L’itanglese come modello linguistico (e la “diglossia lessicale”)

Di Antonio Zoppetti

Sabato leggevo sul Corriere un articolo che parla della “competition” nel Movimento 5 stelle tra Conte e la segreteria, in cui la nuova Presidente della Sardegna diviene “neogovernatrice”, nonché “testimonial” delle intese con il Partito democratico.

Perché una competizione è diventata competition? Forse perché i concorrenti e i competitori sono diventati competitor? Forse perché la disputa – esercizio retorico molto diffuso già nella accademie italiane cinquecentesche – e il dibattito sono stati buttati via per parlare del debate venduto come una novità delle nuove strutture che si definiscono Academy invece di Accademie? Forse perché non si dice più missione, visione, tutore e persino luogo ma si dice mission, vision, tutor e location?

I linguisti con le fette di hot dog sugli occhi etichettano questa cancellazione dell’italiano sostituito dall’inglese attraverso il concetto dei “prestiti di lusso”, cioè di parole inglesi “prese in prestito” nonostante abbiano vocaboli nostrani del tutto equivalenti. Una definizione miope che non tiene conto del fatto che molte parole trapiantate in italiano inizialmente come un “lusso” (vedi computer e calcolatore) in men che non si dica si sono trasformate in una “necessità” perché le alternative italiane sentite come “vecchie” sono regredite e sono state abbandonate. Per chiamare le cose con il loro nome questi trapianti linguistici che fanno piazza pulita del nostro lessico storico sono dei cambi di significante, un fenomeno grave e deleterio se si verifica con questa intensità e con le attuali proporzioni.

La sostituzione dei significanti e le connotazioni

Una parola possiede un significato (a volte anche ben più di uno, per essere precisi) e un significante, cioè la forma e il suono della parola che designa qualcosa. Quando sostituiamo il significante italiano — che segue l’indole ortografica e di pronuncia della lingua del bel paese dove il sì suonava — con quello inglese, più che con un “prestito” abbiamo a che fare con un “trapianto”, cioè una sostituzione lessicale che segue l’indole di un’altra lingua, e non si amalgama con il nostro sistema linguistico, che va così in frantumi. Questi presunti “prestiti linguistici” non solo non si possono restituire, ma soprattutto non privano la lingua “prestante” delle parole “prestate”, dunque sono dei trapianti che esportano il lessico delle lingue egemoni all’interno di altri sistemi linguistici che vengono in questo modo colonizzati e creolizzati.

Gli anglicismi sono dei cavalli di Troia che penetrando nell’italiano e lo riducono a lingua inferiore. Accanto ai significati delle parole c’è infatti un altro elemento da tenere presente: la loro connotazione, e cioè il modo di designare un oggetto o un concetto che si porta con sé ciò che evoca. Scegliere di dire “culo”, “sedere”, “lato B”, “deretano” o “fondoschiena”, per esempio, non ha a che fare con ciò che si designa (è la medesima cosa), ma la prima opzione appartiene a un registro triviale, mentre le altre suonano più accettabili a seconda dei contesti.

Quando un giornalista introduce “competition” al posto del corrispettivo italiano – per il momento ancora virgolettato, visto che non è ancora entrato in uso – sta compiendo uno strappo lessicale che dona al significante inglese una connotazione più prestigiosa dell’italiano, che finisce non solo per regredire nell’uso da un punto di vista statistico, ma soprattutto di regredire nella sua connotazione, perché l’inglese è introdotto come qualcosa di più prestigioso e di più evocativo, e i nostri termini finiscono per diventare come delle “parolacce”. Se questo uso prenderà piede, finirà che competition cesserà presto di essere un sinonimo equivalente per trasformarsi in un vocabolo di rango superiore, come è successo a “testimonial” che è ormai percepito come più consono di “testimone”, che si sarebbe detto nell’italiano storico. Queste sostituzioni di significante non sono dei “prestiti” anche perché i loro significati spesso divergono da quelli inglesi, e un “testimonial” in inglese si riferisce di solito a una persona comune che avvalora qualcosa, mentre quando la stessa funzione di “garante” e “promotore” (in italiano anche padrino/madrina, sostenitore, patrocinatore, avallante…) avviene attraverso il coinvolgimento di un volto famoso si parla di endorser. E allora cosa si “prende in prestito”? Un suono, più che un significato, o se vogliamo un significante. E in questa sostituzione finisce che l’inglese “testimonial” sbaragli tutte le nostre parole storiche che vengono abbandonate. Chi parlerebbe di avallante invece di testimonial, ormai?

La diglossia lessicale

Mentre l’inglese nella sua interezza si impone come la nuova lingua superiore della cultura, della scienza, della formazione universitaria, dell’aviazione, della marina, del lavoro, delle organizzazioni internazionali… gli anglicismi penetrano nelle lingue nazionali – ma in Italia il fenomeno ha ordini di grandezza superiori che all’estero – con analoghi meccanismi di prestigio che li rendono parole di rango superiore. La diglosssia – cioè la presenza di due lingue che non godono dello stesso status sociale – si riflette in un’analoga “diglossia lessicale” che regala agli anglicismi un maggior prestigio. Tutto ciò non può che portare alla regressione del vocabolario italiano e alla sua deriva verso l’itanglese, un fenomeno che va ormai oltre il trapianto dei “prestiti”, perché si sta configurando come una newlingua che include gli pseudonglicsmi, le parole ibride, l’effetto domino con cui prolificano le radici inglesi che si ricombinano tra loro in tutti i modi (fast food, street food, comfort food, food delivery, food designer, pet food…). Oltre a ciò aumentano anche le interferenze “invisibili” che portano a parlare di governatori (che non esistono nel nostro ordinamento), di visionario inteso come lungimirante invece di di “portatore di visioni distorte”, di cose basiche che non sono il contrario di quelle acide, ma indicano ciò che è fondamentale e via dicendo.

Se queste interferenze “invisibili” dovute ai falsi amici si possono considerare come un fenomeno “normale” nella storia dell’interferenza linguistica dell’italiano davanti per esempio al francese o allo spagnolo (sono già avvenute e comunque non generano un italiano strutturalmente diverso da quello storico), le altre sono una novità che non si era mia vista. Una novità che spezza la continuità storica dell’italiano, esce dalla norma della nostra grammatica e produce una nuova lingua con le sue nuove regole che non è più relegata solo nella sfera lessicale dei linguaggi specialistici o gergali, ma si fa strada penetrando nella lingua comune.

L’itanglese diviene perciò un modello linguistico superiore e da seguire. Una ben precisa scelta stilistica che si ricerca in modo consapevole.

L’itanglese come modello linguistico e stilistico

Torniamo al sommario da cui eravamo partiti: “La competion tra la segreteria e Conte. La neogovernatrice testimonial delle intese”.
Sono 12 parole che diventano 11 se togliamo il nome proprio “Conte”. Se poi si tolgono articoli, congiunzioni e preposizioni, rimangono 5 parole portanti: competition, segreteria, neogovernatrice, testimonial e intese, 2 in italiano, 2 in inglese e una che è un ammiccamento all’inglese, visto che Alessandra Todde tecnicamente è Presidente della Regione Sardegna e non “(neo)governatrice”. Ma ormai nella nostra ridicola sudditanza culturale vogliamo fare gli americani anche scimmiottando le denominazioni della politica d’oltreoceano, per cui anche il Presidente del Consiglio è sempre più spesso denominato informalmente “premier”.

In un altro pezzo del Corriere che avevo già citato nell’ultimo articolo, “Intelligenza artificiale e sviluppo sostenibile: la scelta degli atenei”, c’era una pubblicità della RCS Academy, che come lingua di insegnamento, più che l’italiano, ha scelto invece l’itanglese:

Appuntamento online il 14 marzo con l’Open Day di Rcs Academy, giornata di incontri con docenti ed ex-alunni per conoscere l’offerta formativa (master full time e part time, master online e corsi on demand) che copre diverse aree di specializzazione: Giornalismo Comunicazione e Marketing, Economia Sostenibilità HR e Innovazione, Arte Cultura e Turismo, Moda Lusso e Design, Food & Beverage, Sport, Healthcare & Pharma.
Indirizzati a giovani e a imprenditori in cerca di aggiornamento, anche i corsi che spaziano dal master in Luxury Tourism Management all’MBA in Business Management, Innovation e AI.

Per la cronaca: quest’ultima comunicazione pubblicitaria infilata in un pezzo che dovrebbe essere un articolo giornalistico è composta da 92 parole di cui 32 in inglese! E siccome vocaboli come “14” o “Rcs” andrebbero tolti dai conteggi (non sono né italiani né inglesi) risulta che oltre il 30% delle occorrenze di una simile comunicazione è composta da anglicismi (anche se qualcuno continua a negare che siano un fenomeno dilagante e ci racconta che è tutta un’illusione ottica, che va tutto bene e che è tutto “normale”).

Analizziamo le parole in inglese impiegate.
Online: quando l’espressione inglese è stata trapiantata, invece di “in linea” come avremmo potuto dire e come dicono i francesi, per i linguisti con problemi di vista era forse un “prestito di lusso”, ma presto si è rivelato un “prestito sterminatore” che ha ucciso l’equivalente italiano ormai sempre meno proponibile.

Open Day: scritto preferibilmente con le iniziali maiuscole, si è imposto facendo tabula rasa di “giornata aperta”, “porte aperte” o “ingresso aperto”, si è conquistato la sua specificità e oggi è considerato “necessario” perché si è ricavato la sua nicchia di tecnicismo della prassi delle nuove scuole-aziende all’americana.

Rcs Academy: scelta di una denominazione coloniale che spezza la continuità storica delle accademie italiane che sono sorte nel Cinquecento insegnando in italiano (al contrario delle università dove si insegnava in latino). Oggi l’aggancio è all’anglosfera, non alla nostra storia, e infatti la lingua di insegnamento è l’itanglese.

Master: inizialmente era un corso di specializzazione, perfezionamento o post-universitario, ma dal lusso alla necessità ci è voluto poco: oggi ci sono solo i master, ennesimo prestito sterminatore che ci ha sottratto i vocaboli nostrani.

Full time e part time: tempo pieno e orario ridotto o mezza giornata… addio! Vecchiume nella veterolingua sostituita dalla newlingua.

On demand: perché ostinarsi a dire su richiesta? L’inglese è diventato un tecnicismo insostituibile e necessario (soprattutto per le menti colonizzate).

Marketing: ormai intoccabile e necessario, nessuno lo può più mettere in discussione. Le patetiche disquisizioni sull’alternativa mercatistica, per esempio, appartengono a un passato lontano e sepolto, la questione è chiusa da un pezzo: si dice solo in inglese. Anche se in fondo sono solo tecniche di vendita, nulla di nuovo sotto il sole.

Design: come sopra, ma con un’aggravante, perché la parola deriva dal prestigiosissimo “disegno industriale” italiano, che gli anglofoni (non essendo deficienti) hanno tradotto nella loro lingua: industrial design; ma noi (che invece deficiamo parecchio) lo ripetiamo ormai solo con il restyling linguistico d’oltreoceano che è diventato uno dei più importanti plus del Made in Italy (anche plus sarebbe latino, ma ormai si sente dire solo quasi esclusivamente “plas”).

Food & Beverage, Healthcare & Pharma: le nuove categorie coloniali prevedono l’inglese anche nei settori dove l’italiano un tempo dominava, l’ambito dell’alimentazione si chiama ormai Food, e a quanto pare quello delle bevande “beverage” (nel caso dei vini meglio parlare di wine, con la stessa [il]logica). E come altro legare le nuove categorie se non con una bella “e commerciale”? Ciò vale anche per l’assistenza sanitaria & il settore farmaceutico, ovviamente.

Sport: anglicismo ottocentesco ormai insostituibile. Solo gli spagnoli parlano di “deporte”; noi avevamo “diporto”, ma l’abbiamo buttato via, invece di recuperarlo.

Luxury Tourism Management: luxury è “prestito di lusso”, ancora, come tourism; managment invece è già diventato di necessità e gestione, amministrazione o persino gerenza (parola ormai desueta) non le usa più nessuno, l’inglese è superiore, si sa.

HR, MBA, AI: le sigle seguono le nuove regole della collocazione all’americana, oltre al lessico inglese. Human Resources è meglio di risorse umane, MBA sta per Master in Business Administration e qualunque traduzione in italiano non avrebbe lo stesso prestigio. L’intelligenza artificiale IA per il momento combatte con AI in una “competition” che presto vedrà l’inglese affermarsi come la soluzione prevalente. Sulla stupidità naturale degli italiani vale la pena di scommetterci.

Queste scelte linguistiche sono ponderate e volute da chi sta imponendo l’inglese agli italiani. Questo è il modello linguistico della formazione (e della s-formazione dell’italiano) ricercata dai nuovi centri di irradiazione della lingua che guardano solo all’anglosfera, tutto il resto sembra non esistere.

Le conseguenze di questa strategia sono sotto gli occhi di tutti. Solo che quasi tutti si voltano dall’altra parte e fingono di non vederle.

Cervinia deve restare in italiano: è una questione di “brand reputation” per la “destination”

Di Antonio Zoppetti

Al contrario della questione dell’anglicizzazione e dell’itanglese — che non suscita troppe resistenze e riflessioni (salvo in qualche superficiale articolo di folclore) — la decisione di cambiare il nome ufficiale di Cervinia con Le Breuil ha scatenato un vasto teatrino politico-mediatico. La nuova nomenclatura decisa dalla Regione pone problemi pratici rilevanti, che non riguardano solo il cambio di nome sulle mappe, ma anche i documenti anagrafici o la cartellonistica stradale.

Un po’ di storia

Contrariamente a quanto capita di leggere e di sentire, il caso ha poco a che vedere con l’imposizione della toponomastica italiana da parte del fascismo, come era avvenuto per Sauze d’Oulx ribattezzata Salice d’Ulzio (oggi anche Salce d’Ulzio) o La Thuile Porta Littoria e Courmayeur Cormaiore; nel dopoguerra queste località hanno ripreso il vecchio nome francese. Cervinia, invece, è sorta negli anni Trenta del secolo scorso perché un gruppo di imprenditori ha edificato una serie di alberghi e di strutture di lusso sul Cervino e ha costruito una funivia nella conca del Breuil per dare vita al centro turistico. La questione del nome risale proprio a quel periodo, come si può leggere in un articolo di 87 anni fa:

Un gruppo di persone di buona volontà e di notevole intuito turistico, arrischiando capitali propri, indubbiamente ingenti, si era proposto di far sorgere nella conca del Breuil, ai piedi del Cervino, un villaggio turistico dotato di tutte le moderne comodità (alberghi, negozi, autorimesse ecc.): dal quale doveva aver capo una teleferica pel trasporto dei turisti e degli alpinisti (…). Poste le prime pietre del nuovo villaggio, sorse con esse l’idea del battesimo e, quindi, della scelta del nome da imporre al nuovo agglomerato turistico, nato in seno alla conca del Breuil. Si pensò e si decise per «Cervinia».

Il pezzo su Stampa Sera dell’11 agosto 1936 riassumeva le polemiche sul nome che erano divampate già allora, perché “si pensò che i fondatori di Cervinia volessero «allungare la mano» su tutta la conca del Breuil per ribattezzarla col nome del nuovo villaggio turistico”. E la chiusa, in parte profetica e in parte no, concludeva:

Una polemica non dovrà più sorgere ai piedi del Cervino (ce ne sono già state troppe) ma una serena soluzione ci pare evidente: il villaggio turistico si chiami pure «Cervinia», come si chiaman Avouil, Maberge, Museroche, Bardoney, Cretaz, ecc. gli altri gruppi di case nel Plano del Breuil; ma accanto a questo nuovo toponimo si aggiunga sempre «al Breuil». Stian pur certi, organìzzatori. partigiani ultradinamici e padrini di battesimo, che il nuovo rampollo si addosserà un carico di gloria, carico che, fino a prova contraria, non ha mai offuscata la figura del fortunato portatore.

Chiarito che la questione del nome in italiano o francese è vecchia quanto la località, andrebbe precisato che nel dopoguerra una simile questione era sorta, ed è stata regolamentata, per la toponomastica altoatesina. La soluzione attualmente vigente è basata proprio sul bilinguismo e nel lasciare il doppio nome in modo ufficiale, non solo per le località, ma persino nell’indicazione delle vie e delle strade. Lo stesso criterio — che era inserito in un ben più ampio progetto attento al bilinguismo locale e storico — non è stato applicato nel caso della Val d’Aosta, e oggi rispuntano le polemiche che affondano le loro radici proprio in una mancata regolamentazione di un’antica controversia tra le tradizioni dialetto-francofone e quelle italofone.

Difendere l’italianità in inglese, un paradosso tutto italiano

Rispetto alle polemiche degli anni Trenta, oggi Cervinia è una località dalla risonanza internazionale, ma il signor Uso, tanto invocato (spesso a vanvera) come il giudice supremo di ogni questione linguistica, viene messo sotto il tappeto per passare a un lessico del nuovismo che però sprofonda in questioni antiche e mai risolte. Un nuovismo un po’ purista che si caratterizza come ripristinatore del presunto nome vero e originale.

Quello che stupisce, nelle polemiche odierne, è l’incapacità di possedere un quadro d’insieme del problema, in una visione storica, ma anche di politica linguistica. E così le dichiarazioni di Daniela Santachè, ministro (o ministra?) del Turismo, suonano come una barzelletta. Dopo aver riassunto la vicenda del cambiamento del nome da Cervinia in non si sa bene cosa, visto che la politica sostiene di non ricordarsi nei dettagli fonologici quale sia il nome alternativo (ignorando anche la storia della vicenda), le sue parole sono state:

“Ma siete matti? Sapete quanto tempo ci vuole a costruire una destination, una brand reputation?”

Mentre (la) Santanchè – proprio da una piattaforma che ha buttato via la costruzione del marchio Twitter per passare a una X – disapprova il renaming della location, c’è da domandarsi quale sia la sua vision – per parlare nella sua lingua – dell’italiano. Chissà se è consapevole di quanti secoli ci sono voluti all’italiano per acquisire l’attuale nomea, ammirazione, risonanza, suggestività, persino evocatività (= brand reputation) che vanta in tutto il mondo. E quando una destinazione, una meta, un posto, un luogo diventano destination, per indicare una tappa turistica di prestigio, non siamo altrettanto “matti” (se non di più)? Non siamo matti a buttar via l’italiano per sfoggiare l’inglese? Non siamo matti a varare il ministero del Made in Italy invece di quello del prodotto italiano? Non siamo matti a definire le contraffazioni gastronomiche dal nome pseudoitaliano come il parmesan prodotti italian sounding? Non siamo deficienti a imporci in tutto il mondo con l’italian design – inglesizzazione del rinomato disegno industriale italiano? E a gettare via i soldi pubblici per realizzare dei portali che dovrebbero promuovere l’italianità con motti come “open to meraviglia”, voluto proprio da(lla) Santaché che non ragiona in modo diverso da Franceschini con il suo famigerato Verybello seguito da un altrettanto fallimentare e costoso ITsART?

Mi duole tantissimo trovarmi d’accordo con (la) Santachè sull’opportunità (o se preferisce l’opportunity) di oscurare un toponimo simbolo come quello di Cervinia, ma il modo di esprimere – in inglese – questa sensata presa di posizione è un rimedio peggiore del male. E fino a quando questa classe dirigente di colonizzati (allo stesso tempo colonizzanti) non sarà spazzata via – quella della Santanché ma anche di tutti gli anglomani collocati in modo trasversale tra sinistra, pentastellati e ogni altro partito-persona in circolazione – la lingua italiana sarà sempre più calpestata, abbandonata e mandata in malora. Peccato che il problema non stia in parole come Breuil o Cervinia, ma negli attuali 4.000 anglicismi registrati dai dizionari, nel loro fare piazza pulita dell’italiano, nel loro penetrare sempre più nella profondità nel nostro lessico, nelle loro frequenze che stravolgono la lingua di giornali e politici, nel loro ibridarsi generando una newlingua che si chiama itanglese. Mentre l’italiano non è più lingua di lavoro dell’Ue, viene estromesso come lingua di insegnamento di alcune università che insegnano direttamente in inglese, perde ambiti strategici della modernità come la scienza o il lavoro, viene sostituito dall’inglese persino nella presentazione dei progetti di ricerca italiani (Prin) o di quelli per i finanziamenti scientifici (Fis)… e regredisce, la nostra classe dirigente non sa guardare oltre il caso del cambiamento del nome di Cervinia.

Selfie, Gaza City e caring nurse: il trapianto linguistico

Di Antonio Zoppetti

Il coro dei giornalisti anglomani del copia e incolla colpisce ancora. Le vecchie macchinette per le fototessere, quelle che da decenni si trovano nelle stazioni della metropolitana, sono diventate le “antenate del selfie” che si rifanno il “look” in un “restyling” di Pininfarina.

Come al solito, la notizia viene data in una lingua che definirei itanglese più che italiano, ma quello che colpisce è che gli anglicismi in questo caso non sono introdotti per descrivere qualcosa di nuovo, ma per riscrivere la storia attraverso i nuovi concetti inglesi (la cancellazione del passato attraverso la Novalingua come in 1984 di Orwell).

Selfie, autoscatto, autoritratto e fotografia

Il trapianto di “selfie” nell’italiano è significativo per comprendere lo stato delle cose. Quando la parola si è diffusa, vari linguisti si sono preoccupati di etichettarla attraverso le categorie dei prestiti di lusso e di necessità che vivono solo nella loro testa e sono un’offesa all’intelligenza. L’inutile diatriba ruotava intorno alla corrispondenza con “autoscatto”, e i giustificazionisti anglomani hanno aperto le danze con la consueta tiritera che aveva lo scopo di dimostrare che selfie non sarebbe proprio come autoscatto.

Per la cronaca: l’origine di “autoscatto” è nello scatto “automatico” – proprio come nelle macchinette – ma poiché il prefisso “auto” indica anche qualcosa che si fa da soli (come nell’autodeterminazione) la parola si è presto acclimatata per indicare gli autoritratti fotografici, indipendentemente dal fatto che fossero automatici o meno (per esempio un autoscatto allo specchio). È esattamente come in inglese, dove “self” indica il fare da soli. I non-è-propristi che volevano bollare l’anglicismo come una novità “necessaria”, però, si sono da subito prodigati per differenziare il significato, per cui hanno cominciato a circolare le storielle più assurde, per esempio che “selfie” indicherebbe un preciso gesto innovativo (non importa che il medesimo gesto si facesse anche con la macchina fotografica a pellicola prima dei nuovi cellulari multimediali, e personalmente ho vari autoscatti di gruppo fatti a quel modo, stampati, che risalgono agli anni ’90. Il problema è che erano scatti “al buio”, non si vedeva ciò che si inquadrava, e questa è forse l’unica differenza).

Una delle più imbarazzanti presunte differenze in cui mi è capitato di imbattermi era la baggianata per cui il selfie indicherebbe una foto allo stesso tempo fatta con lo “smartphone” e condivisa sui “social”, una definizione fantasiosa che implicherebbe dunque che un autoscatto non condiviso in Rete rimanga una semplice foto, senza assurgere allo stato di “selfie”, a quanto pare. Queste arrampicate sugli specchi nulla avevano a che fare con l’etimo della parola inglese, perché l’obiettivo era di costruire un nuovo significato e di affermarlo, con un ragionamento circolare che invece di “dimostrare” una diversa accezione la presupponeva. Mentre c’era chi si indignava contro il Devoto Oli che registrava la perfetta corrispondenza con autoscatto, sui giornali selfie era tranquillamente usato come sinonimia non solo di autoscatto e di autoritratto ma spesso anche di semplice “fotografia”. E così Mussolini si faceva i selfie tra la folla proprio come i politici attuali (in una cancellazione del passato e riscrittura della storia con termini anglofoni), e in un articolo recente si può vedere un “selfie” di Zaia che è una semplice foto di gruppo (con cavallo). E il fatto che oggi le macchinette delle fotografie diventino le antenate dei selfie la dice lunga sulle panzane del gesto intraducibile o di altri presunti requisiti.

Che cosa si “presta” in un caso come questo? Un bel niente dal punto di vista del significato, questi prestiti sono solo il trapianto del significante, più che del significato, cioè del suono e della forma grafica basata sull’inglese che soppianta non solo le nostre parole, ma anche le nostre regole.

Gaza City, Albania First, caring nurse: che razza di prestiti sarebbero?

In questi terribili giorni di guerre, sui giornali rimbalza sempre più spesso l’espressione inglese Gaza City (con inversione sintattica) al posto di città di Gaza, un fenomeno in atto già da tempo, come mostra il grafico di Google che però è fermo al 2019.

Mi piacerebbe sapere che razza di prestito sia, secondo i linguisti accecati dai loro schemini ottocenteschi. Gaza City non è un “prestito”, i palestinesi non chiamano così quel che resta della città, e l’espressione è solo il risultato dell’anglicizzazione del mondo attraverso la nomenclatura della toponomastica americana, la stessa follia per cui la Cisgiordania diventa West Bank.

