Sulla morte dell’italiano

Da quando ho lanciato la petizione #litalianoviva contro l’abuso dell’inglese sto ricevendo tantissime segnalazioni per il dizionario AAA delle Alternative Agli Anglicismi, e soprattutto una gran quantità di lettere, così tante che faccio davvero fatica a rispondere a tutti.
Alcuni di questi contributi mi hanno spinto a precisare un po’ meglio il tema centrale dell’itanglese e della “morte dell’italiano”, che non è chiaro a tutti.

 

Se questo è un italiano

Parto da quanto mi ha scritto Luis:

“Non vado più alla Mondadori. Appena entri nello store c’è un book point dove puoi pagare con la cash back card. Alla Rinascente questo weekend c’era il 20% di sconto sul mio shopping con la Rinascente card. Summer Discount su tutto il make-up e lo Skin Care. Ora con l’applicazione lo shopping è ancora più Smart.
Da Cisalfa ho acquistato un costume da bagno. Gli addetti e il personale indossavano la divisa con la scritta Staff e Crew e ho pensato che fossero proprio un bel Team.
Con Purina-One il pelo del mio cane diventerà più forte e lucido. Purina, la scelta giusta per il tuo Pet.
Al supermarket mi chiedono ogni volta se ho la Fidelity Card.
Alla Metro (vendita all’ingrosso) quelli dello staff mi hanno detto di rivolgermi al reparto Food”.

Mi pare che il quadro rappresenti bene l’Italia e l’italiano. E il punto è proprio questo: come definire questa lingua? È ancora italiano o è itanglese? La questione è tutta qui. Chi pensa che questa ricostruzione sia un’esagerazione non veritiera può dare un’occhiata al seguente testo. Un inno all’italianità che, a mio avviso, suona come un ossimoro. Ma forse per qualcun altro è solo l’italiano moderno e quello auspicabile nel futuro.

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Anche io non vado alla Mondadori, ma la Feltrinelli non è meno anglicizzata, e come ho ricostruito in “Bookcity e la gerarchia degli anglicismi” ormai i libri sono book, le librerie sono bookshop e ci si può aggirare tra thriller e modern fiction, home video e game, graphic novel e top 40, cioè i best seller. Ho anche già parlato del caso food, un ottimo esempio di creolizzazione lessicale che in soli 30 anni (da quando è apparso, nel 1982, il fast food), ha portato lo street food e lo slow food, i food designer e il junck food, il finger food e il comfort food… alla fine food è diventata la parola per indicare l’intero settore alimentare. Il pet food è l’anello di congiunzione con un’altra parola che si sta allargando e che sembra destinata a sostituire gli animali da compagnia: pet. Da pochi anni ci sono i pet shop (visto che i negozi sono sempre più shop e store), si parla di pet teraphy, spuntano gli alberghi pet friendly… ed è nata la figura del pet sitter, che si affianca ai dog sitter e ai cat sitter, che si appoggiano alla fortuna di baby sitter. Baby, del resto, è diventato un prefissoide che genera una quantità di locuzioni inglesi, pseudoinglesi e ibridate con l’italiano che non è più possibile quantificare. Nella “Maledizione di baby sitter (e i composti di baby)” ho provato a spiegare quanto è successo anche in questo caso.

Questi esempi mostrano inequivocabilmente che l’inglese è un virus che si diffonde come un cancro, consiste ormai in una rete di parole tra loro interconesse che si allarga nel nostro lessico, e fa morire i nostri vocaboli. Non bisogna essere geni, per comprenderlo. Eppure la maggior parte dei linguisti continua a ragionare con gli schemini ridicoli basati sui “prestiti” linguistici, come se gli anglicismi fossero parole isolate. Se fossero “prestiti” sarebbe il caso di restituirli in blocco. E forse bisognerebbe restituire ai librai, anzi ai bookstore, anche i libri di linguistica di questo tipo, che invece di occupare posto nelle librerie sarebbero più utili se fossero mandati al macero, almeno per riciclare la carta.

Non si capisce dove vivano questi “studiosi”, né come non siano in grado di comprendere cosa sta accadendo, e l’abissale differenza che c’è tra i “prestiti” provenienti dalle altre lingue, di numero contenuto, e lo tsunami anglicus che ci sta devastando. Mentre qualche illustre studioso negazionista sostiene che l’anglicizzazione sia tutta un’illusione ottica, la gente comune sembra più avveduta nel comprendere il presente. Per esempio chi mi scrive:

“Sky tg 24 rubrica Start, si parla del covid-19. Il giornalista per ben 4 volte dice che il governo cinese utilizza uno strumento per TRACCARE o TRACKARE (da to track) le persone in aeroporto”.

“Tracciare”, in questo aneddoto, sembra un vocabolo inesistente.

“Ho appena sentito la parola smartizzabile da parte della Ministra Dadone con riferimento alla transizione da una modalità di lavoro in presenza a una agile” mi scrive Enrico.

Le ricomposizioni di questo tipo sono all’ordine del giorno, spesso intaccano i verbi, e nel parlato si sente sempre più spesso forwardare per inoltrare, fixare per aggiustare, hostare per ospitare. Del resto il sito di Airbnb invita a diventare host, non usa parole come locatore e locatario, e l’italiano non è contemplato dalle multinazionali che si insediano in Italia e ci impongono i loro termini, da snippet a timeline. Il che vale soprattutto per l’italietta di colonizzati, all’estero non è così, come si evince dall’immagine seguente.

airbnb in varie lingue
Il sito Airbnb in varie lingue: solo in italiano compare il termine “host”.

L’inglese delle multinazionali informatiche arriva in questo modo. Non si traduce download e nasce downloadare invece di scaricare. Spunta Twitter e impone i suoi follower e following, invece di parlare di iscritti, lettori, abbonati o seguitori/seguaci e seguiti, per carità! Che brutto!

Sempre Luis mi segnala che nel sistema operativo di iPhone, impostato in lingua italiana, ci sono più di 80 termini in inglese (tra cui mail, file, hotspot, feedback, privacy, password, account, game center, banner, badge, background, provider, software, switcher, wireless, home, voiceover, zoom, timeout, link, output, input, standard, hardware, controller, smart, font, default, screen, layout, timer, live, selfie, download, news, store, fitness, homekit, push, server, nickname, widget, podcast, offline, computer, music, streaming, slow motion, drive, book, game, center, reader). Tutti anglicismi necessari, intraducibili o insostituibili, direbbe il terminologo anglomane italiota. Peccato che impostando la lingua francese o spagnola, l’elenco degli anglicismi si riduca invece a 3 o 4 parole. I “prestiti di necessità” e gli “anglicismi insostituibili” lo sono soltanto in Italia. Forse è questa “l’illusione ottica” che ci contraddistingue, perché mentre da noi nessuno saprebbe come dire diversamente streaming, in francesespagnolo è possibile.

