Hate speech: l’incitamento mediatico all’odio (contro l’italiano)

Una lettrice mi ha segnalato l’impennata della frequenza di “hate speech” nei mezzi di comunicazione dell’ultimo mese “in seguito soprattutto alle vicende che hanno coinvolto la senatrice Segre”. Ciò che l’espressione designa è tristemente antico. E anche questo virgolettarla dalla cultura statunitense non è nuovo, circola da una decina di anni, benché inizialmente si dicesse soprattutto in italiano, incitamento all’odio. La novità è che più passa il tempo più la nostra lingua scivola in secondo piano e retrocede, diventa la spiegazione da affiancare all’espressione inglese gridata nei titoli che inevitabilmente poi diventerà quella più in uso, tecnica, corretta e “insostituibile”.

Le radici dell’odio

In un articolo della Repubblica del 29 maggio 2013 (“Facebook, stop violenza alle donne: utenti e investitori contro il sessismo”), si poteva leggere che a Palo Alto avevano ammesso “di aver sottovalutato l’insidia del cosiddetto ‘hate speech’, ovvero ‘odio mediatico’, che nell’avversione alle donne trova uno degli esempi più diffusi e deprecabili.”

Tutto inizia ogni volta così, con qualche occasionalismo virgolettato affiancato da una spiegazione. Le schermaglie che precedono questa prima fase, di solito, sono espressioni del tipo: “Nella giurisprudenza statunitense esiste un’espressione per indicare l’incitamento all’odio…”; oppure: “Hate speech, come dicono con una bella locuzione gli americani…”.
Con il tempo l’anglicismo comincia a essere utilizzato sempre più in primo piano, la traduzione letterale o possibile viene solo affiancata, e non è mai evocativa o precisa come il dio inglese.
La terza fase è quella di far sparire ogni corrispondente. L’italiano che serviva da bastone si getta. C’è solo l’inglese, possibilmente da sbattere nei titoloni (cliccare per credere). La traduzione, se va bene, si trova all’interno dell’articolo, giusto per spiegare di che cosa si sta parlando ai subalterni che non capiscono, al rango inferiore della società reo di non padroneggiare l’idioma alto della cultura globale. E così nel 2018 l’espressione è stata annoverata tra i neologismi della Treccani, che riporta numerose citazioni dai giornali. Il prossimo passo saranno i dizionari e il radicamento nella nostra lingua?

Già mi prefiguro gli anglopuristi e i giornalisti che tra qualche tempo argomenteranno: hate speech non è proprio come le parole o i discorsi di odio… è qualcosa di più, qualcosa di intraducibile… E poi gli equivalenti italiani non sono in uso…
Questo ragionamento è frutto di una prospettiva malata! Sempre più spesso gli anglomani decidono di usare l’inglese invece dell’italiano, nella fase iniziale, e procedono con un martellamento in cui lo diffondono senza alternative. Fino a quando possono concludere che l’italiano non è più in uso… bella scoperta! Siete voi che avete scelto di non usarlo e di farlo ammuffire! Un bel circolo vizioso per creare l’alibi della necessità dell’itanglese.

In questo modo entrano migliaia di parole inglesi che alla fine ci vendono come “insostituibili”. Selfie? Non è certo la stessa cosa di autoscattoKnow how? Non è proprio come competenze… si legge sul sito della Crusca. Stalker è più preciso di persecutoremobbing non corrisponde esattamente a vessazione
–  “Ma mobbing in inglese non si usa molto nel significato lavorativo che gli diamo noi!”
– “Non fa nulla, in italiano si è acclimatato a questo modo. Rassegnati, ormai è un tecnicismo e si deve dire così. È la stampa, bellezza!”

Chi prende queste posizioni, chi afferma che gli anglicismi sono “intraducibili” e “necessari” dovrebbe dire come stanno le cose fino in fondo. Ciò vale solo per l’italietta degli anglomani fieri di essere coloni. Selfie non è “intraducibile” né in Francia né in Spagna, dove coniano nuove parole come “egoritratto” o ampliano il significato di quelle vecchie come “autoscatto”. Know how non si usa in francese, oppure è perfettamente tradotto in spagnolo, ed entrambi i Paesi non vedono la necessità e l’intraducibilità di stalker, perché usano la propria lingua, e invece di dire mobbing dicono meglio harcèlement moral o acoso laboral. Davanti all’espansione dell’inglese ci sono lingue che resistono ed evolvono autonomamente, e altre che soccombono.

E allora chi fa la lingua in Italia? Quali sono i nuovi centri di irradiazione dell’italiano?
Già negli anni Sessanta Pasolini (“Nuove questioni linguistiche”, Rinascita, 26 dicembre 1964) aveva capito che l’italiano basato sui testi letterari e sul toscano era finito e che il neoitaliano tecnologizzato arrivava dai centri industriali del Nord. Oggi Milano è la capitale dell’itanglese, e il lessico della tecno-scienza ci arriva direttamente dall’inglese globale, come la terminologia del lavoro. A fare la lingua spesso sono gli influenti della Rete, dunque siamo passati dal prestigio letterario di Manzoni a quello linguistico della coppia Ferragni-Fedez, un bel salto di modernità, non c’è che dire! E a fare la lingua sono soprattutto i mezzi di informazione, che un tempo hanno unificato l’italiano e oggi stanno unificando l’itanglese.

I giornali attingono il peggio da tutti questi settori e lo sbattono in prima pagina facendolo diventare il moderno italiano.

Le conseguenze dei picchi di stereotipia del giornalismo

L’ossessività con cui, nei giornali e nei telegiornali, le espressioni e le parole vengono spesso ripetute in modo martellante e senza mai ricorrere a sinonimi, come un tormentone mono-significato, è ben nota. Il concetto di “stereotipia” nei mezzi di informazione è stato ben evidenziato per esempio da Maurizio Dardano (Il linguaggio dei giornali italiani, Laterza, Bari-Roma 1986, p. 236). Ma si può citare anche Riccardo Gualdo:

La lingua dei giornali assorbe come una spugna gli usi nuovi, contribuisce potentemente a farli diventare di moda e, infine, anche a fissarli nell’uso ripetendoli in modo ossessivo” in una “riproduzione meccanica di associazione di (nome-aggettivo, intere frasi) o di traslati in origine brillanti ma a poco a poco resi stucchevoli per il troppo uso.

L’italiano dei giornali, Carocci Editore, Roma 2005, p. 85.

Il lessico della stereotipia coinvolge ormai soprattutto gli anglicismi e le espressioni mutuate dagli Stati Uniti. Come ha osservato nella sua tesi Gaia Castronovo:

L’assenza di sinonimi è dovuta molte volte “a lasciare a terzi il lavoro di traduzione per le notizie di politica estera direttamente dalle agenzie (es. ANSA). Spesso le bozze non subiscono una revisione dalla redazione, ma vengono pubblicate cosi come sono, a causa delle rapide tempistiche e, talvolta, mancanza di personale.”

Gaia Castronovo, “La semantica del linguaggio politico e il ruolo degli anglicismi”, tesi di laurea in Linguistica del Corso di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Padova, anno accademico 2015/2016, p. 48.

E così un’espressione come “fake news”, virgolettata direttamente dai discorsi di Trump, invece di essere tradotta con notizie false o bufale, si è radicata in un batter d’occhio nella nostra lingua al punto che oggi ci si chiede: “Ma come si potrebbe rendere in italiano?”
Ma come facevamo a parlare di queste cose sino a tre anni fa? Come facevamo a esprimerci nella nostra lingua prima che prendessero piede parole ormai “insostituibili” come location?

