamento sociale o di infodemia (altri calchi dall’inglese), e anche il nuovo significato di “goccioline” che – incredibilmente e in controtendenza – pare guadagnare terreno e avere la meglio su droplet (forse è questa l’unica vera novità dell’italiano). Ci sono questioni già esistenti che sono divenute più popolari come paziente zero, oppure la differenza di significato (non sempre scevra da disaccordi) tra mortalità e letalità. Tra le metafore manzoniane si può aggiungere lazzaretto… Ma queste bazzecole non sono incisive per la nostra lingua. Non esiste alcun segno di vitalità dell’italiano davanti a questa emergenza/novità; fuor dall’inglese l’italiano si conferma lingua morta, incapace di arricchirsi per via endogena.

In un altro recente articolo, Vera Gheno è entrata maggiormente nella questione dei forestierismi da covid, per poi concludere che il suo atteggiamento davanti agli anglicismi è “in medio stat virtus”. Viene da chiedersi dove sia “il medio” nel linguaggio della pandemia. Io vedo solo il dito medio nei confronti della lingua italiana. Se l’evoluzione si riduce all’allargamento di significato di “tamponare”, siamo fritti.

“Il miglior modo di amare la propria lingua è quello di perseguire la via del plurilinguismo” scrive Vera Gheno. Ma faccio fatica anche a ravvisare il plurilinguismo nel linguaggio della pandemia. Quali sono gli altri termini stranieri? A parte l’aumento di frequenza di movida, c’è solo l’inglese! Leggerei questo segnale come una creolizzazione lessicale, che non ha nulla a che vedere con il plurilinguismo. E il caso dei francesismi triage e plateau (che comunque sono solo due) è apparente, sono stati usati solo perché in uso anche in inglese, a parte la loro origine. In sintesi, mettere sullo stesso piano questi pochi esempi con il caso degli anglicismi, così tanti che non si riescono più nemmeno a contare, è un’operazione che non tiene conto della realtà e dei numeri.

A proposito del linguaggio dell’emergenza covid, mi hanno colpito anche le dichiarazioni di Giuseppe Antonelli – lo studioso che sostiene che l’anglicizzazione dell’italiano è solo un’illusione ottica – in un’intervista sulla televisione svizzera (“Le parole dell’emergenza coronavirus”).

Anche in questo caso il linguista evita accuratamente di parlare dell’invasione degli anglicismi, e sposta il problema su altre questioni secondarie, che non mi pare colgano il fulcro di quanto sta avvenendo. Antonelli spiega che “le parole hanno un grande potere e possono a loro volta avere delle pesanti conseguenze sul mondo”, ma non si riferisce agli anglicismi bensì a espressioni, che condanna, come l’uso iniziale di “influenza cinese” per indicare il coronavirus, perché ha fatto passare il messaggio di qualcosa di “lontano” e di “banale” come un’influenza. Non gli si può dare torto, a parte il fatto che con il senno di poi è facile fare queste considerazioni, ma sino ai primi di marzo nessuno, nemmeno i virologi, aveva previsto cosa ci stava per accadere. Più grave è semmai che Trump continui a usare questa formula con evidenti intenti politici, ma in Italia nessuno lo fa più, per fortuna.

Lo studioso critica poi l’espressione “distanziamento sociale” e ritiene più appropriato parlare per esempio di “distanza di sicurezza”. Questa considerazione si trova spesso, anche nei dibattiti in Francia e in Spagna. Ancora una volta queste riflessioni sono condivisibili. “Distanziamento sociale” è però entrato nell’uso, e viene da chiedersi: ma come? E la retorica “dell’uso” che fine ha fatto? L’uso così intoccabile e rispettato quando riguarda le parole inglesi che se entrano nell’uso bisogna accettarle, non condannarle o tradurle… perché “l’uso” con cui si giustificano e si dichiarano “necessari” gli anglicismi viene invece messo in discussione in altri casi?
Comunque sia, accanto a questo strano modo di essere descrittivi e di rinunciare a essere prescrittivi a seconda dei casi, siamo sicuri che siano queste le parole dell’epidemia e i problemi dell’italiano in questo momento di colonizzazione senza precedenti?