La settimana scorsa, mentre divampavano le polemiche sui centri di accoglienza da esternalizzare in Albania, vari giornali hanno riportato la notizia delle proteste locali attraverso il motto “Albania first”, e ho pensato che anche in quel Paese dilagasse l’anglomania. Invece, l’espressione inglese era una bufala, gli albanesi hanno protestato nella propria lingua, al contrario di noi che abbiamo tradotto tutto in itanglese, al posto dell’italiano. Casi come questi mostrano bene come l’interferenza dell’inglese non sia affatto esplicabile con la teoria dei “prestiti”. “Albania first” non è un prestito lessicale, è l’espressione di una lingua ibrida che si stacca sia dall’italiano sia dall’inglese e si afferma come qualcosa di nuovo.

Lo stesso si può dire del caring nurse che sta circolando sui giornali e nasce dalla nomenclatura dell’ospedale milanese di Niguarda. Davanti alla sanità che il nostro governo sta mandando in malora (anche questi tagli, insieme alle privatizzazioni, seguono il modello americano) il malcontento e la disperazione negli ospedali producono spesso liti e persino aggressioni al personale medico che non è più in grado di gestire le emergenze, oltre agli interventi programmati. La soluzione del “caring nurse”, però, non mi pare appartenga all’inglese, e mi sembra più una ricostruzione italiana a partire da radici inglesi che segue gli stessi meccanismi dello “smart working” che non è affatto in uso tra gli anglofoni. Ma allora che prestito è? Cosa si prende in prestito, in casi come questi, se non lo spirito di Nando Mericoni-Alberto Sordi di Un americano a Roma?

Da giovane ho lavorato per dieci anni come volontario in ambulanza, e il problema dell’accoglienza infermieristica era all’epoca connessa ai diritti del malato, e a nessuno era mai venuto in mente di chiamarla in inglese, negli anni Novanta. Oggi, invece, i nuovi medici che si formano nelle università dove si vorrebbe insegnare direttamente in inglese pensano in inglese e la loro terminologia è quella. Dunque si appoggiano alle radici inglesi anche quando si sforzano di coniare nuove parole che però non sono più italiane.

Se un tempo con “nurse” si indicava una baby sitter (tata o governante), oggi la parola si usa anche per indicare un infermiere, visto che ci sono le nursery (reparti neonatali), e chissà, forse presto anche gli infermieri diventeranno ufficialmente nursing operator. Quanto a “care”, anche se non è registrata come voce autonoma nei nostri dizionari, ha già prodotto una miriade di locuzioni che forse si potrebbero definire “care based”, per essere moderni, a partire dal caregiver (ennesima italianata che non corrisponde al significato inglese), per proseguire con lo skincare (dermocosmesi o cura della pelle), i care leaver (apparsi nella legge di bilancio 2017 per indicare i giovani fuori famiglia), e poi il customer care (assistenza clienti), l’home care (assistenza domiciliare), i day care (centri di assistenza diurni) e via dicendo. Dal care al caring il passo è breve… e davanti a tutto ciò sarebbe ora di buttare via i ridicoli schemini astratti dei prestiti, come se fossero entità isolate, per ragionare in modo un po’ più serio sull’interferenza dell’inglese.

L’insensatezza del “prestito” di fronte all’interferenza dell’inglese

I prestiti non si restituiscono, purtroppo, e la lingua che li presta non si priva di queste parole (come aveva osservato Gian Luigi Beccaria). Non si capisce nemmeno se siamo noi che prendiamo in prestito dall’inglese per nostra volontà o se sono le multinazionali americane che ci prestano a forza i loro termini imposti attraverso i titoli dei film non tradotti, le interfacce informatiche tradotte male e parzialmente, i termini intoccabili della giurisprudenza americana, i nomi dei prodotti che ci vendono…

La verità è che l’espansione dell’inglese globale inonda il mondo di parole inglesi con un procedimento che segue lo schema della “panspermia”. Migliaia e migliaia di anglicismi sono esportati di continuo sia per le pressioni esterne del globalese, sia per quelle interne degli anglomani emulatori. La maggior parte di queste parole sono usa e getta, rappresentano occorrenze uniche o sporadiche, ma alcune attecchiscono e piantano le loro radici. Anche tra queste c’è un’alta “mortalità”, e la maggior parte di questi germogli finisce per estinguersi, dopo un breve periodo, mentre una piccola parte – piccola in confronto al fenomeno della panseprmia, ma enorme dal punto di vista del vocabolario – si stabilizza in un trapianto che in molti casi produce intere famiglie di anglicismi che si ramificano, si allargano nel nostro lessico e si ricombinano tra loro, come accade con le radici prolifiche “care”, “smart”, “baby”, “over”, “day”, “act”…

Nel ricombinarsi, spesso travalicano l’ambito dell’inglese – dunque non sono prestiti, ma trapianti che assumono nuove accezioni e nuovi significati – e in questo radicarsi che fa saltare le regole ortografiche, fonologiche e morfologiche dell’italiano (e anche sintattiche, vista l’inversione di espressioni come Gaza City) spuntano le parole ibride, che non sono più né italiane né inglesi, ma sono appunto il fulcro di una newlingua che si può chiamare itanglese. La quantità delle parole ibride è enorme, e la dimensione di questo fenomeno è senza precedenti nella storia dell’interferenza delle altre lingue. Gli ibridi con il francese, per esempio, si contano sulle dita di una mano (foularino, moquettista o voyeurismo), mentre sono praticamente assenti gli ibridi a base spagnola, tedesca, giapponese e di ogni altra lingua. I collaborazionisti della dittatura dell’inglese che si operano per per giustificarne l’opportunità, invece di comprendere che le ibridazioni rappresentano lo sfaldamento dell’italiano storico le salutano ipocritamente come “un esempio di vitalità della lingua, che in questo modo mostra reattività e capacità di integrare elementi estranei nel proprio sistema”. Al contrario, è il nostro sistema privo di reattività che viene schiacciato e frantumato da quello inglese, e infatti la newlingua che ne risulta non è “italiano”, visto che è fuori dalla nostra grammatica. I linguisti “descrittivisti” che considerano “italiano” ciò che non lo è affatto dovrebbero spiegare cosa sia l’italiano, per loro. Perché se l’italiano è il risultato dei trapianti linguistici in uso, si può fare a meno di questi linguisti che non si distinguono da un programma di intelligenza artificiale; sarebbe molto più proficuo sostituirli con un algoritmo che, basandosi solo sulla frequenza, decreta come “italiane” anche le parole non lo sono affatto, dal punto di vista strutturale. Il nucleo di ogni controversia sta in questo passaggio che vuole ridefinire l’italiano: non è più la lingua dove il sì suona, non è più la sonorità che ha reso la nostra lingua una delle più ammirate del mondo. Semplificando la questione, la parola premierato (derivata dall’inglese premier con cui sostituiamo il presidente del consiglio) è italiana – perché non viola la nostra identità linguistica – ma lo stesso non vale per premiership, che mantiene la sua struttura inglese. Lo stesso vale per care, che non è non è più il femminile plurale di caro, ma è cura, da pronunciare all’inglese. E se parole come “chattare”, “computer”, “mouse” sono improvvisamente dichiarate “italiane”, per coerenza si dovrebbero riscrivere tutti i libri di grammatica. Eppure, questi “linguisti” che hanno buttato nel cesso la definizione di “italiano” fanno finta di non capirlo, e danno persino del “purista” a chi fa loro notare l’abissale differenza tra italiano, inglese e itanglese. Invece di mistificare e confondere volutamente le cose, gli anglomani dovrebbero studiare un po’ di più la storia: il purismo non c’entra nulla. I puristi non accettavano le parole di origine straniera anche se italianizzate, e le respingevano insieme alle voci dialettali, ai tecnicismi e ai neologismi non usati dagli autori classici. Proprio gli avversari storici del purismo come Machiavelli, Muratori, Verri, Cesarotti o Leopardi – quest’ultimo spesso citato a vanvera, in modo volutamente parziale e ingannevole – avevano capito una cosa molto semplice: l’accoglimento delle parole straniere è sano e normale, ma se non passa per l’italianizzazione e l’integrazione con il tessuto linguistico che le ospita non produce un’evoluzione, ma un’involuzione che corrompe e distrugge le lingue. E questo non era affatto “purismo”, era buon senso. Tutto il resto è fuffa.

Italiano: open to mostruosità

Di Antonio Zoppetti

Anna mi ha segnalato “l’Italian teacher award 2023” evidentemente partorito dal “Ministero della Pubblica Distruzione e del Demerito Generalizzato”.

Si tratta della quinta edizione di un progetto che “ha lo scopo di celebrare i valori sociali e culturali degli insegnanti italiani, al fine di riconoscere un tributo a tante donne e a tanti uomini che si spendono ogni giorno per l’istruzione e la formazione delle nuove generazioni […] L’Atlante – Italian Teacher Award intende promuovere il valore sociale e culturale degli insegnanti italiani”.

E come esprimere cotanta italianità se non con un nome in inglese?
Su sito di Rai mamy Scuola si può sapere di più sulla mission del progetto e sulle partnership da cui è nato.

Questi approcci, e questa lingua, la dicono lunga su come vengono concepiti i progetti per educare le nuove generazioni, e non solo quelle, all’abbandono dell’italiano e al passaggio all’itanglese.

La redazione online del Corriere pubblicizza invece il Corriere Family. A soli 3 euro sono disponibili 3 account, per ricevere le newsletter e ascoltare i podcast.


Nel 2015 il ministro dei Beni culturali e del Turismo Dario Franceschini aveva lanciato il portale per il turismo e la cultura italiana chiamato VeryBello! fallito miseramente subito dopo.

Allora nel 2021 ci ha riprovato con la “Netflix italiana” per la valorizzazione culturale del nostro Paese intitolata ITsART, solo che è fallito tutto di nuovo (e gli investimenti per queste iniziative non sono pochi). Ma poco male, nel 2023 il nuovo governo di tutt’altro schieramento politico ci riprova con lo stesso schema, e sta nascendo un nuovo progetto il cui motto, anzi slogan è “Open to meraviglia” (in figura con le mie considerazioni) a cui auguro, con tutto il cuore, lo stesso successo delle precedenti iniziative.

E così, mentre la fallita Alitalia cede il posto alla fallimentare ITA Airwais, mentre le Poste italiane introducono le nuove denominazioni dei pacchi attraverso la categorie del Delivery, mentre nasce il Ministero del Made in Italy (e non del prodotto italiano), mentre le Ferrovie dello Stato offrono le tariffe premium, business e economy e il concorrente [*antico termine autoctono oggi meglio traducibile con competitor] Italo sostituisce la figura del capotreno con quella del train manager (nella comunicazione ai passeggeri e nei contratti di lavoro!), mentre il Salone del Mobile e la Settimana della moda di Milano si trasformano in Week Design e Fashion Week, mentre la squadra olimpica italiana diventa un team, mentre il progetto per la reintroduzione degli orsi denominato Life Ursus battezza gli esemplari con sigle come Jj4 (dove la i lunga è pronunciata “gèi” come se esistesse solo l’inglese), mentre i negozi diventano store, shop e outlet, mentre gli animali domestici diventano pet, il cibo food e altri migliaia di esempi del genere quotidianamente trasformano l’italiano in itanglese… capita che una nutrita schiera di linguisti continuino a guardare al fenomeno interpretandolo con le loro lungimiranti categorie dei “prestiti” magari di “lusso” e di “necessità”.

Qui non abbiamo a che fare con qualche prestito perché ci manca una parola e non la sappiamo né vogliamo più tradurre, italianizzare o riconiare all’italiana. Siamo in presenza del crollo dell’italiano e abbiamo a che fare con dei trapianti (altro che prestiti!) di parole e suoni che hanno una frequenza e una profondità devastanti, che riconcetualizzano il nostro modo di pensare trasformando gli insegnanti in teacher (ma ci sono anche i tutor), la famiglia in family (persino il vecchio Movimento per la vita è stato abortito in favore del Movimento pro life) e l’italiano in italian. Questi trapianti si ibridano generando una neolingua che ha ormai le sue regole, ed è fatta di commistioni come Verybello, mentre open to meraviglia è un’enunciazione mistiligue che esce dai “prestiti” e l’italiano open to mostruosità, dove invece di incitare a “vivere italiano” si incita a “vivere in itanglese”, una lingua che si trasforma in un ircocervo che è un mostro orribile, altro che meraviglioso!

Mentre certi linguisti propagandano la panzana che “la lingua si difende da sé” e che l’uso fa la lingua lasciando intendere che sia un processo “democratico” che arriva dal basso, quello che sta accadendo è che l’italiano muore perché i nuovi centri di irradiazione della lingua, per dirla con Pasolini, e cioè le istituzioni, i giornali, la televisione, le aziende, gli intellettuali e l’intera nostra classe dirigente ci educano all’inglese e all’itanglese dall’alto. Perché sono colonizzati nella mente e hanno sposato il progetto del globalese, l’inglese internazionale, la lingua naturale dei popoli dominanti e dei padroni che si vuole far diventare la lingua planetaria, dell’Ue, della formazione universitaria, del lavoro e della cultura di cui gli anglicismi sono gli effetti collaterali (come ho spiegato nel libro Lo tsunami degli anglicismi, per fare un po’ di pubblicità non occulta). Questi collaborazionisti del globish sono i veri responsabili dell’itanglese. E davanti all’attuale tsunami anglicus, utilizzare gli schemini astratti dei prestiti è un po’ come voler misurare la portata di uno tsunami con l’unità di misura della bottiglia! A quante bottiglie corrisponderà l’attuale onda anomala?

In questo contesto tipicamente italiano, visto che in altri Paesi la questione è affrontata in modo ben più serio, capita anche che un bravo comico come Crozza ironizzi sul fatto che le (discutibili e perfettibili) proposte di legge per l’italiano avanzate di recente ci facciano tornare ai tempi del fascismo, quando si volevano sostituire i barbarismi con ridicoli sostitutivi come fiorellare per flirtare, arlecchino per cocktail, pallacorda al posto di tennis e via dicendo. Peccato che, come aveva capito un paio di secoli fa Leopardi (ma già allora ben più avanti dell’intellettuale medio italiano dei giorni nostri), solo l’uso e l’abitudine rendono bella, brutta o ridicola una parola. Dunque questi sostitutivi sono “ridicoli” solo perché non si sono affermati, mentre quelli che hanno avuto successo (regista invece di régisseur, autista invece di chaffeur, calcio invece di football, calcio d’angolo invece di corner…) sono parole oggi del tutto normali. A proposito di italianizzazioni di epoca fascista si potrebbe anche ricordare il successo di pallacanestro al posto di basketball, e nella Breve storia della lingua italiana di Migliorini e Baldelli (Sansoni, 1964, p. 345) si può leggere: “Si sono oramai definitivamente affermati contro gli equivalenti stranieri, prima imperanti” sinonimi come pallacanestro. Gli autori si sbagliavano di grosso, nulla è definitivo, e oggi il basket ha la meglio sulla vecchia pallacanestro, anche se in inglese si chiama basketball. Il che dimostra che non abbiamo a che fare con “prestiti”, ma con un processo di creolizzazione lessicale ben diverso e più profondo, che sta portando a una neolingua ibrida, l’itanglese, che non è più né italiano né inglese.

Tornando a Crozza, è più che comprensibile scherzare sul fatto che il nuovo quadro dirigente governativo predichi benino (bene è una parola grossa) e razzoli male. Ma, belin… possibile, Crozza, che davanti al virgolettato della Santanchè non ti venga in mente che la cosa su cui pungere è come si è ridotto l’italiano?

Mettiamo i puntini sulle “i”: sul canale Nove marchiato Warner Bros Discovery, una rivista italiana denominata Open titola “La ministra Santanché contro il Far West dei bed & breakfast”, utilizzando 11 parole di cui 5 sono in inglese. In italiano rimane un nome proprio (“Santanchè” che non vale ai fini statistici), la parola “ministra” e per il resto ci sono solo articoli e preposizioni! Se ci aggiungiamo le denominazioni in inglese della rivista e del canale ci sarebbe anche il “nove” a salvare l’italiano. E tu fai dell’ironia sull’adattamento di sciampagna al posto di champagne? Ma non vedi che c’è solo l’inglese? Altro che guerra ai barbarismi… il problema è la creolizzazione da una lingua sola che ci sta schiacciando.

Come fai a non capirlo? Almeno tu Crozza… dai!



L’anglicizzazione della nostra classe dirigente ha a che fare con l’ignoranza

di Antonio Zoppetti

La questione degli anglicismi e di una legge sull’italiano ha avuto un grande spazio sui giornali e nei dibattiti televisivi anche la scorsa settimana. Il livello delle discussioni a cui abbiamo assistito è però davvero avvilente, perché a prevalere sono i luoghi comuni, la disinformazione e soprattutto l’incapacità di uscire dalle prese di posizione ideologizzate che sono rimaste ferme a un secolo fa e interpretano tutto come una riedizione delle politiche del fascismo e della guerra ai barbarismi.

La proposta di legge di Fabio Rampelli è stata attaccata e spesso mistificata attraverso pregiudizi del passato, invece che essere analizzata o criticata con gli occhi del presente. Ma la nostra classe dirigente sembra ragionare ancora con gli schemi del purismo, incapace di cogliere la realtà e di andare avanti, visto che rispetto agli Venti del secolo scorso il mondo è cambiato e la globalizzazione, l’avvento di Internet, il crollo del muro di Berlino, la fine della Guerra fredda… hanno posto la questione della lingua su un terreno completamente differente rispetto al Novecento.

Gli interventi di ospiti e giornalisti importanti in trasmissioni televisive di primo piano mostrano chiaramente l’impreparazione e l’ignoranza dell’intellighenzia nostrana sul tema della lingua. Questa bassissima competenza è l’altra faccia della medaglia dell’anglicizzazione, e si può combattere solo con una battaglia culturale di svecchiamento dei pregiudizi.

Pregiudizio numero 1: la negazione e la banalizzazione

Alla nostra classe dirigente non è chiaro che il problema dell’interferenza dell’inglese non è una questione di principio né di battaglie per l’autarchia e il sovranismo linguistico, è un problema di ecologia linguistica. Il problema non sono i “forestierismi” da bandire per motivi di principio, il problema sono gli anglicismi – e solo quelli – perché il loro numero sproporzionato è tale che stanno cambiando i connotati della nostra lingua trasformandola in itanglese. Il nostro ecosistema linguistico è schiacciato da questo eccesso, e la necessità di leggi per tutelare il nostro patrimonio linguistico è una risposta a una minaccia reale: lo “tsunami anglicus” ci travolge perché l’inglese planetario entra in conflitto con le lingue locali. Ma i nostri intellettuali non lo sanno, e dunque negano tutto ciò. Davanti alla questione dell’abuso dell’inglese sorridono, fanno spallucce e sfoderano i soliti stereotipi per cui tutto ciò sarebbe un falso problema. Ad Accordi e disaccordi di venerdì scorso (su La7) l’opinionista Andrea Scanzi ha raggiunto l’apoteosi di queste pochezze, e con il suo solito tono saccente e perentorio ho sciolinato i peggiori stereotipi banalizzando la questione e riducendo tutto al fatto che qualcuno vorrebbe impedirci di dire “brioche” o “rock”, mostrando di non avere la più pallida idea della questione. Tra l’altro “brioche” è uno pseudo- francesismo nel significato che gli attribuiamo noi di cornetto, ma il punto non è il forestierismo in sé, bensì il peso dell’interferenza dell’inglese nella sua totalità e complessità, che sta portando al collasso del dominio in molti settori: l’italiano non è più in grado di esprimere l’informatica, il lavoro, la scienza, la tecnologia…. senza la stampella dell’inglese. A Piazza Pulita di Corrado Formigli le cose non erano tanto diverse, e mentre De Benedetti liquidava la faccenda degli anglicismi come una questione inesistente e di nessuna rilevanza, invitando a concentrarsi sui problemi seri del nostro Paese, il conduttore mostrava una grafica in cui faceva passare una serie di forestierismi, ormai comuni e naturali, inglesi, francesi, spagnoli o tedeschi, senza accorgersi che il numero degli anglicismi indicati superava la somma di tutti gli altri forestierismi recuperati con un certo sforzo, nel caso di germanismi e ispanismi.

Pregiudizio numero 2: i peggiori sovranisti sono proprio i giornalisti

In tutto il mondo si riflette e si interviene sull’invadenza dell’inglese, nei Paesi ispanici esistono numerose istituzioni pubbliche e private che traducono anglo-tecnicismi e coniano neologismi che invece noi importiamo e accumuliamo in inglese senza nemmeno porci il problema. E lo stesso avviene in Francia che ha varato anche delle leggi severe per la tutela e l’integrità del francese; in Islanda esiste la figura ufficiale del neologista che crea alternative autoctone alla terminologia inglese; in Svizzera sono state emanate linee guida per evitare le parole inglesi nella pubblica amministrazione in nome della trasparenza, e la lingua italiana è ben più tutelata e promossa che da da noi. Ma il giornalista medio sembra ignorare tutto ciò, e davanti al problema dell’anglicizzazione non si aggancia al dibattito internazionale, ma subito si blocca come un mulo e non sa far altro che collegare la questione alla guerra ai barbarismi del ventennio. Ma ignorare il dibattito internazionale di oggi e guardare solo al nostro passato interno significa guardarsi l’ombelico e indossare i paraocchi svincolandosi dalle più attuali questioni planetarie, è un isolarsi dal mondo che si può leggere come il peggiore sovranismo culturale che si possa immaginare. E per far finta di uscire da questo provinciale modo di porre la questione si ricorre a un altro luogo comune da sfatare: questi signori sono convinti che parole come mouse o computer siano moderni “internazionalismi”, non sanno che non è così e più in generale confondono “internazionalismo” con ciò che avviene nell’anglosfera, che è il loro unico parametro di riferimento, perché sono colonizzati nella mente e non hanno altri modelli se non quelli dell’angloamericano.

Pregiudizio numero 3: la mistificazione e la ridicolizzazione dell’avversario

In questo quadro, la notizia della legge di Rampelli è stata riassunta e presentata enfatizzando solo la questione delle multe da 5.000 a 100.000 euro che ben si presta alle analogie con le leggi fasciste iniziate con una tassa sulle insegne commerciali che contenevano parole straniere. L’iniziativa non era affatto una novità del fascismo, era già stata proposta ben prima, per rimpinguare le casse dello Stato, anche se il fascismo l’ha rilanciata con un intento patriottico più che finanziario.

L’articolo delle sanzioni, in effetti, avrebbe potuto essere scritto in modo diverso e meno vago, perché così come impostato sembra quasi ammiccare provocatoriamente al passato, e istigare i facili accostamenti. Quanto alle altre “ingenuità” o punti deboli e critici presenti nel testo di legge, nessuno li ha nemmeno visti e forse recepiti.

Rampelli è dunque intervenuto un po’ ovunque per spiegare che le multe riguarderebbero le amministrazioni e non i privati cittadini, e che il suo intento era quello di riprendere le leggi francesi dove nei contratti e nella documentazione di lavoro è obbligatorio usare il francese e le multinazionali – come la Danone o la GEMS – che hanno violato le regole sono state pesantemente multate. Ancora una volta, un “sovranista” come Rampelli si è rivelato più “internazionale” dei suoi avversari che non sono consapevoli di ciò che avviene all’estero perché per loro l’estero è solo l’anglosfera, e non sanno che la legge Toubon è ben più radicale di quella “rampelliana”.

Una campagna di sensibilizzazione per l’italiano

E allora, per fare chiarezza e sgomberare i pregiudizi è necessario fare informazione e creare una nuova cultura. Per questo sto cercando di far circolare il “Rapporto sull’anglicizzazione” con i dati e i numeri tratti dallo spoglio dei dizionari, che purtroppo i giornalisti e gli intellettuali non conoscono. Per questo il rapporto è stato inviato in Parlamento – insieme alla nostra proposta di legge per l’italiano e alle 2.200 firme di chi la sostiene – sia ai rappresentanti del Governo sia alle forze di opposizione. La stessa istanza che abbiamo rivolto un paio di anni fa al presidente della Repubblica Sergio Mattarella con una petizione firmata da oltre 4.000 cittadini.

Purtroppo nessuna risposta ci è pervenuta.

Tuttavia, ieri sono riuscito a perorare molto brevemente davanti a Rampelli quello che a mio avviso è il punto chiave: la necessità di agire con strumenti culturali per ricostruire un tessuto sociale che spezzi il nostro complesso di inferiorità verso l’inglese e per fare in modo che la nostra lingua, così amata nel mondo, torni a essere qualcosa di cui andare fieri, invece che vergognarcene e buttarla via davanti agli anglicismi.

