Davanti all’interferenza dell’angloamericano e agli anglicismi, non c’è confronto tra ciò che sta accadendo in Italia e quanto accade in Francia e Spagna.
Ho già mostrato la grande differenza tra il francese e l’italiano che si evince dall’analisi della Wikipedia, dal fatto che c’è la legge Toubon e che esiste una politica linguistica. La sensibilità verso l’italiano sembra più spiccata anche in Svizzera che da noi, e le politiche linguistiche che in Italia sono un tabù esistono in tanti Paesi, persino in Cina.
Nel caso dello spagnolo, la differenza è ancora più evidente, ma su questo tema non potrei aggiungere molto al saggio di Gabriele Valle, “L’esempio della sorella minore”: è lo studio comparativo più esaustivo e inoppugnabile in circolazione.
L’orgoglio ispanico
Non resta che invidiare la fierezza e l’orgoglio degli spagnoli che sanno ancora tradurre e adattare le parole – come accade nelle lingue sane – che da noi vengono spacciate per necessarie o intraducibili, solo perché la nostra classe dirigente non le vuole o non le sa italianizzare e preferisce inseguire la strategia comunicativa di dire le cose in inglese.
E così, mentre noi diciamo baby sitter in spagnolo si dice canguro, una bellissima metafora che non ha bisogno di spiegazioni nel suo sapere evocare il concetto, e mentre noi sin dagli anni Sessanta andiamo fieri di indossare i jeans (che parola intraducibile, anche se deriva dall’italiano!) in Spagna li chiamano vaqueros. E infatti lo spanglish, al contrario dell’itanglese, non è il cedimento dello spagnolo davanti agli anglicismi, viceversa è un ibrido dove è lo spagnolo a irrompere e a ritornare nell’angloamericano delle comunità ispaniche d’oltreoceano.
Quando una parola inglese si impone nel mondo spagnolo di solito la si pronuncia alla spagnola, come nel caso di wi-fi (pronunciato alla francese anche in Francia) ricordato anche dal presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini nel suo recente intervento agli Stati generali della lingua italiana.
Da noi no. Ci vergogniamo a storpiare l’inglese. E così noi utilizziamo un verbo come whatsappare mantenendo la sacralità inviolabile della radice inglese, e gli spagnoli adattano in wasapear, come nota Serena Casagrande (“Gli anglicismi nella lingua spagnola: quando e come usarli”) a cui rubo una citazione:
Ogni lingua ha qualcosa che la rende unica, porta con sé un’espressività diversa da quella delle altre lingue. Diventare parlanti esclusivi di una lingua globale a discapito della diversità ci farà prima o poi perdere il contatto con le nostre radici linguistiche e con la cultura di cui ogni lingua è il veicolo principale.
In Italia “il contatto con le nostre radici” in troppi casi è perduto, e come mi ha fatto notare Gabriele Valle, un libro spagnolo come quello di Alicia Giménez-Bartlett: Mi querido asesino en serie, (Destino, 2017) nella traduzione italiana di Sellerio diventa Mio caro serial killer… perché “assassino seriale” da noi non si può più proporre: serial killer è diventato simbolicamente un prestito sterminatore.
E se guardiamo le classifiche dei libri su Amazon in spagnolo possiamo leggere:
“Clasificación en los más vendidos de Amazon” mentre da noi “i più venduti” cede il posto all’immancabile bestseller: “Posizione nella classifica Bestseller di Amazon”.
Una tesi di laurea di Cinzia Filannino
Su questi confronti, segnalo la tesi fresca di discussione di Cinzia Filannino: “Gli anglicismi nella stampa. Italia, Spagna e Francia: tre realtà a confronto”, l’ho trovata molto esaustiva (chi volesse vederne un video riassuntivo molto semplice e divulgativo lo può fare sul Tubo).
Questo lavoro si basa sull’analisi di alcune parole della politica presenti sul Corriere della Sera, che sono state confrontate con le occorrenze di El País e de Le Monde. Per esempio Jobs Act che sul Corriere della Sera compare in 2.320 articoli, dal 2014 a oggi, ma analizzando un campione di 10 articoli, solamente in 3 il termine viene tradotto o spiegato. Al contrario, “nel quotidiano El País, tutti gli articoli contengono il termine accostato alla traduzione o alla spiegazione anche quando si tratta di articoli scritti dagli stessi giornalisti a distanza di mesi (…). Per quanto riguarda il quotidiano francese Le Monde, gli articoli che parlano della riforma italiana sono 30. Su un campione di 10 articoli, il termine Jobs Act e le sue varianti sono affiancate dalla spiegazione o dalla traduzione in 8 articoli”.