E infatti il conduttore, Lorenzo Buccella, incalza Antonelli chiedendogli qualcosa sull’inglese che “ha preso il sopravvento durante la pandemia”. Ma la risposta, ancora una volta, ignora la trave e si concentra sulle pagliuzze:

“Io credo che il problema non sia tanto il fatto che abbiamo usato molte parole inglesi, d’altronde questa era una situazione che coinvolgeva tutto il mondo, c’è un aspetto proprio di globalizzazione (…) e allora lockdown è il termine che ha utilizzato l’Oms, il discorso era una parola nuova straordinaria rispetto alla situazione nuova di emergenza…”.

Insomma, per Antonelli il problema della comunicazione della pandemia non è l’inglese, è più importante “utilizzare parole univoche”, anche perché in situazioni di emergenza chi comunica ha una responsabilità ancora più grande: “Le parole possono e probabilmente avrebbero potuto salvare vite umane.”

È curioso che venga riconosciuta ai mezzi di informazione questa “responsabilità” di salvare le vite umane, ma non quella di uccidere le parole italiane. La tesi di Antonelli è infatti che l’inglese sarebbe contenuto in una percentuale fisiologica che “viene avvertita come preoccupante perché amplificata dai mezzi di comunicazione di massa. Sono soprattutto radio, giornali e televisioni – infatti – a offrire l’immagine di un italiano (artificialmente) saturo di parole ed espressioni angloamericane” (Un italiano vero. La lingua in cui viviamo, Rizzoli p. 74).

Ma a parte questa oscillante concezione della responsabilità mediatica, ciò che è davvero insostenibile è la giustificazione del ricorso all’inglese con la favola della globalizzazione e quindi degli internazionalismi. Lockdown o droplet, che gli ha citato il conduttore, così come smart working e la maggior parte degli altri inglesismi e pseudoinglesismi che usiamo, sono penetrati solo nell’italiano, e non esistono né in Francia né in Spagna. E allora perché mai la globalizzazione “ingloba” solo l’italiano?

 

Il francese e lo spagnolo in epoca di covid

Il dibattito sull’evoluzione della lingua durante la pandemia, con riferimento soprattutto agli anglicismi, si è sviluppato anche in Francia. Ma la situazione non è nemmeno lontanamente paragonabile allo sfacelo dell’italiano.

Il francese è una lingua viva, dove si coniano neologismi, dove davanti all’espansione dell’inglese globale esiste una resistenza, che non è fatta da un cane sciolto come la mia, e come quella italiana, ma è istituzionale, supportata dalle leggi che vietano forestierismi nel francese ufficiale e dei contratti del lavoro, che si appoggia alla Costituzione, alle indicazioni del Journal officiel (la Gazzetta francese), all’operato dell’Académie française, e dei mezzi di informazione.

Anche in un articolo su Radio France (“La lingua francese ai tempi del coronavirus”) si registra il malcontento sul “distanziamento sociale”, interferenza dell’inglese, che sarebbe più appropriato rendere in altri modi, come distanza di sicurezza o fisica. Ma si lamentano anche gli anglicismi che si sono fatti strada, come cluster al posto di focolaio, con la differenza che rispetto a quanto avviene da noi dove le occorrenze sono decuplicate rispetto agli anni passati, ricorre molto meno, e spesso è tra virgolette. Ma, soprattutto, l’uso dell’inglese viene deprecato, non misconosciuto, giustificato o spacciato come internazionalismo necessario!

Mentre i nostri mezzi di informazione diffondono anglicismi – che in Francia non esistono – senza alternative, le Figaro sforna innumerevoli pezzi che condannano l’inglese e riprendono le direttive della Commissione per l’arricchimento della lingua francese che invita a usare foyer (épidémique) al posto di cluster: “Coronavirus: ne dites plus «cluster» mais…”, oppure infox al posto di fake news: “Coronavirus: des mots français pour en parler”.

Mentre da noi i politici coniano family act, trapiantano recovery fund, e in parlamento parlano con la massima naturalezza di lockdown e smart working, il sito del Ministero della cultura francese produce una guida alle parole francesi per esprimere il lessico del coronavirus (traçage e non tracking, faire-face e non coping) e un glossario della terminolgia medica che si appoggia a un ben più ampio dizionario terminologico con i corrispondenti francesi. Lo scopo è quello di “arricchire la lingua francese”, e gli esperti non si sognano né di negare o ignorare l’esistenza degli anglicismi, né di proclamarli “necessari” e in questo modo avallarli, ma si prodigano nel tradurli nel giusto modo e nel coniare nuove parole, operando scelte terminologiche autoctone per i vocaboli che non ci sono!