L’inglese delle multinazionali informatiche che si espandono è agevolato dall’interno da chi non opera scelte traduttive e da chi postula come un assioma che “i termini non si traducono” (ma solo in Italia, si dovrebbe aggiungere per onestà). Il caso dell’informatica è il più eclatante, ma anche la maggior parte degli altri linguaggi di settore sono ormai colonizzati, dal linguaggio aziendale e del lavoro a quello della scienza e della tecnica. La pubblicità parla sempre più l’inglese, il cinema statunitense impone i propri titoli in inglese senza più tradurli…

E davanti a queste pressioni esterne, agevoliamo dall’interno questo processo ricorrendo all’inglese anche da soli, e talvolta lo reinventiamo. Lo si vede nel linguaggio della politica, dal jobs act al navigator, lo si vede persino nella lingua della giurisprudenza (qui un video di un avvocato che lo spiega chiaramente).
Basta leggere un giornale digitale come il Corriere.it, per capirlo. A parte i trapianti intradotti come “web” o “streaming” si vede benissimo l’abuso di “hub” ,”new entry”, “empowerment”, “fashion”… e Mussolini si faceva i “selfie”!  Sui quotidiani francesi e spagnoli non si vede nulla di tutto questo.

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Dal Corriere.it del 10/6/20.

E allora ritorniamo alla domanda iniziale. Questo è ancora italiano?

 

Gli anglopuristi teorici dell’itanglese

Nel “manifesto” del sito “Una parola al giorno” (art. 4), si legge:

“I forestierismi sono una ricchezza. Non ci sentirete tuonare contro l’inglese, ma ci vedrete schierati parola per parola contro il cattivo gusto, la replica acritica di parole percepite e non capite, e gli usi esausti o sciocchini. Nel diciassettesimo secolo ci si scagliava contro… squallidi gallicismi quali baule, regalo, biglietto o gabinetto: oggi chi criticherebbe l’uso di queste parole?”

Dichiarazioni di questo tipo sono abbastanza diffuse, ma sono nella migliore delle ipotesi affermazioni sciocche e confusionarie, e in altri casi sono vere e proprie ipocrisie che celano mistificazioni imperdonabili. Confondere le parole italiane di derivazione esogena (come baule o biglietto) con i forestierismi non adattati che si scrivono e si leggono in modo diverso da quanto previsto dalla nostra grammatica è un’enorme sciocchezza. Come lo è appellarsi al “cattivo gusto” o agli “usi sciocchini”: Leopardi ci ha insegnato (ma non solo lui) che solo l’uso e l’abitudine rendono bella o brutta una parola. Affermare che i i forestierismi sono una ricchezza in assoluto non sta né in cielo né in terra. Dipende se si adattano, e quando non lo si fa dipende dal loro numero, possono essere anche il segno di un impoverimento del nostro lessico e della creolizzazione e della morte di una lingua schiacciata da un’altra dominante. Anche associare “forestierismi” e “inglese” è significativo. Come se le due cose coincidessero e ci fosse solo l’inglese. Purtroppo il problema è proprio questo. Il numero degli anglicismi crudi che abbiamo importato negli ultimi 70 anni è superiore a quello di tutti i forestierismi di ogni lingua e di ogni epoca sommati, incluso il francese che ci ha influenzati sin dai tempi di Dante. Se questa è una ricchezza, se l’italiano del presente e del futuro deve essere costituito da un sostantivo in inglese su dieci, si dovrebbe avere il coraggio di dirlo chiaramente e senza ipocrisie. Questo per me non è più italiano, ma la sua morte; è itanglese, ed è un ibrido che non ha nulla a che vedere con l’italiano storico e con la nostra grammatica.

La provenienza delle parole è irrilevante. Quello che conta è vedere se sono italianizzate e si integrano o se sono dei “corpi estranei” per dirla con Castellani, che snaturano la nostra lingua storica e la imbastardiscono, come dicevano i più aperti sostenitori delle parole straniere di ogni epoca, da Machiavelli che insisteva sulla necessità di “accatar parole” altrui, passando per Ludovico Antonio Muratori, e persino Alessandro Verri, autore della celebre “Rinunzia al Vocabolario della Crusca”. Nessuno si è mai sognato di giustificare la presenza di migliaia di forestierismi crudi provenienti da una sola lingua dominante. Se una volta i puristi rifiutavano le parole italianizzate che provenivano da altre lingue, oggi sarebbe invece auspicabile tornare a italianizzarle e tradurle, se vogliamo evitare la creolizzazione lessicale. Il che è tutto il contrario di quel che volevano i puristi.

Un tempo furono proprio i puristi a rappresentare un ostacolo all’evoluzione dell’italiano, visto che erano ostili anche ai neologismi e ai tecnicismi, ma così facendo rischiavano di ingessare l’italiano nella “lingua dei morti”, di cristallizzarlo nel vocabolario storico senza farlo crescere. Oggi a fissare l’italiano nei suoi significati storici e a impedirgli di evolvere sono proprio gli anglomani, che invece di tradurre, adattare, creare neologismi, allargare il significato delle nostre parole, preferiscono importare tutto ciò che è nuovo in inglese e giustificarlo. Li ho definiti “anglopuristi”. Sono coloro che invece di difendere e promuovere l’italiano si appellano all’uso dell’inglese che diffondono per primi sostenendone il maggior potere evocativo, guardando non ai significati delle parole, bensì alle sfumature che non appartengono all’inglese, ma sono il risultato dell’acclimatamento nella nostra lingua. “Calcolatore” evoca le ingombranti anticaglie di una volta, “computer” connota i dispositivi moderni. Peccato che in inglese era ed è computer, senza questa distinzione, così come in francese era ed è ordinateur, e in spagnolo era ed è computador. Selfie non è proprio come autoscatto… ecco come si relega l’italiano ai suoi significati storici e non lo si fa evolvere. Nelle casseforti c’erano le combinazioni, tra i partigiani i nomi di battaglia, in Rete ci sono le password e i nickname, perché questi sono i “termini” che richiamano l’ambiente informatico in modo preciso… e così l’italiano non si allarga di nuovi significati e muore. Brainstorming è intraducibile (peccato che in francese sia stato tradotto con spremimeningi e in spagnolo con diluvio di idee) e ciò che è nuovo non si reinventa, si importa in inglese e basta! E così, anglicismo dopo anglicismo, l’italiano si trasforma in itanglese. Ricorrere all’inglese è una strategia. Soprattutto nelle nuove generazioni. Si preferisce l’itanglese e la creolizzazione è vissuta come segno di modernità. Il che non lascia ben sperare nel futuro.

L’itanglese si pratica ormai nelle scuole. Non sto parlando del linguaggio terrificante del Miur, uno dei maggiori responsabili della morte dell’italiano, che prepara volutamente alla lingua inglesizzata del mondo del lavoro. Purtroppo l’itanglese si impartisce sin dalle elementari. Ho avuto una feroce discussione con un gruppo di maestri che insegnano ai bambini che la “j” si chiama “jay”, dando un calcio alla nostra storia, alla “i lunga” che si pronuncia “i” non solo in italiano (juventus, Jolanda, Jacopo, Jugoslavia…), ma anche in tedesco (Jung). Insomma, c’è solo l’inglese nella testa delle menti colonizzate, e poi va a finire che si sente sempre più spesso dire “giunior” invece di junior. Intanto, nei libri di testo delle elementari, la Cisgiordania diventa West Bank. Senza alternative.

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Questa è la lingua, e la cultura, che si insegna a scuola alle nuove generazioni!