La risposta di Rampelli

Ieri sono intervenuto su Radio Radio nella trasmissione Punto e accapo condotta da Francesco Borgonovo e ho cercato di spiegare come stanno le cose e di divulgare il vero problema dell’anglicizzazione che è un fenomeno da pesare e misurare, non da liquidare come una questione di purismo o di principio. Nella seconda parte della trasmissione Borgonovo ha intervistato anche Rampelli che ha ribadito che le multe previste dalla sua proposta di legge non riguardano i cittadini che proferiscono forestierismi, ma le istituzioni che dovrebbero rivolgesi ai cittadini in italiano. Ha anche osservato che il tema della lingua, teoricamente, dovrebbe appartenere alla sinistra, non solo alla destra, anche se a sinistra sembra che nessuno lo capisca. E ha fatto presente che, davanti alla sua proposta, mentre la gogna mediatica italiana ha rispolverato il fascismo, nessuno in Francia ha mai tacciato di fascismo Macron, Mitterand né le commissioni istituzionali per l’arricchimento del francese davanti agli anglicismi.

Sono riuscito a intervenire per precisare ciò che, a mio avviso, manca nella proposta di legge di Rampelli, e cioè una campagna di sensibilizzazione a favore dell’italiano. Perché le lingue si orientano con altri mezzi rispetto alle multe (che ben vengano se sanzionano le multinazionali d’oltreoceano o le amministrazioni che introducono anglicismi demenziali al posto dell’italiano). Per stigmatizzare gli anglicismi bisogna perciò fare cultura, emanare linee guide e raccomandazioni, perché la battaglia contro l’anglicizzazione va condotta sul terreno della “connotazione”, per fare in modo che le parole inglesi non siano vissute come preferibili. L’abuso dell’inglese si può arginare solo con le stesse modalità con cui si diffondono le parole considerate “politicamente corrette” e non discriminatorie, e nello stesso modo con cui si sta operando nel caso di parole come sindaca o ministra e per le altre femminilizzazioni delle cariche.

Borgonovo è un giornalista ben informato, da sempre sensibile al tema della lingua, ha dunque colto benissimo il nodo della questione, e l’ha girata a Rampelli chiedendogli in modo molto diretto: “Ha sentito? Che ne pensa? Farete una campagna?”
La risposta è stata: “Sì, è perfettamente in linea con i nostri scopi politici.”

Vedremo come andranno le cose e che accadrà, ammesso che la nuova proposta di legge sia finalmente perlomeno discussa, al contrario delle precedenti.

Intanto continuo, come posso, nella mia opera di divulgazione, informazione e convincimento.

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PS
Sabato sarò a Crema (Biblioteca comunale Gallini, ore 10) e divulgherò i numeri e i dati dell’anglicizzazione dell’italiano in un incontro promosso dagli esperantisti per ricordare Daniele Marignoni, autore della prima grammatica di esperanto italiana.

L’esperanto non è una lingua “etnica”, non entra in conflitto con le lingue locali e rappresenterebbe la soluzione più etica, pacifica, razionale ed economica per la comunicazione internazionale, ma forse proprio per questo è osteggiato da chi ha tutto l’interesse a privilegiare l’inglese e a difendere il potere del globalese, di cui gli anglicismi sono solo un “effetto collaterale”.

Interverrà anche il professor Michele Gazzola, che parlerà dell’approccio al multilinguismo nella politica di comunicazione dell’Unione europea, visto che l’inglese non è la lingua ufficiale dell’Ue, e dovremmo ricordarcene più spesso.

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Aggiornamento del 17/4/023: per chi è interessato è disponibile la registrazione dell’evento:

Anglicismi e forestierismi: le abissali differenze

di Antonio Zoppetti

La guerra ai barbarismi del ventennio fascista fu fatta per motivi di principio e di autarchia e non certo perché le parole straniere – che a quei tempi erano soprattutto francesi – rappresentassero una reale minaccia per l’italiano.

L’ostilità verso i forestierismi affondava le sue radici nel pensiero risorgimentale e patriottico legato all’unità d’Italia e alle invasioni straniere che da secoli rendevano il nostro Paese una terra di conquista. E il motto di un libro come Barbaro dominio di Paolo Monelli (1933) riprendeva proprio una citazione del Principe di Machiavelli che veniva applicata alla lingua: “Ad ognuno puzza questo barbaro dominio” (cap. XXVI).
Sul piano linguistico questo sentimento si intrecciava con secoli di “purismo” e di dibattiti sulla questione della lingua, dove nel separare metaforicamente il fior di farina dalla crusca che aveva guidato la nascita dell’omonima Accademia, insieme ai neologismi, ai tecnicismi e alle parole non toscane si condannavano in blocco anche i forestierismi; persino quelli adattati come “precisazione” citata da Leopardi, o “emozione”, che in un popolare dizionario di Rigutini di fine Ottocento era bollata come un gallicismo da evitare (Giuseppe Rigutini, I neologismi buoni e cattivi più frequenti nell’uso odierno, Roma, Libreria editrice Carlo Verdesi, 1886).

“Scusate il francesismo”, che si usa ancora a oggi in modo spiritoso davanti a una parolaccia, deriva proprio da questo contesto, dal chiedere venia davanti all’uso di parole francesi come fossero offensive. E lo stesso atteggiamento di repulsione si registra anche per molti neologismi italiani, a cui non siamo avvezzi.

Di fronte alle odierne denunce per l’abuso dell’inglese, molti credono che la questione sia ancora di questo tipo. Non si sono accorti che la storia ha voltato pagina in un cambio di paradigma che rappresenta un salto e una discontinuità rispetto al passato.

Numeri, mancato adattamento e velocità di penetrazione

Il numero degli anglicismi non adattati accolti nei dizionari è attualmente superiore alla somma di tutti gli altri forestierismi crudi provenienti da tutte le lingue del pianeta messe assieme, compresi i francesismi.
Sul Devoto Oli ce ne sono 4.000, sullo Zingarelli sono 3.000, ma lo scarto è dovuto solo ai diversi criteri di classificazione: il primo dizionario tende a fare di ogni locuzione una voce a sé, mentre il secondo tende a registrarla all’interno della voce madre, per cui marketing mix si trova sotto il lemma principale marketing e non viene conteggiato dalle ricerche automatiche. Ma a parte ciò, i numeri delle voci non sono poi molto diverse se si confrontano i due vocabolari.

I francesismi crudi sono invece meno di 1.000, gli ispanismi meno di 150, altrettanti sono i germanismi. Seguono un’ottantina di parole giapponesi non adattate, una trentina arabe, una trentina portoghesi, e le voci delle altre lingue, dal russo al cinese, sono ognuna nell’ordine della decina o di poche manciate (Cfr. “I forestierismi nei dizionari: quanti sono e di che tipo“).

A impressionare non ci sono solo queste enormi differenze numeriche. Anche la velocità di diffusione è preoccupante. Il 90% delle parole inglese è penetrata nell’italiano negli ultimi 70 anni, fondamentalmente dal dopoguerra in poi. Nel 1990, la prima edizione digitale del Devoto Oli registrava solo 1.600 parole inglesi crude, e nel 1995, quella dello Zingarelli ne conteneva 1.800.
I meno di 1.000 francesismi non adattati, al contrario, sono l’eredità storica di substrati plurisecolari di influenza del francese. Ma vista l’affinità con l’italiano, l’interferenza del francese nel complesso ha subito un adattamento e oggi le parole di origine francese, come “emozione” sono a tutti gli effetti parole italiane, al contrario di espressioni come fake news che rimangono “corpi estranei” nel loro suono e nella loro ortografia che violano la nostra identità linguistica. Stando alle marche di un dizionario specialistico come il Gradit del 2007, oltre il 70% dei gallicismi sono stati assimilati, mentre nel caso dell’inglese le parole penetrano quasi sempre senza adattamenti e le italianizzazioni costituiscono meno del 30% dei casi. E da allora le cose sono peggiorate. Tullio De Mauro, nel confrontare i numeri del Gradit del 1999 con quelli del 2007 ha dichiarato:

Il confronto con i dati registrati nella prima edizione del GRADIT mostra che negli ultimi anni gli anglismi hanno scalzato il tradizionale primato dei francesismi e continuano a crescere con intensità, insediandosi, come più oltre vedremo, anche nel vocabolario fondamentale.
(Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia repubblicana: dal 1946 ai nostri giorni, Laterza, Bari-Roma 2016, p. 136.)

In altre parole, nell’arco di una sola generazione l’interferenza dell’inglese ha raggiunto e superato quella del francese che è avvenuta in un lasso di tempo di secoli e secoli raggiungendo anche il lessico comune.

Frequenze e ambiti

Un’altra spropositata differenza tra gli anglicismi e gli altri forestierismi sta nella frequenza con cui li utilizziamo. Basta scorrere la pagina principale di un qualsiasi giornale in Rete e contare le parole inglesi. Mediamente se ne trovano a decine e le loro percentuali sono altissime, mentre nel caso delle altre lingue se ne trovano al massimo solo una o due, di solito.
Quando “chef” era solo un francesismo e si usava al posto di “cuoco” per moda e snobismo, la sua diffusione era bassa. Nel nuovo Millennio, da quando la stessa parola ci è arrivata dall’angloamericano dell’era dei MasterChef e dei FoodNetwork, la sua frequenza è decuplicata! E oggi l’italiano evoca una professione di serie B: il cuoco è quello delle trattorie e delle mense aziendali – la manovalanza – mentre nei ristoranti stellati o di lusso ci sono solo gli chef.


La cosa grave è che gli anglicismi non riguardano solo la cucina, la moda, il costume o gli ambiti marginali della società, sono penetrati senza alternative nel lessico di tutti i giorni e nei settori strategici della modernità, dove l’italiano è ormai mutilato, incapace di esprimere con parole sue – senza la stampella dell’inglese – i settori come l’informatica, la tecnologia, il lavoro, la scienza, l’economia… e da computer a marketing, da spread a lockdown, le parole italiane sono venute a mancare.

Dalla quantità al salto verso l’itanglese

L’attuale interferenza dell’inglese non ha nulla a che fare con quella del francese o delle altre lingue anche nell’impatto che sta stravolgendo la nostra lingua. Se i forestierismi si possono ancora considerare “prestiti” lessicali isolati, gli anglicismi non lo sono affatto. L’inglese produce il fenomeno delle ibridazioni e la nascita di centinaia e centinaia di parole come chattare, backuppare, downloadare, hackerare, twittare, whatsappare… ma anche zoomabile, fashionista, scoutismo… mentre le radici inglesi si accostano a quelle italiane (clownterapia, libro-game, pornoshop, punkabbestia, webserie…) e parole come killer, o confissi come baby, cyber, over… si trasformano in regole generative foriere potenzialmente di infinite ricomposizioni (killer sassi killer, zanzare killer, squalo killer, cellule killer, batterio killerbaby-calciatore, cyber-criminale, over-ottantenne…). Le parole inglesi si accostano poi tra di loro in una rete sempre più fitta di ricombinazioni che si allargano nel nostro lessico con un effetto domino: food fast food, street foodpet pet food, pet sittersmart smart working, smartphone
Ci sono intere famiglie di parole declinate nelle desinenze in –ing e –er: surf/surfing/surfer, work/working/worker, shop/shopping/shopper… e tra blogger e rapper invece di bloggatori e rappatori l’inglese si trasforma in una grammatica inconscia che genera anglicismi e pseudanglicismi che vivono di vita autonoma: no global, no vax… → no + qualsiasi cosa in inglese; covid hospital, covid free… → covid + qualsiasi cosa in inglese

Tutto ciò non si vede nel caso degli altri forestierismi. L’interferenza dell’inglese si sta trasformando in una neolingua ibrida che sta producendo anche i primi prestiti sintattici dove la collocazione delle parole italiane si scombina: social media manager, green economy o green pass non seguono l’ordine di responsabile della comunicazione digitale ed economia o certificazione verde.

Negli ultimi anni stiamo assistendo alla crescita di enunciazioni mistilingue che alternano all’italiano codici in inglese sempre più complessi come of course, one moment, number one, why not?, very good, oh my God!, last but not least, the best, real time… Questo fenomeno è in fase embrionale, ma si sta allargando e la mia impressione è che sia destinato ad ampliarsi in modo sempre più veloce e profondo. Ultimamente, nel parlato, si sentono sempre più spesso enunciazioni come too much per dire “questo è troppo”. E in questo vezzo anche i verbi cominciano a fare la loro comparsa e si infilano nell’italiano come fosse un normale intercalare, per esempio remember, don’t worry¸ stop, relax, save the datefuck you!

Dalla “questione della lingua” alla questione delle lingue

Questi sono i fatti. Continuare a blaterare che è normale che le lingue si evolvano, come si sono sempre evolute, e concludere che l’interferenza dell’inglese non è preoccupante, significa non comprendere come stiano le cose.

“Tsunami” è un nipponismo, ma non c’è alcun problema a usare un forestierismo del genere, perché è un “prestito” isolato che non rappresenta alcuna minaccia per l’italiano. Certo, qualcuno che si scaglia con l’inglese per motivi che hanno a che fare con il purismo ci sarà sempre. Ma chi non capisce la portata dell’attuale tsunami anglicus rischia di essere l’altra faccia della medaglia di questo purismo anacronistico di cui fa il controcanto. I due atteggiamenti sono altrettanto stupidi.

Il problema non sono i forestierismi, il problema è il numero degli anglicismi, e solo quelli, che hanno preso il sopravvento e non costituiscono più un arricchimento, ma un depauperamento dell’italiano. La questione non è più quella “della lingua”, ma delle lingue di tutto il pianeta minacciate dall’interferenza dell’inglese globale. Quelle minori rischiano di scomparire, ma anche quelle più forti ne escono snaturate. E in Italia, dove non c’è alcuna attenzione per l’ecologia linguistica, dove non esiste alcuna politica linguistica, e dove la nostra classe dirigente diffonde l’itanglese ed è schierata a favore del globalese, siamo messi molto male.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Inglese internazionale o plurilinguismo?

Di Antonio Zoppetti

A Milano, capitale dell’itanglese, in metropolitana la segnaletica è bilingue, italiano e inglese, e lo stesso accade per la comunicazione sonora: a ogni fermata riecheggia l’annuncio bilingue che ripete in modo ossessivo: “Prossima fermata… next stop…”
Nelle ore di punta l’utenza è formata più che altro da pendolari ammassati – almeno prima della pandemia – mentre nelle ore serali c’è un’alta concentrazione di arabi, cinesi, sudamericani… gli anglofoni sono piuttosto rarefatti, insomma. Ma dietro questo tipo di comunicazione c’è una precisa filosofia: straniero = inglese = lingua internazionale. Questi annunci sono un martellamento, un lavaggio del cervello che in modo ipnotico ci abitua alla presenza e all’essenzialità del solo inglese.
Anche prendere un treno significa immergersi in questa logica. Una volta c’erano le targhette con scritto “Vietato sporgersi” o “Non gettate alcun oggetto dal finestrino” affiancate dalle traduzioni in francese, tedesco e inglese. Oggi la traduzione è solo in inglese. E per di più l’inglese sconfina sempre maggiormente, e prende il posto dell’italiano. Nelle stazioni o negli aeroporti francesi, spagnoli o portoghesi ci sono le porte per l’imbarco, in Italia ci sono solo i gate. Viaggiare ai tempi del covid implica non occupare i posti con i divieti, ma i cartellini marcatori nella comunicazione delle Ferrovie dello Stato si chiamano marker (“il distanziamento è garantito da specifici marker sui posti non utilizzabili”), mentre ai passeggeri si “spiega” che “è ripresa la distribuzione del welcome drink a bordo treno” o che sui Frecciarossa ai “nuovi servizi di caring a bordo treno” si aggiunge la consegna gratuita “del safety kit gratuito a tutela della salute”, per garantire un protocollo covid free attraverso l’incentivazione di Qr code e ticketless

In treno è meglio non appoggiare le borse sul “desk”, tutto chiaro in questa “semplice indicazione”?


L’inglese internazionale e l’itanglese sono due fenomeni diversi, ma nascono dallo stesso humus e si alimentano dalla stessa mentalità sottostante che idolatra l’inglese come lingua superiore (cfr. “Globalese e itanglese: le relazioni pericolose”).

Il progetto di portarci sulla via bilinguismo italiano/inglese

Il progetto di portare ogni Paese sulla via del bilinguismo a base inglese è mondiale, e spesso è spacciato attraverso la parola plurilinguismo, che è invece l’esatto opposto: l’imposizione del globalese, la strategia dell’inglese globale, è tutto il contrario del plurilinguismo, che considera la diversità linguistica una ricchezza e un valore da tutelare e promuovere.

Il ricorso all’inglese sovranazionale in parte coincide con l’egemonia economica e culturale degli Stati Uniti – e dunque con la globalizzazione – e in parte è figlio di un imperialismo linguistico di natura coloniale storicamente legato all’espansione del Regno Unito e all’idea di Churchill di continuarlo da un punto di vista linguistico-culturale attraverso l’alleanza con gli Usa:

“Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente” (discorso agli studenti di Harvard, 6 settembre 1943).

Ne ho già parlato più volte, e lo ribadisco: considerare l’inglese come la lingua internazionale che risolve i problemi della comunicazione tra i popoli non è una scelta neutra, come potrebbe essere per esempio l’esperanto, è un enorme vantaggio per i popoli dominanti che impongono a tutti gli altri la propria lingua madre, senza doversi occupare di apprenderne altre. Questa visione non è un assioma indiscutibile, è solo una scelta possibile che si può benissimo mettere in discussione, e per tanti motivi. Eppure da noi il dibattito manca. La nostra classe politica e dirigente, con la complicità di intellettuali e giornalisti, ci fa credere che il globalese sia una realtà compiuta, e non un progetto politico, e lo fa in modo piuttosto subdolo, sia attraverso la propaganda di notizie false sia attraverso prassi subliminali che ci abituano gradualmente, anno dopo anno, ad accettare questa ideologia senza accorgercene e senza che ci sia un dibattito.

Queste prassi surrettizie sono infinite. La sostituzione della comunicazione multilingue dei treni con quella italo-inglese si inserisce in un contesto molto più ampio che vede l’Italia in prima linea nella diffusione dell’inglese globale.
Un tempo a scuola si poteva scegliere se studiare come seconda lingua il francese o l’inglese, oggi c’è solo l’inglese, ben propagandato dalle tre “i” della scuola di epoca berlusconiana e della Moratti ministra dell’istruzione (Inglese, Internet e Impresa). Il Politecnico di Milano di fatto eroga la maggior parte dei suo corsi in inglese, nonostante le polemiche e le sentenze.
Nel 2019, per essere “internazionale” la Rai ha annunciato la nascita di un canale in lingua inglese, mentre gli analoghi progetti dei canali francesi, russi o della stessa BBC (che trasmette in 45 lingue diverse) prevedevano trasmissioni in tante lingue, dallo spagnolo all’arabo, per arrivare a tutti. In realtà Rai English, che ci è costata 2 milioni di euro, è stata solo l’ennesimo progetto naufragato e mai realizzato, ma la mentalità sottostante gode di ottima salute. Sino al 2017 nei concorsi per la pubblica amministrazione era obbligatorio conoscere una “seconda lingua”, ma la riforma Madia ha sostituito tutto con la “lingua inglese” che è diventata un requisito obbligatorio. Questa stessa logica si ritrova nell’obbligo di presentare i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (Prin) in inglese, con il paradosso che un progetto su Dante o sul diritto romano (basato sul latino) debba essere presentato in inglese! Perché?
Perché decennio dopo decennio il nostro Paese sta perseguendo il disegno churchilliano – che non ci conviene affatto – in modo subdolo.
Uno degli esempi più recenti è l’introduzione della nuova carta d’identità in italiano e in inglese.

La nuova carta d’identità italiana, bilingue, e quella tedesca che include anche il francese, come avviene in Austria, e ovunque sul passaporto.

Credete che sia normale che debba essere così visto che siamo ormai cittadini europei? Allora siete stati ben colonizzati. Perché nel passaporto italiano e degli altri stati europei c’è anche il francese, ma nel nuovo documento elettronico la terza lingua è stata fatta sparire?

Un cittadino francese, Daniel De Poli, davanti alla nuova carta d’identità di stile anglo-europeo in francese, ha protestato con il delegato del ministero degli Interni, mostrando che in Germania il nuovo documento prevede, oltre al tedesco, anche il francese e l’inglese (lo stesso vale per l’Austria), come nel caso del passaporto europeo. E di fronte alla risposta che la scelta era motivata dall’essere l’inglese lingua internazionale, Daniel si è rivolto all’associazione di difesa francofona AFRAV che il 20 marzo 2021 ha presentato un ricorso perché questa decisione è illecita.

In Italia non credo che esistano associazioni del genere, e forse nessuno si è nemmeno mai posto il problema.

Notizie false e propaganda

Accanto alle prassi che ci abituano al bilinguismo e oscurano il plurilinguismo c’è poi la propaganda delle false giustificazioni. Una delle più gettonate, per esempio, è quella di sostenere che in ambito scientifico l’inglese internazionale ha preso il posto del latino che una volta era la lingua franca degli scienziati. Un’affermazione falsa sotto molti punti di vista. In primo luogo il latino era semmai la lingua dei teologi, cioè coloro che hanno condannato Galileo, visto che il “padre” della scienza aveva abbandonato il latino del Nuncius sidereus per scrivere il Dialogo dei massimi sistemi e il Saggiatore per la prima volta proprio in italiano. E anche se alcuni scienziati hanno continuato a usare il latino ancora sino all’Ottocento, la rivoluzione scientifica è avvenuta soprattutto nelle lingue locali. Inoltre, il latino di teologi e scienziati non era la lingua madre di nessuno, era una scelta neutra e il paragone inglese-latino regge solo se il confronto lo si fa con il latino dell’epoca imperiale, quando i Romani conquistavano e colonizzavano imponendo i propri i costumi e dunque anche la propria lingua. In terzo luogo non è affatto vero che l’inglese sia la lingua della scienza ovunque e in ogni ambito (cfr. “Inglese unica lingua della scienza? Non dovunque”).

La bufala che ci fa credere che l’inglese globale sia una realtà già compiuta, invece che un disegno che si vuole realizzare a scapito del plurilinguismo, è molto gettonata, ed è l’alibi preferito dagli anglomani. Eppure, proprio secondo i rapporti 2020 dell’Ef Epi – un’organizzazione che stila classifiche sulla conoscenze dell’inglese nel mondo per esaltarne i benefici – l’Italia è al 26° posto in Europa, quindi siamo messi malino. Stando ai rapporti Istat 2015, tra chi sa una o più lingue straniere (quindi solo una parte della popolazione), l’inglese è conosciuto dal 48,1%, il francese dal 29,5% e lo spagnolo dall’11,1% . In sintesi l’inglese è masticato da una minoranza degli italiani, e se si passa all’analisi del livello di conoscenza le cose precipitano: il 28% dichiara una conoscenza scarsa, il 27% buona e solo il 7,2% ottima.

La conoscenza dell’inglese appartiene ai ceti sociali alti, e come ha osservato il linguista tedesco Jürgen Trabant tutto ciò porta a una moderna “diglossia neomedievale” che esclude una larga fetta di popolazione che non ha accesso a questa lingua. I nostri politici, invece di tutelare e promuovere l’italiano, e gli italiani, sembrano invece favorire questa frattura sociale con provvedimenti come quello della riforma Madia. Il loro progetto è quello di farci diventare bilingui, e non quello di promuovere il plurilinguismo. Ma l’inglese globale è una discriminante anche fuori dall’Italia.

Uno dei firmatari del nostro disegno di legge per l’italiano è Jean-Luc Laffineur, italiano che risiede in Belgio, presidente di un’associazione che si batte per una Governanza Europea Multilingue (Gem+).
Mentre nell’Unione Europea – di cui il Regno Unito non fa più parte – è in atto un dibattito sullinglese come presunta seconda lingua, e ci sono fautori dell’euroinglese e quelli dell’inglese britannico, Laffineur interviene con un articolo in cui snocciola numeri e statistiche. L’inglese è la lingua madre di una minoranza di europei: irlandesi e maltesi rappresentano circa l’1,5%, mentre il tedesco è la lingua madre di circa il 20% dei cittadini europei, il francese del 16% e l’italiano del 15%. Anche se l’inglese è la seconda lingua più studiata in Europa (anche grazie ai programmi scolastici che fanno in modo che sia così), non significa che tutti la padroneggino: solo il 15% dichiara di saperlo fare, mentre il 38% dichiara di conoscerla abbastanza per sostenere una conversazione, ma solo il 25% è in grado di comprendere le notizie di giornali e tv. Il tedesco, il francese, l’italiano e lo spagnolo rappresentano insieme circa il 60% delle lingue native della popolazione dell’UE. Se si aggiunge il polacco, questa cifra sale a circa il 70%.
Come scrive Laffineur, la lingua dell’Europa non è però solo un problema di democrazia, ma anche di potere, che si esercita attraverso la lingua, e di identità linguistica. Invece di chiederci quale sia la lingua da imporre all’Europa, perché non dovremmo guardare al pluriliguismo e per esempio al modello elvetico fatto di tedesco, francese e italiano? Se in Svizzera le lingue di lavoro sono 3, perché l’Europa non potrebbe adottarne 5 o 6? Certo, alcune minoranze linguistiche sarebbero comunque escluse, ma forse lavorare in altre lingue oltre all’inglese sarebbe anche nel loro interesse.