In Spagna gli anglicismi non sono penetrati durante la pandemia, e il dibattito sulla lingua del coronavirus che “infetta” il dizionario della lingua spagnola è commovente. Sul El País, in un articolo intitolato “La Real Academia busca una definición para el coronavirus” la questione non tocca l’interferenza dell’inglese, che non c’è, ma il maschile o femminile di covid, o mascherina che accanto a “mascarilla” registra sinonimi esotici come “barbijo” in Bolivia, “tapaboca” a Cuba o “nasobuco” in altri luoghi. La stesso dibattito che si ritrova leggendo un articolo di Abc intitolato “El coronavirus también infecta el Diccionario de la lengua española” che si pone il problema dell’uniformità di queste varianti per mantenere lo spagnolo omogeneo. Non possiamo che ridere (o piangere?) se paragoniamo tutto questo con la situazione italiana. Mentre da noi c’è solo il lockdown, lì le questioni linguistiche sono incentrate su come formare il giusto verbo da “cuarentena”: meglio “cuarentenar”, “cuarentenear” o “encuarentenar”? L’unico anglicismo che si trova nel pezzo è zoom: “quello che sino a poco tempo fa era solo un obiettivo a lunghezza focale variabile” lamenta l’articolo! Per noi è inimmaginabile che la lingua evolva senza importare l’inglese, ma in Spagna e in Francia, come in tutte le lingue sane, è normale!

Altro che internazionalismi e globalizzazione! In Italia bisogna parlare di colonizzazione.

Come nota Gabriele Valle, in Spagna non esiste il droplet, ci sono solo le gotas de saliva, non c’è il lockdown ma il confinamiento (come in francese e in tutta l’Europa latina, salvo da noi) e il deconfinamento progressivo, la nostra fase 2, 3 e quel che sarà, si può esprimere con desconfinamiento o desescalada.

E in portoghese? Provate a dare un’occhiata allo speciale covid sul quotidiano portoghese Publico, e provate a contare gli anglicismi, se li trovate. Poi fatevi un giro sul Corriere.it, e fate i vostri confronti.

A questo punto ognuno avrà qualche elemento in più per riflettere su cosa significhi “essere internazionali”, se significa fare come negli altri Paesi di lingua romanza o se significa essere colonizzati dalla sola lingua inglese. E anche per ragionare sulla “necessità” dei nostri anglicismi, bollati come necessari solo da noi e dai collaborazionisti di questa creolizzazione lessicale, visto che altrove la lingua nazionale evolve, si arricchisce, è difesa e promossa, mentre l’italiano è ormai ingessato nei suoi significati storici e destinato a trasformarsi in itanglese; soffocato da una quantità di anglicismi che qualcuno considera una ricchezza, ma non sono altro che l’impoverimento e la morte del nostro lessico sempre più mutilato.

 

PS
Come al solito rinnovo l’invito: chi è preoccupato e stufo può firmare e soprattutto diffondere la petizione #litalianoviva. Si riuscirà a fare qualcosa? Almeno proviamoci!

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48 pensieri su “L’anglicizzazione dell’italiano durante il coronavirus

  1. Incominciamo a insultare quelli (specialmente i giornalisti) che usano gli anglicismi senza motivo? Diciamo loro che sono la vergogna della loro categoria, che la pigrizia mentale di cui danno prova è indegna?
    Servirà a qualcosa?