Adesso tra i maestri, mi segnala Elena, va di moda il lap book, spesso scritto lapbook, che consiste in un cartoncino piegato a libro contenente fatti, diagrammi, illustrazioni relativi all’argomento; è una cartelletta con le ricerche dove si incollano diversi elementi, e viene definito anche layer book, flap book o shutter book. Tutto va bene, purché suoni inglese. Ma un nome in italiano, no?

Dunque non c’è da stupirsi se poi uno studente interrogato in storia dell’arte parli di “absaid” perché crede che abside sia un anglicismo, o che si pronunci Dpi (Dispositivi di Protezione Individuale) come i dpi delle stampanti. Siamo immersi nell’anglomania più deleteria.

Questo è il presente, e nel futuro sarà sempre peggio, se non si ferma questo processo di distruzione sistematica del nostro patrimonio linguistico. C’è chi non lo vuole affatto fermare e vuole andare in questa direzione. E c’è chi sta provando a fare qualcosa con una petizione.

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75 pensieri su “Sulla morte dell’italiano

  1. Un quadro d’insieme da far tremare le vene ai polsi, anche se il vero orrore è chi ancora casca dalle nuvole davanti ad un fenomeno di proporzioni bibliche. Perché – come già ho avuto modo di segnalare – oltre all’uso sperticato di termini stranieri non sempre capiti, ma ripetuti per moda, arriva anche l’imbarbarimento dell’italiano, lingua non più studiata, non più sentita, non più usata. Così al fianco di inglesismi inutili troviamo sfondoni che denotano la perdita di confidenza con la (una volta) lingua-madre.

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  2. Quasi seicento anni fa, nel suo sterminato poema Le Champion des dames Martin Le Franc scriveva che la fine del mondo era ormai prossima: a dimostrarlo, secondo Le Franc, era il livello di perfezione cui erano ormai giunte le arti, e in particolare la musica grazie ai compositori franco-fiamminghi, i quali avevano appreso dai loro colleghi d’Oltremanica i segreti della più dolce e appagante eufonia, uno stile che Le Franc chiama la contenance angloise.
    Sei secoli dopo, la fine del mondo è più vicina che mai, e a testimoniarlo questa volta non è la bellezza, ma il suo contrario: è l’incontinenza inglese che sta facendo scempio di quella che fu la più bella lingua del mondo.

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    • Interessante riflessione e prospettiva… L’inglese delle multinazionali non è certo quello di Shakespeare, e gli stessi inglesi lamentano l’americanizzazione e l’appiattimento del globalese. Nel caso dell’italiano la “morte” è più che altro lessicale, ma in Africa c’è da anni un olocausoto di lingue minori, soprattutto a causa dell’inglese. Il che non è la fine del mondo, ma un mondo nuovo che però fatico a interpretare positivamente…

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      • Antonio, Save the children nel ’70 inopinatamente si rivolse al grande Ken Loach per un documentario in Africa ma questi denunciò la cancellazione delle lingue locali. il film non uscì mai…forse ora su youtube si trova. estrapolo da wikipedia: (…) La cause, che portarono, al ritiro del documentario e relativa causa legale tra Save the Children e Garnett, Loach, sarebbero causate, da alcune scene girate in Kenya e Gran Bretagna, dove si mette in evidenza, che il progetto di aiuto e di carità, sarebbe solo un modo per placare la coscienza della borghesia inglese, e non avrebbe un reale scopo di aiuto, ma anzi continuerebbe a tenere in condizione di povertà e di inferiorità culturale, i bambini dei paese poveri del terzo mondo (con chiari riferimenti alle ex colonie britanniche, che graverebbero in queste condizioni, soprattutto, per la non volontà di aiutare questi paesi, durante il periodo coloniale, ma solo di sfruttarne le risorse), e quelli delle periferie inglesi. Questo metteva e mette tuttora in imbarazzo sia il governo britannico sia Save the Children, tanto da continuare il boicottaggio del documentario(…) https://it.wikipedia.org/wiki/The_Save_the_Children_Fund_Film

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  3. #maestri su Rai tre, 11 giugno 15:20. Si parla di interculturalità. Forse sarò io a percepire male il messaggio, ma se l’elogio dell’interculturalità è espresso con frasi tipo “pensa in inglese”, “impara ad esprimerti con poche subordinate come gli anglosassoni”,”aggiungi la -s alla terza persona”, o se, quando si accenna alla grammatica italiana, le immagini diventano d’un tratto bianco-nere rinviando a programmi d’istruzione elementare del dopoguerra, qui non si parla di interculturalità. Si tratta di un encomio alla sola cultura anglosassone, statunitense più precisamente, passando per la denigrazione delle lingue romanze dipinte come pesanti, inefficienti, superate. Se così stanno le cose, qual è l’ interesse di continuare ad insegnare Italiano a scuola? Siamo doppiamente stupidi: da un lato rinneghiamo la nostra cultura, la nostra lingua diminuendola e disprezzandola, dall’altro, se l’italiano è superato, perseveriamo scioccamente a innalzarlo a idioma nazionale, ad insegnarlo ai nostri figli pur sapendo che domani dovranno sforzarsi per pensare in un’altra lingua, nell’Altra lingua che è l’inglese. Che poca coscienza della propria cultura!

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    • Son d’accordo. Del resto si spaccia il progetto internazionale di portare tutti i paesi sulla via del bilinguismo dove l’inglese è l’unica lingua internazionale con il plurilinguismo, che è ben altra cosa. Qui c’è solo la dittatura dell’inglese, il colonialismo linguistico di una lingua che, non dimentichiamolo, è quella naturale dei popoli dominanti che la voglliono imporre agli alri, fottendosene dell’interculturalità: l’unica cultura è la propria e la devono esportare.

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  4. Io ammiro ed apprezzo molto questo sito dell’illustrissimo ed Egregio Antonio Zoppetti. Ho anch’io, seppur in minor calibro e dinamicità nel contenuto, cercato di mettere in evidenza lo sconvolgente (ma anche inspiegabile) fenomeno che io ho denominato come nuova lingua/non-lingua: ENGLITALISH…[commistione casuale tra English and Italian-di importazione ma nello stesso tempo di confezionamento in loco-sul territorio nazionale Italiano] appunto; una lingua né carne né pesce…indigeribile, per l’appunto!…inglesismiplus.wordpress.com .Un caro Saluto a voi tutti.RP

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  5. A proposito di Shakespeare….VALE LA PENA FARE UNA SERIA E ATTENTA RICERCA SUL SICULO CROLLALANZA…era Lui, Shakespeare ed era proprio Messinese…BEHH, non ho dubbi che tanti di voi (quasi tutti) staranno a schernire tale affermazione. Eppure, è qualcosa di molto noto ma semplicemente non ufficiale…
    —Troppu trafficu ppi nenti dialetto Messinese=Much Ado About Nothing…vuol sol essere un assaggino!

    https://angloamericanstudio.wordpress.com/2014/02/21/william-shakespeare-o-florio-crollalanza-era-inglese-o-messinese/comment-page-1/

    https://www.ilsicilia.it/william-shakespeare-era-in-realta-il-siciliano-michelangelo-florio/