L’impatto che i picchi di anglicismi hanno sulla lingua si può misurare con molti esempi significativi.

Se si analizza la frequenza della parola compound negli archivi del Corriere della Sera, si vede che tra il 2003 e il 2010 era trascurabile, ricorreva in un numero limitato di articoli (una media di 5 all’anno), e talvolta non indicava un edificio, ma un tipo di arco che si usa nelle competizioni sportive, perché il termine ha due significati. Nel 2011, improvvisamente gli articoli salgono a 41. In quell’anno, infatti, c’è stata sia la guerra con la Libia in cui Gheddafi era barricato nel suo compound, sia l’uccisione di Bin Laden scovato in un compound in Pakistan. In entrambi gli episodi, la parola ha avuto una vasta eco mediatica quasi senza alternative, dovuta probabilmente al riportare la notizia con le stesse parole delle fonti americane. Poi, passato il momento dell’ossessività, nel quinquennio fino al 2016, negli stessi archivi si può notare che la parola ricorre con una media di poco più di 20 articoli all’anno. In sintesi, dopo il picco della stereotipia, causato da eventi contingenti, la frequenza della parola si abbassa, ma è ormai diventata popolare rispetto a prima, e viene perciò usata normalmente 4 volte di più.

Antonio Zoppetti, Diciamolo in italiano. Gli abusi dell’inglese nell lessicodell’Italia e incolla, Hoepli 2017, p. 124-125.

Ma questo fenomeno non è causato solo dallo scimmiottamento di ciò che arriva d’oltreoceano, siamo bravissimi a farci male da soli anche sul piano interno. Riporto una tabella tratta dalla citata tesi di Gaia Castronovo che ha analizzando la frequenza della parola job sul quotidiano La Repubblica dal 1984 al 2014. I picchi di stereotipia saltano all’occhio.

tabella gaia castronuovo JOB
Gaia Castronovo, “La semantica del linguaggio politico e il ruolo degli anglicismi”, tesi di laurea in Linguistica del Corso di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Padova, anno accademico 2015/2016, p. 52.

La parola, più che essere usata da sola, è quasi sempre associata ad altre in varie espressioni, e negli anni Ottanta le occorrenze erano sotto la decina.

“La media annuale si assesta poi su un ordine di grandezza in più (10-50). Il grafico mostra inoltre dei picchi che corrispondono alle ripetizioni ossessive a cui si riferisce Gualdo nella citazione sopra riportata. Negli anni Duemila era il momento di job rotation e job creation, nel 2014, invece, di job act.”

Gaia Castronovo, “La semantica del linguaggio politico e il ruolo degli anglicismi”, op. cit. p. 52.

Quello che è successo dopo lo sappiamo. L’iniziale job act si è attestato definitivamente con la s di jobs act, e oggi la frequenza sui giornali delle tante combinazioni di job è aumentata a dismisura. Un bell’anglicismo “produttivo” come dicono alcuni linguisti, ma più onestamente si potrebbe dire: infestante. In attesa che il mondo del lavoro diventi del job, come quello della ristorazione è ormai del food, mentre l’economia diventa economy, il verde green, e le tasse tax, ci sono ancora dei linguisti negazionisti che ci raccontano che non sta accadendo nulla. C’è anche chi preferirebbe mettere l’italiano in un museo – invece di praticarlo, difenderlo, farlo vivere ed evolvere – e afferma che l’anglicizzazione è solo “un’illusione ottica”. Infatti sarebbe circoscritta solo in alcuni ambiti, come l’informatica, e poi “sono soprattutto i mezzi di comunicazione e i politici” a usare le parole inglesi… Affermazioni come queste sono imbarazzanti, come se questi che vengono considerati “marginali” non fossero proprio i nuovi centri di irradiazione della lingua. Non rendersi conto dell’impatto che i mezzi di informazione hanno sull’italiano, oltre a essere antistorico, è soprattutto anti-attuale. Il linguaggio dei giornali è quello che viene poi inevitabilmente ripetuto dalla gente, e finisce così nei dizionari. Per questo capita che un vecchietto, che non hai mai avuto a che fare con uno spacciatore in vita sua, racconti scandalizzato che hanno arrestato un pusher proprio dietro casa sua. Perché l’ha letto sul giornale.

pusher e spacciatore google
Cercando “pusher” e “spacciatore” sulle Notizie indicizzate da Google risulta chiaro come l’anglicismo sia preferito.

È significativa a questo proposito una ricerca del 1999 in cui Katalin Doró ha scandagliato le annate di Corriere della Sera, Il Messaggero, La Repubblica e L’Espresso. Tra i 416 anglicismi presenti nei titoli e nei sottotitoli, 89 non erano presenti nello Zingarelli del 1995. Ma cosa è successo dopo? Che 23 di questi sono stati registrati nel 2000 (5 anni dopo), e altri 12 nel 2002.

Katalin Doró, “Elementi inglesi e angloamericani nella stampa italiana” in Nuova Corvina, Rivista di italianistica, num. 12, 2002, Istituto Italiano di Cultura Olasz Kultùrinézet, Budapest, pp. 78-91.

Ancor più significativo è uno studio di Antonio Taglialatela del 2012 sulle prime pagine di Corriere della Sera, La Repubblica e La Stampa per rintracciare gli anglicismi più usati, con lo scopo di dimostrare che “riescono a penetrare nel lessico per il loro uso ‘popolare’, dovuto in gran parte ai media e al linguaggio politico, trasformandosi in vere e proprie voci di dizionario”. Se nel 2012 solo 4 di essi non erano presenti nei vocabolari (bailout, downgrade, fiscal compact e stress test), controllando sull’edizione del Devoto-Oli 2017 si vede che adesso sono stati annoverati anche questi.

Antonio Taglialatela, “Le interferenze dell’inglese nella lingua italiana tra protezionismo e descrittivismo linguistico: il caso del lessico della crisi”, in Linguæ &, Rivista di lingue e culture moderne, Vol. 10, Num. 2, 2011., p. 78 e tabella 3 p. 88.

La conclusione è che il 100% degli anglicismi più utilizzati dalla stampa finisce inevitabilmente nei dizionari e nella lingua, è solo questione di tempo.

Sono i giornali che portano alla diffusione delle parole che poi i dizionari non possono che registrare, come si fa a non capirlo? Alla faccia di chi pensa che siano un fenomeno circoscritto e marginale o passeggero e caratterizzato da rapida obsolescenza.

In Diciamolo in italiano (p. 96-97) ho confrontato le parole inglesi annoverate nel Devoto Oli 1990 con quelle del 2017 (nessuno lo aveva mai fatto) e il risultato è che da circa 1.600 anglicismi siamo arrivati a 3.500, e quelli che invece sono usciti “falciati dalla scure del tempo” che qualcuno sbandiera, non si capisce su quali basi, sono 67! Ma di quale obsolescenza si sta parlando? I picchi di stereotipia giornalistici possono anche essere passeggeri e possono anche regredire. Ma quello che ogni “tsunami anglicus” (cito Tullio De Mauro) ci lascia dopo ogni ondata è la distruzione della nostra lingua.

Per questo è importante che davanti al monolinguismo anglicizzato dei mezzi di informazione (in generale, non solo nel caso di hate speech che si appoggia a sua volta a hater che grazie ai giornali ha la meglio su odiatore) si facciano circolare le nostre alternative che vanno difese da chi – il suo odio – lo riversa solo contro la lingua italiana. Purtroppo questo tipo di odio sembra non suscitare alcuno scandalo. I giornali, invece di deprecarlo, lo alimentano.