    Piccola correzione: uno zoom è un obiettivo a lunghezza focale variabile 😉

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    • Grazie della correzione alla mia traduzione spannometrica che mal conosce lo spagnolo e la fotografia, l’ho corretta.
      Non credo che insultare serva, il punto caso mai è far loro capire che il linguaggio che scelgono e che usano, volutamente, è invece ridicolo e odioso per una parte degli italiani. Dunque per una parte del loro pubblico- tra l’altro sempre più di anziani – può essere controproducente. Ma conoscendo i giornalisti… non sono sensibili alla questione.
      Si dice che i mezzi di informazione abbiano rinunciato all’antica vocazione pedagogica, ma non è del tutto vero. Questa funione è solo cambiata e adesso ci “educano” imponendo l’inglese. Alle regole basate sulla chiarezza, trasperrenza, coprensibilità di Sergio Lepri, è subentrata una nuova regola: il linguaggio della prepotenza, che impone gli anglicismi per far sentire la superiorità di chi scrive. Tu lettore non sai, ma si dice così. In questo modo si crea una platea dove è più difficile che qualcuno non sia d’accordo; ciò diventa: non hai capito! La nuova informazione domina, anche attraverso il linguaggio, il pubblico, mentre una volta puntava a utilizzare il linguaggio più adatto al destinatario. Il linguaggio come strumento di controllo e di imposizione delle nuove categorie della realtà è un cambio di paradigma difficile da arginare.
      Adesso sta nascendo il nuovo qutidiano di De Benedetti, Domani, diretto da Stefano Feltri (che nulla c’entra con Vittorio) e che si presenta come “diverso”. Gli ho lasciato un commento con la speranza che il loro essere nuovi e il volersi distinguere dagli altri giornali passi anche per un uso dell’italiano non anglicizzato. Ma non ho ricevuto riscontri e l’impressione è che mi abbiano preso per il solito matto/fanatico.

      “Stacanza” e “restacanza” sono meravigliosi. Il problema è che sono troppo italiani, nessun giornalista li userebbe.

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  2. Che dire!?…In merito alla diligenza linguistica Francese: Vive la France!…e circa lo stesso della Spagna: Hasta La Victoria Siempre?…Lo ‘stivale’ in merito, invece, non solo pare si sia riempito d’acqua, ma pare pure avere parecchi buchi!

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    • I buchi son così tanti che forse mancano le toppe. Il problema è che c’è chi i buchi fa finta di non vederli, o che li ama e li allarga con il dito, visto che sono di moda i jeans strappati (jeans deriva da Genova, gli inglesi hanno adattato la parola, non adottata, attraverso l’intermediazione del francese. E in Spagna si chiamano vaqueros, noi abbiamo solo il rifacimento inglese del nostro antico significato)

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  3. Come sempre, un articolo eccellente! Ho vissuto 8 anni in Spagna e da 4 vivo in Francia; non posso che confermare, interessandomi alle questioni linguistiche, che quanto scrivi è totalmente vero. Nella TV francese, quando un ministro o giornalista si lasciano scappare un termine Inglese, essi sembrano quasi scusarsi e cercano di trovare rapidamente il corrispettivo francese. Chi abbonda di foresterismi “inutili” nei discorsi è qui percepito come presuntuoso, che si dà arie, ma soprattutto che cerca di mascherare l’inconsistenza di pensiero. Par dirla in altro modo, chi si attegia a ‘fa l American’ è visto come incolto, grossolano altro che internazionale. In Italia sembra accadere esattamente il fenomeno contrario.

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    • Il vero problema è che c’è chi nega anche che i miei raffronti con quanto accade in Francia e in Spagna siano veritieri (non faccio nomi perché non voglio dargli spazio). Ho avuto delle corrispondenze con personaggi di spicco, giornalisti ma anche linguisti accademici, per esempio dal Sudamerica o dall’Australia. Danno tutti per scontato che l’anglicizzazione dell’italiano sia enorme e preoccupante, e una giornalista australiana che mi ha intervistato mi chiedeva, allibita, come mai i giornalisti italiani non seguano le regole che seguono loro, ma anche contenute nei manuali di giornalismo statunitensi: cioè evitare forestierismi davanti a una parola esistente.
      Eppure questa realtà è negata o volutamente ignorata da parecchi linguisti e intellettuali italiani, che sono evidentemente colonizzati o collaborazionisti della colonizzazione. E che non vedono cosa accade all’estero, credono che ciò che accade da noi sia normale… lo giustificano e lo alimentano.

