Come entrano gli anglicismi: dalle locuzioni alle “parole madre”. Il caso “room”

Se l’entrata della parola manager nell’italiano ha preceduto le locuzioni con cui si associa  (top manager, general manager, sales manager… ), non sempre l’entrata degli anglicismi segue questo percorso. Spesso il meccanismo è quello opposto: prima compaiono varie locuzioni che contengono una parola e poi questa finisce per entrare nella disponibilità di tutti, anche se non è registrata come voce a sé nei dizionari, proprio perché veicolata dai tanti composti in circolazione che la contengono.

La storia di “room”

Room, per esempio, non è un lemma registrato autonomamente da dizionari come lo Zingarelli o il Devoto-Oli 2017, ma tutti sanno che significa stanza o camera.

La sua comparsa nella disponibilità degli italiani ha avuto inizio con espressioni come tea room, entrata nei primi del Novecento, ma poi, dagli Quaranta, affiancata e quasi completamente rimpiazzata da sala da tè. Anche grill-room, tutt’ora annoverata nei dizionari per indicare una griglieria, risale a quel periodo e ha avuto una circolazione effimera. La locuzione dining-room è invece arrivata intorno agli anni Sessanta, ma non ce l’ha mai fatta a scalzare la preesistente e consolidata sala da pranzo. Nello stesso periodo circolava il living room, il soggiorno, rimasto un modo di dire elitario (anche se ultimamente circola maggiormente ed è riproposto sui giornali e in qualche pubblicità semplicemente come living), così come room service non si è mai imposto sul ben più gettonato servizio in camera, nel linguaggio alberghiero.

Questi casi di bassa circolazione hanno però preparato il terreno per fare conoscere l’anglicismo “madre” a tutti e hanno così favorito l’entrata di nuove espressioni di maggior successo.

Negli anni Ottanta è comparsa la press room, la sala stampa, e poi gli showroom, che invece hanno preso piede; dal 1995 è decollata la chat room, anche se oggi si parla solo di chat.

Tra le parole del nuovo Millennio sono spuntate altre espressioni come control room, la centrale di controllo degli aeroporti e altre strutture, la green room, sala di attesa per le pause degli artisti nei teatri, la situation room, sala riunioni di carattere politico e militare, la shooting room, struttura dove è possibile il consumo di stupefacenti in modo vigilato, la dark room, dove si consuma sesso al buio con gli sconosciuti, e di recente si sta affermando il rooming in, l’affido in camera del neonato alla neomamma, anziché la sua collocazione nel reparto neonatale (nursery) delle cliniche.

 

room in italiano
La frequenza della parola room (nell’italiano: 1850-2008) nei grafici di Ngram Viewer

 

In conclusione: spesso l’entrata di un anglicismo non è un “prestito” che si aggiunge alle parole italiane in modo isolato. Una buona metà degli anglicismi importati si ramifica in famiglie di parole che si ricombinano tra loro in una rete che si espande nel nostro lessico.

Ogni nuovo forestierismo ridefinisce tutta l’area di significato delle parole autoctone già esistenti, si ricava un suo spazio peculiare che non sempre appartiene all’inglese (per es. shoppping che si riferisce agli acquisiti personali o di lusso invece che fare la spesa in modo generico), a volte fa morire le parole italiane che diventano inutilizzabili (calcolatore/elaboratore davanti a computer). Ma soprattutto: anche se non sono registrate nei dizionari, molte parole inglesi entrano nella disponibilità di tutti, si legano tra loro e aprono la strada all’entrata di un numero di anglicismi sempre più ampio (un altro esempio è quello di new e dei suoi composti).

 

Come (e quanto) entrano gli anglicismi nell’italiano: analisi di “manager”

L’analisi storica dei dizionari è molto utile per capire con quali modalità, e con quale penetrazione sempre maggiore, gli anglicismi entrano e si radicano nella nostra lingua. Naturalmente questo è solo uno dei parametri per comprendere cosa sta accadendo all’italiano, insieme all’analisi della frequenza delle parole che è oggi possibile grazie alla Rete, agli archivi digitali dei giornali e a nuovi strumenti di misurazione della lingua. Le mie ricerche e analisi partono da queste fonti che vengono incrociate e valutate attentamente, badando anche alla coerenza dei risultati che emergono.

A titolo di esempio, per mostrare come sto procedendo nel documentare le mie affermazioni, voglio proporre la storia della parola manager.