Politecnico di Milano: la nuova sentenza che apre all’inglese nell’università

La notizia è di pochi giorni fa. Sulla possibilità di insegnamento in lingua inglese al Politecnico di Milano, una nuova sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato completamente quella del 19 gennaio 2018 che sanciva il primato della lingua italiana all’università, secondo quanto espresso nel 2017 dalla Corte Costituzionale.
La novità è che si può insegnare prevalentemente in inglese. In questo modo, di fatto, si spalancano le porte ai corsi universitari in lingua inglese non solo al Politecnico, ma anche in tutti quegli atenei che si potranno appoggiare a questo precedente per emulare la strategia milanese.

La sintesi di una complicata vicenda che risale al 2012

marco cerase in italiano pleaseLe vicende giudiziarie sulla questione sono lunghe e complicate, ma per ripercorrerle in modo agile e molto comprensibile segnalo il libro chiaro e piacevole di Marco Cerase: In italiano please! Istigazione all’uso della nostra lingua all’università (Armando editore, Roma 2019).

Sintetizzo la storia infinita che Cerase ha delineato con obiettività e precisione nelle tappe tra tribunali di giustizia e aule parlamentari.

Bisogna risalire al 2012, quando Giovanni Azzone, allora Rettore del Politecnico di Milano, decise di rendere obbligatorio l’insegnamento solamente in lingua inglese nei corsi magistrali e dottorali a partire dall’anno accademico 2013-2014, estromettendo così la lingua italiana dalla formazione superiore di ingegneri e architetti.
La decisione sollevò l’indignazione di molte persone e un gruppo di docenti cercò inutilmente di convincere l’ateneo a cambiar rotta. Bisogna precisare che il motivo del contendere non era l’estromissione dei corsi in lingua inglese (come spesso si è detto erroneamente). Questi insegnamenti già esistevano e nessuno ne aveva chiesto la soppressione. Il punto era un altro: non estromettere l’italiano passando all’insegnamento nella sola lingua inglese.

Davanti all’irremovibilità del Politecnico, moltissimi docenti firmarono un appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A nulla valsero il polverone mediatico e le prese di posizione dell’Accademia della Crusca (cfr. N. Maraschio e D. De Martino, Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica, Laterza, Bari-Roma 2012). Così, grazie all’iniziativa di Maria Agostina Cabiddu – docente di Istituzioni di diritto pubblico che per la sua battaglia ha da poco ricevuto il premio della Crusca “Benemeriti della lingua italiana” – il gruppo di professori si è rivolto al Tar della Lombardia che ha dato loro ragione sancendo che la lingua italiana dovesse mantenere il “primato in ogni settore dello Stato” e che la decisione era illegittima.

Ma il Politecnico e – si badi bene! – il nostro Ministero dell’Istruzione e dell’Università (il Miur), invece di accettare questo giudizio, hanno impugnato la sentenza del Tar presso il Consiglio di Stato che ha a sua volta sollevato dei problemi sull’illegittimità costituzionale di una norma su cui l’appello del Miur si fondava.

Nel 2017 è così arrivata una sentenza della Corte Costituzionale (21 febbraio 2017 – 24 febbraio 2017, n. 42) che ha ritenuto “non condivisibili” tutte le considerazioni del Tar Lombardia, e pur riconoscendo la “primazia” della lingua italiana (tutelata anche dall’art. 9 Cost.) ha ammesso la possibilità di erogare insegnamenti anche in lingua straniera, specificano però che

“gli atenei debbono farvi ricorso secondo ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza, così da garantire pur sempre una complessiva offerta formativa che sia rispettosa del primato della lingua italiana, così come del principio d’eguaglianza, del diritto all’istruzione e della libertà d’insegnamento.”

Chiarito questo punto fondamentale (il primato dell’italiano e l’erogazione dei corsi in lingua straniera secondo il principio di ragionevolezza e proporzionalità), finalmente il consiglio di Stato ha potuto emettere la sentenza finale del 2018 dichiarando che non è possibile l’insegnamento solo in lingua inglese e che, benché gli atenei possano erogare corsi anche in lingua inglese, l’italiano non può essere relegato in “una posizione marginale e subordinata” e il suo primato deve essere riconosciuto.

La storia sembrava finita bene… ma nonostante questa pronuncia, il Politecnico ha continuato a erogare corsi principalmente in lingua inglese. Perciò, i docenti guidati da Maria Agostina Cabiddu hanno promosso “giudizio di ottemperanza” visto che l’ateneo non aveva adempiuto a quanto indicato nella sentenza.

L’ultimo atto: la sentenza dell’11 novembre 2019

L’ultimo atto di questa battaglia che va avanti da 7 anni è arrivato qualche giorno fa: in data 11 novembre 2019, il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso ribaltando ciò che aveva affermato nella sentenza del 2018. Anche se è risultato “che su un totale di 40 corsi di laurea magistrale 27 sono in inglese, 4 sono in italiano e 9 sono in italiano e in inglese” e anche se “risulta che su un totale di 1.452 insegnamenti, 1.046 sono in inglese, 400 in italiano e 6 sono duplicati in italiano e in inglese” l’ultima sentenza ha dichiarato che il Politecnico non ha violato le prescrizioni di quella del 2018:

In particolare, risulta un numero adeguato di corsi di lingua italiana che consente di ritenere che sia stata effettuata una scelta amministrativa che rappresenta l’esito di un proporzionato bilanciamento di interessi, di rilevanza costituzionale, sottesi alle esigenze di internalizzazione dell’offerta formativa e a quelle di dare la giusta rilevanza alla lingua italiana.

Cerase Cabiddu Cattolica quale lingua per università 2019
L’incontro “Quante lingue per il futuro del Paese?” del 15 novembre (da sinistra: Stucchi, Cabiddu, Balzano, Cerase).

La notizia di questo ultimo verdetto è stata data venerdì scorso da Maria Agostina Cabiddu all’incontro “Quante lingue per il futuro del Paese?” che si è tenuto a Milano (presso l’università Cattolica, all’interno della manifestazione Bookcity) in cui Marco Cerase presentava il proprio libro. La professoressa ha anche mostrato non solo come la sproporzione tra i corsi in inglese e in italiano è evidente, ma anche che, andando a vedere i corsi coinvolti, è palese che tutti i corsi fondamentali sono in inglese, mentre nella nostra lingua risultano essere quelli opzionali e meno importanti.

Quello che è accaduto è molto semplice: anche se non è possibile passare esclusivamente e “per intero” all’insegnamento in inglese (i corsi non possono essere “solo” in inglese, ma devono essere “anche” in italiano), nella pratica basta erogare pochi corsi in italiano, magari quelli di minore rilevanza, per essere formalmente a posto.

Oltre a ribaltare ciò che aveva affermato l’anno scorso, con questo ultimo atto il Consiglio di Stato ha completamente disatteso ciò che aveva affermato la Corte Costituzionale, visto che questi numeri sul rapporto inglese/italiano non sono compatibili né con il “primato” della lingua italiana, né con il principio di “ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza” con cui dovrebbero essere distribuiti i corsi.

Purtroppo, in quest’ultima interpretazione del Consiglio di Stato, visto che il “principio di ragionevolezza” nella distribuzione dei corsi è soggettivo e lasciato alla discrezione degli atenei, il Politecnico è legittimato nella sua prassi anglomane e italianicida. Una politica che discrimina la nostra lingua, oltre gli studenti che non padroneggiano l’inglese e che si trovano dinnanzi a barriere che li escludono e impediscono loro l’accesso al diritto allo studio nella propria lingua madre.