Un altro esempio: stepchild adoption:
“L’espressione è citata in 288 articoli del Corriere della Sera. Su un campione di 10 articoli analizzati, l’espressione è stata tradotta e spiegata in 4 articoli su 10 (…). Digitando nella barra di ricerca dei siti di entrambi i quotidiani spagnolo e francese, stepchild adoption non compare in nessun articolo in riferimento all’Italia. Quello che è presente sotto questa voce riguarda i Paesi anglofoni, mentre quando si parla dell’istituto giuridico italiano gli articoli contengono la perifrasi usata sia per indicare il nome dell’istituto giuridico sia il tipo di adozione” e cioè la adopción del hijo del cónyuge.
Coniuge e consorte, due belle parole applicabili sia al maschile sia al femminile (dunque rispettose anche della non discriminazione del genere) che sembra che il Gruppo Incipit dell’Accademia della Crusca non abbia preso in considerazione nel condannare l’espressione inglese proponendo come alternative adozione del figlio del partner (non commento il paradosso di sostituire un anglicismo con un altro, ma provo un senso di vergogna e non posso che constatare la grande differenza di spessore e di stile delle accademie spagnole) o adozione del configlio (un bel neologismo coniato da Francesco Sabatini).
Tornando alla tesi di Cinzia Filannino, il totale degli articoli che ha analizzato nel dettaglio è 50 per l’Italia, 30 per la Spagna e 38 per la Francia. La motivazione del minor numero di articoli nei giornali francesi e spagnoli è disarmante:
“Mi ero riproposta di analizzare dieci articoli per ogni termine e per ciascuno dei Paesi presi in considerazione per il confronto, ma non è stato possibile in quanto gli argomenti scelti non venivano trattati nei quotidiani stranieri o presentavano pochi articoli a riguardo. Avendo scelto il quotidiano italiano come partenza per l’indagine, non era possibile fare in altro modo.”
In sintesi:
“El País ha affiancato ai termini analizzati la spiegazione o la traduzione 28 volte su 30; in due casi, in quello di stepchild adoption e caregiver, l’anglicismo non era presente se non esclusivamente nella sua traduzione o eventuale spiegazione. Le Monde ha tradotto gli anglicismi 32 volte su 38. Come nel caso del quotidiano El País, gli articoli in riferimento alla stepchild adoption e al caregiver contenevano la traduzione senza termine inglese.”
Nella tabella questi numeri sono riportati nei dettagli.

“Si può trarre la conclusione che nel Corriere della Sera, e di conseguenza nella lingua italiana, si tende a usare un gran numero di anglicismi che, quasi sempre, non vengono affiancati dalla traduzione o dalla spiegazione. Lo spagnolo è la lingua che traduce di più; il francese si trova nel mezzo.”
Sono le stesse conclusioni che, partendo da altri dati, ho sostenuto anche nel mio saggio. Le stesse che chiunque abbia un minino di onestà intellettuale non può che riconoscere, invece di negare arrampicandosi sui vetri.
E in Germania?
In Diciamolo in italiano, scherzosamente, ho usato una metafora calcistica nel fare i miei confronti tra l’italiano e le lingue dei Paesi vicini. Il risultato? Italia-Spagna 0 a 2, Italia-Francia 0 a 1. Solo nel caso di Italia-Germania ho registrato uno 0 a 0: anche il tedesco è invaso dagli anglicismi, con un paio di differenze da non trascurare, però. Per prima cosa si tratta di due lingue dello stesso ceppo per cui molte parole inglesi si mimetizzano, non costituiscono corpi estranei che violano le regole di grafia e pronuncia e passano quasi inosservati.
Inoltre, la reattività dei tedeschi è maggiore della nostra:
“Da un sondaggio del 2016 è emerso che quasi il 71% dei tedeschi è fortemente infastidito dall’abuso degli anglicismi nella comunicazione quotidiana. Ad avvalorare questo sentore c’è per esempio il caso delle ferrovie tedesche Deutsche Bahn, che proprio per il loro uso eccessivo di parole inglesi sono state accusate di parlare il “Bahnglisch” o di ostacolare la comprensione, e da qualche anno sono state costrette ad attuare una revisione del loro linguaggio. Davanti alle proteste dei cittadini, il capo dell’azienda, Rüdiger Gruber, si era impegnato già nel 2010 a restituire alle stazioni tedesche la loro impronta “germanica” e a far tornare servicepunkte quelli che erano diventati i service point. Nel 2013 l’azienda ha poi deciso di rivedere totalmente la terminologia non tedesca con cui si rivolge ai viaggiatori decidendo di eliminare parole come highlights, hotlines o bonus, per ricorrere alle alternative locali, e ha così fornito ai dipendenti un glossario di circa 2.200 termini sul tema degli anglicismi, proprio per evitarli nella comunicazione e sostituirli nell’uso quotidiano della lingua.”