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      • Mi auguro poter contribuire e fare lume su un aspetto preciso.
        Credo che usare termini come ‘colonizzatori’ o ‘colonizzazione’ della lingua in riferimento all’Italiano da parte dell’Inglese non mi pare adatto. Se si colonizza, il risultato è una cosa o territorio conquistati e dominati. In aggiunta, essere colonizzati è il risultato di una ‘potenza’ che con volontà e forza prende proprie iniziative in tal senso. Qui, il mondo Anglofono invece non dimostra ciò, se ne sta sotto il sole e non incentiva un bel niente. E’ il mondo Italico che invece insiste nel storpiare la lingua Inglese (Si Si, storpiature incessanti con mancanza di plurale e pronunce variegate: {I} killer [S], {I} vari meeting [S] Recovery ‘found’ [FUND > u = Ʌ ] ecc.; e volutamente prende in prestito una infinità di parole che vanno a sostituire il significato che già in Italiano SONO presenti ed EFFICACE al 99,99%. Credo quindi che il fenomeno sia più adeguatamente descrittivo con una parola tipo CONTAMINAZIONE. Il colonizzatore e quindi colonizzazione non li riesco a percepire. Per la verità vedo qualcosa che semplicemente è linguisticamente LOSCO; molto più grave della colonizzazione linguistica.
        Anzi, lì dove ciò si è manifestata, almeno le popolazioni parlano un più che discreto Francese, Inglese, Portoghese, Spagnolo ecc..come seconda lingua.
        Qui evidentemente il fenomeno è un ‘Italinglezizzazione’ o la creazione, come piace dire a me, di una lingua detta Englitalish. L’inglese che si manifesta nell’Italiano. Ossia, l’Inglese storpiato dal suo insistente, inutile innesto nella lingua italiana) → [ lingua né carne né pesce]. Ma l’ordinazione del ‘pasto’ Anglofono parte dalla assurda volontà degli Italiani. Insomma, nessuno ti consegna ‘fish & chips’ se non lo desideri e ordini.

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        • Ci sono due piani che si sovrappongono parzialmente. Da una parte c’è il disegno internazionale di condurre tutti i paesi sulla via del bilinguismo dove la lingua locale è vissuta come un accidente per la comunicazione internazionale basata sull’inglese. Questo progetto vede nel multilinguismo non una ricchezza ma un limite, ed è connesso al parlare di scienza in inglese o a insegnare in inglese. Questo è un vero e proprio colonialismo linguistico, che impone la lingua naturale dei popoli dominanti agli altri. Ha però delle ricadute anche sulla lingua locale, perché insegnare in inglese o esprimere la scienza in inglese porta a pensare in inglese, e a perdere la terminologia e la lingua nativa. E qui c’è l’altro piano, la contaminazione, l’ibridazione, dove è vero che agevoliamo le cose dall’interno. Il risultato dell’itanglese è frutto di queste due forze, quella interna albertosordiana da collaborazionisti, e quella esterna che aspira alla colonizzazione linguistica del pianeta. Quando Twitter impone i suoi follower e following esporta e impone il suo linguaggio e le sue categorie. Così come quando espertano film e prodotti merceologici dai nomi inglesi. Quando ti vendono il cheesburger, ti vendono il loro nome, il loro piatto e la loro cultura. Sei libero di prendere una pizza, ma sulla “mcdonaldizzazione” del mondo sono state spese molte autorevoli riflessioni.

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          • Infatti, diventa sempre più evidente che esistano delle ‘forze dirigistiche-strumentalistiche’ in vari settori culturali economici [in particolare, quello letterario-scientifico-linguistico] che strutturino un piano globale di Lingua Unicum. Per la serie, nulla in realtà succede per caso.
            E a proposito di “cheeseburgers”; un pensiero particolare:
            Il ben noto termine Slow Food dovrebbe essere il contrario di fast food, ovvero cibo lento.Questa concezione è banale in quanto tutto il cibo/pasti dovrebbero considerarsi lenti perché in realtà ci si riferisce non tanto al cibo di per se quanto alle pietanze che si consumano con pochi minuti d’attesa o già pronte da mangiare, seduti a un tavolo o in piedi. Diventa fast, quindi veloce, solo in quei casi quando si hanno esigenze di tempo e si vuol mangiare i pasti velocemente, per cui lo slow food (cibo lento) è difficilmente classificabile e considerarlo una categoria a sé, datosi che il resto dei pasti o pietanze, e quindi cibo (food), se non è veloce, deve essere necessariamente tutto lento in quanto non necessita di una presunta esigenza di velocità alcuna. Insomma, uno può cibarsi lentamente o velocemente, ma il cibo di per se, non può risultare lento o veloce. Il contrapporsi alla categoria Fast Food con “Slow Food” non ha senso. Comunque sarebbe stato più appropriato denominarlo semplicemente Non Fast Food e non banalmente Slow Food. E se gli italiani avessero un minimo di apprezzamento e rispetto per la lingua italica bastava dire “Ristorazione Lenta”. Ma se proprio non ci si può astenere dalla lingua di Sua Maestà oltremanica per esprimere un concetto, Slow Ristorazione, e forse avrebbe avuto giusto un po’ più senso.—tratto dal sito inglesismiplus.wordpress.com -(pubblicità non occulta)-