Gli effetti distruttivi del globalese

La sentenza di pochi giorni fa apre la strada al passaggio all’insegnamento in inglese non solo al Politecnico, ma anche nelle numerose altre università che guardano proprio al modello di insegnamento di questo ateneo. È vero che una sentenza del genere non “fa legge”, è limitata al caso contingente, e dunque in caso di emulazione da parte di altri atenei è perfettamente legittimo ricorrere e attendere caso per caso le interpretazioni dei ricorsi, ma è anche vero che crea un precedente pesante.

Ha dunque vinto la logica che aleggia in molti Paesi e che vuole condurre tutto il mondo verso un bilinguismo dove gli idiomi locali sono visti come un accidente davanti all’imposizione dell’inglese globale. Il linguista tedesco Jürgen Trabant lo chiama “globalese” e spiega che è tutto il contrario del pluralismo linguistico. Secondo lo studioso, la strategia del globish sta portando a una moderna “diglossia neomedievale” che erge barriere sociali nei singoli Stati, dove si crea una frattura linguistica e culturale tra chi parla l’inglese e no, tra le classi sociali alte e quelle basse. Tutto ciò porta alla dialettizzazione delle lingue locali, perché identifica l’essere internazionali solo con il parlare in inglese, come se questa fosse la sola e unica lingua importante, da esportare in modo colonialistico in tutto il globo. Eppure, proprio nei Paesi dove il progetto del globalese si è quasi compiuto, come l’Olanda, ma anche altri del Nord Europa, si sta cominciando a riflettere con preoccupazione sulle conseguenze negative che ha sulle lingue locali. L’inglese come lingua dell’università o della scienza non si è rivelato un processo “aggiuntivo”, una risorsa in più che si affianca alla cultura nativa, bensì un processo sottrattivo che ha fatto retrocedere la lingua nazionale e ha portato alla regressione del lessico nativo. E proprio mentre in questi Paesi si dibatte sulle conseguenze dannose di questa prassi, da noi, invece, si accelera per andare in questa direzione distruttiva.

Opporsi all’inglese come la lingua prevalente dell’università e dell’insegnamento non significa volere ostacolare il “progresso” né opporsi a “essere internazionali”. In gioco c’è una diversa concezione del progresso e dell’internazionalismo, perché il pluralismo linguistico è un valore, e non coincide con essere colonizzati dalla sola lingua inglese. Le lingue, tutte le lingue, sono una ricchezza, non un ostacolo all’imposizione del globalese. Ma i corsi del Politecnico non sono in “lingua straniera”, dietro questa espressione si cela la scelta di passare a una sola lingua, l’inglese, non certo francese, spagnola o tedesca. In questa prospettiva, essere internazionali significa perciò aderire alla dittatura del monolinguismo globale. Il linguaggio è visto solo come un fatto pragmatico e comunicativo, e si ignora il valore formativo che contribuisce a costituire il nostro modo di pensare, la nostra cultura e la nostra identità. Non si può confondere la lingua dell’insegnamento e della didattica con quella della scienza, sono due cose diverse. Ma anche ritenere che la lingua della scienza debba essere solo l’inglese è un fatto su cui si dovrebbe maggiormente riflettere, perché non è così ovunque, e perché, come denuncia la scienziata Maria Luisa Villa (L’inglese non basta, Bruno Mondadori, 2013), porta alla perdita di poter fare divulgazione in italiano e “mutila” la nostra lingua togliendole la possibilità di esprimere la scienza. Un fatto che secondo linguisti come Luca Serianni o Gian Carlo Beccaria renderebbe l’italiano un dialetto:

“Una lingua che rinunciasse a esprimersi in aree culturalmente centrali, come la scienza e la tecnologia, sarebbe destinata a diventare nell’arco di pochi anni un rispettabilissimo dialetto: adatto alla comunicazione quotidiana e alla poesia, ma inadeguato a cimentarsi con la complessità del presente e con l’astrazione propria dei processi intellettuali”.

[Luca Serianni, “Conclusioni e prospettive per una neologia consapevole”, Firenze, Società Dante Alighieri, durante il convegno del 25 febbraio 2015].

“Se puntiamo su una lingua diversa dalla materna come lingua delle tecnoscienze, assisteremo a un nostro rapido declino come società colta. L’italiano, decapitato di una sua grossa parte, decadrà sempre più a lingua familiare, affettiva, dialettale, straordinariamente adatta magari per scrivere poesia ma incapace di parlare ai non specialisti di economia o di architettura o di medicina”.

[Gian Luigi Beccaria, Andrea Graziosi, Lingua madre. Italiano e inglese nel mondo globale, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 116].

 

Università, Europa e itanglese: i tre fronti in cui occorre intervenire

Ci troviamo davanti a un bivio, se non interveniamo subito il nostro patrimonio linguistico andrà in malora. Occorre una svolta ed è ora di prendere posizione e di schierarsi.

I fronti dove l’italiano andrebbe tutelato, perché è a rischio e regredisce, sono almeno tre, e sono tra loro fortemente connessi.
Davanti alla strada intrapresa dal Politecnico di Milano è necessario reagire e difendere l’italiano come lingua dell’università, pretendendo che mantenga il primato che gli ha riconosciuto la Corte Costituzionale. Allo stesso modo dovremmo tutelare la nostra lingua all’interno dell’Europa, visto che sta regredendo anche lì e non è più lingua del lavoro, schiacciata dall’inglese; il che ha delle ricadute pratiche anche nella vita di tutti noi cittadini se per partecipare ai bandi di concorso dobbiamo usare l’inglese persino per il finanziamento dei progetti universitari e di ricerca di interesse nazionale (PRIN). Il terzo fronte è quello che denuncio da anni: la distruzione dell’italiano dall’interno che ci sta portando all’itanglese. È inammissibile che il linguaggio delle istituzioni, della politica, delle leggi e della scuola sia sempre più infarcito di anglicismi.

Questi tre fronti sono strategici. Ma è possibile che siano presidiati solo dalle iniziative dei privati, da persone come Maria Agostina Cabiddu, Annamaria Testa o Giorgio Pagano con la sua petizione per l’italiano come lingua del lavoro in Europa? La politica dov’è? Che cosa fa?
Sta dalla parte dei nemici dell’italiano, a quanto pare. Perché non fare nulla e comportarsi da ignavi significa lasciare che tutto vada a rotoli. Non prendere posizione equivale ad affossare l’italiano.

Occorrerebbe che il nostro Paese cominciasse a fare ciò che in altri Paesi, come la Francia, la Spagna o la Svizzera, è normale: riflettere su cosa sta accadendo e varare una politica linguistica. Mentre in Francia nella Costituzione c’è scritto che il francese è la loro lingua, nella nostra si parla solo di tutela della minoranze linguistiche, e solo interpretando questo passo si ricava, per estensione, che dunque la lingua ufficiale dovrebbe essere l’italiano. La Crusca ha proposto almeno due volte che nell’articolo 12, accanto alla specificazione dei colori della nostra bandiera si aggiungesse che la lingua è l’italiano. Ma tutto è caduto nel vuoto. In Francia a nessun politico verrebbe in mente di introdurre anglicismi nel linguaggio istituzionale e politico (e in ogni caso sarebbe vietato). Da noi i politici, invece di promuovere la nostra lingua, introducono le tax alposto delle tasse, gli act invece delle leggi, e tra provvedimenti per la green economy e navigator l’itanglese è ormai la lingua delle istituzioni, del lavoro (Italo ha da poco introdotto la figura del train manager al posto del capostazione, nella comunicazione ai passeggeri e nei contratti di assunzione), del Miur…

Nel mondo ispanico esistono una ventina di accademie, coordinate tra loro per difendere e promuovere l’unitarietà di una lingua parlata in altrettanti Paesi; in Svizzera si sono stanziati ingenti somme di denaro per promuovere l’italiano che nel modello plurilinguistico (un bell’esempio davanti a chi vede la dittatura dell’inglese globale come l’unica soluzione possibile) è schiacciato dal francese e dal tedesco.