    Shakespeare was from Sicily —-www.thelocal.it

    Buon Proseguo a Tutti.RP

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      • Purtroppo sì, malgrado sia una credenza molto radicata ed amata, soprattutto dai siciliani. Curioso come tutti quelli che credono alla tesi Shakespeare/Crollalanza non abbiano mai notato che c’è stato un papa di nome Breakspeare (cioè Adriano IV) e una famiglia nobiliare italiana di nome Rompilanza: in quel caso a nessuno è interessato fare collegamenti 😛
        Da quando nel 1925 il siciliano Santi Paladino inventò questo collegamento tra cognomi, la teoria è rimbalzata ovunque senza che nessuno notasse che mentre il giornalista scriveva su “L’Impero” nel Parlamento italiano c’era un esponente della nobile casa dei Crollalanza, che aveva tanto di alberi genealogici completissimi (del tutto privi di collegamenti con l’Inghilterra): perché nessuno ha mai chiesto loro informazioni? E sì che uno dei Crollalanza era un noto storico: perché lui stesso non si è accorto di avere Shakespeare come parente?
        Scusa il fuori tema: avendo scritto un saggio sull’argomento non ho saputo resistere ad intervenire ^_^

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    • Un grazie al Corrierone, che ha pure messo le virgolette, per una volta e per il momento… ma siamo fiduciosi! La prossima volta le virgolette non ci saranno più, magari in occasione di qualche “remake” di Pippi Calzelunghe… (o Longsocks?). Le trecce alla francese richiamano il passato! Vuoi mettere?

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  6. Mi sono scese le lacrime (di dolore) a leggere questo articolo, non scherzo.

    Fino a poco tempo fa, i giochi di parole erano solo in italiano… adesso nelle pubblicità abbiamo “Pet Store Pet Stories”.

    Effettivamente le pubblicità che da più di vent’anni ci martellano con l’inglese (anche se ancora quelle non erano parole entrate in italiano) hanno lavorato subliminalmente per preparare il terreno a questo dilagare.

    In anni recenti, ho avuto amiche sudamericane con cui conversavo in rete, in spagnolo, e loro non hanno mai usato una sola parola straniera!

    Mesi fa mi è capitato di leggere i commenti su Instagram di alcune donne messicane che parlavano tra di loro e si dicevano: …

    Come si può vedere è tutta questione di mentalità. Altrove non vedono l’ora di sbarazzarsi dell’intruso stranierismo (anche quando tutta la differenza risiede in una piccola N in meno), mentre da noi più ne usano meglio è.
    Tanto che ‘smettere di seguire’ su Twitter in gergo tecnico, affermano con forza, si dice unfolloware…

    Gergo tecnico? gergo troglodita!

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    • Tutto, non solo il linguaggio della pubblicità, da anni prepara il terreno a questa esplosione dell’inglese: cinema, tv, mondo del lavoro, scienza… e poi il lingaggio dele multinazionali della Rete con i suoi tenicismi, certo, che vengono importati in inglese come fossero dei nomi propri, invece di tradurli o reinventarli. E oramai neologismi e anglicismi sembra quasi che siano la stessa cosa.

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      • Sembra che manchi una frase nel mio intervento. L’avevo messa tra i segni di minore e maggiore ma invece vedo solo tre puntini.
        Insomma, riguardo alle messicane, discutevano di questo su Instagram: ‘RAE affrettati ad approvare “milenial” al posto di millennial’…
        Proprio la mentalità opposta a quella italiana.

        Gli ispanofoni dicono gol e goles e nessuno trova “ridicolo” questo adattamento di goal.

        In Italia abbiamo sempre detto Gol con la vocale più aperta o più chiusa a seconda delle regioni e mai, mai pronunciato all’inglese.

        Eppure sulle reti, il 95% degli utenti scrive GOAL, con plurale GOALS.

        L’esterofilia si denota sempre, anche quando utilizzano l’espressione “falso nueve”…
        Come se dire falso NOVE o finto centravanti fosse qualcosa di diverso.

        Se una squadra vince 3 trofei in un anno è triplete… guai a dire tripletta.
        Se invece ne vince due, sono combattuti tra DOUBLE e DOBLETE.
        Evidentemente “doppietta” è troppo complicato da pronunziar…

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    • Temo che sia seria! E’ il “nonèproprismo” che consiste nello sparare a nastro che un anglicismo “non è proprio” come l’italiano… ha un’altra sfumatura ed è intraducibile. Lo smart working non è proprio il telelavoro… è più legato agli strumenti smart non solo alla distanza… lo shopping non è poprio come fare acquisti indica gli acquisti di lusso e per la persona… Questa tipologia di anglopuristi se ne fotte dei significati inglesi deve solo fare di tutto per usare ciò che suona inglese giustificandolo per complesso di inferiorità.

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      • Questa falsa distinzione tra “telelavoro” e “smart-working” (quanto mi sta antipatico questo pseudoanglicismo) è la stessa che avevo udito circa un mese fa al Tg1. Semplicimente assurdo… 😦

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        • Aggiungiamo che selfie non sarebbe proprio come autoscatto? E’ più un gesto particolare, e poi indica la condivsione sui “social”… non faccio nomi e congnomi dei sostenitori di questa cretinata. E finiamo con il dire ai sostenitori di questa sfumature idiote che è diventato sinonimo di fotografia, come da articolo del Corriere per cui Mussolini si faceva i selfie?

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      • So che ci sono persone che fanno di tutto per giustificare gli anglismi, ma ho come l’impressione che alcune di esse si siano convinte delle loro stesse bugie(come in questo caso).

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        • Non dubito che siano convinti, come tutti i fanatici accecati dalle proprie follie. Sull’intraducibilità di “bike lane” e la differenza con pista ciclabile (“non trovo un termine italiano” ma ci rendamo conto del livello?) c’è da chiedersi: ma se la striscia di delimitazione invece che gialla fosse azzurra o bianca… non sarebbe il caso di importare altri tecnicismi, possibilmente inglesi visto che non abbiamo corrispondenti, per non fare confusione? Insomma sarebbe importante avere termini precisi per distinguere tutti questi casi con parole diverse e appropriate. La yellow bike lane non è certo come la white!

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          • Chicca che descrive pienamente il pensiero itanglese: https://www.youtube.com/watch?v=K0AW4wb7Lq0
            Le storie sono diventate stories, le riunioni sono diventate call, le parole italiane sono diventate inglesi!
            Onestamente questa pubblicità sembra fatta proprio per dire che l’italiano è cosa vecchia e l’inglese è nuovo e “smart: prima c’era il vecchio (italiano) ora il nuovo (inglese). Un pugno nello stomaco da sentire in tv, e la cosa più insopportabile è che tra quelli che conosco nessuno fa caso a sto schifo.
            Comunque se ti vuoi divertire, guarda anche le altre pubblicità.
            Chiunque produca questi spezzoni pubblicitari, compensa l’incapacità nel creare qualcosa di carino con una carrellata di termini inglesi a non finire, e basta tradurre per rendersi conto del vuoto cosmico di queste pubblicità.