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              • Togliere il sapore alla cucina italiana con un marchio come Eataly…(che vorrebbe significare mangia Italia!), lo ritengo un brutto affare. In rete trovo l’Hamburgheria di Eataly; complimenti!…C’è bisogno di un commento approfondito?!
                Personalmente conosco e ho conosciuto molti stranieri che amano la lingua Italiana pur non conoscendola per niente o poco ma che vedrebbero più attraente un marchio tipo Mangia Italia, specie trattandosi di cibo e culinaria. Se proprio bisogna accontentare Sua Maestà d’Inghilterra, allora Eatitalian, credo sia molto più scorrevolmente pronunciabile e sensato e significa ovviamente Mangia italiano.
                Tuttavia, ciò che in Italia e il commercio Italiano non comprende è che dare un immagine anglofona di un prodotto italiano aiuta solo a far diffidare gli stranieri sull’autenticità del Made in Italy. Personalmente ritengo Slow Food un marchio e termine insensato. Tento di ribadire il concetto in modo un po più chiaro: ci sono i Fast Food e poi gli altri ristoranti, punto. Quindi contrapporre un termine a Fast Food è banale ed inutile. In aggiunta, gli stranieri quando cercano un marchio di qualità e garanzia pretendono anche l’originalità, tipicità ed autenticità derivante dal nome. Cappuccino, Pizza, Spaghetti, Espresso, Mortadella, BaBà, Cannolo Siciliano, Prosciutto, LaSagne, Spumante sono rimasti invariati nel mondo. Chi inventò la sigla/marchio Alitalia dovrebbe avere una Statua eretta a ricordo, anche se la compagnia è soggetta ad una crisi perpetua. Ed Air Germany per la verità la conosciamo come Lufthansa. I Francesi qui son stati battuti riuscendo solo a creare Air France; strano!
                Tornando alla gastronomia con l’intendo augurale non vi siano castronerie. Ci fosse qualcosa come Associazione Ristorazione Cucina e Cibi Italiani (ARCCI); Unione Cucina Tipica Italiana (UCTI); Consorzio Ristoranti Italiani (CRI); Federazione/Unione/Associazione Trattorie ed Osterie d’Italia (FTOI-UTOI-ATOI) sono solo alcune esempi di sigle acronime inventate che forse potrebbero già esistere, ma da un veloce controllo pare ci sia solo Ristoranti Regionali Cucina Doc e Associazione Italiana Ristoratori…In conclusione, ‘Nomen Omen’. Alcuni secoli fa [Essi] ci avevano avvisati avendo compreso tutto a riguardo.

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    • State distruggendo la lingua Italiana e con essa la dignità e gli Italiani stessi. Un popolo senza una lingua non è un popolo. Questi Giornalisti e Media nell’ignoranza piu assoluta, si credono di essere piu bravi intelligenti, vogliono di mostrare che sono piu colti, cose questa stupidita!!

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  4. C’è forse da chiedersi se si celano altri interessi (solitamente economici) dietro a questa negazione della realtà. Altrimenti non riesco a capire come un giornalista o un politico, che dovrebbero essere fieri promotori della lingua nazionale, la maltrattino e la rinneghino in questo modo.

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    • Gli interessi politico-economici dietro il disegno di imporre l’inglese come la lingua di tutto il globo ci sono, ne ho accennato qui: https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2019/09/30/globalese-e-dittatura-dellinglese-il-dibattito-che-manca-in-italia/
      Il punto è che sono gli interessi economici statunitesi e delle multinazionali d’oltreoceano, non certo i nostri. Per questo mi pare che l’atteggiamento di giustificare gli anglicismi, invece che arginarli, almeno nella lingua italiana si possa definire “collaborazionista”.