Naturalmente si può dissentire e schierarsi dalla parte del globalese che se si affermerà porterà l’italiano e le altre lingue a diventare i dialetti di un’Europa che parla l’inglese. Ma in Italia sembra invece che a porsi questi problemi siano davvero in pochi, e non se ne parla.
Nei Paesi francofoni la difesa della propria lingua è invece normale, e non ha nulla a che fare con l’essere contro l’inglese, ma con il favorire il plurilinguismo e quindi tutte le lingue d’Europa. Laffineur lo spiega chiaramente in un articolo sul giornale belga La libre (chi non lo comprende può avvalersi di un traduttore automatico come Deepl che mi pare migliore di quello che Google promuove come fosse l’unico, cioè il suo). In un altro pezzo sulla stessa rivista l’autore critica persino la decisione di Ursula von der Leyen, madrelingua tedesca, di inaugurare praticamente in inglese il primo discorso sullo stato del Parlamento Europeo proprio nell’anno dell’uscita del Regno Unito (“un bel regalo, per gli inglesi”).

Ve lo immaginate un articolo del genere su un giornale italiano?

Le due Europe

In teoria l’Unione europea nasce all’insegna del multilinguismo e sull’autonomia linguistica di ogni singolo Paese e il problema della comunicazione tra i parlamentari eletti non dovrebbe certo coinvolgere i cittadini europei. Ma le cose non si possono sempre separare così nettamente. Di fatto, accanto all’Europa pluralista, almeno sulla carta, c’è un’altra Europa che invece di basarsi sui diritti linguistici di tutti i cittadini europei privilegia il globalese, e si adopera per portarci tutti sulla via del bilinguismo. Paradossalmente, la supremazia schiacciante dell’inglese e il venir meno del plurilinguismo è esplosa negli anni Duemila con l’entrata dei Paesi dell’Est. Più la Comunità Europea si è allargata e più si è andati verso l’inglese visto come soluzione concreta e pratica. Oggi la lingua di lavoro è diventata soprattutto l’inglese, e solo in maniera minore lo sono anche il francese e il tedesco, mentre l’italiano è stato ormai escluso.

L’Europa dei diritti linguistici, tuttavia, esiste, e all’estero ci sono molte associazioni che la difendono, come la Gem+ di Bruxelles o l’Oep (Osservatorio Euopeo del Plurilnguismo) di Vincennes (Francia), che nella sua carta proclama che “il plurilinguismo non può essere separato dall’istituzione di un’Europa politica.” Inoltre, ci sono parecchie cause internazionali in corso che si appellano a questi principi per combattere le decisioni dell’Europa anglomane. La Corte di giustizia dell’Unione europea (comunicato stampa n. 40/19, 26 marzo 2019), per esempio, ha sancito che “nelle procedure di selezione del personale delle istituzioni dell’Unione, le disparità di trattamento fondate sulla lingua non sono, in linea di principio, ammesse”, a meno che non esistano “reali esigenze del servizio”, ma in questi casi devono essere motivate “alla luce di criteri chiari, oggettivi e prevedibili”.

Come è possibile, allora, che senza alcun criterio esplicitato e senza reali esigenze di servizio, grazie alla riforma Madia in Italia un professore di spagnolo o di francese, non può essere assunto nella scuola se non sa l’inglese, lingua che esula dalle sue competenza specifiche?

Anche da noi dovrebbe nascere un dibattito come quello che si registra nei Paesi francofoni e in più parti dell’Europa, e dovremmo chiederci se davvero l’inglese è la soluzione che ci conviene e che vogliamo.

Per questo la proposta di una legge per l’italiano non si limita a indicare qualche misura concreta per promuovere e difendere la nostra lingua davanti agli anglicismi e all’itanglese, ma anche di sostenerla davanti alla “dittatura dell’inglese” imposta dalla riforma Madia, dal Miur e da tutti quei balzelli linguistici che tutelano e diffondono l’inglese a scapito dell’italiano e degli italiani. Sia sul piano interno sia su quello internazionale.

Grazie alle oltre 500 persone che con le loro firme hanno aderito alla petizione “una legge per l’italiano”.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. Le immagini, i collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Dal purismo all’ecologia linguistica

Di Antonio Zoppetti


“Sotto tutti i cieli di tutte le epoche, nell’eterna lotta tra i puristi e gli altri – piaccia o no – vincono gli altri. Pensare di salvare una lingua costringendola alla cattività ministeriale, poi, è l’ultima cosa che potrebbe aiutarla.”

Con queste parole, Cino Vescovi ha risposto a un articolo di Davide Grittani (“I killer dell’italiano”) il quale, davanti all’eccesso di anglicismi che sfigura la nostra lingua storica, aveva invece proposto l’istituzione di un Ministero per la difesa della lingua. Il botta e risposta è avvenuto sulla rivista L’intellettuale dissidente.*

Non senza ragioni, Vescovi esprime enormi perplessità sulla capacità della nostra classe politica di salvaguardare l’italiano, visto l’uso che ne fanno proprio le istituzioni e certi ministri. Non gli si può dare torto, e infatti una proposta di legge in proposito dovrebbe passare per una “rifondazione cruschista” che potrebbe ritornare al suo storico ruolo lessicografico e maggiormente prescrittivo, e fare ciò che fanno le accademie di Francia e Spagna. Ma il purismo non c’entra proprio niente, con tutto questo, e sarebbe ora di spazzare via una serie di sciocchezze e di luoghi comuni che abbondano nelle penne dei tanti non-interventisti.

“L’unico modo per salvare una lingua è lasciarla libera di razzolare ovunque. Nei mercati, nei bordelli, nelle chiacchiere delle beghine e negli angiporti, come ha sempre fatto”, continua Vescovi. Dimentica però che la nostra è stata una lingua letteraria e che per secoli era il dialetto a scorrazzare nella vita quotidiana, almeno fino all’unificazione dell’italiano avvenuta nel secondo Novecento, nell’epoca della radio, del cinematografo e della televisione, ma anche dell’emigrazione che ha portato al contatto tra dialetti diversi, tra loro spesso incomprensibili, e della scolarizzazione. Rivangare la politica linguistica fascista della proibizione e sostituzione dei barbarismi agitandola come lo spauracchio, inutile, significa non avere chiaro cosa sta avvenendo oggi in Francia, in Spagna, in Islanda e in molti altri altri Paesi, dove i modelli sono di ben altro tipo. L’inglese rappresenta una minaccia per l’identità dell’italiano – e delle lingue di mezzo mondo – non per una manciata di “prestiti” che possono irritare un purista, ma per la quantità e la profondità di anglicismi che la stanno travolgendo e ne stanno creolizzando il lessico. L’evoluzione dell’italiano del Terzo millennio non è affatto legata a ciò che avviene nei mercati, dove la gente ripete lockdown, computer, cashback e il resto non per scelta, ma perché sono calati dall’alto senza alternative. Le chiacchiere degli angiporti hanno lasciato il posto alle chat del web dove l’itanglese impera perché il lessico e la terminologia sono sempre meno fatti da nativi italiani e sempre più dall’espansione delle multinazionali, e dove i modelli linguistici dei bloggatori e delle piattaforme sociali ricalcano il linguaggio dei mezzi di informazione che a loro volta parlano la lingua degli influencer, dei manager, del marketing, dei tecnici e dei politici colonizzati dall’inglese che riversano nel loro fragile italiano. Se fino all’Ottocento erano gli scrittori a fare la lingua, oggi i centri di irradiazione sono di altro livello, ahinoi, e sono fatti da chi ostenta l’inglese perché crede di essere moderno e si vergogna dell’italiano che spesso poco conosce.

L’idea della lingua che si difende da sé è fallita. Il liberismo linguistico ha senso quando esiste un equilibrio sano che possiede i propri anticorpi e si autoregola. Ma quando una lingua dominante sta esercitando la sua pressione globale ovunque, e quando l’unica strategia di evoluzione linguistica consiste nell’importare parole crude da una sola lingua, senza inventarne di proprie e senza adattarle, lo scenario non è quello dell’eterna lotta tra puristi e gli altri, né quello della lotta contro il barbaro dominio di epoca fascista, è invece quello della Resistenza.

Se i panda sono a rischio estinzione, non si può rispondere che le specie evolvono e si estinguono (è normale, è sempre avvenuto e sempre avverrà) in nome dell’evoluzionismo magari nelle sue estensioni aberranti del cosiddetto darwinismo sociale che con quello biologico ha poco a che a fare. Bisogna intervenire per salvaguardare la biodiversità, che come il multilinguismo è un valore e una ricchezza. Se le balene rischiano di scomparire dalla faccia della terra è perché l’equilibrio naturale è messo a rischio da uno sfruttamento sistematico e distruttivo da parte dell’uomo che si sta rivelando sempre meno sostenibile e sta distruggendo l’ambiente. Invece di dire che le balene si sono sempre difese da loro, è meglio intervenire e proteggerle, come si cerca di intervenire quando altre specie animali – dai topi alle zanzare tigre – si moltiplicano a dismisura sino a danneggiare l’ecosistema. La globalizzazione non sta distruggendo solo l’ambiente, ma anche le culture e le lingue locali.

Prima di parlare di purismo, di fascismo, di liberalismo linguistico e di panzane astratte, bisognerebbe fare il punto concreto sulla situazione.

Facciamo il punto

Ne ho già parlato fino allo sfinimento, ma mi ripeto. Dallo spoglio dei dizionari emerge che tra le parole che sono nate negli anni Quaranta e Cinquanta gli anglicismi crudi rappresentavano circa il 3,6%. Questo numero negli anni Sessanta è salito a quasi il 7%, negli anni Settanta ha superato il 9%, negli anni Ottanta il 16%, negli Novanta il 28% e oggi costituisce quasi il 50% delle parole del Nuovo millennio. È chiara la progressione esponenziale? È chiaro cosa sta avvenendo?

Il Devoto Oli del 1990 registrava circa 1.700 anglicismi non adattati, quello del 2020 ne annovera circa 4.000, il che significa che in 30 anni ne sono spuntati 2.300 di nuovi (una media di 76 all’anno e un aumento del 135,29%). E i numeri dello Zingarelli e di altri dizionari sono in linea con queste cifre.

Passando dalla presenza alla frequenza, tutti i dati mostrano che gli anglicismi sono usati sempre più spesso sui giornali, e hanno colonizzato il lessico di tanti ambiti della nostra lingua: l’informatica, la formazione, il lavoro, l’economia, la tecnologia, la scienza, persino la moda. Oltre ad avere conquistato i linguaggi di settore, la parte più esterna del nostro lessico, stanno penetrando sempre più nel quotidiano. Se nel 1990 le parole inglesi erano spesso tecnicismi, oggi ce ne sono circa 1.600/2.000 che appartengono al linguaggio comune, sono cioè parole che qualunque persona di media cultura dovrebbe conoscere – anche se non è detto che le usi attivamente – perché si incontrano quotidianamente fuori dal lessico specialistico e di settore. In questo penetrare nella lingua di tutti i giorni, stanno entrando persino nel lessico fondamentale, cioè lo zoccolo duro del nostro vocabolario.

Tutto ciò non è normale. La rapidità e la profondità con cui accogliamo le parole inglesi non ha precedenti nella nostra storia, e non è minimamente paragonabile a quanto è successo in passato con l’interferenza del francese, quando era questa la lingua che ci influenzava maggiormente e da cui attingevamo di più. L’inglese forma ormai una rete di radici che si intrecciano e stanno prendendo vita ricombinandosi anche in pseudoanglicismi che creiamo da soli, e si mescolano tra loro e con altre parole italiane in una trasformazione che non ha più niente a che vedere con l’italiano storico, e non si può che chiamare itanglese, una lingua ibridata fatta sempre più di “corpi estranei” rispetto ai nostri suoni, che violano le regole della nostra ortografia e della nostra pronuncia e le snaturano.

L’ecosistema linguistico si è spezzato. Sono i fatti, e c’è poco da negare.

Queste sono le conseguenze del liberismo linguistico italiano, conseguenze molto più gravi rispetto a quelle che si registrano in Paesi come la Francia e la Spagna dove i politici e le accademie operano con ben altre modalità. E allora cosa vogliamo fare? Proseguire in questo modo e considerare l’itanglese la modernità e il nostro futuro?

È una scelta, ma c’è anche chi – come me e tanti altri – si oppone e la combatte e non certo per purismo.

Il problema non sono gli anglicismi – questo deve essere chiaro – ma l’anglomania compulsiva che porta a introdurre solo e continuamente espressioni in inglese. Il punto, allora, non è quello di proibire gli anglicismi e di proporne la cattività, ma quello di creare le condizioni culturali per riappropriarci dell’italiano, della sua bellezza, del suo valore, e di difendere la nostra identità. Senza questa rivoluzione culturale, ogni battaglia è persa. Senza una promozione dell’italiano all’interno del nostro Paese e all’estero, visto che è una risorsa anche economica potenzialmente enorme, il rischio è che diventi un dialetto creolizzato su base lessicale inglese, mentre la lingua dell’istruzione, della scienza e del lavoro sarà l’inglese internazionale.

I panda siamo noi, non sono gli altri, e teorizzare il non-interventismo significa suicidarci linguisticamente e culturalmente.

Il nostro futuro dipende dalle scelte politiche. Se finalmente il governo ha preso coscienza della necessità di un Ministero per la transizione ecologica, bisogna lavorare per fare emergere chiaramente anche la necessità di un Ministero per la transizione all’ecologia linguistica.

_________________________
* Ringrazio Carla Crivello per la segnalazione degli articoli sull’Intellettuale dissidente.


PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. Le immagini, i collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Lessico e bufale (la faccia triste dell’America)

Di Antonio Zoppetti

A proposito dell’interferenza dell’inglese sull’italiano, tra i linguisti circola una convinzione piuttosto diffusa: non è poi così pericolosa perché riguarda solo il lessico, e cioè il vocabolario e i vocaboli, ma non intacca la grammatica e la sintassi, cioè le regole della combinazione delle parole e delle frasi (es.: “L’italiano resta al sicuro, ben saldo: anche perché i prestiti dall’inglese restano circoscritti nell’ambito del lessico e non intaccano in alcun modo le strutture sintattiche e grammaticali”, Giuseppe Antonelli, L’italiano nella società della comunicazione 2.0, Il Mulino, 2016, p. 214).

A dire il vero non c’è un grande accordo sulla definizione di grammatica, ma non mi appassionano troppo le beghe tra linguisti in proposito*, e venendo al sodo considero le regole di scrittura (ortografia) e di pronuncia (fonologia, che in senso lato era detta un tempo anche fonetica) una parte della grammatica. Si può anche dissentire da questa semplificazione e da queste classificazioni, ma non è importante. Quello che conta, per intenderci, è che se scriviamo “boom economico” violiamo le regole della nostra ortografia e pronuncia – visto che il suono “u” è rappresentato da “oo” – mentre se scriviamo che il cannone fa “bum” rimaniamo all’interno delle norme dell’italiano. Poiché gli anglicismi violano queste regole nella maggior parte dei casi, diventano dunque “corpi estranei” (per citare il Morbus Anglicus di Arrigo Castellani).

È vero che l’interferenza dell’inglese non intacca – o lo fa in modo poco significativo – la struttura della nostra lingua e riguarda il lessico, ma quest’ultimo mi pare che venga sottovalutato in certe conclusioni dei linguisti. Se il lessico è la parte più esterna della lingua, e la più soggetta ai cambiamenti, va detto che quando una scottatura lieve e poco profonda riguarda un’ampia superficie del corpo diventa una patologia grave, e può essere più pericolosa di un’ustione assai profonda che però ha un’estensione molto limitata.

In un articolo di linguistica intitolato “Chi ha paura dell’inglese?” si può addirittura leggere: “Giudicare una lingua osservando il lessico senza considerare la sua articolazione interna è come giudicare una persona dal colore dei capelli!” Questa affermazione che si serve di una metafora per creare una rappresentazione delle realtà minimizzatrice può essere facilmente messa al vaglio con un esperimento che mi pare piuttosto efficace.

Facciamo un confronto tra questi due brani:

Il lonfo
dalla Gnosi delle fanfole di Fosco Maraini
La Divina Comedy
di Dante Alighieri
Il lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce
sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta.

È frusco il lonfo! È pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e t’arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.

Eppure il vecchio lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa lègica busìa, fa gisbuto;
e quasi quasi, in segno di sberdazzi
gli affarfaresti un gniffo. Ma lui zuto
t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.
Nel mezzo degli step di nostra vita
mi ritrovai in location oscura,
che la best practice si era smarrita.


Ahi a dirne about è cosa dura
on the road selvaggio sì hard e forte
che nel mio inside rinova la paura!


Tant’è strong che il benchmark è la morte;
ma per il tracking del good ch’i’ vi trovai,
dirò delle altre news ch’i v’ho scorte.

Traduzione in itanglese
di Antonio Zoppetti

La domanda che propongo a tutti è: quale dei due testi è più italiano?

Il primo è un delizioso esperimento di metalinguaggio tutto giocato su un lessico inventato, è un grammelot italofono fatto di parole che non esistono ma sono in grado di evocare, ed è perfettamente costruito su suoni italiani. Non è italiano, perché a parte gli articoli, le congiunzioni e poco altro, il suo lessico è di fantasia.

Se Dante avesse udito una frase come: “La rivoltella è accanto alla bottiglia, di fianco al telefono”, non avrebbe capito nulla – visto che rivoltella, bottiglia e telefono non esistevano nel Trecento – eppure avrebbe avuto l’impressione di trovarsi di fronte a un costrutto italiano come quello di Fosco Maraini. Se invece avesse letto il secondo testo si sarebbe smarrito, oltre che irritato, perché non avrebbe riconosciuto la lingua del “bel paese là dove ‘l sì suona”, supponendo che avesse potuto pronunciare gli anglicismi in inglese.

La mia risposta (ma chi dissente può dire la sua) è che il primo esempio può definirsi italiano, il secondo no, o lo è solo in parte, dato che è una lingua ibrida, anche se la sintassi e la grammatica intesa come la combinazione delle parole sono rispettate in entrambi i casi.

Mi pare che l’importanza del lessico a questo punto sia più chiara.

Il fatto è che l’italiano del futuro, e anche del presente in sempre più ambiti, non pare affatto seguire il primo modello, ma il secondo, dove la grammatica, intesa come le regole dell’ortografia e della pronuncia, è saltata. E questa non è affatto un’evoluzione “normale” come si sente dire troppo spesso senza citare esempi storici che del resto non esistono. La normalità sarebbe invece nell’avere parole nuove formate come nell’esempio di Fosco Maraiani.

Il numero degli anglicismi è ormai tale che non si può parlare di una tintura dei capelli o di una parrucca, ma di una plastica facciale dove tra naso rifatto, labbroni pompati, zigomi imbottiti, occhi mandorlati e pelle tirata, una persona può cambiare i propri connotati per assomigliare al modello incarnato da una bambola gonfiabile di ultima generazione. Non sottovalutiamo l’importanza del lessico. L’identità dell’italiano sta subendo una trasformazione inaudita. E non solo in ambiti di settore come l’informatica, ma anche nel linguaggio giornalistico, politico, e quello comune. E questo avviene semplicemente attraverso il lessico, e più esattamente una sua parte piuttosto importante, visto che il 90% degli anglicismi sono sostantivi o locuzioni con valore nominale (in maniera minore gli altri sono quasi tutti aggettivi) cioè i nomi che ci servono per designare le cose! E poiché la metà delle parole nate nel Nuovo millennio è in inglese, quando parliamo di ciò che riguarda la modernità non possiamo fare a meno di ricorrere all’itanglese, e in sempre più ambiti l’italiano è mutilato: non possiede più le proprie parole per indicare la modernità, persino quella quotidiana come il mouse, il computer, fare shopping o zapping, chiamare una baby sitter, indossare i boxer, suonare il clacson, studiare il marketing, mangiare un hamburger, prendere un pullman, farsi uno shampoo, mettersi il deodorate spray, tutelare la nostra privacy, fermarci allo stop, e risentire tutti di un certo stress da lockdown.

Se questo è italiano… Invece di rassicurarvi con la favola che in un articolo di giornale gli anglicismi sono “solo” il 2 o massimo il 3% delle parole – ma analizzando queste statistiche truccate le cose sono molto più gravi – provate a fare l’esperimento opposto. Provate a trovare un articolo di giornale che non contenga nemmeno un anglicismo. È un po’ come cercare un quadrifoglio.

Buona fortuna.

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Suggestioni musicali:
Lessico e bufaleee
La faccia triste dell’Americaa…
Che voglia di piangere ho!

(Variazione sul tema della canzone di Jannacci che, per la cronaca, non si pronuncia ancora “Giannacci”!)

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* Nota: “La ripartizione tradizionale della grammatica in fonetica, morfologia e sintassi è rifiutata da alcune scuole linguistiche contemporanee, che vorrebbero o inserire lo studio dei problemi morfologici nel quadro della sintassi e della lessicologia, o, al contr., comprendere nella morfologia anche lo studio dei rapporti sintattici e della semantica delle parole.” Fonte: Vocabolario Treccani.


PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. Le immagini, i collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

La panspermia del globalese

Lingua e vita sono spesso accostate in una metafora che le accomuna. Una lingua viva è un sistema che si evolve continuamente, e questa analogia è un buon approccio anche per comprendere come gli anglicismi stiano penetrando in tutte le lingue del mondo.

L’angloamericano è la lingua della globalizzazione, che coincide sempre più con americanizzazione, e si innesta nelle altre lingue attraverso un meccanismo che ricorda quello della panspermia, un’ipotesi biologica per cui i mattoncini che sono alla base della vita sono sparsi nell’universo, ma si sviluppano e attecchiscono solo dove trovano le condizioni favorevoli. In tempi recenti, questa teoria è stata sostenuta, tra gli altri, dall’astrofisico Fred Hoyle. Secondo lui le molecole alla base della vita viaggiano nello spazio per esempio attraverso le comete, costituite in gran parte di ghiaccio. I bombardamenti di meteoriti, molto frequenti nella fase di formazione del sistema solare, avrebbero sparso queste molecole ovunque, ma solo sul nostro pianeta hanno trovato un ambiente dove crescere.

Gli anglicismi si diffondono in modo simile, ma invece di viaggiare su comete e meteoriti sono veicolati da cinema, televisioni, internet, pubblicità, merci, prodotti tecnologici…

Per usare un’altra metafora biologica, l’angloamericano si comporta un po’ come le ostriche che, per riprodursi, spargono in giro milioni di larve che per la maggior parte sono destinate a morire, ma qualcuna sopravvive e cresce.
Nel Novecento, gli Stati Uniti si sono imposti come la più grande potenza economica, militare, politica e culturale del mondo, e come un’ostrica hanno inondato il pianeta di concetti e cose espressi attraverso il lessico inglese. Questo bombardamento si è innestato sopra il sostrato che nell’Ottocento aveva caratterizzato l’espansione dell’impero del Regno Unito che aveva già colonizzato, anche linguisticamente, gran parte del mondo, dall’India all’Africa. Il risultato di queste ondate ha portato oggi al global english, chiamato anche globish e tradotto con globalese.

Il progetto di imporre l’inglese in tutto il pianeta come la lingua della comunicazione internazionale è una nuova forma di imperialismo linguistico che non si basa più sulla conquista dei territori attraverso l’esercito e le guerre, ma attraverso le armi della supremazia economica, scientifica, tecnologica e culturale. Gli anglicismi che si innestano nelle lingue locali sono i detriti lessicali di questa espansione, e l’interferenza linguistica dell’inglese sta modificando in modo sensibile ogni idioma, tanto che un po’ ovunque, nel mondo, sono nate delle definizioni molto simili di questo fenomeno di ibridazione. In Francia si parla del franglais (franglese) già dagli anni Sessanta, espressione da cui abbiamo ricalcato il nostro itanglese (affiancato da itangliano e altre variazioni sul tema), ma come ha ricostruito Tullio De Mauro (cfr. “È irresistibile l’ascesa degli anglismi?”) in ogni Paese sono sorte espressioni analoghe: il denglish o germish (tedesco), il portenglish (portoghese), il poglish (polacco), il chinglish (cinese), l’hinglish (hindi), il konglish (coreano) e molte altre.

Attraverso quali modalità l’inglese si innesta nelle lingue locali, le contamina e stravolge?

Dalle ostriche ai mammiferi

Già negli anni Novanta, con grande acume, un giurista autorevolissimo come Francesco Galgano aveva analizzato come alcuni termini giuridici inglesi non fossero un fenomeno solo italiano, ma globale, causato dall’espansione delle multinazionali statunitensi che esportano e impongono il proprio apparato lessicale estraneo alle legislazioni nazionali coinvolte.