Premessa: manager è un anglicismo che deriva dall’italiano maneggiare.

Fino al Settecento non avevamo alcun rapporto culturale diretto con l’Inghilterra. Anche gli italianismi che si ritrovano nell’inglese sino al Cinquecento riguardano solo i termini della finanza, tanto che ancora oggi a Londra c’e la Lombard Street, perche lombard indicava i commercianti del Nord Italia, e termini come cash, bank e bankrupt derivano, per mediazione del francese, dall’italiano cassa, banca e bancarotta. Esattamente come è successo per manager.

Il verbo italiano maneggiare era presente già nell’italiano del Trecento, ma si riferiva al governare i cavalli, e oggi di questa antica accezione rimane solo il termine maneggio. Con il tempo,  maneggiare ha cominciato a riferirsi non più solo ai cavalli, ma anche al denaro (nel dialetto milanese il “manegiun” cioè maneggione è chi maneggia i soldi) e il termine è passato nell’inglese antico generando to manage, che alla fine dell’Ottocento (1895 secondo il Devoto Oli e 1888 secondo lo Zingarelli) è ritornato nell’italiano attraverso management e manager, connessi con il dirigere le aziende.

Ma la frequenza di manager, sino al 1960, era praticamente nulla nella nostra lingua, come si evince dai grafici di Ngram Viewer (in generale non molto affidabili per le occorrenze basse, ma piuttosto significativi e coerenti con tutti gli altri parametri analizzati nel caso di parole di alta frequenza).

 

fequenza di MANAGER in italiano
La frequenza di manager nel corpus italiano di GoogleBooks dal 1940 al 2008

 

Per la cronaca: un confronto con quanto accade in Francia (dove esistono una politica linguistica e una serie di leggi a tutela della lingua francese) e in Spagna (dove l’orgoglio nazionale e il lavoro di una ventina di accademie rendono superflue le leggi a tutela dello spagnolo) può essere indicativo.

 

fequenza di MANAGER in italiano francese e spagnolo
La frequenza di manager in italiano, francese e spagnolo

 

1995-2017: il raddoppio delle locuzioni con “manager”

Nel 1995, un secolo dopo la datazione di manager del Devoto Oli, sullo stesso vocabolario le locuzioni composte da questa parola, erano diventate 8 (7 lemmi + 1 accezione) e precisamente:

manager, area manager, brand manager, credit manager, general manager, marketing manager (che però non era un lemma a sé bensì si trovava come locuzione sotto la voce marketing), sales manager e top manager.

Nel 2017, lo spoglio dello stesso dizionario restituisce invece 17 parole (16 lemmi + 1 accezione) dunque un raddoppio in circa 20 anni, e cioè (in grassetto le nuove entrate):

manager, area manager, brand manager, city manager, community manager, content manager, credit manager, energy manager, general manager, marketing manager (sempre sotto la voce marketing), mobility manager, product manager, project manager, sales manager, risk manager, security manager, top manager.

Un confronto con lo spoglio dello Zingarelli 2017 si arricchisce di altre 2 registrazioni: facility manager e money manger: se sommiamo anche queste voci le locuzioni diventano 19.

 

La nuvola di anglicismi fuori dai dizionari

Quanto registrato dai dizionari è però una fotografia molto diversa da quello che accade nel linguaggio di tutti i giorni. I dizionari registrano le parole che si sono affermate e che presumibilmente non sono occasionalismi effimeri, cioè parole che si usano per un certo periodo ma che poi possono decadere e passare di moda.

Per avere un quadro di ciò che avviene nel linguaggio di tutti i giorni può allora essere utile cercare manager in Rete, attraverso Google, nelle notizie dei giornali e soprattutto negli annunci di lavoro. E qui la situazione si complica terribilmente, perché viviamo immersi in una nuvola di anglicismi diffusi nella stampa e nel linguaggio aziendale e non registrati dai dizionari davvero molto alta.