Nel nostro Paese si promuove la sottomissione all’inglese e si uccide l’italiano. Ci vergogniamo della nostra lingua, invece che salvaguardarla, e la mettiamo da parte perché vogliamo fare gli americani. E pensare che all’estero è così amata che, tutelandola, potremmo trasformarla in una potente risorsa anche economica, come lo è la nostra arte, la nostra natura o la nostra gastronomia.

Senza una politica linguistica, se continueremo a considerare l’inglese come superiore, se non tuteleremo e promuoveremo la nostra lingua, finiremo come gli Etruschi, che si sono sottomessi alla romanità fino a esserne inglobati e a scomparire nel suicidio della propria cultura.

Bookcity e la “gerarchia” degli anglicismi

Questa settimana parte l’ottava edizione di Bookcity, l’evento milanese dedicato ai libri, agli autori e alle letture che si snoda in molteplici incontri e iniziative disseminati per la città. Sono tutti eventi in italiano, rivolti agli italiani, e il logo della manifestazione consiste in un Duomo stilizzato fatto di libri. Ma nel linguaggio della città capitale dell’itanglese il libro è ormai book, e la città è city.

Quest’anno la locandina di Bookcity non pullula di anglicismi come quella della scorsa edizione, e la cosa mi ha sorpreso, oltre a farmi piacere.

bookcity
L’edizione di Bookcity 2018 nella comunicazione dell’evento.

Ma in generale Milano è in prima linea nella distruzione sistematica della nostra lingua attraverso la sua comunicazione, dalla Settimana della moda che è diventata Fashion Week, al Salone del mobile divenuto il Week Design. In questo volere essere internazionali puntando sull’inglese, e non sulla nostra lingua che all’estero ha invece un fortissimo richiamo, si anglicizza anche ciò che è rivolto all’interno della città:  nell’urbanistica la zona Fiera è diventata Fiera Milano City, si introducono i district, e non i distretti, e per fare gli americani si ribattezzano i quartieri, come il Nolo, cioè il North of Loreto. L’Atm, l’azienda meneghina dei trasporti, introduce senza alternativa il ticketless, e parla sempre più di ticket anziché di biglietti e così via.

In questo contesto, il punto non è solo che si diffondono gli anglicismi che anno dopo anno vanno ad aggiungersi ai lemmi dei nostri dizionari in numero sempre maggiore. E non c’è nemmeno solo il preoccupante aumento della loro frequenza d’uso e della loro “prolificità”, che qualcuno chiama ipocritamente “produttività”, per conferire un’accezione positiva (ma anche il cancro è “produttivo”, cioè cresce, si amplia intacca e distrugge le altre cellule, si allarga). C’è un altro fatto trascurato dai linguisti che sarebbe invece il caso di indagare e approfondire e che si potrebbe chiamare il problema della “gerarchia degli anglicismi”.

Le parole inglesi che irrompono nella nostra lingua, sempre più spesso, occupano una gerarchia alta. Sono usate come le categorie principali, come le etichette più significative per indicare ciò che è fondamentale, mentre gli equivalenti italiani sono collocati sotto, come specificazioni di ordine inferiore. E allora una manifestazione che parla di libri deve ormai chiamarsi Book: questo è il titolo, la categoria superiore in senso metaforico e letterale. Di libri si parlerà solo nel concreto e all’interno degli eventi. Quando sono oggetti quotidiani si esprimono in italiano, ma il settore è quello dei book.

Le parole inglesi di “categoria superiore” come book (ma anche food, green, economy, tax…) non sono come i “prestiti sterminatori” che fanno morire le nostre parole: computer che ha ucciso calcolatore, selfie e autoscatto, manager e dirigente, gossip e pettegolezzo/cronaca rosa, sticker e adesivo… Però diventano la copertina, mentre la parola “libro” slitta nel “fronte-ospizio” del frontespizio, di fronte all’inglese. È la stessa logica per cui gli anglicismi compaiono soprattutto nei titoli di giornale,  nelle insegne dei negozi (bookstore, hair stylist, wine bar…), sui biglietti da visita per indicare le professioni, nei concetti chiave della scienza, della cultura o dell’informatica, nelle innovazioni della politica. E in sempre più ambiti.

Nelle analisi sull’interferenza dell’inglese, allora, non c’è  da solo il numero e la frequenza. Le parole hanno un peso. E il peso della nomenclatura inglese schiaccia le alternative italiane. Il caso di book è esemplare per comprendere questo fenomeno.


Il boom del book

Quanto è infestante (non “produttiva”: infestante!) la parola book?
In principio il book era solo quello fotografico, il portafoglio per esempio dei modelli (o portfolio come si dice in inglese, ma anche in italiano, purtroppo). C’era anche il bookmaker, cioè chi compila il “libro degli scommettitori”, che in italiano è un allibratore. Ma oggi tutto è esploso in modo impazzito.

Le prenotazioni sono diventate booking e l’over booking spopola al punto da sembrare intraducibile e necessario, perché quasi a nessuno viene in mente di dire sovraprenotazione o eccedenza di prenotazioni, mentre le prenotazioni a largo anticipo che permettono sconti sono vendute, e perciò poi dette e ripetute, come advanced booking. In informatica un marcatore, un indirizzo o collegamento memorizzato, è bookmark, i piccoli calcolatori che si aprono come un libro sono arrivati come netbook, i libretti dei cd sono booklet, in Rete il libro degli ospiti è guestbook, e poi sono arrivati gli e-book, non i libri elettronici, che si leggono attraverso un e-reader e non un lettore (mentre la e- di electronic è diventata un prefissoide che genera un’infinità di altre parole, così tante che non è più possibile contarle).

E così book si è radicato sempre più, c’è il bookcrossing e non il passalibri o il giralibri (si appoggia al crossing over, al crossmediale, al cross, al crossare…), sono arrivati i booktrailer , e non i videopromo dei libri o le videoanteprime (perché trailer si è ben radicato). Le librerie diventano bookshop e bookstore, visto che botteghe, negozi e punti vendita stanno diventando shop o store (beauty shop, coffe shop, duty shop, e-shop, sexy shop, temporary shop… oppure e-store, megastore, temporary store, concept store… senza dimenticare gli show room).
E ancora, i libri tascabili sono pocket book, un’opera  di consultazione, enciclopedica è un reference book,  un libro sensoriale è un sensory book, un libro animato un flip-book, un libro a caldo è un instant book, un libro contabile aperto un open book, un opuscolo con la presentazione di un film è un pressbook

Si può continuare in questo elenco, ma a questo punto chi non è cieco ha capito perfettamente che cos’è oggi l’interferenze dell’inglese. È un dilagare incontrollato di radici infestanti che si ricombinano tra loro in una rete che si espande e che ha una portata devastante e soffoca la nostra lingua. Cercare di interpretare ciò che accade liquidando tutto con le categorie dei “prestiti” – cioè episodi isolati, singole parole etichettate in modo assurdo come di “lusso” o di “necessità” –  è ridicolo, miope, anacronistico e non permette di comprendere la portata del fenomeno: la rinuncia all’italiano, il trapianto linguistico non solo di singole parole, ma di espressioni e di una rete di fitte interconnessioni dove tutto ciò che è nuovo si esprime in inglese. Queste espressioni sono così tante che non è più possibile contarle. E in questa rete l’inglese occupa il vertice della gerarchia. Negare l’anglicizzazione non è solamente stupido e falso. È un atteggiamento irresponsabile e criminale.