“Le case madri delle multinazionali trasmettono alle società figlie operanti nei sei continenti le condizioni generali predisposte per i contratti da concludere, accompagnate da una tassativa raccomandazione, che i testi contrattuali ricevano una pura e semplice trasposizione linguistica, senza alcun adattamento, neppure concettuale, ai diritti nazionali dei singoli Stati; ciò che potrebbe compromettere la loro uniformità internazionale”.

[Francesco Galgano, “Le fonti del diritto nella società post-industriale”, in Sociologia del Diritto, Rivista quadrimestrale fondata da Renato Treves, 1990, p. 153]

In questo modo parole come franchising, leasing, copyright e molte altre sono diventate internazionalismi intoccabili in tutto il mondo.
Tornando alla metafora della lingua come vita (parole come prole), questi ultimi esempi mostrano un’evoluzione nella prolificazione dell’inglese. L’ostrica è diventata mammifero; la strategia riproduttiva è in questo caso diversa: non si spargono più migliaia di parole al vento che per la maggior parte sono destinate a morire, si creano pochi figli che però si accudiscono e proteggono per fare in modo che possano sopravvivere con ragionevole certezza.

Dagli anni Novanta a oggi molte cose sono cambiate e il numero delle parole inglesi è ben più che raddoppiato, nei dizionari. Quando Microsoft si è imposta in Italia con la sua terminologia fatta di file e downolad e non di documenti e scaricamento, quando Twitter ha esportato i follower e non gli iscritti o i seguitori, quando Google introduce gli snippet, Facebook la timeline… l’imposizione del lessico in inglese penetra con una forza dirompente. Il successo di queste parole, tuttavia, dipende sempre dalle condizioni ambientali in cui si innesta, e il brodo culturale tipicamente italiano è un terreno tra i più fertili per l’attecchire dell’inglese. La resistenza alle pressioni esterne è molto scarsa, anzi, spesso introduciamo da soli l’inglese agevolando dall’interno questo processo di espansione con il risultato che l’anglicizzazione della nostra lingua è enormemente più ampia di quanto non avviene all’estero. Abbiamo perso ogni strategia alternativa all’importazione di anglicismi crudi, abbiamo rinunciato ad adattare le parole per italianizzarle secondo la nostra identità linguistica, abbiamo cessato di tradurle e di inventarne di nostre. Come ha osservato Dacia Maraini, a proposito di ostriche, “la lingua è come una conchiglia che avvolge il fastidioso granello di sabbia nella saliva e lo trasforma in una perla. Se però riempiamo la conchiglia di sabbia, questa non riesce più a creare perle”, ma soffoca e muore (cfr. Dacia Maraini, 2017, da una lezione agli studenti del liceo Volta di Como).

Un confronto con il rumeno e il russo

In Paesi come la Francia o la Spagna, le accademie linguistiche si prodigano per proporre sostitutivi autoctoni. In Islanda esiste persino la figura del neologista che crea alternative agli anglicismi attraverso neoconiazioni che partono dalle radici endogene, cioè dalla propria lingua.
Da noi, al contrario, la Crusca non fa nulla del genere, e i nostri mezzi di informazione, i nostri politici e la nostra classe dirigente sono i primi a ricorrere agli anglicismi crudi, a preferirli, ad andarne fieri. Il risultato è che l’italiano boccheggia e non evolve, mentre l’itanglese lievita incontrollato in modo devastante. Tullio De Mauro ha definito questo processo uno “tsunami anglicus” ben più profondo del semplice “Morbus Anglicus” di Arrigo Castellani che un tempo aveva ritenuto esagerato. Le conseguenze di questa ondata, nell’italiano, sono ben più gravi che all’estero, non c’è paragone rispetto a quanto si registra nello spagnolo, nel portoghese o nel francese.

Tra le lingue romanze solo il rumeno sembra essere messo peggio di noi, almeno stando ad alcuni studi come quello di Rodica Zafiu che parla di “romglese” o di Dana-Maria Feurdeand che ha analizzato alcuni anglicismi economici presenti sulla stampa concludendo che “il numero totale dei prestiti inglesi nei cento articoli romeni è di 459, nel corpus italiano si è registrato un totale di 337 prestiti invariabili.”

[Cfr.: Dana-Maria Feurdeand, “Due nazioni neolatine di fronte alla globalizzazione. Aspetti linguistici”, in Transylvanian Review, 2017 Supplement 2, Vol. 26, pp. 147-160; Rodica Zafiu, “Sui prestiti recenti dall’inglese: condizionamenti morfologici e scelte culturali”, in Romania e Romània: lingua e cultura romena di fronte all’Occidente, atti del Convegno internazionale di studi Udine, 11-14 settembre 2002, p. 83-95].

Se ci spostiamo a Est, il caso del runglish, la contaminazione di russo e inglese, è particolarmente significativo. Si tratta di un fenomeno recente, perché prima della caduta del muro di Berlino e della dissoluzione dell’Unione Sovietica l’interferenza della lingua inglese aveva risparmiato i Paesi del blocco comunista. Negli ultimi 30 anni la situazione è mutata e in un articolo sull’anglicizzazione del russo (“Chi sono le persone che lottano contro gli anglicismi nella lingua russa, e perché lo fanno?”, Viktoria Rjabikova, Russia Beyond, 12/10/2020) ho ritrovato molte delle cose che scrivo da tempo a proposito dell’italiano. Leonid Marshev gestisce una comunità che si batte contro l’abuso degli anglicismi e ne promuove le alternative, un po’ come sto cercando di fare io con il dizionario AAA e con il progetto degli Attivisti dell’italiano in collaborazione con il portale Italofonia. Marshev spiega che i prestiti sono un fenomeno naturale in qualsiasi lingua, ma quando arrivano da una lingua sola e superano il numero delle parole prodotte dalla lingua in questione, l’identità linguistica va in frantumi. E nota – esattamente come avviene nel caso dell’italiano – che sui mezzi di informazione compaiono continuamente parole nuove in inglese e nessuna in russo.

Eppure, come si evince dall’articolo e anche da quanto mi ha riferito un amico di Mosca, mi pare che nonostante le lamentele siano simili la situazione da noi sia molto più grave. In russo circolano parecchie alternative che in italiano non esistono affatto. I cosiddetti “internazionalismi”, che in realtà sono semplicemente anglicismi, da loro sono una scelta espressiva più che una “necessità” come da noi, visto che spesso non esistono alternative o non sono in uso; un russo, invece, può scegliere di dire mouse oppure mysh’ (cioè topo), e lo stesso vale per vari altri esempi che si leggono nell’articolo.

L’anglicizzazione nasce con le tv commerciali, prima che con Internet

Nei Paesi dell’Est l’anglicizzazione ha preso piede soprattutto negli anni Novanta, dopo la caduta del muro di Berlino, con la globalizzazione e la rivoluzione di Internet. Ma più che la Rete è stata decisiva la nascita delle televisioni commerciali. La loro diffusione nell’ex blocco sovietico è nata contemporaneamente alla rivoluzione digitale, e ha veicolato gli stili di vita, le merci e i prodotti culturali americani nelle case di tutti. Tutto ciò è stato recepito come una ventata di libertà dopo anni di restrizioni, ed è significativo che nel 1997 i consumatori russi spendessero più in Coca-Cola di quanto il loro governo destinasse all’intero sistema sanitario nazionale.

[Cfr. David Ellwood “La cultura come forma di potenza nel sistema internazionale. Americanizzazione e antiamericanismo”, in Mélanges de l’école française de Rome Année 2002 114-1 pp. 431-439]

In Italia, invece, tutto ciò è iniziato ben prima, con lo sbarco degli alleati, e poi con il piano Marshall e la sua propaganda. A partire dagli anni Cinquanta, è stato soprattutto il cinematografo a farci conoscere e desiderare gli stili di vita del sogno americano, che negli anni Sessanta hanno cominciato a essere accessibili, importati e venduti anche in Europa. La televisione, al contrario, sino agli anni Ottanta non era molto americanizzata (cfr. “Televisione e mcdonaldizzazione, in “Palato e parlato: gli anglicismi in cucina”) ma con la nascita delle tv commerciali tutto è cambiato rapidamente: film e telefilm statunitensi che sino agli anni Settanta rappresentavano una piccola porzione dei programmi, si sono moltiplicati sino a divenire l’asse portante di ogni palinsesto. La cultura di massa televisiva, fatta di modelli e contemporaneamente di merci d’oltreoceano, non è “innocente” è una forma di potere che insieme ai prodotti culturali ha portato nelle nostre case anche le condizioni per l’accettazione di moltissimi anglicismi. Con Internet e la globalizzazione, e con la diffusione dei canali satellitari, tutto è cresciuto a dismisura. Resta il fatto che la lingua italiana sembra una di quelle più anglicizzate, rispetto alle altre.

Palato e parlato: gli anglicismi in cucina

“Maccherò, m’hai provocato e io ti distruggo” recitava Alberto Sordi in Un Americano a Roma. In quella scenetta immortalava come la tendenza a voler fare gli americani (che negli stessi anni cantava anche Carosone) si infrangesse davanti a un piatto di pasta. Ma oggi la pastasciutta non è più “sexy” e l’aberto-sordità che a partire dagli anni Cinquanta ci ha spinti a ricorrere sempre più spesso agli anglicismi ha perso il suo carattere ridicolo ed è diventata tragicamente seria. È il tratto distintivo di politici, tecnici, imprenditori, giornalisti… Attraverso l’ostentazione dell’itanglese, l’intera nostra classe dirigente si eleva sociolinguisticamente, si riconosce e identifica in un ben preciso gruppo di appartenenza con meccanismi non diversi da quelli con cui gli adolescenti si identificano attraverso determinati gerghi, abbigliamenti o gusti musicali. Ma mentre i fenomeni giovanili sono confinati appunto nel gergale, l’itanglese ha conquistato i principali centri di irradiazione della lingua, e da lì penetra sempre più profondamente nell’italiano comune di tutti i giorni. La nostra americanizzazione è ormai così profonda che ha stravolto anche la nostra tavola, oltre che la nostra lingua.

Il fascino della cucina (e della lingua) italiana

La gastronomia italiana è un’eccellenza dalla tradizione storica con una risonanza mondiale enorme, e lo stesso vale per la lingua italiana che ne veicola i prodotti (cfr: “Italiano: ammirato nel mondo e disonorevole in patria”). La contraffazione dei nostri alimenti attraverso nomi italianeggianti – che nella colonia Italia si esprime con prodotti italian sounding – ha un fatturato che è il doppio di quello dei prodotti originali – che chiamiamo made in Italy – e ha superato i 60 miliardi di euro, nel mondo. Negli Stati Uniti, solo le imitazioni dei nostri formaggi, a partire dal parmisan, fruttano ben 2 miliardi di dollari all’anno (cfr. Sara D’Agati, “Tutti pazzi per l’italiano, la lingua delle insegne”, La Repubblica, 31 ottobre 2016). Dovremmo riflettere su queste cose. Non è un caso che non esista un mercato analogo di finti prodotti francesi o spagnoli, ed è significativo che la parola “toscano” aggiunta sotto il logo dell’acqua Panna abbia portato all’aumento delle vendite del 14% in 18 mesi, come ha dichiarato il direttore comunicazione della San Pellegrino, Clement Vachon riferendosi al mercato internazionale. Nei ristoranti di lusso dei Paesi anglofoni, da New York all’Australia, nei menù si trova la parola vino, perché questa parola italiana è quella che evoca tutta l’eccellenza del prodotto. Eppure da noi si moltiplicano le insegne contro scritto Wine Bar, e i nostri marchi (o se preferite: brand) sempre più spesso puntano all’inglese, per proporsi all’estero. E così la risposta – tutta italiana – al fast food si chiama Slow Food, un marchio che punta sull’italianità della nostra gastronomia si chiama Eataly, e un imprenditore bergamasco che mira a lanciare nel mondo la sua polenta espresso la chiama PolentOne.

Ognuno mangia e parla come vuole, naturalmente. Ma l’analisi del linguaggio della cucina è interessante per comprendere come ci stiamo americanizzando, nel modo di mangiare e di parlare allo stesso tempo.

Dalla nouvelle cousine al “new cooking” dell’epoca dei MasterChef

La nostra esterofilia è storica almeno quanto la nostra cucina. Un tempo era il francese a penetrare maggiormente nel linguaggio della gastronomia. Fino all’Ottocento, in questa tendenza prevaleva l’adattamento in italiano del lessico che importavamo, e il pudding inglese, per esempio, inizialmente era stato adattato con puddingo e pudino, e più tardi divenne budino per l’influsso del francese boudin. Sulla fine del secolo Pellegrino Artusi aveva elevato la lingua della gastronomia ai livelli di un’opera letteraria basata sui modelli letterari del toscano, ma nel Novecento ha avuto inizio la tendenza a importare le parole in modo crudo e, a proposito di cucina, i francesismi culinari costituivano una buona fetta dei “barbarismi” condannati in epoca fascista. Nonostante qualche italianizzazione più o meno di successo (come besciamella o brioscia) sopravvivono ancora oggi: baguette, béchamel, bonbon, brioche, champagne, champignon, consommé, crêpe, croissant, entrecôte, omelette, mousse, pâté, pinot, profiterole, vol-au-vent

Importare i nomi delle pietanze tipiche di un Paese in lingua originale non è “necessario” (come dimostra l’esempio del budino), ma è comprensibile e si riscontra per i prodotti di quasi tutte le altre culture. La moda della cucina etnica e di degustare piatti esotici negli ultimi anni è cresciuta moltissimo, e ha modificato molto anche il nostro modo di mangiare. In generale, nell’ambito gastronomico la quantità di forestierismi è superiore a quella degli altri linguaggi di settore e con l’eccezione del cinese (l’adattamento è più frequente: involtini primavera, maiale in agrodolce, ravioli al vapore…) i nomi dei piatti e delle pietanze rimangono quasi sempre invariati: kebap, sushi e sashimi, falafel, zighinì, wanton fritti, paella, burrito… Nonostante gli stereotipi radicati per cui in Inghilterra si mangia da schifo e negli Stati Uniti l’alimentazione è insana, nel nuovo Millennio sono arrivati nuovi prodotti, soprattutto dolci, con nomi inglesi. E si sono diffusi con grande velocità parole come marshmallow, brownie, muffin, pancake o plumcake


Stefano Ondelli è autore di uno studio molto ben documentato sui forestierismi culinari (“Dal ‘crème caramel’ al ‘cupcake’: l’invasione degli anglicismi in cucina, al ristorante e al bar”, in Italiano LinguaDue, V. 9 N. 2, 2017, pp. 373-383) e ha analizzato il sopravvento del lessico inglese sul francese attraverso lo spoglio di 423 articoli usciti tra il 2002 e il 2016. Questa tendenza non riguarda solo la cucina e gli ambiti dove il francese ha sempre primeggiato, come la moda (dalle paillette siamo passati al glitter, dai fuseaux ai leggins, dallo chic al glamour e più in generale al cool), ma tutta la lingua italiana. Tullio De Mauro ha mostrato che, a partire dagli anni Novanta, il primato del francese è stato superato dall’inglese in generale (cfr. “I forestierismi nei dizionari: quanti sono e di che tipo”). E infatti Ondelli mostra proprio che negli articoli di gastronomia gli anglicismi sono utilizzati anche fuori dall’ambito culinario, fanno parte del linguaggio giornalistico più generale (2.024 parole generiche contro 1.460 di settore). L’inglese è l’unica lingua straniera che ha questa caratteristica; nel caso degli altri idiomi, i forestierismi sono quasi sempre legati alla cucina, compreso il francese che fa parte del lessico culinario 3 volte su 4 (872 termini culinari contro 249 generici). Ciò significa che, accanto ai nomi delle pietanze, i francesismi riguardano per esempio categorie più generali (dessert, menu, buffet), le tecniche di cottura (uovo alla cocque) oppure figure come sommelier, maître e chef. Come Stefano Ondelli ha riassunto in un articolo sulla Treccani (“L’inglese: un intruso in cucina?”), i francesismi “continuano a dominare nella descrizione della preparazione delle pietanze (brisé, flambé, fumé, glacé, gratin e gratiné, julienne, sauté, sablé ecc.)” con l’eccezione dei prodotti dolciari che nel nuovo Millennio si sono moltiplicati, e degli alcolici che invece hanno da sempre primeggiato (drink, cocktail, whisky…). Il che è in sintonia con le marche presenti nei 129 lemmi di “cucina” registrati sul dizionario AAA.
Ondelli mostra che l’inglese prevale oggi soprattutto nei nomi commerciali (marchionimi), negli aspetti legati alla comunicazione e alla distribuzione (food blogger, food delivery, take away…), ai ruoli (executive chef), ai risvolti sociali (happy hour). Gli anglicismi che denotano ingredienti (curry, ketchup e kiwi), piatti (hamburger, sandwich) o utensili da cucina (freezer, mixer) non hanno una frequenza esagerata.

E allora cosa distingue l’inglese dagli altri forestierismi culinari?
A mio avviso è proprio il fatto che i nomi dei piatti si inseriscono in un modo di parlare anglicizzato che è molto più ampio (e in questo risiede anche la profonda differenza con l’interferenza storica del francese). Nel caso delle lingue degli immigrati arabi o africani, la cucina è l’unico ambito in cui si registra una certa interferenza linguistica. Gli italiani non conoscono una parola di arabo o di cinese. L’unico terreno di scambio linguistico è quello gastronomico. Wanton fritti, kebap, sushi e sashimi, falafel, lo zighinì degli eritrei… i forestierismi culinari non escono dai nomi delle pietanze, ma nel caso dell’inglese non è affatto così. “L’italiano è impermeabile alle lingue degli immigrati, risente invece dei modelli culturali ed economici statunitensi, che non sono presenti sul territorio a questo modo, ci arrivano in altre forme” (Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 9).

Quali sono queste forme?

Televisione e mcdonaldizzazione

Nell’analizzare le frequenze della parola chef (parola francese in uso anche nell’inglese) nelle statistiche di Ngram Viewer, Stefano Ondelli aveva concluso che nel nuovo Millennio la sua occorrenza era tornata a essere alta come negli anni Trenta, quando eravamo francomani, e si domandava se questo fatto fosse da mettere in relazione con la trasmissione di origine britannica Masterchef.
I dati che aveva a disposizione erano sbagliati, perché dagli ultimi aggiornamenti di Google che hanno incluso i libri sino al 2019 le cose sono molto diverse rispetto alla versione che aveva a disposizione ferma al 2008. La parola chef, in realtà, non è frequente come negli anni Trenta, ma ricorre almeno 10 volte di più. E la causa non è solo la trasmissione Masterchef, ma il fatto che questa trasmissione sia diventata un modello di tantissime altre che ne ripercorrono lo schema, e che le trasmissioni di cucina di stampo angloamericano siano diventate un genere onnipresente sul piccolo schermo.


Contrariamente a quanto si pensa, l’anglicizzazione “pesante” della nostra lingua non è iniziata negli anni Novanta con la globalizzazione, ma nel decennio precedente. Stando alle marche di Devoto Oli e Zingarelli, se negli anni Quaranta e Cinquanta gli anglicismi costituivano il 3% delle nuove parole (una percentuale fisiologica accettabile), negli anni Sessanta sono diventati il 6%, negli anni Settanta il 10% e negli anni Ottanta hanno raggiunto circa il 15%, diventando qualcosa di molto ingombrante che negli anni Novanta è quasi raddoppiato raggiungendo il 28% per poi toccare il 50% dei neologismi nel nuovo Millennio (cfr. “L’aumento di anglicismi e neologismi in inglese: nuovi dati”). Che cosa è accaduto negli anni Ottanta, quando, con grande acume, Arrigo Castellani ha lanciato il suo grido di allarme del Morbus Anglicus?

Sono convinto che la spiegazione sia molto semplice: la diffusione delle tv commerciali. E il caso MasterChef è solo un esempio tra i più eclatanti che dimostra come dalla culinaria siamo passati al cooking in onda, cioè al cool on air dove tutto ciò che è inglese suona cool.

A partire dagli anni Quaranta, era stato soprattutto il cinema il principale grimaldello del mito americano che ha portato in Europa l’ammirazione per gli stili di vita d’oltreoceano. Questi modelli culturali hanno fatto presa sulle masse che successivamente si sono trasformate in nuovi mercati a cui vendere ciò che al cinema si poteva soltanto vedere. Fino gli anni Settanta la televisione non si era ancora americanizzata e le prime trasmissioni popolari come Colombo, Charlie’s Angels, Furia cavallo del West o Happy Days rappresentavano ancora una piccola fetta dei palinsesti. I film, in larga parte statunitensi, venivano passati solo due volte alla settimana, e per precisi accordi con l’Anica, mai la domenica, per non danneggiare il mercato cinematografico. Con l’avvento delle reti private, e in particolare con le televisioni della Fininvest, tutto è mutato in un lampo. Mentre i palinsesti diventavano non più solo pomeridiani e serali, ma riempivano tutta la giornata, tra il 1982 e il 1984 l’azienda di Berlusconi, che non aveva la possibilità della diretta, puntò soprattutto sulla messa in onda di telefilm e film (in larga parte americani) conquistando un’enorme fetta di mercato. Come ha ricordato Carlo Freccero, il successo di questa iniziativa ha spinto la Rai ad acquistare subito dopo un pacchetto di 100 film e ad adeguarsi ai modelli della tv commerciale (cfr. “Quando il cinema era seriale. Modalità d’uso del film nella tv italiana” di Carlo Freccero, in Link, Idee per la tv, 3/2004, pp. 1-29, e “Rai, la tv che ha fatto il cinema” intervista a Massimo Fichera, ivi, pp. 23-25”), ponendo fine una volta per tutte ai modelli “pedagogici” precedenti. In questa fame di film entrarono anche le pellicole che un tempo non sarebbero mai state distribuite nei circuiti cinematografici e insieme ai protagonisti e alle vicende si importavano anche gli stili di vita americani, sempre più veicolati da parole inglesi. I giovani che si ritrovavano a mangiar hamburger nei fast food di Happy Days erano una realtà che non ci apparteneva. Ma subito dopo, e non per caso, in Italia è scoppiato il fenomeno di Burghy, il primo fast food – tutto italiano, del marchio Cremonini – che è diventato il modello sociale di una parte dei giovani e dell’epoca dei paninari. Mentre la pubblicità ci martellava con il ritornello “Hamburger, hamburger, drink e patatine, allegria e felicità” abbiamo cessato di parlare di svizzere e medaglioni per passare agli hamburger, che nel decennio successivo si sono affiancati a cheeseburger, chicken nuggets e pietanze dal nome quasi sempre in inglese quando McDonald’s si è insediato in Italia assorbendo Burghy dopo una guerra per il controllo dei fast food che è durata un decennio.

La crescita di “hamburger” e la diminuzione della frequenza di “svizzere” e “medaglioni” che sono però parole generiche. Probabilmente si è smesso di usarle per indicare l’alimento e dunque le loro frequenze sono diminuite per questo motivo.

In questo modo siamo passati dal frappè al milkshake. Parla come mangi, si dice, e oggi mangiamo e parliamo sempre più all’americana. Questo fenomeno è molto diverso dalla moda della cucina etnica, che nasce dal basso. Molti ristoranti eritrei, indiani, cingalesi e via dicendo sono inizialmente sorti per iniziativa degli immigrati che aprivano questi locali per i connazionali, e solo successivamente sono diventati di moda e si sono aperti alla clientela italiana. Le catene dei fast food, invece, sono la conseguenza di operazioni globali pianificate dall’alto, dalle multinazionali che si espandono alla conquista del mondo, e che sono supportate proprio dalla televisione.

Con la moltiplicazione dei canali televisivi e satellitari del XXI secolo tutto è lievitato in modo esponenziale. L’esplosione delle trasmissioni di cucina, la nascita di emittenti come Food Network che ci sommergono soprattutto di ricette statunitensi, e le infinite trasmissioni sul modello di MasterChef hanno creato questa nuova cultura gastronomica che si riflette anche nel linguaggio. Nel suo articolo, Ondelli scriveva che, nel settembre 2016, su 66 trasmissioni del genere riportate dalla Wikipedia, 13 contenevano nel titolo un anglicismo (Il boss delle cerimonie, Torte da record…), ma oggi la situazione è decisamente cresciuta e sulla stessa pagina le trasmissioni sono raddoppiate: 113 di cui 49 hanno un nome in inglese, e chef è la parola che ricorre di più.