Di seguito riporto alcune tra le locuzioni più diffuse non presenti nei dizionari ma che si trovano in Rete e nelle notizie dei giornali in lingua italiana:

country manager
station manager
temporary export manager
junior business development manager
real estate development manager
digital ecobrand manager
business control manager
department manager
net manager…

La faccenda si aggrava cercando manager nelle offerte di lavoro dei siti specializzati, dove tra le figure ricercate si trovano per esempio (provare per credere):

account manager
engineering manager
project engineering manager
delivery manager
SEO manager
store manager
temporary supply chain manager
district manager
academy manager
restaurant manager
network project manager
maintenance manager
transport manager
store manager fashion luxury
IT manager
quality manager
export manager
finance manager
technical supervior manager
sub-agenti team manager
transport manager support
program manager
site manager/capocantiere
technical manager tlc di cantiere
yield manager / revenue manager
application manager…

Qui mi fermo, non per mancanza di altri esempi (e ce ne sono), ma perché ormai vivono di vita propria e manager si ricombina con le più disparate altre parole inglesi, al punto che non è più possibile registrare tutte le locuzioni e gli occasionalismi. Tra questi ci sono di sicuro molti lemmi dei dizionari del futuro. Ma purtroppo questa è la lingua che, fuori dai dizionari, si parla nel presente.

PS
Molte di queste locuzioni mi risultano oscure e incomprensibili, ma so per certo che un content manager non è un “dirigente contento” (magari di avere un lavoro), ma chi gestisce i contenuti.

L’itanglese è la lingua del mondo del lavoro di oggi, non solo di domani

Il mondo del lavoro è qualcosa di terribilmente concreto, che riguarda tutti, adesso, oltre che domani. E il linguaggio aziendale è diventato questo: itanglese allo stato puro, dove la trasparenza non esiste, non è chiaro (forse volutamente) quali siano di preciso i ruoli ricercati, quali le mansioni, e tutto si ricombina spesso in neoconiazioni estemporanee a scapito dei significati.

Ai “linguisiti” che continuano a ripetere che nella lingua italiana non sta accadendo nulla di pericoloso, e che quello che vado denunciando è il solito grido di allarme privo di fondamento come se ne son già visti in passato rispondo che non si può più negare: se i numeri e i conteggi che ho pubblicato non sono veri li smentiscano numeri alla mano, se ne sono capaci. Altrimenti tacciano. Perché, davanti ai fatti, continuare a ripetere “secondo me non è vero” è esattamente come dire “secondo me la terra è piatta”.

 

 

Itanglese: 2 punti di vista dall’estero

Pubblico un paio di contributi che mi sono arrivati dall’estero, sul tema dell’itanglese; mi sembrano molto utili per comprendere altri punti di vista, rispetto a quello interno italiano, soprattutto di molti linguisti che continuano a non rendersi conto e a sottovalutare come l’inglese stia snaturando la nostra lingua.

 

Daniele Pelliccia dall’Australia: le “parole donnola” di Don Watson

Daniele Pellicia: “Le scrivo per ringraziarla del lavoro che sta facendo. È stato un piacere per me scoprire quello che scrive. Io vivo da anni in Australia e ho assistito da lontano al diffondersi di tanti termini inglesi (spesso a sproposito) nell’italiano. Le volevo segnalare una campagna simile in molti aspetti alla sua per l’italiano, portata avanti qui in Australia da Don Watson, uno scrittore e saggista che lamenta il progressivo impoverimento dell’inglese per via dell’avvento di un certo tipo di linguaggio manageriale (e ‘politichese’) che sta svuotando di significato molte parole.”

La frase (…) “weasel words” è stata coniata dallo scrittore australiano Don Watson. (…) ha fatto notare come la lingua inglese sia in decadenza per via dell’uso massiccio e incontrollato di un certo tipo di linguaggio aziendale, tecnico, asciutto, noioso. Questo linguaggio ha trasformato molte parole in “parole della donnola”, espressione che allude al fatto che la donnola va in cerca di uova nei nidi degli uccelli. Trovatili, pratica un buchino sui gusci e succhia via le uova lasciando dietro gusci intatti, ma vuoti. Allo stesso modo, il tipico linguaggio della dirigenza aziendale, infestando tutti i meandri del discorso pubblico, ha trasformato molte parole in gusci vuoti, privi di significato (tra l’altro, andatevi a leggere La manomissione delle parole, bellissimo saggio di Gianrico Carofiglio, stessi temi). Le parole della donnola servono a nascondere il significato invece che rivelarlo. Servono a rendere incomprensibili le parole dei politici, o le postille in calce ai contratti telefonici, oppure il significato di strumenti finanziari, così come i moduli da compilare in qualche ufficio pubblico. Servono a mantenere tanta parte della popolazione in condizione di sudditanza culturale, oltre che sociale.