Voglio citare un titolo di giornale che trovo esemplare per comprendere la nostra follia:

Allontanare ansia e stress con la creatività, i Color Therapy Book

Oggi vi parliamo di una tendenza nata in Francia e che in pochissimo tempo ha conquistato l’Europa intera, i Color Therapy Book… (Triesteprima.it, 4/11/2019)”.

Naturalmente in Francia questi libri non si chiamano così, perché i nostri vicini sono afflitti da una strana malattia che li porta a esprimere nella propria lingua ciò che inventano, e hanno semmai ideato la couleur thérapie, o la livre art thèrapie. Ma noi ribattezziamo in inglese persino una moda nata in Francia in lingua francese che si esprime con titoli come Livre mandalas coloriage creatif (édition Bravo) o Livres colorier mandala – Couleur thérapie Pages relaxation rtress gratuit pour adultes

La gerarchia degli anglicismi negli eventi editoriali

Francia 2019. Al salone del libro di Parigi un centinaio di scrittori e di intellettuali si sono ribellati contro la nomenclatura in inglese nell’editoria attraverso un appello per bandire categorie e parole anglicizzate come bookroom, photoboothm, live, brainsto, young adult, photobooth… (“Niente ‘bookroom’ o ‘live’ al Salon du Livre di Parigi: cento scrittori e artisti francesi contro l’invasione dell’ingleseIl Messaggero, 5/2/2019).

E in Italia cosa accade? Che le librerie diventano bookshop, con l’inglese gridato nelle insegne, il vertice della gerarchia delle parole. La libreria Mondadori è diventata Mondadori Bookstore, ed è nata la Feltrinelli Red, dove il colore “rosso” nasconde l’acronimo Read, Eat, Dream (ed ecco che spuntano anche i primi verbi in inglese, che fino a pochi anni fa non si erano mai visti), mentre tra best seller e long seller, thriller e modern fiction, home video e game… le categorie editoriali sono sempre più inglesi, comprese le graphic novel, nonostante l’origine italiana di novella mutuata dal Boccaccio (in francese roman graphique e in spagnolo novelas graficas). Ma, soprattutto, ogni fiera del libro o manifestazione di libri, da Bookcity di Milano  al Catania Book Days si esprime in inglese.

libreria feltrinelli red e mondadori bookshop

Una rassegna stampa degli eventi editoriali (limitata ai soli mesi di ottobre e novembre 2019!) porta risultati sconcertanti.

A Padova si è svolto “One book one city: aperitivo col vecchio che leggeva romanzi…” (PadovaOggi, 16/10/2019); anche qui, come a Milano, oltre a book al posto di libro, si parla di city, invece che di città.

A Genova c’è il Book Pride, nel 2019 giunto alla terza edizione che si appoggia all’introduzione della fortunata locuzione gay pride e dei suoi derivati (es. “A Milano uno School Pride a sostegno della Scuola Pubblica” = manifestazione di protesta; “Smog a Torino. Bike Pride” = corteo, sfilata di protesta in bicicletta…). E restando in Liguria si segnalano eventi più periferici come il Market book di Bordighera: “Il mercato coperto di Bordighera location dell’evento Market book”. Anche qui il libro è book, il luogo è location e il mercato diventa market, nell’era del marketing e dei suoi derivati (direct marketing, guerrilla marketing, marketing mix e marketing oriented, multilevel marketing, viral marketing…).

Nella ridente cittadina di Bardonecchia (ma c’è poco da ridere) si è da poco svolto un evento di “Sei incontri con sei autori per il Mountain book” (TorinOggi.it, 16/10/2019), dove la montagna è mountain nel gioco di parole con mountain bike (che si collega al bike sharing, city bike, bike friendly…). Sempre in Piemonte segnalo “Cook the Book a Carignano con quattro autori”  (Ieri Oggi Domani Cronache, Comunicati Stampa, 4/11/2019), dove cook – ecco di nuovo un verbo – ben si sposa con la proliferazione del food, che si trova nel programma “Food & Book”, di Montecatini Terme, “il festival del libro e della cultura gastronomica” (La Nazione, 9/10/2019).

Per rimanere in Toscana vale la pena di citare anche il progetto “OFF Book” del Dipartimento di Scienze politiche e internazionali dell’Università di Siena (“OFF Book: agli Industri performance finale del progetto…”, Grosseto Notizie, 16/10/2019) con una “Performance finale progetto OFF Book” (Maremmanews, 16/10/2019). E poi “Il Pisa Book Festival diventa ‘eco-friendly’” (LetteratitudineNews, 4/11/2019) dove “eco-friendly”, più lungo di ecologico che suona molto più antico, irrompe insieme a book, mentre il fèstival pronunciato all’inglese ha preso il posto della più antica pronuncia alla francese, festivàl. E ancora: “Lo staff di Lucca Comics ha diffuso il Program Book di Lucca Comics & Games 2019” (AFNews Comunicati Stampa, 23/10/2019). E poi si è svolta la IV edizione del “Libra Casentino Book Festival, che celebra la montagna nel parco nazionale delle Foreste casentinesi (ArezzoWeb, 10/10/2019).

In Emilia “Torna Book & Wellness” (Renonews Comunicati Stampa, 13/10/2019) alle Terme di Porretta.

Dal centro scendiamo verso sud, isole comprese. In Sardegna a “Pirri arriva il book-nic: sul prato con libro, cestino e plaid” (Casteddu on Line, 14/10/2019). “Al MAV Museo Archeologico Virtuale di Ercolano arriva il Book Party più Mostruoso dell’anno. Venerdì 1 novembre” cioè l’Halloween Book Party (NapoliToday, 18/10/2019).
In Sicilia, a Pachino, “Bilancio positivo per la prima edizione del Marzamemi book fest, un festival dedicato ai libri e alla cultura” (Pachino News, 22/10/2019), mentre a Catania ci sono stati i “Catania Book Days, evento che preannuncia il Catania Book Festival (in programma dal 7 al 9 maggio 2020)” (CataniaNews.it, 23/10/2019) dove le giornate sono ormai day sulla scia delle espressioni click day, D-day, day after, day by day, day hospital, election day, familiy day, memorial day, open day

Oltre a questi eventi locali, “Arriva la settima edizione del Social Book Day” (Libreriamo, 14/10/2019), “la giornata mondiale dedicata ai libri sui social…” (RTL 102, 5-15 ott 2019).
Nelle notizie recenti delle testate dai nomi sempre più inglesi, book rimbalza in molti altri contesti: ci sono i book blogger (bloggatori non è una parola che si è diffusa, visto che apparirebbe italiana) come Giulia Ciarapica “una delle più influenti book blogger d’Italia; e ha appena dato alle stampe…” (“Giulia Ciarapica, la grande book blogger si racconta tra lavoro e…”, L’Ordinario Comunicati Stampa, 26/10/2019). Sul Corriere si può leggere di “Francesca, Elena e Ilenia, le «book influencer» star di Instagram. Oggi, a determinare il successo di un lavoro editoriale, e a mandare i romanzi in sold out, ci sono le «book influencer»: bastano trenta secondi di…” (Corriere della Sera, 29/10/2019), perché non c’è solo influencer al posto di influenti, la parola si contamina con le altre: book influencer, food influencer, blog influencer… in un sottofondo brulicante di altri anglicismi come social, news, star, sold out, performance… ma un italian influencer che possa essere una guida influente per cercare di parlare in italiano esisterà ancora?