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  7. Oso permettermi di aggiungere nuovamente riguardo Shakespeare, ma lungi da me il voler aprire un dibattito a riguardo, pur per la verità trattandosi della lingua inglese e italiano, a confronto, in un certo senso.
    Dire che Paladino ‘inventò’ il collegamento forse è un pò sintetico come predicato. E magari non è conveniente pensare che il teorema sia semplicemente basato sulla traduzione del nome. Evidentemente è parte solo di un pezzetino della punta dell’iceberg, o come conseguenza.
    Altrimenti ogni Jerry White (Gerardo Bianco), Mr.Smith (Sig.Fabbro/i) o Mr. Shoemaker (Sig. Ciabattino/i) sarebbe banalmente legittimo come presunzione di rivelazione di vera identità. Tuttavia quanti conoscono John Cabot ma non Giovanni Cabotto o Philip Mazzei ma non Filippo Mazzei che sono i loro nomi autentici e non trasformati dalla loro fama di oltreoceano statunitense? E per quanti anni si è scritto nei libri di storia che Alexander Graham Bell aveva inventato il telefono senza darne alcun credito ad Antonio Meucci. Come in DICIAMOLOINITALIANO e relative firme, il caso è stato dibattuto persino nel Senato USA nel 2002 (grazie anche a Nancy Pelosi) e A.Meucci è stato onorato come il Vero inventore nel 2008 dal Min.Beni Culturali R.Italiana. I punti di indagini su Shakespeare, ad ogni modo, sono piuttosto circa le incongruenze storiche-geografiche, mancanza documenti origini a Stratford upon Avon, dettagli sull’alta conoscenza della terminologia marina, ambientazione frequenti delle opere in città italiane, ecc.. E certo non è il caso di approfondire quì.
    In conclusione, ci voleva forse anche aiutare a svelare qualcosa di occultato quando domandava:’What’s in a name?’ in Giulietta e Romeo?
    Infine, non sono poi solo gli Italiani o particolarmente I Siciliani che discutono su l’autenticità Inglese di Shakespeare. Allego qualche collegamento sulla rete, ma ce ne sono parecchi altri sia in inglese, anche del Regno Unito, sia in Italiano e non solo.

    http://www.shakespeare-online.com/biography/shakespeareitalian.html

    https://politicworm.com/oxford/oxfords-education/travel-shakespeares-italy-with-richard-roe/

    https://www.bl.uk/shakespeare/articles/shakespeares-italian-journeys

    Chi vuol essere lieto, sia. Cordialmente, RP
    et, semper vivat lingua Italica

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    • Sono stato stringato per non rimanere troppo fuori tema, ma su Shakespeare si potrebbe parlare a lungo e mi stupisce che troppo pochi lo facciano, soprattutto quelli che dovrebbero studiarlo per mestiere.
      Il mistero del Bardo consiste proprio nel fatto che tutti credano sia esistito qualcuno che non ha lasciato alcuna traccia di sé, e quelle poche tracce non aiutano certo. (Ancora si cita la sua ciocca di capelli, malgrado da secoli John Ireland abbia confessato di averla inventata apposta.)
      Shakespeare non era inglese semplicemente perché Shakespeare è una creazione posteriore: non c’è l’ombra di una prova che il contadino che portava quel nome sia anche il più amato drammaturgo del mondo anglofono (semmai esistono prove circostanziali che quella fama gli sia stata imposta post mortem), così non esiste la minima prova che confermi tutti i vari “veri” autori che nei secoli si sono succeduti, da Bacon a Florio fino a Marlowe, tutti nomi che ancora oggi hanno accesi seguaci. Sono ipotesi mai verificate se non tramite la voglia di crederci. Per carità, ognuno creda ciò che vuole, ma per confermare una tesi servono prove, e non ne esistono, se non vaghe o inventate.
      Per tornare in tema di italiano, così da sentirmi meno in colpa nei confronti di Zoppaz, segnalo che una “prova” può arrivare dalla lingua. Gli anglofoni adorano citare motti latini, ma capita che li sbaglino: dal Quattrocento a “Il Silenzio degli innocenti” gli anglofoni usano “qui pro quo” in modo sbagliato, confondendolo con “do ut des”. Sapete chi è l’unico inglese che abbia mai usato l’espressione latina in modo giusto? Proprio lui, Shakespeare! («I cry you mercy, ‘tis but quid for quo.», “Enrico VI”) Ecco la prova che non è inglese!
      Scherzo, sin 1921 – quando l’americana Clara Longworth de Chambrun discusse la sua tesi di laurea alla Sorbona di Parigi – sappiamo che il Bardo (o chi per lui) usò i libri di proverbi e motti di Giovanni Florio per le sue opere, quindi attinse alla versione giusta del motto latino al contrario di ogni suo altro connazionale della storia, compreso il dottor Hannibal Lecter, che si ostina a sbagliarla semplicemente perché ripete ciò che sente senza controllare.

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      • Anche Omero potrebbe essere un complotto dei biografi!
        Invece su “qui pro quo” so che negli Stati Uniti usano “quid pro quo” che equivale a do ut des, mentre il quiproquò nel senso di equivoco (se si può dire così al posto di misunderstanding) non credo sia latino ortodosso e mi risulta di derivazione dal francese. Altre fonti lo farebbero risalire a Carl Barks, quando Paperino confuse un nipotino al posto dell’altro, ma non ci metterei la mano sul fuoco. 🙂

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        • Resta il fatto che gli unici ad usare l’espressione in quel senso siamo noi europei… e Shakespeare! 😀
          Comunque il mio era un modo divertito per mostrare com’è facile fare analisi e smontarle subito, quando si parla di personaggi che non hanno lasciato traccia di sé: non esistono “piste latine” seguite dagli studiosi del Bardo, ma non è certo meno valida di chi ha scoperto che unendo le lettere finali di alcuni versi esce fuori il nome “Bacon” 😛
          Omero è davvero un buon paragone, e l’unica differenza con Shakespeare è che a noi importa poco stabilire chi effettivamente abbia scritto i poemi omerici, anche se da secoli fior di studiosi ci sbattono la testa: è una fenomenale testimonianza di una cultura lontana che gustiamo come tale. Che il loro autore si chiamasse Tizios, Kaios o Omero ha ben poca importanza. Purtroppo la venerazione anglofona per il bardo e dall’altra parte la passione per i complotti intorbidano qualsiasi discorso oggettivo.

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          • In un film geniale, “Rosencrantz e Guildenstern sono morti” di Tom Stoppard, in cui proprio due personaggi minori dell’Amleto divenivano i protagonisti, e l’Amleto era solo il sottofondo, c’era la teoria che addirittuta l’Inghilterra non esistesse e fosse solo un complotto dei cartografi! 🙂

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  8. Quanto alla lattera J che ormai “si chiama” gei osserverei che in questo modo si crea una contraddizione col principio dell’alfabeto italiano – e non solo di quello – per il quale il nome della consonante o s’inizia col suono che essa ordinariamente rappresenta. (“bi” perché [b]), o almeno lo contiene (“effe” da [f]).
    Ora nelle parole italiane (che non siano imprestiti) in cui compare questa lettera — di solito toponimi o cognomi, visto che nessuno scrive più “ghiandaja” o “gli studj” —essa ha il valore fonetico [j], e non [dʒ]: Jesi, Jacini ecc.,
    Ma, si dirà, “gei” è più universale …
    Davvero? Limitando la statistica alle lingue ufficiali (a livello nazionale) dell’Europa (nei suoi confini geografici, quindi non la sola UE), osserviamo questi numeri:
    lingue in cui J vale [dʒ] 1
    lingue in cui J vale [j] 18
    lingue in cui J vale [[ʒ] 4
    lingue in cui J vale [x] 1
    lingue in cui J non esiste o che non usano l’alfabeto latino: 6
    D’altronde anche come simboli fonetico internazionale [j] ha appunto il valore italiano e non quellp inglese, e così pure nella lingua progammaticamente internazionale esperanto.