[Leggi l’articolo integrale di Daniele Pelliccia].

Daniel De Poli dalla Francia: l’importanza di una politica linguistica e l’inglese che diventa una lingua extracomunitaria

Daniel De Poli: “Ho letto con interesse i vostri articoli sulle parole inglesi. Io sono francese e penso che in Italia non è possibile lottare contro gli anglicismi perché non avete una politica terminologica come c’è in Francia o in Québec. Questa politica ci permette de tradurre moltissimi termini inglesi, che vengono dopo usati naturalmente dai francofoni. È già da tempo che noi usiamo ordinateur o logiciel al posto di computer o software (oralmente mai usati da nessuno). Ma ci sono moltissimi esempi di questo tipo, che potete trovare sul famoso gran dizionario terminologico.”

Risposta: Sono d’accordo, il problema, in Italia, è che non esiste una politica linguistica, oltre che terminologica, e io mi batto proprio perché vorrei che il mio Paese seguisse l’esempio di Francia e Spagna. Però il problema non è solo questo: un intervento dello Stato a tutela della lingua italiana sarebbe utile per far emergere la questione, ma non sufficiente. Il ginepraio italiano è che i mezzi di informazione (e più in generale la classe colta e dirigenziale del mondo della scienza, del lavoro, dell’economia…) preferiscono le parole inglesi e ricorrono all’inglese anche in presenza di alternative italiane storiche. Sui giornali  (soprattutto nei titoli, gridati in bella vista) la frequenza per es. di leader invece di guida/capo, pusher/spacciatore, fake news/bufale… si sta spostando quasi esclusivamente sugli anglicismi, come è facile verificare consultando gli archivi digitali dei giornali. La conseguenza di questo linguaggio è che la gente poi ripete naturalmente queste parole e le alternative italiane escono dalla disponibilità dei parlanti, oppure risultano obsolete e suonano antiche. Il linguaggio della moda, per es., un tempo infarcito di francesismi oggi è prevalentemente itanglese, tutto è glamour e dai fuseaux si è passati ai leggins, dalle paillettes al glitter… e parlare di trucco invece che di make-up, o di parrucchiere invece di hair stylist è diventato un linguaggio antico.
La Costituzione francese indica che il francese è la lingua ufficiale, da noi no, anzi, l’inglese è introdotto nelle leggi dai politici (jobs act, spending review, spoil system, il presidente del consiglio è ormai chiamato premier…) e la legge Toubon in Italia è stata derisa e attaccata da molti linguisti importanti, perché evoca gli spettri del passato, le proibizioni linguistiche di epoca fascista. Sarebbe necessario dunque un cambiamento culturale, un “cambio di paradigma”, una riflessione su quello che sta accadendo in Italia che porti a spezzare la moda di preferire l’inglese e di vergognarci di dirlo in italiano, schiacciati da un senso di inferiorità davanti alla cultura inglese. Questo è il problema principale.

Daniel De Poli: “In Francia, le emittenti televisive e radiofoniche devono utilizzare i termini ufficiali francesi, come indicato in questa pagina del Consiglio superiore dell’audiovisivo (CSA). Questo desiderio di evitare anglicismi si ritrova anche nel regolamento di France Télévisions:

«Il personale è tenuto ad usare correttamente la lingua francese, in conformità con le disposizioni della legge n. 94-665 del 4 agosto 1994. Si astengono, in quanto tali, dall’usare termini stranieri quando hanno un equivalente in francese.»