Mentre ormai si parla della mcdonaldizzazione del mondo, l’americanizzazione della nostra cucina è diventata e sta diventando sempre più profonda. Gian Luigi Beccaria aveva osservato che nell’italiano si sono imposti i nomi di molti cibi regionali che sono diventati nazionali solo quando sono stati industrializzati e distribuiti ovunque. I grissini, dal piemontese gersin, sono così finiti sulle tavole di tutti gli italiani e sono diventati un nome industriale, esattamente come è successo a parole un tempo dialettali come mozzarella, fusilli, caciotta, fontina (Italiano. Antico e nuovo, Garzanti 1988, p. 83). I dolci fritti del carnevale, invece, che per la loro friabilità sono più difficili da industrializzazione, visto che si sbriciolano facilmente, secondo Beccaria ancora oggi hanno nomi locali e non possiedono un nome nazionale perché non sono prodotti su scala nazionale, e dunque si trovano a seconda dei luoghi chiacchiere, frappe, crostoli, galani, nuvole, bugie, sfrappole e via dicendo (Misticanze. Parole del gusto, linguaggi del cibo, Garzanti 2009, p. 171).
Passando dal locale al sovranazionale, con l’inglese avviene lo stesso. La grande distribuzione opera su scala mondiale ed esporta cibi statunitensi dal nome in inglese. Ho già ricostruito la storia dei marshmallow, che i traduttori di Linus avevano chiamato toffolette, quando ancora questi prodotti non esistevano nei nostri mercati. Ma quando sono arrivati tutto è cambiato. E non ci resta che ripetere quello che leggiamo sulle confezioni delle scatole. La lingua è fatta anche di queste cose, e ciò non vale solo nel caso della gastronomia (l’informatica docet). Televisione ed espansione dei mercati viaggiano spesso insieme, hanno così sfornato negli ultimi anni prodotti (e parole) sconosciuti sino a dieci anni fa, ma oggi comuni. Basta frequentare i siti di ricette per trovare le apple pie, per esempio. Torta di mele suona come la torta della nonna, se usiamo l’inglese è perché la ricetta si basa sulla tradizione anglosassone. Anche quella è una torta della nonna, in fondo, ma sembra tutta un’altra cosa. E così mentre le torte diventano cake ci americanizziamo nella lingua, intesa allo stesso tempo come organo del gusto e della comunicazione. Palato e parlato.

La gerarchia degli anglicismi e la rete di locuzioni inglesi

A questo punto tutto è più chiaro. Il fenomeno dell’itanglese non è un fatto solamente linguistico. L’esempio del lessico della cucina indica in maniera lampante che non è possibile scindere l’analisi linguistica da quella sociale, culturale ed economica. Questi aspetti sono intrecciati e si alimentano a vicenda in un processo di trasformazione della nostra società che risente sempre più della globalizzazione, che si chiama così ma coincide sempre più con l’americanizzazione.
In questo mutamento, gli anglicismi si inseriscono sempre più spesso a un livello alto della gerarchia delle parole, un fatto che mi pare sia ignorato (insieme a tanti altri salienti) dai linguisti. Non tutte le parole sono sullo stesso livello, infatti. Se gli anglicismi nei giornali compaiono soprattutto a caratteri cubitali nei titoli, e dunque hanno un risalto e una penetrazione molto pesante, lo stesso sta accadendo per molti linguaggi di settore, dove ricorriamo all’inglese prevalentemente per indicare i concetti chiave. E così il nome di una manifestazione culturale si esprime ormai quasi sempre in inglese (per darsi un tono internazionale) anche quando è italiana, le librerie diventano bookshop, l’economia diventa economy, l’ecologia green, le leggi act, le tasse tax… Tornando all’esempio della cucina, ho già ricostruito la storia di food, una parola che è apparsa per la prima volta agli inizi degli anni Ottanta attraverso l’espressione fast food. Da allora la circolazione di locuzioni con food è esplosa. Il cibo per gli animali è diventato pet food, il cibo di strada street food, il cibo a domicilio food delivery, il crudismo raw food, il cibo spazzatura junk food (o trash food), il cibo al cartoccio finger food, quello consolatorio confort food, l’arte dell’impiattare food design, un chiosco furgone truck food, e tra i food corner nei supermercati e il food porn, espressione dopo espressione, l’inglese ha preso il sopravvento sull’italiano, e ormai nel settore della grande distribuzione l’intero settore alimentare è chiamato del food, e contrapposto al non food che riguarda le altre tipologie di merci. Queste locuzioni si intrecciano a loro volta in una rete di altre che si basano sulle stesse radici, e si allargano nel nostro lessico sempre più anglicizzato diramandosi come un cancro. Pet food non è isolato, si appoggia a pet sitter, che insieme a dog sitter e cat sitter ripercorre l’espressione baby sitter, a sua volta basata sulla prolificità di baby che diventa un prefissoide produttivo che si ricombina con parole sia italiane sia inglesi (baby-criminalità, baby-gang…).

Basta guardare questi titoli di giornale per vedere come siamo messi: non solo impera il food, ma anche la cucina diventa cook e tutto è inserito nell’anglicizzazione più totale, dove i premi diventano award, i concorsi sono contest e challenge

La cucina italiana è diventata l’italian food e noi, e la lingua italiana, siamo fritti come le patatine che ormai si cominciano a chiamare chips.

Sulla morte dell’italiano

Da quando ho lanciato la petizione #litalianoviva contro l’abuso dell’inglese sto ricevendo tantissime segnalazioni per il dizionario AAA delle Alternative Agli Anglicismi, e soprattutto una gran quantità di lettere, così tante che faccio davvero fatica a rispondere a tutti.
Alcuni di questi contributi mi hanno spinto a precisare un po’ meglio il tema centrale dell’itanglese e della “morte dell’italiano”, che non è chiaro a tutti.

 

Se questo è un italiano

Parto da quanto mi ha scritto Luis:

“Non vado più alla Mondadori. Appena entri nello store c’è un book point dove puoi pagare con la cash back card. Alla Rinascente questo weekend c’era il 20% di sconto sul mio shopping con la Rinascente card. Summer Discount su tutto il make-up e lo Skin Care. Ora con l’applicazione lo shopping è ancora più Smart.
Da Cisalfa ho acquistato un costume da bagno. Gli addetti e il personale indossavano la divisa con la scritta Staff e Crew e ho pensato che fossero proprio un bel Team.
Con Purina-One il pelo del mio cane diventerà più forte e lucido. Purina, la scelta giusta per il tuo Pet.
Al supermarket mi chiedono ogni volta se ho la Fidelity Card.
Alla Metro (vendita all’ingrosso) quelli dello staff mi hanno detto di rivolgermi al reparto Food”.

Mi pare che il quadro rappresenti bene l’Italia e l’italiano. E il punto è proprio questo: come definire questa lingua? È ancora italiano o è itanglese? La questione è tutta qui. Chi pensa che questa ricostruzione sia un’esagerazione non veritiera può dare un’occhiata al seguente testo. Un inno all’italianità che, a mio avviso, suona come un ossimoro. Ma forse per qualcun altro è solo l’italiano moderno e quello auspicabile nel futuro.

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Anche io non vado alla Mondadori, ma la Feltrinelli non è meno anglicizzata, e come ho ricostruito in “Bookcity e la gerarchia degli anglicismi” ormai i libri sono book, le librerie sono bookshop e ci si può aggirare tra thriller e modern fiction, home video e game, graphic novel e top 40, cioè i best seller. Ho anche già parlato del caso food, un ottimo esempio di creolizzazione lessicale che in soli 30 anni (da quando è apparso, nel 1982, il fast food), ha portato lo street food e lo slow food, i food designer e il junck food, il finger food e il comfort food… alla fine food è diventata la parola per indicare l’intero settore alimentare. Il pet food è l’anello di congiunzione con un’altra parola che si sta allargando e che sembra destinata a sostituire gli animali da compagnia: pet. Da pochi anni ci sono i pet shop (visto che i negozi sono sempre più shop e store), si parla di pet teraphy, spuntano gli alberghi pet friendly… ed è nata la figura del pet sitter, che si affianca ai dog sitter e ai cat sitter, che si appoggiano alla fortuna di baby sitter. Baby, del resto, è diventato un prefissoide che genera una quantità di locuzioni inglesi, pseudoinglesi e ibridate con l’italiano che non è più possibile quantificare. Nella “Maledizione di baby sitter (e i composti di baby)” ho provato a spiegare quanto è successo anche in questo caso.

Questi esempi mostrano inequivocabilmente che l’inglese è un virus che si diffonde come un cancro, consiste ormai in una rete di parole tra loro interconesse che si allarga nel nostro lessico, e fa morire i nostri vocaboli. Non bisogna essere geni, per comprenderlo. Eppure la maggior parte dei linguisti continua a ragionare con gli schemini ridicoli basati sui “prestiti” linguistici, come se gli anglicismi fossero parole isolate. Se fossero “prestiti” sarebbe il caso di restituirli in blocco. E forse bisognerebbe restituire ai librai, anzi ai bookstore, anche i libri di linguistica di questo tipo, che invece di occupare posto nelle librerie sarebbero più utili se fossero mandati al macero, almeno per riciclare la carta.

Non si capisce dove vivano questi “studiosi”, né come non siano in grado di comprendere cosa sta accadendo, e l’abissale differenza che c’è tra i “prestiti” provenienti dalle altre lingue, di numero contenuto, e lo tsunami anglicus che ci sta devastando. Mentre qualche illustre studioso negazionista sostiene che l’anglicizzazione sia tutta un’illusione ottica, la gente comune sembra più avveduta nel comprendere il presente. Per esempio chi mi scrive:

“Sky tg 24 rubrica Start, si parla del covid-19. Il giornalista per ben 4 volte dice che il governo cinese utilizza uno strumento per TRACCARE o TRACKARE (da to track) le persone in aeroporto”.

“Tracciare”, in questo aneddoto, sembra un vocabolo inesistente.

“Ho appena sentito la parola smartizzabile da parte della Ministra Dadone con riferimento alla transizione da una modalità di lavoro in presenza a una agile” mi scrive Enrico.

Le ricomposizioni di questo tipo sono all’ordine del giorno, spesso intaccano i verbi, e nel parlato si sente sempre più spesso forwardare per inoltrare, fixare per aggiustare, hostare per ospitare. Del resto il sito di Airbnb invita a diventare host, non usa parole come locatore e locatario, e l’italiano non è contemplato dalle multinazionali che si insediano in Italia e ci impongono i loro termini, da snippet a timeline. Il che vale soprattutto per l’italietta di colonizzati, all’estero non è così, come si evince dall’immagine seguente.

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Il sito Airbnb in varie lingue: solo in italiano compare il termine “host”.

L’inglese delle multinazionali informatiche arriva in questo modo. Non si traduce download e nasce downloadare invece di scaricare. Spunta Twitter e impone i suoi follower e following, invece di parlare di iscritti, lettori, abbonati o seguitori/seguaci e seguiti, per carità! Che brutto!

Sempre Luis mi segnala che nel sistema operativo di iPhone, impostato in lingua italiana, ci sono più di 80 termini in inglese (tra cui mail, file, hotspot, feedback, privacy, password, account, game center, banner, badge, background, provider, software, switcher, wireless, home, voiceover, zoom, timeout, link, output, input, standard, hardware, controller, smart, font, default, screen, layout, timer, live, selfie, download, news, store, fitness, homekit, push, server, nickname, widget, podcast, offline, computer, music, streaming, slow motion, drive, book, game, center, reader). Tutti anglicismi necessari, intraducibili o insostituibili, direbbe il terminologo anglomane italiota. Peccato che impostando la lingua francese o spagnola, l’elenco degli anglicismi si riduca invece a 3 o 4 parole. I “prestiti di necessità” e gli “anglicismi insostituibili” lo sono soltanto in Italia. Forse è questa “l’illusione ottica” che ci contraddistingue, perché mentre da noi nessuno saprebbe come dire diversamente streaming, in francesespagnolo è possibile.

L’inglese delle multinazionali informatiche che si espandono è agevolato dall’interno da chi non opera scelte traduttive e da chi postula come un assioma che “i termini non si traducono” (ma solo in Italia, si dovrebbe aggiungere per onestà). Il caso dell’informatica è il più eclatante, ma anche la maggior parte degli altri linguaggi di settore sono ormai colonizzati, dal linguaggio aziendale e del lavoro a quello della scienza e della tecnica. La pubblicità parla sempre più l’inglese, il cinema statunitense impone i propri titoli in inglese senza più tradurli…

E davanti a queste pressioni esterne, agevoliamo dall’interno questo processo ricorrendo all’inglese anche da soli, e talvolta lo reinventiamo. Lo si vede nel linguaggio della politica, dal jobs act al navigator, lo si vede persino nella lingua della giurisprudenza (qui un video di un avvocato che lo spiega chiaramente).
Basta leggere un giornale digitale come il Corriere.it, per capirlo. A parte i trapianti intradotti come “web” o “streaming” si vede benissimo l’abuso di “hub” ,”new entry”, “empowerment”, “fashion”… e Mussolini si faceva i “selfie”!  Sui quotidiani francesi e spagnoli non si vede nulla di tutto questo.

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Dal Corriere.it del 10/6/20.

E allora ritorniamo alla domanda iniziale. Questo è ancora italiano?

 

Gli anglopuristi teorici dell’itanglese

Nel “manifesto” del sito “Una parola al giorno” (art. 4), si legge:

“I forestierismi sono una ricchezza. Non ci sentirete tuonare contro l’inglese, ma ci vedrete schierati parola per parola contro il cattivo gusto, la replica acritica di parole percepite e non capite, e gli usi esausti o sciocchini. Nel diciassettesimo secolo ci si scagliava contro… squallidi gallicismi quali baule, regalo, biglietto o gabinetto: oggi chi criticherebbe l’uso di queste parole?”

Dichiarazioni di questo tipo sono abbastanza diffuse, ma sono nella migliore delle ipotesi affermazioni sciocche e confusionarie, e in altri casi sono vere e proprie ipocrisie che celano mistificazioni imperdonabili. Confondere le parole italiane di derivazione esogena (come baule o biglietto) con i forestierismi non adattati che si scrivono e si leggono in modo diverso da quanto previsto dalla nostra grammatica è un’enorme sciocchezza. Come lo è appellarsi al “cattivo gusto” o agli “usi sciocchini”: Leopardi ci ha insegnato (ma non solo lui) che solo l’uso e l’abitudine rendono bella o brutta una parola. Affermare che i i forestierismi sono una ricchezza in assoluto non sta né in cielo né in terra. Dipende se si adattano, e quando non lo si fa dipende dal loro numero, possono essere anche il segno di un impoverimento del nostro lessico e della creolizzazione e della morte di una lingua schiacciata da un’altra dominante. Anche associare “forestierismi” e “inglese” è significativo. Come se le due cose coincidessero e ci fosse solo l’inglese. Purtroppo il problema è proprio questo. Il numero degli anglicismi crudi che abbiamo importato negli ultimi 70 anni è superiore a quello di tutti i forestierismi di ogni lingua e di ogni epoca sommati, incluso il francese che ci ha influenzati sin dai tempi di Dante. Se questa è una ricchezza, se l’italiano del presente e del futuro deve essere costituito da un sostantivo in inglese su dieci, si dovrebbe avere il coraggio di dirlo chiaramente e senza ipocrisie. Questo per me non è più italiano, ma la sua morte; è itanglese, ed è un ibrido che non ha nulla a che vedere con l’italiano storico e con la nostra grammatica.

La provenienza delle parole è irrilevante. Quello che conta è vedere se sono italianizzate e si integrano o se sono dei “corpi estranei” per dirla con Castellani, che snaturano la nostra lingua storica e la imbastardiscono, come dicevano i più aperti sostenitori delle parole straniere di ogni epoca, da Machiavelli che insisteva sulla necessità di “accatar parole” altrui, passando per Ludovico Antonio Muratori, e persino Alessandro Verri, autore della celebre “Rinunzia al Vocabolario della Crusca”. Nessuno si è mai sognato di giustificare la presenza di migliaia di forestierismi crudi provenienti da una sola lingua dominante. Se una volta i puristi rifiutavano le parole italianizzate che provenivano da altre lingue, oggi sarebbe invece auspicabile tornare a italianizzarle e tradurle, se vogliamo evitare la creolizzazione lessicale. Il che è tutto il contrario di quel che volevano i puristi.

Un tempo furono proprio i puristi a rappresentare un ostacolo all’evoluzione dell’italiano, visto che erano ostili anche ai neologismi e ai tecnicismi, ma così facendo rischiavano di ingessare l’italiano nella “lingua dei morti”, di cristallizzarlo nel vocabolario storico senza farlo crescere. Oggi a fissare l’italiano nei suoi significati storici e a impedirgli di evolvere sono proprio gli anglomani, che invece di tradurre, adattare, creare neologismi, allargare il significato delle nostre parole, preferiscono importare tutto ciò che è nuovo in inglese e giustificarlo. Li ho definiti “anglopuristi”. Sono coloro che invece di difendere e promuovere l’italiano si appellano all’uso dell’inglese che diffondono per primi sostenendone il maggior potere evocativo, guardando non ai significati delle parole, bensì alle sfumature che non appartengono all’inglese, ma sono il risultato dell’acclimatamento nella nostra lingua. “Calcolatore” evoca le ingombranti anticaglie di una volta, “computer” connota i dispositivi moderni. Peccato che in inglese era ed è computer, senza questa distinzione, così come in francese era ed è ordinateur, e in spagnolo era ed è computador. Selfie non è proprio come autoscatto… ecco come si relega l’italiano ai suoi significati storici e non lo si fa evolvere. Nelle casseforti c’erano le combinazioni, tra i partigiani i nomi di battaglia, in Rete ci sono le password e i nickname, perché questi sono i “termini” che richiamano l’ambiente informatico in modo preciso… e così l’italiano non si allarga di nuovi significati e muore. Brainstorming è intraducibile (peccato che in francese sia stato tradotto con spremimeningi e in spagnolo con diluvio di idee) e ciò che è nuovo non si reinventa, si importa in inglese e basta! E così, anglicismo dopo anglicismo, l’italiano si trasforma in itanglese. Ricorrere all’inglese è una strategia. Soprattutto nelle nuove generazioni. Si preferisce l’itanglese e la creolizzazione è vissuta come segno di modernità. Il che non lascia ben sperare nel futuro.

L’itanglese si pratica ormai nelle scuole. Non sto parlando del linguaggio terrificante del Miur, uno dei maggiori responsabili della morte dell’italiano, che prepara volutamente alla lingua inglesizzata del mondo del lavoro. Purtroppo l’itanglese si impartisce sin dalle elementari. Ho avuto una feroce discussione con un gruppo di maestri che insegnano ai bambini che la “j” si chiama “jay”, dando un calcio alla nostra storia, alla “i lunga” che si pronuncia “i” non solo in italiano (juventus, Jolanda, Jacopo, Jugoslavia…), ma anche in tedesco (Jung). Insomma, c’è solo l’inglese nella testa delle menti colonizzate, e poi va a finire che si sente sempre più spesso dire “giunior” invece di junior. Intanto, nei libri di testo delle elementari, la Cisgiordania diventa West Bank. Senza alternative.

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Questa è la lingua, e la cultura, che si insegna a scuola alle nuove generazioni!

Adesso tra i maestri, mi segnala Elena, va di moda il lap book, spesso scritto lapbook, che consiste in un cartoncino piegato a libro contenente fatti, diagrammi, illustrazioni relativi all’argomento; è una cartelletta con le ricerche dove si incollano diversi elementi, e viene definito anche layer book, flap book o shutter book. Tutto va bene, purché suoni inglese. Ma un nome in italiano, no?

Dunque non c’è da stupirsi se poi uno studente interrogato in storia dell’arte parli di “absaid” perché crede che abside sia un anglicismo, o che si pronunci Dpi (Dispositivi di Protezione Individuale) come i dpi delle stampanti. Siamo immersi nell’anglomania più deleteria.

Questo è il presente, e nel futuro sarà sempre peggio, se non si ferma questo processo di distruzione sistematica del nostro patrimonio linguistico. C’è chi non lo vuole affatto fermare e vuole andare in questa direzione. E c’è chi sta provando a fare qualcosa con una petizione.

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Le 3000 firme della petizione a Mattarella

Continuo le mie riflessioni sui perché della petizione a Mattarella, #litalianoviva, che conta ormai 3.000 firme. Provo anche a rispondere ad alcune delle critiche basate sulle sciocchezze e sui luoghi comuni di chi non ha studiato e compreso il problema, né tanto meno lo spirito dell’iniziativa.

La nuova questione della lingua

Non se ne può più di sentir dire che è normale che le lingue evolvano o che il francese e tantissimi altri idiomi hanno influenzato l’italiano sin dai tempi di Dante. Queste sono banalità che non si possono che dare per scontate; bisognerebbe essere un po’ più seri e studiare come la nostra lingua si sta evolvendo.

È semplicemente una questione di numeri: dal secondo dopoguerra a oggi – nell’arco di una sola generazione – gli anglicismi sono almeno quintuplicati. Hanno colonizzato i centri di irradiazione della lingua (il lavoro, la scienza, la stampa, l’informatica, l’economia…), si riversano nel linguaggio comune, aumentano di frequenza, penetrano nel lessico di base e, soprattutto, tutto ciò che è nuovo viene sempre più introdotto in inglese crudo, con il risultato che il 50% dei neologismi del nuovo Millennio è costituito da anglicismi. Il punto non è gridare alla morte dell’italiano per becero allarmismo, è constatare che di fatto è già morto, nel senso che ha cessato di evolvere per via endogena, e che registra una regressione davanti all’inglese anche quando esistono parole italiane che finiscono per essere dimenticate o diventare obsolete davanti ai “prestiti sterminatori”. Gli anglicismi non sono perciò una ricchezza, ma al contrario segnano l’impoverimento e la morte del nostro lessico. La loro penetrazione avviene in modo crudo, senza adattamenti, e dunque sta snaturando la nostra identità linguistica, che non è un concetto filosofico e astratto, ma una cosa molto semplice e concreta: nella maggior parte dei casi gli anglicismi costituiscono dei “corpi estranei” che violano le regole dell’ortografia e della pronuncia dell’italiano. Non c’è alcun problema ad accogliere forestierismi non adattati, se sono contenuti in una percentuale fisiologia, è un fenomeno normale che si riscontra in ogni lingua. Ma quando questa percentuale cresce a dismisura, supera nel giro di 70 anni quella di una lingua come il francese che ha una storia di substrati plurisecolari, quando la somma di tutti i forestierismi di ogni lingua del mondo non arriva alla metà degli anglicismi che abbiamo importato in un lasso di tempo così breve, e che usiamo così spesso, c’è un problema oggettivo. Non siamo più di fronte a un fenomeno normale, ma a una creolizzazione lessicale che stravolge la nostra lingua storica. Questi sono fatti. Ogni critica ne deve tenere conto.

Allora la questione, e il terreno del dibattito, è un altra. Dobbiamo chiederci quale italiano vogliamo. Crediamo che la modernità si esprima con l’inglese e vogliamo che la percentuale di anglicismi della nostra lingua diventi in ogni ambito quella del linguaggio del lavoro o dell’informatica?

Bene lo si dica chiaramente, invece di giocare a fare i negazionisti.

Questa idea dell’italiano, però, per me coincide con l’itanglese, e mi vede dall’altra parte della barricata a combattere quello che considero non un segno di modernità, ma il depauramento del nostro patrimonio culturale. Ciò è tutto il contrario del purismo, ostile da sempre ai neologismi. Viceversa, c’è da auspicare un italiano che si sappia evolvere per via endogena, creando le proprie parole e i propri neologismi, invece che importarli dall’inglese.

Chi ha un’altra idea dell’italiano getti la maschera, si schieri dall’altra parte, e difenda l’itanglese senza fare l’ipocrita. I nuovi puristi del Duemila, quelli che vogliono ingessare l’italiano nella sua forma storica senza farlo evolvere perché tutto ciò che è nuovo si dice in inglese, sono gli anglomani. Sono loro – li chiamo anglopuristi – che vogliono trasformare l’italiano nella “lingua dei morti”.

Questa è la nuova “questione della lingua”. Sarebbe ora di dirlo chiaramente.

Non si tratta di fare la guerra ai singoli anglicismi, si tratta di prendere posizione, e di spezzare la strategia comunicativa che spinge a importare l’inglese crudo senza alternative. Il problema non è linguistico, è culturale. Gli anglicismi non sono “prestiti”, con queste sciocche categorie obsolete non si può rendere conto dell’attuale fenomeno dell’interferenza dell’inglese. Quando il confinamento diventa lockdown, il lavoro da casa smart working, quando si coniano all’inglese espressioni come covid hospital, invece che ospedali covid, e si parla di covid pass, covid free, covid manager, covid like, covid test… il problema non è in questi trapianti e in queste ricombinazioni ridicole prese singolarmente; il punto è che abbiamo perso la volontà di parlare in italiano e siamo passati a una strategia compulsiva (la strategia degli Etruschi) che consiste nella scelta di parlare in itanglese.

Una questione politica, non linguistica

Oggi la nostra classe dirigente – dai mezzi di informazione alla politica, dalla scienza al mondo del lavoro – ha scelto l’itanglese, e in questo modo lo diffonde e lo impone a tutti. Per spezzare questa strategia occorre una rivoluzione culturale e politica. Nello scorso articolo ho mostrato perché non è certo alla Crusca che ci si può rivolgere per cambiare le cose. L’Accademia non ha né il potere né la missione di regolamentare la nostra lingua. Solo la politica potrebbe forse investirla di questo mandato, come avviene per le accademie spagnole e francesi. Lì si creano alternative agli anglicismi e la popolazione è libera di scegliere come parlare. Alcune proposte sono accolte ed entrano nell’uso, altre non vengono invece recepite, ma il risultato è che l’anglicizzazione di queste lingue non è minimamente paragonabile alla nostra. Ognuno è libero di usare il lessico che preferisce, ma la libertà sta nello scegliere, se mancano le alternative cade la scelta, e l’inglese diventa un automatismo senza altre possibilità, diventa la tirannia della minoranza che controlla i centri di irradiazione della lingua e che la impone a tutti.