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  9. Oggi al Tg1 ho sentito “comizio” al posto di meeting, “isolamento” invece di lockdown e ” Cronoprogramma” (ebbene sì!) in luogo di timing. Antonio qui c’è il zampino! Dicci come ci sei riuscito.

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  10. Pensa che oggi sulla BBC hanno usato meeting al posto di convegno, escalation al posto di aumento o peggioramento, questione time al posto di domande e risposte, smart working al posto di lavoro agile, fashion al posto di moda e ticket anziché biglietto…Mahh, un altro mondo, direi!

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  11. Questo libro delle elementari in cui la Cisgiordania viene chiamata “West Bank” mi mancava proprio.

    Fortunatamente su Wikipedia la Cisgiordania viene ancora chiamata così com’è in primo piano (infatti lì “West Bank” viene menzionato solo di sfuggita in corsivo e senza grassetto). Persino nei 33.300 risultati di Google notizie la Cisgiordania viene ancora menzionata così com’è nelle fonti italiane.

    https://it.wikipedia.org/wiki/Cisgiordania

    Anche la storia della parola “abside” pronunciata erroneamente all’inglese mi mancava proprio.

    Comunque sia reggetevi forte, non dobbiamo mollare con la nostra petizione !

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  12. A proposito della Cisgiordania, anch’io come Davide ho fatto dei controlli e ho visto che – con l’aiuto dei traduttori – corrisponde alla denominazione in arabo e in ebraico, contrariamente alla riduttiva “West Bank”. E alquanto curiosa mi è parsa, nella definizione generale della Cisgiordania: “Parte della Giordania a W [sic!] del fiume Giordano” sia da parte della De Agostini on line che da Sapere.it
    Per quanto riguarda i testi delle elementari, mi auguro che gli insegnanti anche con parole semplici facciano notare quel “cis” e il suo significato perché, anche se raro, compone altre parole.

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  13. La pura semplicità vorrebbe che si chiamassero le cose per il loro nome. Evidentemente la semplicità costa fatica; chissà perché?! Si persiste nel volersi esibire contaminando l’Italiano ed in aggiunta storpiando la lingua Inglese.{pronunce maccheroniche in salse variegate}. Ed è comunque quasi logorroico ripuntualizzare ma ahimè, a sentire uno spropositato, continuo uso del ‘Englitalish’ purtroppo non aiuta e quindi. Ieri sui vari TG solita liturgia linguistica con l’immancabile ‘rosario’ di ‘lockdown’ ma poi “qualche ‘photo reporter’ è stato arrestato”: giornalista/cronista fotografo?… noo_o!!!
    Poi si parla di Oxford University come se vi fosse una sede con campus o edificio della stessa. Non esiste. Ox.Univ e’ un raggruppamento di 38 diversi ‘colleges’ con nomi propri ed ogni uno indipendente e storicamente unici che formano una unione tipo federale sparsi nella cittadina di Oxford. Quindi se vi è un evento da riportare giornalisticamente sarebbe giusto citare il ‘college’ di riferimento con tanto di maestoso palazzo/i, spesso con relativi giardini ed ampi cortili. E.g. E’ successo davanti alla Balliol College della Oxford University.
    E sempre i TG Italiani fanno riferimento a Londra come ‘la City’. In realtà la City (orientativamente l’area è quella di Londinium) è un territorio ben delimitato, sede delle grandi corporazioni, un distretto finanziario-bancario totalmente indipendente con autogoverno e un proprio aeroporto int.le; nulla a che vedere con la città di Greater London. Sarebbe un po come accomunare il Vaticano con Roma Capitale o vice-versa.
    Infine, chissà quanti non si rendono conto che Washington non si trova negli USA. Alt, spiego! Washington D.C., per l’appunto, è anch’esso un territorio con speciale autonomia e senza rappresentanti nel parlamento USA, posto sul suolo dello STATO degli Stati Uniti d’America ma non è situato in nessuno degli ‘Stati’ uniti. Il Distretto della Columbia (D.C.-District of Columbia) è una circoscrizione ritagliata fra lo Stato del Maryland e lo Stato della Virginia. Quindi temo che forse non sia solo il lessico della lingua Italiana ad essere tendenzialmente accartocciato.

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  14. Consapevole della tematica trattata, azzardo ad intrufolarmi per segnalare che Recovery Fund è semplicemente Fondo Recupero, quindi non ci sarebbe bisogno di pronunce azzardate come Guido Castelli ex-sindaco Ascoli che stamane sulla 7 ha pronunciato per ben due volte Recovery ‘found’…fondo ‘ritrovato’; probabile intendeva che finalmente, dopo esserselo perso, l’ha ritrovato?!….Sulla Radio oggi 16 Giugno: fact cekeen -da fact cheking-controllo dati o fatti. Frankentein è un animale da compagnia, a confronto!
    P.S. [approfitto] il sito ENGLITALISH ora è inglesismiplus.wordpress.com___non ho idea come sia apparso il collegamento vecchio a firma ENGLITALISH. Molte Grazie et Semper Vivat Italica Lingua.
    Un cordiale saluto a Tutti da RP

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  15. Buongiorno.

    A proposito della ministra Dadone, citata nell’articolo, che dice “smartizzabile”. Un giornalista, sul Corriere di oggi, le chiede: “Adesso si dice «smartabili» per indicare le attività che possono essere fatte da fuori ufficio. Va di moda, ma non le sembra è una parola orrenda?” Risposta: «Non amo prendere posizione sul genere maschile o femminile di “ministro” e allo stesso modo non amo il dibattito sulle scelte lessicali di matrice italiana o inglese. Sono una persona pratica: chiamatela come vi pare, la sostanza non cambia. Abbiamo fatto un protocollo con l’accademia della Crusca sulla chiarezza del linguaggio amministrativo, lascio dirimere volentieri la questione a loro» (qui l’intera intervista: https://www.corriere.it/politica/20_giugno_17/dadone-smart-working-parole-irrispettose-ufficio-su-tre-0133d434-b0d5-11ea-960e-a5a2de99a416.shtml).

    Io sono senza parole. Ma un ministro spagnolo o francese avrebbe mai risposto “chiamatela come vi pare”? E poi la Crusca, ma dov’è? “Toc toc. C’è nessuno”?

    Per non parlare del giornalista che scrive “…ma non le sembra è una parola orrenda?”. Io, questa frase, l’avrei scritta senza ‘è’: “ma non le sembra una parola orrenda?”, o al massimo col congiuntivo: “ma non le sembra che sia una parola orrenda?”. O sbaglio io?