Più in generale, tutte le istituzioni pubbliche francesi devono utilizzare i termini ufficiali francesi nelle loro comunicazioni, come indicato nell’articolo 11 del decreto n. 96-602 del 3 luglio 1996. Se la Costituzione francese indica che il francese è la lingua ufficiale, e quella italiana no… non è troppo tardi per farlo. Se la legge Toubon in Italia è stata derisa e attaccata, bisogna tenere in considerazione che è sempre in vigore e ha permesso di frenare l’anglicizzazione del mondo del lavoro. In Francia, l’inglese non può legalmente essere lingua di lavoro in una società con sede in Francia, sia essa francese o straniera. Infatti, non appena una società viene stabilita in territorio francese, tutti i documenti di lavoro, incluso i software (logiciel in francese), devono essere disponibili in francese. Alcune società sono state severamente sanzionate negli ultimi anni dai tribunali per l’uso illegale dell’inglese. Ad esempio, la società americana GEMS nel marzo 2006, è stata multata di 570.000 euro per aver trasmesso documenti in inglese senza traduzione ai suoi impiegati francesi. Allo stesso modo per Danone.
Comunque, una buona notizia c’è. Ed è che la pressione degli anglicismi sarà sicuramente molto meno forte nei prossimi anni perché l’inglese cesserà di essere lingua ufficiale e lingua di lavoro dell’UE a partire dal 2019, quando il Regno Unito sarà uscito dall’UE. In effetti, questo paese è il solo ad avere scelto l’inglese come lingua di comunicazione con le istituzioni europee (l’Irlanda ha scelto il gaelico e Malta il maltese). Sparito l’inglese, resteranno due lingue di lavoro in Europa: il francese e il tedesco. E sarà sicuramente il francese a essere la nuova lingua franca delle istituzioni europee, perché questa lingua ha un peso geopolitico internazionale molto più forte di quello del tedesco e perché molti stati europei fanno parte dell’Organizzazione internazionale della Francofonia o vogliono farne parte. Per di più, le tre capitali dell’Europa (Bruxelles, Lussemburgo et Strasburgo) sono tutte tre francofone. Non dimentichiamo anche che l’egemonia attuale dell’inglese in Europa fa guadagnare 10 miliardi di euro alla Gran Bretagna, soldi che vengono dalle tasche degli altri Europei. Come si potrà dire in futuro che l’inglese è una lingua franca se è assente in uno dei tre poli di potenza mondiali che è l’Unione europea? [Daniel De Poli, Illkirch France].

L’itanglese esiste davvero?

La Divina Comedy

by Dante D. Alighieri
translated by zop

 

 

dante
Alex S. Botticelli: Dante Alighieri.

Infernal tour

Canto I

 

Nel mezzo degli step di nostra vita
mi ritrovai in location oscura,
che la best practice si era smarrita.

Ahi a dirne about è cosa dura
on the road selvaggio sì hard e forte
che nel mio inside rinova la paura!

Tant’è strong che il benchmark è la morte;
ma per il tracking del good ch’i’ vi trovai,
dirò delle altre news ch’i v’ho scorte.

 

 

Se l’itanglese non esitesse, non sarebbe possibile compiere stupri letterari come questo, o come quello di Manzoni e di Leopardi.

L’itanglese esiste, ed è per questo che bisogna combatterlo.

Interferenza linguistica [5] Una classificazione dei forestierismi misurabile

L’interferenza linguistica dell’inglese sulla sintassi italiana

L’interferenza linguistica è un concetto più ampio della semplice presenza dei forestierismi. Alcuni studiosi hanno analizzato l’impatto dell’inglese sulla nostra sintassi, che ha portato per esempio al diffondersi di espressioni come vota per il tal partito invece di vota il tal partito, per l’influenza dell’inglese vote for. Anche frasi come chi ha comprato cosa?, chi è andato dove? (le interrogative con il doppio referente) non appartengono all’italiano storico ma sorgono sul modello di who’s who? E ancora, i costrutti come: fatto da e per donne, pronto a, ma ancora lontano da, venire, e la forma congiunzione/disgiunzione e/o (libri e/o riviste) derivano dall’interferenza dell’angloamericano. Così come la tendenza a usare frasi come pensa positivo invece di positivamente (gli aggettivi riferiti al verbo invece dell’avverbio) e l’accostamento di due nomi come aereo spia, batterio-killer, oppure l’inversione all’inglese di qualche accostamento tra aggettivo e nome: baby-spacciatore invece di spacciatore baby, il papa-pensiero, o le espressioni con il no anteposto sul modello di non profit e no global.
Si può ricondurre all’inglese il diffondersi di stare seguito dal gerundio per indicare qualcosa che “sta per avvenire” e non qualcosa di statico che perdura in un certo periodo di tempo. In altre parole, se in passato si trovavano espressioni come sto mangiando, che esprime un’azione statica che si svolge nel presente, in tempi recenti si sono diffusi modi dire come non mi sto ricordando se o sta succedendo che per esprimere una trasformazione e un processo, come nella progressive form inglese.

Ma a parte questi e altri simili fenomeni, va detto forte e chiaro che l’influenza dell’inglese sulla sintassi è ben poca cosa, e non scalfisce l’impianto della nostra lingua.