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      • Anche qui, credo che la globalizzazione della lingua Inglese sia una cosa, il fenomeno o tematica di cui in oggetto sia un altra. Magari, certo, si vorrebbe imbruttire, deturpare e persino sfigurare la lingua di Dante, Leopardi ed Il Manzoni per renderla ridicola e conseguentemente alla fine sostituirla una volta resa impresentabile ed irriconoscibile. Ma, La Forza del Destino sta in chi dovrebbe subirne gli infausti esiti: gli Italiani!….Behh, però, qualche ‘collaborazionista’ che rema contro non si esclude possa esserci per facilitare il ‘delitto linguistico’.

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    • Non lo so, mi sono limitato a un’analisi delle lingue romanze per me più accessibili e che comunque sono affini alla nostra. L’Olanda è un Paese già portato sulla via del bilinguismo e tutti parlano in inglese come seconda lingua. L’anglicizzazione del tedesco è forte, ma l’affinità con l’inglese è tale per cui molti anglicismi non costituiscono dei corpi estranei come da noi e passano inosservati. Su quanto è accaduto con la pandemia non ho alcuna informazione in proposito.

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      • Insomma, vuoi stanarmi 😉 Sai che non condivido quando dici che in tedesco gli anglicismi non costituiscono dei corpi estranei come in italiano: i motivi per liberarsene intanto sono tali e quali. E anche se inglese e tedesco sono lingue affini in quanto germaniche, se contrapposte a quelle romanze o slave, i frequenti anglicismi rimangono comunque dei corpi estranei. Così come i tedeschi pronunciano “buonciorno”, dicono anche “ciop” (job, che una volta era usato solo per definire lavoretti a tempo parziale o estivi, adesso spesso e volentieri rimpiazza il normale Arbeit).
        Da una parte la frequenza è forse ancora peggiore che in italiano, dall’altra c’è più critica e consapevolezza, in passato ci sono state figuracce e relative marce indietro (vedi Deutsche Bahn, ossia le ferrovie federali, ad es., o alcune pubblicità che risultavano incomprensibili: “Come in and find out”). Proprio stamane ascoltavo un talk-show (ähm…) in cui il moderatore, dopo che un giovinastro aveva detto due frasi in cui praticamente solo i connettori erano in tedesco, ha tradotto almeno l’ultimo concetto in tedesco con garbo. Temo non succeda in Italia. In Germania (che invece potrebbe insistere, grazie al suo peso politico-economico, per una maggiore diffusione del tedesco, cosa che invece non avviene) sussiste un atteggiamento prono e succube verso l’inglese, inconsciamente c’è ancora molto imbarazzo e vergogna per l’infausto passato (nonostante sia stato ben rielaborato, cosa che sicuramente non si può dire purtroppo di quello italiano), fanno sempre di tutto per non farsi notare (ed è proprio assurdo che altrove invece qualcuno insista a credere che cerchino la supremazia – la evitano come la peste). Insomma, scarsa autostima italiana verso imbarazzo tedesco.
        Riguardo alla pandemia mi sembra che siamo lì, leggendo quello che scrivi (perché non seguo la tv italiana e pochissimo i giornali).

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      • PS. L’ultima arrabbiatura, a proposito: ho fatto un acquisto digitale 😀 in Germania e mi mandano fatture e altre comunicazione esclusivamente in inglese. Anche se non è vero, gli ho risposto che non capisco, che mi scrivano in tedesco.

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  5. Staycation non l’avevo ancora sentito. Mannaggia a te che me lo hai fatto conoscere: fa schifo già in inglese, figuriamoci trasposto in un testo italiano!

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  6. Il termine “resilienza” fra l’altro è orrendo, naturalmente doveva diventare di moda. Come sono esageratamente enfatiche e stereotipate tutte quelle forme giornalistiche della fatta di “abbassare la guardia” o “stare in trincea”. Già sono poche le espressioni italiane che prendono piede, poi sono anche bruttine… Non solo si sta inquinando la lingua con questi maledetti anglicismi, che sono il grosso del problema, ma si sta imbastardendo anche il lessico italiano “puro” con ripetizioni nauseanti o termini antipatici all’orecchio.