Forse no, visto che un libro fotografico di animali, “da un elefante partecipe dei sentimenti del suo padrone a un cane trasportato tra le macerie di Kabul sul retro di una bicicletta”, diventa “Gli Animals di Steve McCurry in un photo book per Taschen” (Amica, 25/10/2019).

Ormai una “fiera del libro” è forse solo una donna orgogliosa della propria lettura, altrimenti dobbiamo usare l’inglese, perché siamo evidentemente celibrolesi! Crediamo che book sia più moderno, ma è solo un alibri, dove la prima “a” si può leggere come alfa privativo, cioè “senza libri” e pieni di book. Non c’è più libridine nel parlar la nostra lingua, non c’è alcun equilibro tra libro e book, le due parole non sono sullo stesso piano, non sono dello stesso calibro, hanno un diverso rango, una diversa gerarchia. Book è nobile e diventa titolo, categoria. Libro è il suo valvassino. Inglese e italiano si fondono in un librido, l’itanglese, libero da “libro”.

I giochi di parole si fanno sull’inglese (Mountain Book, book-nic, Cook the Book…), eppure si potrebbero fare anche con la lingua italiana, chissà mai che i copy, i creativi che per fare il loro lavoro espresso in inglese puntano alla lingua di gerarchia superiore, non copino anche questa possibilità. Altrimenti gli ex libris diventeranno presto ex books, o forse cambieranno di significato: gli ex libri ora book che è più cool. Della “morte del libro” si parlava già molti anni fa, spesso a sproposito. Oggi forse ha una valenza linguistica più che concettuale. Book è cool. Ogni doppio senso che si può ricavare dall’accostamento delle parole è puramente voluto.

Orribili neologismi e seducenti anglicismi: dal purismo all’anglopurismo

Il nuovo Governo ci sta regalando in questi giorni due nuovi meravigliosi anglicismi, la plastic tax e la sugar tax.
Da quando le tasse sono diventate tax?
Dopo le timide prime entrate storiche mutuate dall’inglese (minimum tax o carbon tax), il nuovo Millennio ha prodotto la city tax (tassa di soggiorno, 2006), la local tax (al posto di IMU e TASI, 2014), e poi la web tax, computer tax, Google tax, flat tax, Robin tax e decine di altre ancora. Un buon sistema per non fare pagare le tasse, questo. Basta sostituirle con tax e son belle che abolite, almeno nella lingua italiana.

I giornali riprendono queste espressioni e le sbattono in bella vista nei titoloni, affinché tutti le vedano e le ripetano senza alternative. Sbatti il monster in prima pagina. È così che, giorno dopo giorno, si diffonde l’itanglese e si distrugge l’italiano.

Inglese è bello. Inglese è il nuovo.
E le neologie in italiano? Sono brutte. Orrende e orribili.


“Mi si perdoni l’orrendo neologismo” italiano

I mezzi di informazione sono i principali spacciatori di anglicismi – o forse è più moderno dire pusher come si legge nei titoli dei giornali – ma allo stesso tempo condannano i neologismi creati con elementi italiani per motivi “estetici” (sono “brutti”), e li usano chiedendo licenza. Frasi come “Mi si perdoni l’orrendo neologismo” ricorrono frequentemente e in ogni variante:

● “Noi non vogliamo rischiare… l’alberobellizzazione, mi passi l’orrendo neologismo…” (Corriere della Sera, 9/12/2018);
● “Assolutamente libero lei e chiunque di poter esprimere opinioni, semplicemente credo che fare del benaltrismo (scusi l’orrendo neologismo)… (Il Fatto Quotidiano, 26/6/2019).

Certo, parole come queste più che essere neologismi sono espressioni usa e getta, occasionalismi coniati in un contesto per farsi capire; quando manca la parola si può sempre inventare – forse lo abbiamo dimenticato, ma va gridato forte e chiaro – e se l’invenzione è fatta seguendo le regole della nostra lingua ed è comprensibile a tutti non c’è nulla di male a inventare le parole, fa parte dell’individualismo espressivo. L’evoluzione di una lingua passa proprio attraverso la creazione di nuove parole, davanti ai cambiamenti del mondo. Molti neologismi che poi si affermano e registrano successo e circolazione hanno, o forse dovrebbero avere, proprio questo tipo di struttura italiana. Eppure c’è una grande resistenza a questi tipi di neologie.

Cercando su “Google notizie” l’espressione “brutto neologismo” si trovano circa 123 risultati, per esempio:

● “nutraceutico, brutto neologismo farmaceutico…” (SassariNotizie.com, 29/10/2019);
● “Per descrivere questa situazione si parla ormai con un brutto neologismo di urbanicidio” (Toscana24, 27/9/2019);
● “Qualche anno fa andava di moda un brutto neologismo: glocalizzazione” (Esquire.com, 16/5/2019);
● “20 mesi fa, in Italia il sovranismo era un brutto neologismo poco praticato” (Globalist.it, 23/2/2019);
● “diramazioni e obliquazioni (si potrà scrivere? è un brutto neologismo?)” (Il Foglio, 3/1/2019);
● “connessività: brutto neologismo per dire che oggi non basta… (La Repubblica, 29/2/2016);
● “alternatività, se così si può definire per usare un brutto neologismo (Onstage, 2/2/2018);
● “licenzismo (perdonate il brutto neologismo)” (Il Foglio, 9/7/2019);
● “con un brutto neologismo si potrebbe definire una pioniera” (Il Sussidiario.net, 11/1/2016);
● “Non passava giorno, in quegli anni, che non venisse ucciso o gambizzato (brutto neologismo dell’epoca) qualcuno” (Corriere della Sera, 24/5/2010);
● “per definire questo duplice processo, sociologi e demografi hanno coniato il brutto neologismo degiovanimento del Sud” (Quotidiano di Puglia, 15/6/2019);
● “ ingredientistica (brutto neologismo)…” (Newsfood.com, 8/9/ 2010);
● “Rileva quella che si potrebbe definire con un brutto neologismo, le tecnicalità del prodotto… (Il Secolo d’Italia, 8/11/2018).

Molte altre volte i neologismi non sono solo “brutti”, sono addirittura “orribili” (87 risultati circa):

● “attenzionate (orribile neologismo)” (Il Messaggero, 9/1/2019);
● “… giovani e – oggi si direbbe con orribile neologismo – caucasiche” (AGI – Agenzia Giornalistica Italia, 4/4/2018);
● “Sembra proprio che l’emergenza nazionale paventata da alcuni media, con tanto di creazione dell’orribile neologismo femminicidio, esista (Il Primato Nazionale, 3/3/2017);
● “halloweeniana (perdonateci l’orribile neologismo)” (Multiplayer.it, 3 dic 2009);
● “ci si passi l’orribile neologismo, performante… (La Repubblica, 7/12/2015);
● “un meccanismo che chiamerei, con un orribile neologismo, di interessanza” (Linkiesta.it, 2 giu 2014).