L’interferenza linguistica dell’inglese sul lessico italiano

Il problema dell’eccesso dell’inglese riguarda solo il lessico, e cioè il nostro vocabolario, e per essere più precisi ha intaccato l’insieme di nomi e aggettivi, mentre i verbi e le altre parti del discorso non ne risentono in modo preoccupante.

Se accanto alle nostre preposizioni semplici di, a, da, in, con, su, per, tra, fra si aggiungono for, from e by, per esempio, non significa affatto che un quarto delle preposizioni sono ormai in inglese e l’invasione è proclamata, perché se in un libro quelle italiane ricorrono migliaia di volte, quelle inglesi hanno un’occorrenza magari di una volta sola o poco più, dunque la loro presenza è assolutamente trascurabile.

Anche i verbi sono in buona sostanza al riparo da ogni conclusione catastrofista, perché vista la differente struttura di italiano e inglese, non possiamo includere e utilizzare forme come to drink, per esempio, che infatti sostantivizziamo in drink. A parte casi rarissimi (come vote for o enjoy), l’interferenza dell’inglese sui verbi passa per una parziale italianizzazione, prendiamo cioè la radice alloglotta e la trasformiamo in verbo applicando le regole della coniugazione in –are, per es. filmare o speakerare.

Mentre filmare è un anglicismo invisibile, perfettamente integrato e indistinguibile dai verbi italiani (se non nella sua storia che deriva da film), speakerare è invece un semiadattamento che, nella radice, viola il nostro sistema ortografico e di dizione. I verbi come downloadare, googleare, whatsappare, spoilerare e via dicendo possono risultare o meno fastidiosi, ma non costituiscono un pericolo per la nostra lingua per il semplice fatto che il loro numero è limitato e sopportabile: se ne contano 2 o 300 nei vocabolari, e poiché i verbi registrati mediamente da un dizionario monovolume come il Devoto Oli sono all’incirca 10.000, la percentuale è bassa, anche se il loro uso è frequente e anche se molti di essi sono neologismi di cui non abbiamo alternative.

Lo stesso non si può dire dei sostantivi, visto che il 90% degli anglicismi sono nomi (e in misura minore locuzioni e aggettivi): ammettere circa 3.000 sostantivi inglesi non adattati, su circa 60.000 sostantivi presenti in un dizionario (escluse le parole arcaiche, rare o desuete) comincia a rappresentare una percentuale che porta conseguenze significative: quasi il 5% dei nomi è in inglese non adattato, e soprattutto la loro frequenza è mediamente alta, non sono più prevalentemente tecnicismi come 30 o 40 anni fa, sono molto spesso parole entrate nel linguaggio comune che si ritrovano sui giornali e nell’uso quotidiano.

Forestierismi “invisibili” e “corpi estranei”

Se le classificazioni dei forestierismi in prestiti di lusso e di necessità, e prestiti insostituibili, utili e superflui presentano molti limiti concettuali, non sono proficue e soprattutto sono soggettive e non misurabili, un criterio di classificazione più oggettivo e utile per misurare l’interferenza dell’inglese può essere quello di distinguere i termini stranieri in invisibili e in corpi estranei.

I forestierismi invisibili sono quelli che, pur non avendo un etimo e una provenienza autoctona, non violano il nostro sistema morfosintattico né nella grafia né nella pronuncia, e dunque (visto che l’epoca del purismo è una storia chiusa) non costituiscono alcun problema per la nostra lingua. Per es. l’allargamento di significato di realizzare = “rendersi conto” (per l’interferenza di to realize) anziché di “costruire qualcosa” fa parte della normale evoluzione di una lingua viva, anche se può piacere o non piacere.

In modo analogo, l’entrata di parole come spa, lo stabilimento termale (dal nome della città termale belga Spa), gringo (dallo spagnolo), sauna (dal finnico), mascara (un anglicismo di ritorno: dall’italiano maschera la parola ci è ritornata con il significato di trucco per “mascherare”) non è un problema: si scrivono come si leggono e non rappresentano alcuna violazione “del bel paese là dove ‘l sì suona”.