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    • Resilienza è di moda, anche a me non piace, ma va a gusti e come diceva Leopardi solo l’uso e l’abitudine rendono le parole belle o brutte. Insomma, i giudizi estetici in linguistica hanno poco senso, sono soggettivi e poco rilevanti. Se non altro è una parola italiana, nel senso che non viola le regole della nostra pronuncia e scrittura, al contrario della maggior parte degli anglicismi crudi.
      Quanto alle frasi stereotipate dei giornali… è proprio una delle cose che caratterizza il loro linguaggio, purtroppo, che passa per le frasi fatte e i picchi di stereotipia delle stesse parole/espressioni che in certi periodi rimbalzano con lo stampino ovunque.

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  7. Francia e Spagna non sono uscite sconfitte dall’ultimo conflitto mondiale e non si trovano in uno stato di paesi occupati come invece è ancora dopo 75 anni sia per noi che per la Germania. La Francia in particolare a parte essersi fatta coglionare economicamente dalla questione Unione Europea è un paese sovrano, una potenza nucleare. Noi viceversa siamo una colonia dove il ministro della difesa deve essere approvato dall’occupante, come ovvio visto la quantità di truppe ed armi che possiede sul nostro territorio. A noi non è stato concesso di sviluppare una politica energetica autonoma (Mattei) nè l’alta tecnologia informatica e sui calcolatori da tavolo (Olivetti Mario Tchou), tanto che hanno fatto sparire anche la parola che adesso è diventata computer. A noi quando è stato ritenuto necessario hanno decapitato tutta la classe politica sostituendola con quelli che ci ritroviamo adesso. Dei servi che hanno svenduto tutto lo svendibile contro l’interesse nazionale ed è quindi normale che costoro non tendano a valorizzare la lingua madre ma diffondano quella del padrone a piene mani. Sono tutte questioni collegate, l’uso dell’inglese non è un vezzo, ma una strategia che si inserisce all’interno del disegno coloniale complessivo ed è questo quindi che deve essere combattuto nel suo complesso. Purtroppo anche nelle formazioni cosiddette sovraniste che stanno sorgendo non si avverte una sensibilità riguardo questo aspetto e gli anglicismi si sprecano anche lì nel comune parlare. Sto provando a contattarne alcune con l’obiettivo di farne una questione politica da mettere in risalto insieme a tutto il resto. Se riuscirò ad ottenere qualche riscontro positivo lo farò sapere a te ed agli altri amici.

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    • Sono pituttosto d’accordo con le tue analisi, e totalmente per quanto riguarda il discorso sulla “strategia”. Hai ragione a mettere in risalto che i sovranisti non lo sono affatto da un punto di vista linguistico, e nemmeno la destra, che presenta ogni tanto qualche proposta di legge dallo spirito un po’ vetusto, nei fatti è esente dall’essere anglicizzata, predicano bene e razzolano male. La sinistra che prima del 1989 aveva un atteggiameno critico verso gli Stati Uniti, da Veltroni in poi è diventata filoamericana al punto da scopiazzare tutto, a cominicare dai vocaboli. Dunque mi pare che la questione sia trasversale ala politica e alle ideologie, bisognerebbe raggiungere tutti coloro che non vogliono questo colonialismo volontario e aiutato dall’interno, a sinistra, a destra e fuori da queste logiche. Non è un caso che tra i firmatari della petizione ci siano persone di potere al popolo, sinistra alternativa, pd, così come 5 stelle, leghisti, persone di destra, c’è anche una suora… Tutto ciò esula dalle questioni”politiche” nel senso ideologico e di partito, e diventa “politico” nel senso più nobile e alto: qualcosa che riguarda tutti i cittadini.

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  8. Non intendo mettere altra carne sul fuoco, ma se dico ESPERANTO, qualcuno ha qualche opinione a riguardo?…Come lingua universale-mondiale, s’intende ovviamente…Non che io la conosca, nel senso che l’abbia studiata o che la parli…In considerazione anche del proverbio: Chi comanda detta legge. Alla fine non bisogna meravigliarsi (non che io sia a favore a prescindere) se l’Inglese oggi sia una lingua che domina. Attenzione però. Ricordiamoci, diverso è lo strapazzo/mescolamento indiscriminato che se ne fa nell’Italiano. Cmq, sappiamo: Grecia=MagnaGrecia; Impero Romano=il Latino in Europa, il Mediterraneo e medio Oriente. Oggi UK e Nazioni del Commonwealth (Australia, N.Z, S.A, e Canada) ecc. in aggiunta a Stati Uniti = Inglese.— Ignazio Silone in Fontamara: “Che fare?”

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