Antonio Zoppetti, Diciamolo in italiano. Gli abusi dell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla, Hoepli 2017, pp. 24-25.
Da noi, invece, le Ferrovie di Stato usano un linguaggio sempre più anglicizzato che impongono a tutti.
Dunque siamo ultimi nel torneo: lo 0 a 0 con la Germania è una partita che abbiamo perso ai rigori, in definitiva. E spero che queste metafore calcistiche servano a riscuotere il nostro orgoglio italiano, che fuori dal calcio, sembra venire sempre meno.
Un altro esempio sullo spagnolo è il libro “Confessions of a Shopaholic”, che anni fa una mia collega peruviana leggeva nella versione spagnola, dal titolo “Loca por las compras” (pazza per le compere). Il titolo italiano? “I love shopping” 😉
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Ancora più illuminante di quello che ho usato io! 🙂 Anche se la Kinsella è un’autrice britannica, la Giménez-Bartlett è un’autrice spagnola… Ma credo che di esempi del genere se ne possano fare centinaia
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Quando ho scoperto per la prima volta del “canguro” spagnolo non potevo crederci 😊
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Vedi? Non ci sono solo i vombati e i canguri australiani 🙂
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Il che è rassicurante 😜
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Bellissima metafora quella del “canguro” che funzionerebbe alla perfezione anche in italiano. Che ne è di “tata”? La so usa ancora o ha ceduto completamente il passo a “baby sitter”?
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Tata vive, grazie anche a un omonimo telefilm che ancora è in circolazione, ma non è frequentissima come alternativa
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La nostra bella lingua… sospiro.
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Personalmente dopo aver a lungo sospirato ho deciso di passare all’azione, di denunciare ciò che sta avvenendo e che molti linguisti negano, di creare qualcosa che potrebbe far circolare le alternative… e, se mai mi riuscirà, di creare un movimento di opinione che potrebbe fare riflettere su cosa accade, esercitare la propria pressione, perché magari il vento potrebbe anche cambiare in futuro.
o almeno sto cercando di provarci.
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Bravo! Resto in contatto, modestamente se posso dare una mano: presente!
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Siamo in due 😉
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In area germanofona, a me sembra che l’uso eccessivo di termini inglesi riguardi soprattutto il linguaggio della pubblicità. Per quanto riguarda i giornali, invece, non rilevo un uso inflazionato di anglicismi paragonabile al nostro, anzi. Soprattutto giornali di un certo livello, come la NZZ, non ricorrono a termini (pseudo)inglesi, se superflui. Osservando l’uso della lingua nella vita quotidiana, in autobus, a scuola, nei negozi, negli uffici, ecc., noto che l’uso di “denglisch” è inversamente proporzionale alla proprietà di linguaggio con cui ci si esprime: più una persona è colta, più legge, migliore è la sua formazione e meno infarcisce i suoi discorsi con inglesismi inutili; al contrario, chi ha una cultura scarsa,un vocabolario limitato, spesso marcatamente dialettale, inserisce qualche espressione pseudo inglese in ogni frase.
In ogni caso, anche qui esistono diverse iniziative volte a sensibilizzare sull’invasione degli anglicismi superflui, ad esempio http://deutschesprachwelt.de/, e il Verein Deutsche Sprache ha pubblicato una lista simile alla tua AAA, che si trova qui, https://vds-ev.de/denglisch-und-anglizismen/anglizismenindex/ag-anglizismenindex/, e di cui esiste anche una versione cartacea.
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Grazie della tua testimonianza, io non so il tedesco, e le mie considerazioni si basano su una serie di articoli in proposito che ho recuperato e studiato, e che ho cercato di sintetizzare con onestà intellettuale senza portare acqua al mio mulino. Dunque mi pare di capire che la situazione nel tedesco sia più rosea di quanto non immaginassi.
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Sono d’accordo con la riflessione di Giovanna che mio parere si può estendere anche alla situazione italiana. Maggiore è l’utilizzo di anglicismi, minore è la conoscenza sia dell’inglese, sia della lingua madre.
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L’ha ribloggato su Italy is always a good idea!e ha commentato:
Un ringraziamento speciale ad Antonio Zoppetti per aver apprezzato il mio lavoro di tesi e aver menzionato la mia ricerca sul suo blog.
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Io è da tempo che lotto contro gli anglicismi che, per quanto mi riguarda suonano come parolacce. Ho provato a tradurre i brutti anglicismi e solo uno mi ha apprezzato mentre gli altri mi hanno bloccato. Per me l’anglicismo è sintomo di complesso di inferiorità.
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