Per non passare per puristi né per intransigenti, tra questi forestierismi invisibili si possono annoverare anche quelli come bar, film, sport, che pur terminando in consonante (e quindi rappresentando una discontinuità rispetto alla tendenza di terminare le parole in vocale, come notava Arrigo Castellani), non costituiscono un problema troppo preoccupante. Negli ultimi anni, infatti, queste parole sono molto aumentate, soprattutto a causa degli anglicismi, ma non solo, in fondo i suoni in consonante finale appartengono anche alle voci poetiche storiche (“Nel mezzo del cammin di nostra vita) e a molti dialetti soprattutto del Nord. Anche parole come tsunami (giapponese) o glasnost (russo) e simili si possono considerare abbastanza invisibili, nonostante la loro combinazione ortografica fuori dai nostri canoni, visto che si leggono e scrivono all’italiana. E volendo essere aperti, tra i forestierismi invisibili (o quasi) si possono includere anche parole che contengono le cosiddette lettere straniere come k, y o j, se non violano la nostra pronuncia, per es. sudoku, yoyo o kaputt. Anche se in questi casi siamo al confine con i corpi estranei: una parola come curvy è ancora ammissibile tra i “quasi invisibili”, se pronunciata con la u, mentre diventa un corpo estraneo se si pronuncia con la a, all’inglese. Esattamente come computer, mouse, abat-jour, leitmotiv… e tutti gli esotismi che si scrivono e leggono con regole estranee all’italiano.

Venendo perciò ai corpi estranei, va premesso che queste parole non sono un male in sé: la loro presenza è un fenomeno normale in ogni epoca e in ogni lingua. Il punto è la loro quantità. Un centinaio di ispanismi o di germanismi registrati nei dizionari, e persino quasi un migliaio di francesismi non integrati, non sono pericolosi per il nostro lessico.

Al contrario, l’attuale presenza di circa 3.500 anglicismi, entrati nell’italiano non attraverso substrati linguistici secolari, ma negli ultimi 70 anni, e con una tendenza di crescita in aumento come numero e come frequenza, sta snaturando la nostra lingua.

Dai casi isolati a una rete di anglicismi interconessi che si espande nel nostro lessico e porta all’interiorizzazione di regole estranee

Questa penetrazione lessicale (anche se non ha intaccato le strutture fondamentali dell’italiano = la sintassi)  è così estesa che ha portato ormai all’interiorizzazione di nuove regole lessicali nei parlanti: per es. preferiamo dire blogger, anziché bloggatore (seguendo la nostra consuetudine lessicale), sul modello di stalker, stopper e le altre centinaia di parole con questa desinenza inglese a cui ormai ci siamo assuefatti, come ci siamo abituati  alle desinenze in –ing (advertising, mobbing, jogging…).

Ma c’è di più, il numero incontrollato di anglicismi forma ormai una rete di radici inglesi e di parole “appicicose” che si ricombinano tra di loro con un effetto domino:

day si ricombina con gli altri elementi alloglotti e genera open day, day after, election day, day by day, day hospital…

act si diffonde in jobs act, student act, Africa act, food act, green act….

Questa rete sempre più fitta di corpi estranei si allarga di giorno in giorno e si espande nel nostro lessico autonomamente ricombinandosi non solo in locuzioni inglesi ortodosse, ma addirittura in pseudoanglicismi e ricombinazioni all’italiana che sono vere e proprie nostre reinvenzioni dal suono inglese: il beauty case, le baby gang, la barwoman

Esistono centinaia di queste “famiglie” di parole “appiccicose” che si concatenano tra loro formando più di un migliaio di espressioni anglicizzate di uso comune che si espandono sempre più, per es.:

back è presente in anglicismi diffusi nella nostra lingua come backup, background, backgammon, backdoor, backstage flashback o playback… -> play a sua volta si ritrova in player, playlist, playoff, playstation, long play, playboy… -> boy circola in cowboy, boyfriend, boy scout, game boy, toy boy, teddy boy, golden boy… e così via.

In conclusione: quando il numero di forestierismi in una lingua supera i livelli di guardia, ecco che nasce sia un’interiorizzazione di regole estranee alla lingua che le ospita, sia una interconnessione autonoma  tra le parole alloglotte che sfugge a ogni controllo. Questo processo sta portando l’italiano verso l’itanglese, ed è il primo passo che, con il tempo, può portare verso la creolizzazione. Se non si spezza questa moda assurda e deleteria di preferire gli anglicismi ai termini italiani, se non si ricomincia a tradurre e ad adattare, se la nostra lingua non si riappropria della capacità di evolvere autonomamente attraverso la coniazione di neologismi, il futuro dell’italiano è seriamente a rischio.