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    • Grazie, ho letto l’articolo e hanno corretto il refuso finale. Sono sempre ostile alle valutazioni estetiche sulle parole, dipende dall’abitudine, e paradossalmente “smartabile” è almeno un vocabolo che non viola le regole dell’italiano. Mi colpisce di più un’affermazione del giornalista come “Lo smart working funziona solo se legato alla valutazione della performance, cioè se si lavora per obiettivi.” Da notare il ricorso all’inglese che precede la spiegazione italiana data dopo: prima si sparano i concetti all’inglese, poi si usa l’italiano per spiegare. E’ una scelta comunicativa che rivela lo stto delle cose. Anche scrivere “Quante sono le persone in smart?” è preoccupante. “In smart” non vorrebbe dire nulla, è una decurtazione all’italiana di uno pseudoanglicismo. E poi il titolo del pezzo è davvero assurdo… Sembrerebbe una critica all’anglicismo, mente l’articolo parla di altro. Il Corriere mi pare sempre più illegibile.

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    • Credo che alla terza, massimo quarta elementare la frase del giornalista: “ma non le sembra è….” sarebbe stata sottolineata in ROSSO da una/un Maestra/o minimamente abile e attenta/o. Purtroppo la parola ‘orrenda’ usata dallo stesso giornalista è applicabile anche alla frase costruita da egli stesso…Mahh! Che Ennio Flaiano ci avesse visto bene dicendo: “L’Italiano è una lingua parlata dai doppiatori”?…Mi verrebbe quasi da esclamare alla M.L.King: ‘…Io ho un sogno, che un giorno, tutti gli Italiani, quando si esprimono in lingua italiana, non cercheranno di mescolarla (mix,ehh!-miscelare-combinare-mischiare) con inglesismi inutili e non necessari, perché la parola in italiano o la frase in italiano già è più che sufficientemente idonea ad essere compresa. Io ho un sogno’…Che resti tale?

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  16. @Gino, a me pare che il/la ministro/a (?) Dadone abbia usato “smartabile”, oggetto di recentissimo dibattito su Twitter, con o senza “#”. Non sapevo di “smartizzabile” che invece già compare da qualche mese anche nei testi di siti istituzionali. Che Dadone intendesse far riferimento a quest’ultima forma?
    Carla

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  17. …Il massimo dell’assurdità avviene quando molti Italiani, nell’esprimersi, ricalcano parole in inglese traducendole in italiano dicendo: E.g. ‘sapete,…le fake news, cioè le bufale…lo smart working, ovvero il telelavoro, il lockdown sapete, la chiusura totale, la mission, cioè il nostro obiettivo, ci sono le news, le notizie di oggi ecc.ecc., molti hanno questa strana forma mentis/ modus operandi nel linguaggio di addirittura voler fare da interpreti a se stessi. Veramente temo qualcosa non funzioni…come dice quel comico partenopeo: “la capa nun è bona”!

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  18. Considerazioni sparse (su diversi inutilismi)

    Schermo tattile sarebbe molto più bello di touchscreen e, come si abbrevia touchscreen in “touch”, questo diventerebbe “il tattile”.

    Se nell’ informatica c’è il clic (senza K), sui cellulari tattili c’è il TAP… tappa qui, tappa là.
    Era sufficiente un “tocca”.

    A proposito smartphone… INTELLEFONO? :-)) o intellifono 🙂

    Poi guai a non usare Swipe Up.
    È sufficiente Scorri su.

    Il problema è che gli italiani non lo capiscono.
    Se lo fai notare a qualcuno, ti rispondono “Eh, ma si dice così”… intendendo questi sono i termini ufficiali.

    E io direi: sì, in inglese

    Stamattina ho appreso che in un Bioparco ci sono i “punti food”.

    Non esiste trasmissione o canale dove non si parli in itanglese.
    Alcuni servizi di Report di lunedì sera su Rai 3 sono scandalosi.
    Ma anche le altre trasmissioni o telegiornali ci vanno vicini.

    I prodotti gluten free non sono uguali a quelli senza glutine?
    Anche questo FREE si è diffuso dappertutto.
    Così come friendly. Dall’interfaccia user-friendly del sistema operativo, ad ogni ambito. Fa piacere sapere che qualche città è bike-friendly…

    E infine se poniamo che la parola e il concetto di Smart siano irrinunciabili… in una lingua sana si prenderebbe questa parola e diventerebbe aggettivo di tante altre.
    Qui invece di orologio Smart, braccialetto Smart, TV (televisore) Smart, lavoro Smart ecc. ecc., abbiamo Smartwatch smartband Smart TV Smart Working Smart City e altre dozzine.
    Nel primo caso è solo una parola, pur presente come il prezzemolo e accostata un po’ a tutto ciò che è moderno. Nell’altro caso sono centinaia di anglismi regalati.

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    • Su smart e tutte le altri radici che diventano prefoissodi o suffissoidi (baby, gender, manager, food, covid + N dove N = inglese: covid pass, manager, hospital, like…) se vuoi ti lascio un articolo che ho scritto sulla Treccani: http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/ibridazione.html
      Il punto è che l’inglese consiste ormai in una rete di parole e radici che si ricombinano e si espandono nel nostro lessico come un cancro. Purtroppo i linguisti vanno avanti con i loro schemi astratti basati sui prestiti come entità isolate, e non capiscono cosa sta accadendo. Se poi aggiungi che le cose che scrivi, che sono sotto gli occhi di tutti, sono negate da linguisti come Giuseppe Antonelli che ci spiega che l’anglicizzaione è solo un’illusione ottica, è chiaro che l’italiano muore. Salvatore Sgroi chiama gli anglicismi dei doni, altri li considerano una ricchezza… I politici ci regalano il family act perché ormai le leggi sono act e le tasse tax… la Crusca non fa nulla… Siamo un Paese allo sbando. Senza futuro.

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      • Eh Beh, molto così si spiega se persino I linguisti o altri esperti di fama sembrano adagiarsi sulle assurde, distorte, note dell’Italinglese (l’Italiano che si appoggia incessantemente all’inglese) o l’Englitalish (l’Inglese storpiato dal suo insistente, inutile innesto nella lingua italiana)-[lingua né carne né pesce]. E allora sono d’accordo che l’Italia è allo sbando e questo è solo un sintomo del suo andare alla deriva. Mettere ordine alle parole già significherebbe iniziare a voler fare chiarezza e riformare la struttura e sostanza dell’Italia per migliorarla e non tanto solo per cambiarla. Tanti dicono dobbiamo ‘cambiare’. Ma ciò Già sta avvenendo ora, solo che il cambiamento è nettamente in negativo. Si attende con ansia che la benedetta Crusca almeno esca dal ‘mulino’ con notevole autorevolezza in merito alla famigerata faccenda….I panifici linguistici languiscono!

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        • La panificazione della Crusca ha smesso di separare il fior di farina, sforna pagnotte integrali, che sono di moda, e integrano anche gli anglicismi. Per prodotti english free ti consiglio le baguette dell’Académie française o i prodotti a lievitazione naturale delle accademie spagnole.

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      • Non tutti i linguisti la pensano come i citati.
        Qualche anno fa sentii alla radio l’intervento di un linguista, forse era proprio De Mauro (ma era comunque uno noto)…
        Diceva più o meno: “continuando di questo passo, anche se in linguistica è difficile fare previsioni, fra 30 anni l’italiano sarà composto di tutte parole inglesi, forse rimarrà solo qualche preposizione, articolo, qualche verbo.”

        Avendo detto questo circa 7-8 anni fa, diciamo che la previsione si compirebbe entro il 2040.
        E temo che non ci sia andato molto lontano.