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Le “reti sociali” o i “fondi di recupero” su Correre, El País e Le monde. Da noi sono anglicismi (i “gruppi tech” in spagnolo sono “grandes tecnologicas”, e persino gli Usa sono detti secondo l’ordine della loro lingua: EEUU).

La petizione per eliminare gli anglicismi almeno dal linguaggio istituzionale – una cosa che in Francia è espressamente vietata dalla legge, ma che non verrebbe nemmeno in mente ad alcun politico, come del resto in Spagna – va rivolta alla nostra classe politica. Ma rivolgersi al parlamento avrebbe senso?

Non mi pare.

Non dimentichiamo che i nostri politici son proprio coloro che contribuiscono a uccidere la nostra lingua storica. Se il politichese, sino a tutto il Novecento, era caratterizzato da formule ampollose, astruse o burocratiche, nel nuovo Millennio è diventato itanglese. Dal jobs act al navigator, il lavoro è job, le tasse sono tax, le leggi act, l’economia è economy, i fondi per la ripresa sono introdotti in inglese, recovery fund, e qualcuno parla di un recovery plan per la pandemia. Gli anglicismi politici registrano un aumento preoccupante: quantitative easing, voluntary disclousure, caregiver, stepchild adoption, spending review, spoils system, devolution e deregulation, election day e family day… E in questo linguaggio fatto di establishment, governance, leadership, impeachment, question time, moral suasion, premiership… ci sono anche figure istituzionali come il garante della privacy, o il ministro del welfare, alla faccia della salute del nostro lessico. I giornali rilanciano e amplificano questo vocabolario politicamente scrorrect, mentre si parla sempre più di premier al posto di presidente del consiglio come è scritto nella nostra Costituzione, o di governatori invece che presidenti delle regioni perché si vuol fare gli americani, anche se il nostro sistema non è federalista.

In questo contesto appare poco proficua una petizione rivolta ai politici. Senza scadere nel qualunquismo, bisogna ricordare che negli ultimi anni sono state presentate innumerevoli proposte di legge o di istituzione di un Csli (Consiglio Superiore della Lingua Italiana) che sono sempre rimaste nei cassetti, per riemergere ciclicamente senza che nulla di concreto sia mai stato fatto.

Nel 2012, una petizione dell’Era propose di dire in italiano “question time” e ricevette consensi da ogni parte politica, ma l’iniziativa lodata da tanti solo a parole, non ebbe nei fatti alcun seguito (in Svizzera si dice invece l’ora delle domande, in parlamento e sui giornali).

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“L’ora delle domande” sul Corriere del Ticino.

Nel 2018, Giulia Bongiorno, ministra della pubblica amministrazione del Governo Conte, scriveva:

“Nei primi giorni da Ministro mi sono stati sottoposti alcuni fascicoli – definiti dossier – dai quali emergeva che i problemi più urgenti da affrontare erano:
1) il blocco del turnover;
2) l’inadeguata valutazione della performance dei dirigenti;
3) il digital divide;
4) la scarsa applicazione (…) dello smart working;
4) l’uso improprio del badge per entrare nel luogo di lavoro.
Per affrontarli avrei dovuto partecipare a numerosi meeting; inoltre, mi si rendeva noto che il budget a mia disposizione era – purtroppo – limitato.
Amo l’inglese (…) Eppure credo sia sbagliato, e fuorviante, accettare questa sostituzione della lingua italiana; parlo di sostituzione perché l’uso reiterato delle parole inglesi fa sì che a volte il corrispettivo italiano si perda. Dunque dico basta, con forza, a questo ibrido che forse vorrebbe far sembrare l’italiano più moderno, ma in realtà lo sta svilendo.”

(Lettera aperta del 19 dicembre 2018 per denunciare l’abuso dell’inglese nel linguaggio amministrativo).

Che cosa è accaduto, da allora, è sotto gli occhi di tutti.

Anche le iniziative come Europarole del Dipartimento delle politiche europee, avviata nel 2018, che doveva tradurre gli anglicismi che circolano nell’ambito dell’Unione Europea si è rivelato un progetto vuoto, e da allora ha raccolto solo 37 parole!
Visto che le istituzioni non lo fanno – da quelle politiche alla Crusca – il più grande repertorio esistente nel nostro Paese è il Dizionario delle Alternative Agli Anglicismi (AAA), che ne ha raccolti ormai 3.700, e nasce da un’iniziativa privata senza alcun finanziamento.

Da queste considerazioni è nata la decisione di rivolgere la petizione non alla politica, ma al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la massima carica dello Stato.

C’è chi ha storto il naso davanti all’opportunità di rivolgersi a lui in questo frangente in cui l’Italia versa in ben altri e più gravi problemi. Eppure il lievitare degli anglicismi ha raggiunto picchi inediti proprio durante la pandemia e, soprattutto, le nostre richieste sono davvero facili, e non costano nulla. Non abbiamo invocato leggi come quelle che ci sono in Francia, né domandato di attuare ciò che la politica ha più volte presentato senza che mai si sia realizzato.
Le richieste consistono, semplicemente, in una supplica, perché il capo dello Stato attui un simbolico richiamo alla politica di non utilizzare anglicismi almeno nel linguaggio istituzionale, per il rispetto, oltre che per la trasparenza, che le istituzioni dovrebbero avere nei confronti dei cittadini italiani e del nostro patrimonio linguistico (non dimentichiamocene, quando saremo chiamati alle urne!).
La seconda richiesta è di favorire una campagna di sensibilizzazione contro l’abuso dell’inglese. Anche questa preghiera non ci pare gravosa, e soprattutto non comporta alcuna spesa, visto che gli spazi delle pubblicità progresso sono già previsti. E come si fanno e si sono fatte contro il bullismo o contro la violenza delle donne, potrebbero farsi anche per promuovere la nostra lingua, di cui non è il caso di vergognarsi.

Crediamo che questa petizione chieda qualcosa che dovrebbe essere dato per scontato, qualcosa che nasce semplicemente dal buon senso e che dovrebbe appartenere a tutti. E facciamo fatica a comprendere come si possa non condividere questo appello.

Eppure, se la petizione #dilloinitaliano di cinque anni fa fu ripresa da tutta la stampa, oggi invece non c’è un solo giornale a tiratura nazionale che ne abbia accennato nemmeno con una sola riga. Le 3.000 firme raccolte nascono solo dal passaparola in Rete e tra la gente, mentre i mezzi di informazione e le istituzioni che dovrebbero occuparsi della nostra lingua in modo ufficiale lo hanno ignorato. Al contrario di quanto hanno fatto invece persone di primo piano della cultura nazionale e internazionale.

 

I firmatari e gli amici dell’italiano

Sin dai primi giorni, la notizia della petizione #litalianoviva è stata ripresa e diffusa dall’Istituto Italiano di Cultura di Lima, che l’ha rilanciata dalle sue pagine Facebook, oppure dal sito Corsica Oggi. In Svizzera è stata segnalata dal Forum per l’italiano in Svizzera, e dalla Rivista.ch. E così la notizia si è sparsa per il mondo, tra i firmatari ci sono italofoni tedeschi, dall’università di Barcellona ha firmato un’importantissima profesora emerita di Filologia Italiana, dall’Australia ha firmato la traduttrice Barbara McGilvray, vincitrice di una medaglia dell’Ordine d’Australia dell’Australia Day, per i suoi meriti nel tradurre in italiano. Voglio riportare qualche battuta tratta da un’intervista che rilasciò in quell’occasione:

Barbara McGilvray
Barbara McGilvray.

– Hai notato delle differenze nell’evoluzione della lingua italiana da quegli anni ’60 in cui eri a Roma all’italiano che si parla oggi? Magari il fatto che oggi sia infarcito di parole inglesi? Una volta non era così…
Io cerco di evitare e parole inglesi in italiano anzi sono iscritta a due o tre gruppi di traduttori in Italia, gruppi virtuali, sull’Internet e lottiamo tutti per evitare di usare neologismi inglesi, preferisco evitarli. (…) Spending review mi fa una rabbia (RIDE), ci sono espressioni perfettamente adeguate in italiano, perché usare quelle inglesi? Non lo so…

– O il jobs act…
Jobs act… un altro, no, no… non ne parliamo…

– La nostra rubrica si chiama La lingua più bella del mondo, sei d’accordo con il nome che abbiamo dato a questo segmento?
Assolutamente! Come no?

Se volte sentire queste parole dal suo delizioso accento anglofono, lo potete fare qui (al min, 4,30 circa).

Tra i tanti che hanno firmato e che mi hanno scritto dall’estero ci sono italofoni dall’Argentina, dal Canada, dalla Francia, e anche dal Regno Unito e dagli Stati Uniti.

Possibile che all’estero ci sia un’attenzione per l’italiano superiore alla nostra?

Evidentemente sì.

Ma non è del tutto esatto. Non bisogna confondere il silenzio stampa e delle istituzioni che si registra in Italia con il sentimento degli italiani. L’indifferenza mediatica non corrisponde alla sensibilità di tante persone di ogni fascia sociale (infermieri, medici, farmacisti, parrucchieri, avvocati, imprenditori, formatori, studenti, insegnanti, mamme, agenti immobiliari… c’è anche un suora). E tra i firmatari ci sono poi diversi politici che appartengono a ogni schieramento: da Potere al popolo e Sinistra alternativa passando per il Pd, i 5 stelle, la Lega, sino a Forza Italia, Fratelli d’Italia e alla destra. Ma soprattutto mi ha colpito la presenza di molti personaggi di spicco della cultura del nostro Paese. Non sempre mi è stato possibile verificare se certi nomi sono davvero illustri o se si tratta di omonimi, e non so se Elena Ferrante è veramente lei o se Paolo Repetti è davvero il fondatore e il direttore della collana Stile Libero di Einaudi. So però di certo che hanno firmato professori universitari o accademici come lo psicologo Fulvio Scaparro, il filosofo Fulvio Papi, scrittori come Elisabetta Bucciarelli (vincitrice del premio Scerbanenco) o come la docente Laura Margherita Volante, traduttori di primo piano come la poetessa Claudia Azzola direttrice della rivista TraduzioneTradizione, giornalisti come Alberto Giovanni Biuso, intellettuali che gravitano intorno alla rivista Odissea diretta da Angelo Gaccione, come il medico Teodosio De Bonis (“Ho deciso di iscrivermi ad un corso di lingua straniera: mi è stato consigliato l’Italiano”), lo scrittore Oliviero Arzuffi, i poeti Antonella Doria, Gabriella Galzio e Nicolino Longo… e una lunga lista di donne e uomini che fanno comprendere che esiste un’altra idea di lingua e di cultura, oltre a quella dominante. E che a opporsi all’insensato ricorso all’abuso dell’inglese siamo in tanti.

Per aiutarci a diffondere la nostra iniziativa, visto che i giornali non lo fanno, passa parola, per favore!

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Tormentoni e anglo-tormentoni

Tormentoni Silverio Novelli
Silverio Novelli, Tormentoni, Rcs 2020

“Tormentone” è una parola di successo, a base italiana, che si diffonde a partire degli anni Ottanta. Nel suo libro, Silverio Novelli ne ripercorre le tante valenze e il significato a volte sfuggente e cangiante a seconda dei contesti. È una lettura che mi ha fatto riflettere sul fatto che anche l’inglese ricorre spesso in maniera ossessiva, appunto come un tormentone. Più che risolversi in una lista di espressioni o parole che ricorrono in modo martellante, mi pare che il tormentone anglicus consista nel ricorso all’inglese e agli anglicismi come una strategia che si ripete con la forza, talvolta inconscia, della coazione a ripetere. Se si analizzano gli anglicismi sbucati, diffusi o maggiormente utilizzati durante l’attuale pandemia, per esempio, tutto risulta più chiaro.

In un articolo uscito sul portale Treccani lo spiego meglio: “La panspermia del virus anglicus” (per chi fosse interessato).

 

Tormentoni non solo linguistici

Un tormentone può essere un simpatico ritornello e può mettere allegria (si potrebbe anche dire un refrain che, benché venga spesso pronunciato all’inglese, sarebbe una parola francese), ma deriva dal tormentare e dal tormento, e nasconde qualcosa che nel suo ripetersi in modo insistente può infastidire. Questa ambivalenza coinvolge appunto i tormentoni musicali, spesso estivi (personalmente devo ancora riprendermi dal pulcino Pio), quelli cinematografici (la boiata pazzesca di fantozziana memoria), pubblicitari (provare per credere) e anche molte altre tipologie che Novelli individua e classifica acutamente. Non è infrequente che da questi ambiti i tormentoni si riversino nella lingua e persino nei dizionari, ma non sono sempre e solo linguistici. L’autore ricorda proprio che tra i “memorabilia” esistono anche i “tormentoni scenici”. Risalgono almeno a un secolo fa e appartengono per esempio al genere delle comiche dei film muti, le “sitgh gag”, in inglese, cioè quelle scenette visive che ripercorrono anche il teatro di varietà e l’avanspettacolo. E infatti sui dizionari la parola “tormentone” viene associata al gergo teatrale proprio come “ripetizione ossessiva di una battuta o di un gesto”, anche se poi la sua dimensione linguistica si amplia alla ripetitività che si ritrova per esempio sui giornali. Aggiungerei anche nella Rete, dove oggi, soprattutto tra i giovani, va per la maggiore il meme, che in fondo è una forma di tormentone virale non necessariamente linguistico. Questo intreccio di lingua e gesti spicca per esempio nella consuetudine di specificare (cito da pvirgoletteag. 107):

Tra virgolette. Un’espressione a largo spettro, perché, volendo, viene accompagnata (o addirittura surrogata) dal gesto con le mani fatto dal doppio indice e medio sollevati a uncino, importato dal codice gestuale statunitense”.

Un anglicismo gestuale, si potrebbe definire. Mi ricordo che la prima volta che mi capitò di vederlo fu negli anni Novanta, mimato proprio da un collega di lavoro di Los Angeles. Tra gli altri anglicismi linguistico-gestuali tormentonici mi viene in mente almeno “dammi il cinque”, calco di “give me five” nato pare in ambienti sportivi d’oltreoceano e diventato popolare in italiano anche grazie a un tormentone musicale di Jovanotti, che del resto pensa positivo, più che positivamente (da think positive).

Se, nei Malavoglia, i torme ‘ntoni di Padron ‘Ntoni esprimevano attraverso i proverbi la cultura popolare non scolastica, oggi i tormentoni linguistici e le frasi fatte si ritrovano soprattutto nel linguaggio giornalistico con tutt’altra valenza. In tempi di virus a corona, ho già sottolineato come ricorrano con alta frequenza (per me nella loro accezione insopportabile e tormentante, ma va a gusti) frasi fatte come “città spettrali” o “misure draconiane”, che caratterizzano i picchi di stereotipia del linguaggio dei mezzi di informazione. Nel libro di Silverio Novelli se ne trovano tante, anzi, a iosa. “Morsa del gelo”, “ha riscosso l’unanime consenso”… espressioni cristallizzate che dilagano sulla stampa ma anche nel linguaggio politico-giornalistico (cito a proposito: “scendere in campo”, “entrare a gamba tesa”). I tormentoni non riguardano solo le espressioni, ma anche le singole parole, in una tendenza a utilizzare sempre gli stessi vocaboli che finiscono per diventare fastidiosi nel loro abuso, più che efficaci (il “troppo stroppia”, per usare il tormentone più adatto alla circostanza): l’inflazione di attimino, i plastismi, le parole di plastica che si adattano a ogni circostanza come assolutamente, allucinante, fantastico e poi le parole/espressioni che ricorrono come automatismi e “tic linguistici”. La galleria di questi vocaboli che ci tormentano, al tempo stesso orribili e meravigliosi, è “tanta roba” in questo libro accurato ma piacevole (non capita spesso in linguistica), perché ha uno stile scanzonato e ironico e non si “prende troppo sul serio” (e di queste matriosche che contengono gli stereotipi che allo stesso tempo svelano ce ne sono parecchie).

Non mancano, of course, le espressioni inglesi, talvolta foriere di prolificità, come il “mix di…”, un’espressione che da sempre scatena le mie personali allergie lessicali. Ricordo una revisione di un libro scritto soprattutto con frasi fatte e anglicismi, qualche tempo fa. Avevo trovato per 6 o 7 volte l’espressione “giusto mix”, che mi ero premurato di alternare con giusto “equilibrio”, “miscela”, “alchimia”, “ricetta”… Ma per l’autore, che credo non abbia troppo apprezzato i miei interventi, c’era solo un’espressione codificata. Tormentone e vocabolario limitato, si potrebbe concludere, eppure forse c’è qualcosa in più, qualcosa di legato psicologicamente ai meccanismi compulsivi ma anche una concezione della lingua nel suo aspetto monosemico.
C’è anche chi ama e preferisce il linguaggio precotto e le frasi idiomatiche, accanto a chi fa dell’individualismo espressivo e della creatività il proprio stile. Meglio usare la parola giusta, una parola per ogni cosa in una concezione chirurgica del lessico, o le parole in libertà che forzano i significati e si fanno ardite? Dipende dai contesti e anche dagli scrittori. Manzoni voleva far pulizia tra le troppe parole e forme per unificare l’italiano sul modello del fiorentino vivo, recidendo doppioni e regionalismi impuri che erano un di più che dava fastidio. Contemporaneamente, Tommaseo dava invece vita a uno dei primi dizionari dei sinonimi, considerati come una ricchezza. La stessa concezione che si ritrova in Gadda (“i doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni”).

tormentone
La frequenza di “tormentone” nelle statistiche di Google libri.

Il tormentone è tutt’altro rispetto al linguaggio preciso e appropriato, ma è ugualmente l’antitesi dei sinonimi e delle varietà linguistiche. E in questa diversa visione della lingua si inserisce molto bene anche la questione dell’inglese, così comodo, breve e sintetico nella sua portata monosemica che facilita le cose, soprattutto ai giornalisti, ai politici o ai tecnici (mouse non è un topo come in tutte le lingue del mondo o quasi, è il puntatore vicino alla tastiera, e in italiano diventa tecnico e monosignificato). Altre volte invece assume le sembianze di un plastismo. Anche questo semplifica la vita: il restyling di una casa, del marchio di un’azienda, delle rughe… o di una location, per citarne un altro. Insomma, l’anglicismo è versatile e per “tutte le stagioni”.

Tormentati dall’inglese

Nel leggere i tormentoni silverio-novelleschi mi ha colpito proprio l’alto numero di anglicismi che si incontrano, il mix e il remix, il consumer e il prosumer… E allora ho provato a chiedermi quanto inglese ci sia nei tormentoni, anche questo è un indice statistico da studiare che non avevo troppo considerato prima di questa lettura.

Provo a farlo spiritosamente, violentando l’intento del libro che non ha prese di posizione di questo tipo, ma consapevole che le cose leggere spesso nascondono quelle più profonde, sotto la punta del banco di ghiaccio (basta con ‘sti iceberg!).

In fondo al volume c’è un bel glossario. Non è un indice analitico vero e proprio, è solo una sintesi con

“i vocaboli e le espressioni (in prevalenza si tratta di tormentoni, ma anche no)”

su cui l’autore si è soffermato con maggiore attenzione.
Mi son messo a contare tutte queste parole/espressioni. Sono 235, e di queste 29 in inglese crudo a cui se ne aggiungono 4 frutto di ibridazione (brieffare, downloadare, flaggare e upgradare):

asap (acronimo di As Soon As Possible)
brand
celebrity
cool
friendly
green
influencer
in real time
lol
(acronimo di Laughing Out Loud)
made in Italy
maker
mission
mission impossible
mix
di….
no problem
punta dell’iceberg
random
skills
smart
social
storytelling
think tank
trendy
twerk
e twerking
underground
up to date
vision
yuppie
.

Queste 33 parole/espressioni usate in modo trito, ritrito e tri-trito rappresentano il 14,04% dei tormentoni più significativi della lingua italiana considerati nell’opera. Mica male, viste le percentuali di anglicismi stimabili nel linguaggio giornalistico o nei dizionari e le prese di posizione per cui l’interferenza dell’inglese si può liquidare con un no problem, my dear. Certo, non si può ricavarne alcunché di scientifico o statistico, a essere seri, ma comunque è un dato significativo.

Last, but not least, si potrebbe forse aggiungere, una delle cose più belle di questo libro è che i tormentoni sono stati raggruppati per decennio, come fossero tormentoni generazionali, dieci per decade (più una che le vale tutte). Gli anni Settanta, per esempio, erano il periodo del “portare avanti”, “nella misura in cui”, “a livello di…”. Ogni periodo ha i suoi anglo-tormentoni, anche questi sono generazionali, in fin dei conti. “Sexy” è tra quelli degli anni Sessanta, “cool” degli anni Novanta, e “smart” del Duemila. Sarà un caso che la loro frequenza si concentri soprattutto nel periodo 2010-2019 (4 su 10: green, mission impossible, lol, social)? Tra il serio e il faceto noto che quasi la metà dei tormentoni dell’ultimo periodo sono in inglese, a quanto pare, proprio come quasi la metà dei neologismi del Nuovo millennio sui dizionari.

 

PS

Per fare qualche confronto: fuor dall’inglese ci sono invece solo 4 tormentoni dialettali (amarcord, bufu, daje, rega), 2 francesi (à la page, monstre), 1 spagnolo (vamos a la playa), 1 giapponese (tsunami).
Meditate gente, meditate… (tormentone pubblicitario).

La perdita delle radici: dal latino (e greco) alle invasioni anglo-barbariche

Difendere lo studio del latino non ha nulla a che fare con le apologie pompose e moralistiche di una classicità obsoleta dal sapore teologico e filologico. Il latino, più che una lingua “morta” è soprattutto la base della lingua viva che parliamo tutti i giorni. Naturalmente l’italiano non deriva dal latino in modo diretto, come è risaputo, ma si è sviluppato principalmente dalle parlate locali di un latino volgare e medievale tardo sempre più distante da quello classico. Cavallo deriva da caballus e non certo dal classico equus che si ritrova in equino o equestre, e casa nel De bello gallico indicava una capanna di campagna o una baracca militare, ma con il tempo, nell’uso, questa accezione “rustica” si è persa e casa ha preso il sopravvento su domus in ogni contesto. Però, una parola come domotica (l’applicazione dell’informatica alle abitazioni) è stata coniata negli anni Ottanta del Novecento proprio ripescando la radice classica che circola in domicilio o domestico. Ecco, il nostro legame con il latino è soprattutto questo: più che nella derivazione diretta va rintracciato nelle ricostruzioni colte successive. È lo stesso legame che abbiamo con il greco antico, che ci arriva molto spesso dalle neoconiazioni moderne e dotte, oltre dal fatto che il latino conteneva a sua volta moltissime radici greche, per cui “filosofia” (dall’unione di phìlos e sophìa, cioè “amore per la sapienza”) ci è arrivata attraverso il latino philosophia.

Non è però dello stesso parere Google traduttore visto che la traduzione di filosofia in latino sarebbe philosophy, di cui possiamo persino ascoltare la pronuncia anglosassone, in una confusione tra inglese e latino, o forse inglesorum e latinorum, che è l’emblema della barbarie culturale e linguistica in cui stiamo sprofondando.

Dal latino all’inglese

Il nostro rapporto con il latino e con il greco come modelli formativi dei neologismi attraverso il recupero delle nostre radici adattate ai nostri suoni, nel nuovo Millennio, si è definitivamente spezzato. È ormai sostituito dall’importazione dei termini inglesi immessi così come sono nel nostro sistema con il risultato di frantumare la nostra identità linguistica – cioè i cardini della nostra grammatica e della nostra pronuncia – e di trasformare una lingua neolatina come l’italiano in un ibrido che è ora di chiamare più propriamente con il suo nome: itanglese.