Oppure sono “orrendi” (circa 78 risultati):

● “…un orrendo neologismo – femminicidi” (Corriere della Sera, 5/4/2017);
● “…buonisti: l’orrendo neologismo abusato da anni…” (La Repubblica, 25/10/2013);
● “movimentista (orrendo neologismo)” (Corriere della Sera, 28/3/2015);
● “Anzi, causalizzarli, se mi passate l’orrendo neologismo (Il Sussidiario.net, 26/9/2019)…

E i neologismi belli quali sono? Esisteranno?
Pare di no.


C’è una bella parola in inglese per esprimere…

La ricerca di “ottimo neologismo” e “buon neologismo” tra le testate giornalistiche non è fruttuosa, mentre “bel neologismo” riporta solo 37 risultati, ma andando a leggere gli articoli si vede che spesso l’espressione ricorre nei commenti dei lettori, e non nel pezzo dei giornalisti. E poi salta all’occhio un altro fatto singolare: si elogia qualche neologismo d’autore (“Gianni Brera per lei ha coniato un bel neologismo ‘dolcenergica’”, Italnews, 4/10/2014; “dispatriare, per usare il bel neologismo di Luigi Meneghello”, La Repubblica, 22/3/2019), ma con poche eccezioni (Islamofobiabel neologismo, motivo già più che sufficiente a votare Trump; Il Fatto Quotidiano, 9/11/2016) si elogiano soprattutto gli anglicismi, che sono sì neologismi, ma non sono parole italiane:

● “C’è un bel neologismo inglese a cui si può far riferimento e che descrive bene il fenomeno, che dal punto di vista sociale occorre sempre più contrastare, che è ‘ageism’, vale a dire la discriminazione tra persone a causa dell’età” (Startupitalia.eu, 29/8/2018).
● “Scoppia a ridere, il fotografo ha detto qualcosa sui danni della cheesefication, il forzare ghigni davanti a una macchina fotografica, un bel neologismo (La Repubblica, 2 ago 2013).

Ma che “bel neologismo” cheesfication! Ne sentivamo la mancanza (quanto ci piacciono i suoni in “éscion”) e di sicuro la nostra lingua non sarebbe in grado di produrre nuove parole così evocative. Mettiamo subito cheesfication nell’elenco degli anglicismi “insostituibili”, “necessari”, “utili”… le nostre parole per indicare il sorriso forzato o sforzato, tirato, di plastica, imbalsamato… non sono altrettanto “belle”, e creare una ricombinazione nostrana produrrebbe di sicuro “orribili neologismi”, a quanto pare. A un giornalista non viene neppure in mente di provarci, c’è già l’inglese, mica si può alterarne la sacra inviolabilità di idioma superiore!
E ageism? Certo ci sarebbe ageismo, mi si consenta l’adattamento considerato ormai una consuetudine “medioevale”. Almeno in Italia, perché all’estero e nelle lingue sane è normale, a cominciare proprio dalla lingua inglese che anglicizza gli italianismi senza scrupoli.
E davanti ai neologismi italiani alternativi all’inglese come apericena?

● “Orrendo neologismo la cui morale è sempre la stessa: l’aperitivo che si ‘mangia’ la cena” (Bergamo Post, 15/11/2016);
● “In tempi in cui apericena era solo un brutto neologismo di là da venire”, Il Friuli, 23/8/2015).

Naturalmente, questo atteggiamento non si ritrova solo sui giornali, e cercando le stesse espressioni non solo sulla stampa, ma in tutta la Rete, le occorrenze di questo tipo si moltiplicano a dismisura e diventano migliaia. Questo sentimento moralistico e misoneista – ma solo per le neoconiazioni italiane, non certo per le parole inglesi – striscia anche tra i tanti insopportabili tronisti linguistici della Rete. Apericena… per carità! Vuoi mettere un bell’happy hour? E che dire di colanzo come sostituzione di brunch (breakfast “prima colazione” + lunchpranzo”) che sta prendendo sempre più piede anche nelle offerte dei locali? Che brutto! Riporto in proposito un paio di commenti reali di utenti della Rete:

● Una parola “forzata a mio avviso è anche poco melodicabrunch è più immediata … anche più intuitiva”.
● “Noooo, sono riusciti a italianizzare l’orrendo ‘brunch’. ‘Sta roba fa coppia con l’obbrobrioso ‘apericena’; chi s’inventa questi termini assurdi farebbe meglio a rimanere a dieta pane e acqua, anzi, anche senza pane, anzi, anche senz’acqua!”

Questa ostilità per i neologismi italiani affonda le sue radici negli atteggiamenti puristici più beceri. I puristi però non avrebbero apprezzato questi registri linguistici da fumetto e questa punteggiatura casuale da oralità che si esprime attraverso la tastiera. E soprattutto i puristi si scagliavano con la stessa veemenza anche contro i “barbarismi” e con i regionalismi non toscani. Per preservare la purezza della lingua delle tre corone fiorentine rischiavano di cristallizzare l’italiano nella “lingua dei morti”, nei significati storici, e in questo modo di soffocarlo e di impedirne l’evoluzione per esprimere il nuovo. Questo moderno atteggiamento che preferisce gli anglicismi “intoccabili” ai neologismi, che si potrebbe definire “anglopurismo”, è un’immondizia che sta uccidendo l’italiano in modo ben più pericoloso.
Quanto alle argomentazioni di carattere “estetico” così diffuse – parola bella, brutta, orribile… – basta citare Leopardi, che aveva ben compreso:

solo “l’assuefazione e l’uso ci rende naturale, bella ec. una parola che se è nuova, o da noi non mai intesa ci parrà bruttissima deforme, sconveniente in se stessa e riguardo alla lingua, mostruosa, durissima, asprissima e barbara.”

Dire che colanzo o apericena sono belli o brutti è solo questione di diffusione e di abitudine. Dire che odiatore è brutto o meno preciso ed evocativo di hater è una sciocchezza, è una presa di posizione soggettiva di chi disprezza la lingua italiana. E dopo che Crozza ha cominciato a usare l’alternativa italiana più frequentemente dell’inglese non suona più così strano, si sta diffondendo anche sui giornali e tra la gente, anche se in un primo tempo suonava fuori luogo usare la nostra lingua. Lo stesso varrebbe per influente al posto di influencer, per notizie false invece che fake news o per tassa sulla plastica e sullo zucchero invece di plastic e sugar tax.

Ma gli anglopuristi sono ostili alle neologie italiane, per costoro è bello solo ciò che suona inglese. Purtroppo questo giudizio estetico da coloni e collaborazionisti della dittatura dell’inglese è esteso. E mentre in Islanda esiste la figura del “neologista” che davanti al proliferare dell’inglese costruisce ufficialmente alternative islandesi, o mentre in Francia e in Spagna le accademie della lingua creano e promuovono neologismi autoctoni, in Italia la lingua è fatta solo dai mezzi di informazione, e le prese di posizione anglopuriste si rintracciano persino all’interno della Crusca. E così, dai giornalisti, che con le parole che pubblicano contribuiscono a formare la lingua, ai più beceri tuttologi che in Rete si autoproclamano castigamatti delle parole belle e brutte, la metà dei neologismi del nuovo Millennio è ormai in inglese. Come se tra anglicismi e neologismi non ci fosse differenza. E il futuro dell’italiano sarà l’itanglese, se non cambiamo atteggiamento.