        Lei (o tu?) spesso ripete in questa pagina “ognuno parla come vuole”…
        Certo, sacrosanto.
        Ma il problema è che tutta una serie di alternative e di espressioni straniere non sarebbero dovute nemmeno esistere.

        Se tu dai la scelta a un italiano contemporaneo, nel 98% dei casi sceglierà il termine esotico. Il problema è proprio che te li danno in pasto.

        Infatti, in questa pandemia avendo dato le tv “distanziamento sociale” senza alternative tutti lo ripetono così
        Ma se fosse stato alternato a Social distancing… oggi saremmo nella stessa posizione di lockdown, dove quasi nessuno dice confinamento clausura blocco isolamento serrata…

        E che bisogna c’era allora di contact tracing quando tracciamento dei contatti è perfetto?

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        • Mi sento di escludere che la previsione che hai sentito sia attribuibile a De Mauro. Bisogna specificare che gli anglicismi hanno nel 90% dei casi valore di sostantivo o di locuzione con valore nominale, dai miei calcoli attualmente costituiscono il 4% o 5% dei sostantivi di un dizionario, e nel 2050 potrebbero diventare il 10%. E’ un’enormità, significa che l’italiano sopravvive per le cose vecchie, e tutto ciò che è nuovo si esprime con anglicismi. Ciò è confermato dai neologismi del nuovo Millennio, il 50% sono in inglese, esattamente come la metà dei vocaboli informatici, sempre stando alle marche dei dizionari. I verbi italiani sono a volte ibridati (whatsappare, downloadare, googlare, chattare, computerizzare…) ma queste percentuali sono ancora basse anche se aumentano molto; e per le altre parti grammaticali non c’è una grande infiltrazione. Fuor dai dizionari bisogna ragionare sulle frequenze e sulla penetrazione dell’inglese nel linguaggio di base (gli anglicismi sono decuplicati dal 1980 a oggi). Anche le frequenze aumentano. Lo scenario dell’itanglese, che in molti settori è già realtà, è di questo tipo.

          Il problema della “scelta” nel caso dei parlanti spesso non si pone. I mezzi di informazione, i politici, i tecnici, la classe dirigente, le multinazionali… veicolano le parole inglesi senza alternative. Punto. Non credo che un italiano sceglierebbe di dire lockdown se il convento passasse alternative, fermo restando che l’esterofilia italiana è atavica e storica. La libertà di scelta appartiene ai francesi e agli spagnoli. Lì le accademie sfornano alternative e i parlanti possono scegliere se dire selfie o egoritratto, brainstorming o spremimeningi/diluvio di idee.
          “Ognuno parla come vuole” significa che non si può vietare un anglicismo (almeno fuori dal linguaggio istituzionale dove dovrebbe essere vietato). Ma allo stesso tempo bisognerebbe creare e promuovere le alternative. Altrimenti non resta che assistere allo sfacelo. Ma chi non vuole fare nulla ne è complice, questo deve essere chiaro: stare a guardare in nome di un descrittivismo ipocrita che contraddistingue i linguisti italiani è da colpevoli. E per gli ignavi provo lo stesso disprezzo di Dante nel suo Inferno.

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      • Mi pare che non ci sia da stupirsi che se c’è lo smart woking si cominci a parlare di smart worker… e magari presto i lavoratori interi diventeranno worker, visto che il jobs act, cioè l’abolizione dell’articolo 18, va nella direzione di fare del lavoro qualcosa di più simile al modello statuintense, che a quello dlla nostra storia. Le multinazionali come Amazon, danno una mano in questo progetto, con i loro bei “contratti” che rendono i dipendenti schiavi. Chiamarli worker, o anche rider in altri casi, aiuta a travesire questa schiavitù in modernità.
        Quanto alla Rai, oggi è di moda dire che ha rinunciato alla funzione pedagogica/educatrice del passato. Non è vero! Sta continuando ad educare ma con altre prospettive: sta educando all’inglese e all’itanglese, e costruendo in questo modo la lingua del futuro. La lingua che un tempo ha contribuito ad unificare che adesso sta contribuendo a ibridare.

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        • Eh lo so, però non dobbiamo cantar sconfitta troppo presto: dopotutto la nostra petizione non è ancora completata; quando poi verrà finalmente consegnata al presidente della Repubblica ne riparleremo sul nostro futuro.

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  19. Agli inizi della pandemia, in Francia, tutti pronunciavano covid al maschile ( le covid). Dopo qualche settimana l’ Académie Française ha “solo” fatto notare che sarebbe più appropriato dire LA covid, al femminile, dato che la D di covid sta per desease, cioè LA maladie. In men che non si dica, tutti i media hanno seguito la prescrizione, d’altronde sensata, senza evocare crociate linguistiche o aprire stupidi dibattuti sulla libertà di usare i termini come uno vuole. L’académie non ha di certo impedito che parole come challenge, planning o dealer prendano il posto degli equivalenti francesi ma, come Antonio ha più volte detto, si dà l’alternativa poi ognuno sceglie. Senza alternative il problema della libertà, è vero, non si pone, ma ciò non implica che si è liberi, anzi. Forse Fusaro non ha torto, direi ha totalmente ragione, quando denuncia la tirannia del pensiero unico globalizzante: One world-one Word.

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    • La stessa cosa è avvenuta per le accademie spagnole. La Crusca, se devo essere sincero, non capisco che ruolo abbia. E’ solo un gruppo di studiosi, ma per quello ci sono già le università. O si rifonda e diventa davvero un organo di difesa della lingua o non si capisce quale sia il suo ruolo. Nel caso del/la covid, ha preso posizione solo con un cinguettio, su Twitter, precisando che essendo il nome della malattia, è corretto il femminile. Tuttavia, il presidente Marazzini, intervistato dal Messagggero, sembra usare il maschile (https://accademiadellacrusca.it/Media?c=ed9c542a-3c7f-4a94-b434-b1c6a19dd586) e in un docmento ufficiale della Crusca si legge addirittura “diffusione del virus Covid-19”, che confonde malattia e nome del virus (https://accademiadellacrusca.it/Media?c=a38d649b-980d-4c20-b1f4-b3d6375bf97f). Insomma siamo allo sbando, e proprio sul Messaggero la decisione del femminle è lasciata a Pregliasco, ci rendiamo conto? (vedi: https://www.ilmessaggero.it/italia/coronavirus_covid_19_come_si_dice_maschile_femminile_malattia-5204196.html). Sul sito della Crusca non trovo consulenze linguistiche in proposito. Ma del resto “ufficializzare” non rientra nei compiti di questa istituzione, al massimo consiglia, più spesso latita. E nelle parole nuove della pandemia, ne raccoglie solo 4: https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/titolo/7945
      Diciamo, come dire… che si potrebbe fare di meglio? Tra l’altro, coronavirus a parte, 2 sono anglicismi crudi, e solo 1 è un anglismo adattato. Ma anche sull’anglicizzazione della nostra lingua la Crusca non interviene, tranne in qualche sporadico comunicato del Gruppo Incipit che non fa certo un lavoro sistematico, è solo un’iniziativa di facciata. A 5 nni della sua costituzione è ormai evidente la sua inutilità.
      Su Fusaro, concordo con la sua difesa delle veterolingua contro l’inglese delle multinazionali che accosta con ragione allo scenario di Orwell.

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