La seconda rivoluzione industriale, tra il XIX e il XX secolo, ci ha portati a una radicale trasformazione del mondo e alla creazione di una nuova tecnologia che dal punto di vista terminologico era ancora governata dalle nostre norme storiche basate sull’adattamento e sulle nostre radici, per esempio “termosifone” (dal greco thermós = caldo) o “calorifero” (dal latino fero = portare il calore[m]). Poco importa se queste parole a loro volta sono calchi sul modello del francese calorifère e thermosiphon, il francese è una lingua che ci è affine e attinge alle stesse radici, e anche il cinematografo dei Lumière è un adattamento del francese cinématographe che si fonda contemporaneamente sul greco (kínema = movimento e grápho = scrivo). Oggi, però, abbiamo dimenticato il ruolo unificante del latino come radice internazionale delle lingue romanze che per secoli ha rappresentato il collante non solo delle parole comuni, ma anche di quelle scientifiche e tecnologiche di tutta l’Europa. In un primo tempo la tecnologia proveniente d’oltreoceano è stata adattata e reinterpretata attraverso le nostre parole e le nostre categorie, e infatti oggi abbiamo la lampadina e la televisione e non la lamp e la television. L’attuale terza rivoluzione industriale o post-industriale, al contrario, ci sta portando se va bene la stampante 3D, e non “tridimensionale”, o l’industria 4.0, dove quel punto si impone sulle nostre norme che prevedono la virgola. Ma fuori da queste minuzie ci sta saturando di parole inglesi crude che hanno colonizzato la maggior parte dei linguaggi di settore a cominciare dalla terminologia informatica dove l’italiano ha cessato di poter esprimere le cose con parole proprie, non è stato capace di creare i propri neologismi, ed è dunque morto.

 

La scomparsa delle parole latine e greche: i dati inediti dall’analisi dei dizionari

Per quantificare il disastro e renderci conto di come la nuova globalizzazione abbia definitivamente spezzato le nostre radici per proiettarci verso un futuro di sudditanza culturale e linguistica, basta analizzare i moderni dizionari digitali. Ma non si può operare come fanno certi linguisti che per negare l’anglicizzazione dell’italiano e abbassare le percentuali distribuiscono le parole inglesi su tutto il nostro lemmario storico. Bisogna invece ragionare sul numero di parole coniate nell’Ottocento e nel Novecento. Quante, tra queste, sono riconducibili al latino, al greco e all’inglese? Sono questi rapporti a indicarci lo stato di salute della nostra lingua.

NOTA: I numeri di seguito riportati emergono dallo spoglio di Devoto Oli (DV) e Zingarelli (Z) nelle edizioni del 2016, attraverso la ricerca di lat., gr. e ingl. in tutto il testo (che con un certo rumore di fondo corrispondono alle parole che hanno questa origine o questo legame) e l’incrocio con le datazioni per secolo.

Nell’Ottocento sono state coniate circa 16.000 parole (DV e Z), e di queste 2.000 (DV) o 1.600 (Z) hanno un etimo riconducibile al latino: una percentuale di oltre il 10% dei neologismi (dunque, mediamente, nel XIX secolo si coniavano 16/20 parole a base latina all’anno).
Le parole del Novecento sono invece tra le 32.000 (DV) e le 27.000 (Z), e l’etimo latino si rintraccia soltanto in circa 1.000 (DV) o 1.300 (Z) casi (10/13 parole l’anno), una percentuale più bassa di quella ottocentesca (3,1% DV e 4,8% Z) ma ancora significativa.

I grecismi della nostra lingua sono invece in totale circa 7.000 (8.000 secondo il Gradit in 6 volumi di Tullio De Mauro che ha delle marche più raffinate). Di questi, circa 1.800/1.900 sono stati coniati nell’Ottocento (l’11% delle parole del XIX secolo), mentre nel Novecento sono tra i 2.000 (DV: 6,5% del totale) e 1.500 (Z: 5,5%).

E nel nuovo Millennio cosa sta accadendo?

Le nuove parole a base latina, sommate a quelle a base greca, si possono contare con le dita delle mani!
Il Devoto Oli registra un migliaio di neologismi degli anni Duemila, e di questi solo 9 sono indicati come di provenienza latina, tra cui alterconsumista (2006) e altermondialismo (2003 che tuttavia ci arriva dal francese altermondialsime), egoriferito (2000) e ludopatia (2004). Tra questi “latinismi” ci sono anche: egosurfing (2000) un anglicismo che indica il rintracciare il proprio nome nei motori di ricerca, e due noti pseudolatinismi coniati dal politologo Giovanni Sartori: mattarellum (2004) e porcellum, riferiti alle leggi elettorali, che stanno al latino come il linguaggio delle Sturmtruppen sta al tedesco. Mi pare che questo uso del latino maccheronico sia il simbolo di che fine ha fatto e di come si è ridotta la nostra secolare cultura classica.

Sul fronte del greco le cose non vanno meglio, si trova acquaponica (un sistema usato nell’agricoltura e nell’allevamento), kouriatria (studio dei disturbi dell’adolescenza), mnemoteca (archivio delle memorie), ortoressia (l’ossessione dell’alimentazione sana, dal greco óreksis = appetito, sul modello di a-noressia), scheumorfismo (imitazione di bassa qualità), tomoterapia (di uso medico). Non c’è molto altro nel XXI secolo.

Quello che emerge è invece un altro dato macroscopico e fin troppo evidente: l’esplosione incontrollata degli anglicismi. Se passiamo alla loro disamina, come ho già ricostruito (vedi → Anglicismi e neologismi) rappresentano quasi il 50% dei neologismi del Duemila. La metà delle nuove parole nuove è ormai in inglese crudo, cioè non adattato, e la percentuale sale se si aggiungono le voci ibride, cioè formate da radici inglesi flesse all’italiana, come whatsappare (ho quantificato questo secondo caso in un articolo sul portale Treccani →  “L’inglese nell’italiano: espansione per ibridazione”).

Più nei dettagli, stando ai dati grezzi del Devoto Oli, nel XX secolo le parole di origine inglese erano intorno al 10% di quelle coniate a quell’epoca. Tra le 16.000 parole dell’Ottocento, invece, solo 398 derivavano dall’inglese (circa il 2%). Provo a sintetizzare questi dati grezzi ricavabili dal Devoto Oli in un grafico con le torte etimologiche delle varie lingue.

percentuali neologsmi inglese latino greco francese

La progressiva scomparsa del latino e del greco, così come l’aumento esponenziale dell’inglese, sono innegabili e rappresentano lo specchio del nostro nuovo assetto sociale e culturale.

Per interpretare nel modo corretto questi dati bisogna però precisare che testimoniano l’influsso delle rispettive lingue includendo sia le parole adattate (dunque diventate italiane a tutti gli effetti come cinematografo) sia quelle crude che stridono con le nostre regole (come meeting). Nel caso del greco e del latino l’italianizzazione riguarda quasi la totalità dei casi. Per l’inglese, nell’Ottocento solo la metà degli anglicismi (187, circa l’1% di tutti i neologismi del secolo) erano crudi. Nella prima metà del Novecento se ne contano 750 su 15.000 neologismi (il 5%), ma nella seconda metà questi anglicismi non adattati salgono al 10% dei neologismi. Passando dal rapporto anglicismi/neologismi all’analisi delle sole parole inglesi, nell’Ottocento gli anglicismi sono stati adattati nel 50% dei casi, nel Novecento nel 26%, e nel Duemila solo nel 12%. Questi numeri sono in linea anche con le percentuali dello Zingarelli, e soprattutto con quelle che emergono dall’analisi del Gradit in 6 volumi di Tullio De Mauro che vedeva complessivamente l’adattamento dell’inglese nel 31,6% dei casi nell’edizione del 1999, e nel 28,5% in quella del 2007 (ne ho parlato in un articolo sul portale Treccani → “La sostituibilità degli anglicismi con corrispettivi italiani”). Conteggiando l’interferenza del francese (italianizzato nel 70% dei casi secondo il Gradit), nell’Ottocento sono comparsi circa 1.000 francesismi di cui 244 erano crudi, nel Novecento 1.300 (di cui 566 crudi) e nel Duemila 26 (di cui 12 crudi). Tra le neologie della voce “altro” c’è tutto il resto, le parole provenienti da altre lingue, un apporto numericamente poco significativo, e tutti gli altri neologismi a base italiana.

Concludendo, nel Duemila l’inglese si sta rivelando dominante sulla nostra lingua con una sproporzione schiacciante e preoccupante. La strada che abbiamo intrapreso, basata sul taglio delle nostre radici, nei prossimi anni non può che essere destinata a crescere, perché si inserisce in un progetto di anglicizzazione globale che in tutti i Paesi del mondo non aglofono registra proteste e resistenze, mentre in Italia viene agevolato da una classe dirigente accecata dall’anglomania, che davanti alla dittatura dell’inglese ha assunto una posizione collaborazionista.

La mcdonaldizzazione della scuola e la googlizzazione della cultura

A proposito della scuola, gli anni Duemila si sono aperti con il motto berlusconiano delle “tre i” (internet, inglese, impresa) che avrebbero dovuto guidare la riforma Moratti. Nel 2010, la riforma Gelmini, definita “epocale” (ma anche lo sterminio degli Inca da parte di Pizarro fu “epocale”), ha ristrutturato i licei puntando al ridimensionamento dello studio del latino (e greco) e alla sua sostituzione con una lingua straniera (di fatto l’inglese) con il risultato che gli iscritti al classico, sino al 2009 in costante aumento, si sono improvvisamente dimezzati (nei primi 5 anni 180.000 studenti in meno, secondo i dati del ministero dell’Istruzione). Anche la riforma della “buona scuola”, cioè la legge 107 Renzi-Giannini, si inquadrava nel progetto di tagliare la cultura per favorire invece una scuola orientata alla formazione professionale, e l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro ha prodotto curiosi fenomeni come “fare formazione” da McDonald’s.
Questa idea di modernità della scuola ben si inserisce nel contesto politico (dal jobs act al navigator) e culturale che si basa sul rinnegare le nostre radici nella convinzione che essere moderni significhi parlare inglese, come se l’unica possibilità di essere internazionali coincidesse con la sottomissione al pensiero unico dei modelli linguistici e culturali statunitensi della globalizzazione.

Un tempo gli intellettuali e i dotti avevano un forte legame con il latino e con il greco: la nostra cultura, le nostre radici. Nel giro di un paio di generazioni tutto questo si è incrinato, per poi tramontare irrimediabilmente davanti all’invasione barbarica 2.0, culturale prima che linguistica. L’attuale classe dirigente, dai politici ai giornalisti, ignora il latino. Sembra ormai che gli intellettuali abbiano la testa solo negli Stati Uniti che si premurano di indicare con la pronuncia “iuesèi” per ostentare il nuovo blasone sociolinguistico che caratterizza l’aristocrazia culturale odierna. In questo uso della lingua appiattito alla pura funzione comunicativa, si disconosce completamente la sua funzione costruttiva e formativa che regola le nostre categorie del pensiero. Ragionare, ai tempi di Dante, era sinonimo di parlare = pensare = argomentare. Come aveva capito già Wilhelm von Humboldt, è proprio attraverso il linguaggio che impariamo a ragionare: la lingua è l’organo formativo del pensiero, è ciò che ci costruisce e che ci identifica. La diversità delle lingue corrisponde a una diversità di visioni del mondo che sono una ricchezza, come lo è la biodiversità. Aderire al mono-linguaggio e al mono-pensiero basato sull’inglese internazionale della globalizzazione significa favorire la strategia di distruzione delle culture locali, compresa la nostra, che sono un ostacolo per gli interessi del nuovo imperialismo culturale e linguistico funzionale agli interessi dei mercati che ci impongono la loro lingua attraverso i prodotti, le pubblicità e il linguaggio delle piattaforme digitali. Il multiculturalismo e il plurilinguismo sono accidenti da spazzar via nel processo della mcdonaldizzazione merceologica e della googlizzazione culturale da esportare e imporre in tutto il pianeta. In Italia diamo ormai per scontato che l’inglese sia la sola cultura possibile. Iscrivere i propri figli a una scuola inglese è diventato il tratto distintivo del nuovo fighettismo culturale che considera questo modello il solo auspicabile e possibile. Questa nuova aristocrazia intellettuale, che disprezza l’italiano e il latino alla base dell’Europa, confonde la cultura con la schiavitù nei confronti della visione del mondo dominante verso cui ha un enorme complesso di inferiorità. L’anglomania sta creando una frattura sempre più ampia nel nostro Paese, e nel mondo, e tende a estromettere chi non parla e ragiona secondo le categorie della lingua colonizzatrice vista come l’unica. Spazza via la nostra storia, la nostra identità e i nostri valori a partire dalla lingua. Ci stiamo snaturando e sottomettendo con gioia e fierezza al pensiero unico e al monolinguismo geneticamente modificato della globalizzazione in un suicidio culturale collettivo.
Ubi maior minor cessat. E rinnegare le nostre radici per farci soggiogare dalla lingua dei mercati è da minorati.

Bastardi con o senza gloria? Riflessioni sulla pronuncia degli anglicismi

Nei commenti dello scorso articolo Grammatica, dubbi ortografici e “lo weekend”, si è sviluppato uno scambio di opinioni e di esempi sulla pronuncia in italiano di anglicismi e forestierismi che voglio portare alla luce e sviluppare.

Quali sono le regole che governano la pronuncia in italiano delle parole straniere?

La risposta ingenua, spesso data per scontata come fosse la cosa più naturale, è che andrebbero pronunciate come nella lingua di origine. Non è però né necessariamente vero, né sempre possibile e, andando più a fondo, c’è da dire molto di più.

 

L’interferenza linguistica non è la colonizzazione linguistica

Negli anni Settanta, in uno dei primi importanti studi sull’influsso dell’inglese nell’italiano, Ivan Klajn osservava che per lo più non siamo in grado di distinguere bit da beat e thrill da trill, visto che nella nostra lingua materna non ci sono la i breve e il th anglosassoni (Influssi inglesi nella lingua italiana, Olschki, 1972, p. 45). Sul sacro rispetto che sarebbe dovuto alla pronuncia dell’inglese esistono molti siparietti che scherniscono l’incapacità dell’italiano medio di distinguere bitch e beach, con il risultato di dir puttana invece di spiaggia. Eppure è perfettamente naturale e comprensibile articolare i fonemi stranieri per approssimazione ai suoni propri di ogni lingua. Fuori dalla satira, sarebbe idiota schernire un giornalista statunitense come Alan Friedman perché parla come Ollio, così come è idiota e anche razzista prendere in giro un cinese che ha problemi a pronunciare la nostra “r” o un arabo ha difficoltà a distinguere “b” e “p”.

Dunque in italiano, come in ogni altra lingua del mondo, bisogna fare i conti con un parziale e naturale processo di adattamento alle consuetudini fonologiche esistenti. Oltre alla pronuncia, questo fenomeno coinvolge anche la scrittura, nel caso delle parole traslitterate da altri alfabeti (sudoku, perestrojka e perestroika, kebab che circola anche come kebap) secondo regole spesso complicate (Čajkovskij, Tchaikovsky, Ciaikovski…).

Per questi motivi i dizionari digitali che permettono di ascoltare la pronuncia delle parole, come il Devoto Oli, nel caso dei forestierismi riportano una doppia dizione, all’italiana e nella lingua originale (più o meno). Per esempio, anche se l’inglese si mangia la “g” finale delle parole in –ing, nel loro riversarsi nella nostra lingua è perfettamente lecito farla sentire (per la cronaca: dalla A di advertising alla Z di zapping, le parole in -ing nel Devoto Oli sono circa 400, giusto per ricordare l’entità degli anglicismi).

Non tutti i forestierismi, però, presentano questi problemi che li rendono “corpi estranei” rispetto alle regole grafo-fonologiche, e quando sono compatibili con il sistema linguistico che li riceve non c’è da stupirsi che passino a volte inosservati e vengano pronunciati come fossero parole autoctone. Per esempio la voce finnica “sauna” in italiano o in spagnolo non “buca” l’identità linguistica, e infatti è stata assimilata senza problemi (al plurale da noi fa saune ed è a tutti gli effetti italianizzata) e si pronuncia casualmente quasi identica alla lingua di origine, mentre un francese dice “sonà”, secondo le proprie regole. Lo stesso è avvenuto per l’inglese “drone”, che diciamo con la “e”, decliniamo nel numero (i droni) e che i francesi pronunciano “dron” non per emulazione dell’inglese, ma secondo le loro usanze.

Ci sono poi forestierismi di lunga data che ci sono pervenuti per via scritta, e che abbiamo sempre detto, e diciamo anche oggi, all’italiana, per esempio tunnel e recital, in inglese più o meno “tànel” e “risàitl”. Credo che questi adattamenti siano “sani” e non li posso affatto considerare un “imbastardimento” che snatura i tratti identitari della lingua di origine. In passato si pronunciavano all’italiana anche altre parole che eravamo soliti leggere, invece che ascoltare, per esempio club, cult, puzzle, chewingum o jumbo. Gian Luigi Beccaria ha notato a questo proposito che quando era solo il nome di un grande elefante ottocentesco del circo Barnum, Jumbo si pronunciava con la “u” (come Dumbo, a proposito di elefanti), ma quando è arrivato l’aereo in epoca televisiva si è cominciato a pronunciare “giambo” (Italiano. Antico e nuovo, Garzanti, 1988, p. 243). Se, nel 1933, Paolo Monelli etichettava puzzle un termine “di brutto suono così come è pronunciato generalmente da noi” (Barbaro dominio, Hoepli, 1933, p. 354), e se negli anni Settanta i bambini cantavano che il buco della gomma della macchina del capo si riparava con il “ceving gum”, oggi scandire queste parole all’italiana genera ilarità e scandalo, e si rischia di essere additati come ignoranti o bestemmiatori del dio linguistico oggetto del nostro culto. Avevo già parlato di questo fenomeno in un articolo dal tono molto ironico a proposito di un libro di Elio (delle Storie tese) e Franco Losi in cui molti anglicismi sono scritti così come si pronunciano (Uaired, La nave di Teseo, 2018), concludendo provocatoriamente che forse pronunciarli o scriverli secondo le nostre regole sarebbe una buona strategia di adattamento e di reazione alla colonizzazione lessicale che sta cambiando il volto dell’italiano. Naturalmente il tono era scherzoso, e mi ha colpito che questa mia trovata sia stata ripresa da Francesca Rosati in un articolo sulla Treccani intitolato: “Vogliamo davvero impoverire l’italiano (e imbastardire l’inglese)?”:

“Non sono d’accordo con chi, forse in maniera solo provocatoria, propone sia di scrivere gli anglicismi così come si leggono sia di pronunciarli all’italiana (Zoppetti, 2019), perché i tratti identitari di ognuna delle due lingue vanno salvaguardati così come va salvaguardato e distinto il loro ruolo all’interno della comunità.”

Nel tornare sull’argomento sarò più serio e più chiaro, questa volta: davanti allo “tsunami anglicus” che ci sta travolgendo (per dirla con Tullio De Mauro), non mi pare che il problema sia quello di preoccuparsi della “purezza” dell’inglese, sono molto più preoccupato dell’imbastardimento dell’italiano, e considero l’adattamento, insieme alla traduzione e alle neologie, l’unica via di sopravvivenza sana della nostra lingua. L’interferenza linguistica nasce dall’incontro tra due lingue e culture, e non è un processo unidirezionale: è evidente che la pressione esterna sia bilanciata da quella interna che produce equilibri e adattamenti che coinvolgono anche la pronuncia, oltre al significato, dei forestierismi. Se invece una lingua dominante si impone e schiaccia fino a soffocare la lingua più debole, più che di interferenza bisognerebbe parlare di colonialismo linguistico e di creolizzazione lessicale, un processo che va in un senso solo. Per questo trovo assurdo preoccuparsi di imbastardire la lingua che la globalizzazione e le multinazionali ci stanno imponendo e che noi adottiamo supinamente con orgoglio pensando di essere moderni e internazionali, invece che schiavi. Questa attenzione a non snaturare l’identità della lingua dominante che ci opprime, oltretutto, è un’anomalia tutta italiana, non si registra negli altri Paesi, né si può riscontrare in quelli anglofoni nel caso sempre più sporadico degli italianismi.

 

Siamo solo noi!

I nostri vicini, meno malati dell’albertosordità di un Americano a Roma che oggi affligge la nostra classe dirigente (dai giornalisti agli intellettuali), sono più attenti e consapevoli del rispetto del proprio patrimonio linguistico, e l’imbastardimento dell’inglese globale non rientra certo tra le loro preoccupazioni. I francesi non si vergognano di pronunciare secondo la propria indole linguistica “futbòl”, “campìng” e “uifì” al posto del wi-fi che diciamo noi. Come mi ha fatto notare il musicologo Claudio Capriolo, chiamano il Faust “il Foss”, che non interpreto come un imbastardimento della lingua tedesca, e ricordo che un tempo circolavano italianizzazioni come Fausto, e che tra le variazioni sul tema si può citare l’opera di Marlowe The Tragical History of Doctor Faustus. Ma tornando alle pronunce autoctone degli anglicismi, gli spagnoli non sono da meno, e anche loro dicono “futbòl” e “uìfì”, con la differenza che questi termini sono usati molto raramente perché, come in Francia, si usa la propria lingua per la maggior parte delle parole che da noi sono spacciate come “prestiti di necessità”, termini “insostituibili” o “internazionali” (vedi anche → Italiano, francese e spagnolo di fronte agli anglicismi).

Vale la pena di rimarcare, inoltre, che mentre da noi sempre più spesso si sente dire con ostentazione “USA” all’americana, chi parla in inglese se ne fotte di imbastardire l’italiano e lo pronuncia a modo suo. Recentemente è emerso in modo chiaro, dopo un cinguettio di Trump, che il nome del nostro presidente del Consiglio Conte è pronunciato normalmente “Giuseppi”. E non c’è da stupirsi. Lo scrittore Stefano Jossa, che insegna a Londra, mi ha spiegato che viene chiamato in modo naturale “Giossa” dai suoi studenti, che non si preoccupano certo di usare la “i lunga”. E forse, chissà, così lo ricorderanno anche i nostri posteri, perché pare che ormai nelle scuole elementari italiane la “J” sia chiamata “jay”, come se la pronuncia inglese fosse la sola possibile, con un calcio a secoli della nostra storia, e all’uso come vocale che per ora continua in italiano (Jacopo) e nelle altre lingue dove si pronuncia “i” (Jung, Jugoslavija, trojka…).

Dovremmo maggiormente riflettere sulla nostra idiozia, invece di fare gli “anglopuristi”. Se un tempo era normale adattare anche i nomi propri (Londra e Tamigi, Parigi e Senna, Francesco Bacone e Tommaso Moro), oggi non lo si fa più nemmeno per l’Uomo ragno, che come è noto hanno ucciso, ma si sa benissimo chi è stato, visto che è rimasto solo Spiderman. Davanti a queste mie provocatorie considerazioni sul reato di italianizzare i nomi inglesi, di sicuro c’è chi è pronto a gridare all’oscurantismo e al fascismo, ma al contrario è solo un appello alla Resistenza davanti alla dittatura dell’inglese. Curiosamente, gli anglomani collaborazionisti del regime della lingua della globalizzazione, che opprime e soffoca le minoranze linguistiche di mezzo mondo, sono pronti a difendere la “necessità” di una terminologia angloamericana soprattutto nei settori in cui si è affermata come vincente, per esempio l’informatica, il marketing, il lavoro, l’economia, la scienza… però non hanno nulla da eccepire quando utilizziamo le espressioni inglesi anche per esprimere le nostre eccellenze: dall’italian design al made in Italy. Comunque vada si deve sempre usare l’inglese, a quanto pare. E infatti, chi è pronto a tuonare contro l’italianizzazione dei nomi propri, per esempio Nuova York invece di New York, non ha niente da dire sul fatto che nelle mappe geografiche americane si legga Italy, Milan, Florence o Rome. Anzi, sono forse gli stessi che preferiscono usare la toponomastica inglese anche sul fronte interno, per essere internazionali, come i geni che hanno tentato, fallendo miseramente, di sostituire il motto SPQR del comune di Roma con Rome and you, o quelli che hanno invitato il presidente della Crusca Claudio Marazzini al Tuscany Award presso l’hotel Four Seasons di Firenze.

Questa nuova idea di pronunciare in inglese i nomi italiani, propri o comuni, la dice lunga. Gabriele Valle citava con un certo stupore il caso di mascara:

“Un sostantivo italiano mutuato dall’Inghilterra e poi tornato in Italia: màscara, variante di màschera. Pronunciamo all’inglese un nome italiano!

Per toglierci dall’imbarazzo forse basta dire “rimmel”, perlomeno è un marchio registrato nel Regno Unito; ma gli esempi di parole italiane che sono diventate inglesi e che così pronunciamo sono tante, a cominciare da “design” che deriva da disegno, passando per “sketch” che è l’adattamento di schizzo, per finire con le “comedy” e “situation comedy” dei palinsesti televisivi, uno sfegio alla “Comedia” di Dante, o con le “graphic novel”, composte da “novel” che entra in inglese dalle novelle di Bocaccio, un genere che in francese si chiama roman graphique e in spagnolo novela gráfica. Ma noi preferiamo imbastardire l’italiano pur di mantenere la “purezza” dell’inglese. Anzi, conviene essere precisi: il dio intoccabile non è l’inglese, ma l’angloamericano. È infatti la lingua dei mercati, che avrebbe inorridito Shakespeare, a dettar legge e a essere idolatrata. Mentre si sente sempre più spesso dire “fen” all’americana, invece di “fan”, ripetiamo “privacy” come negli Stati uniti, e non certo “prìvasi” come a Londra. Se qualcuno si domandasse se francesi e spagnoli la pronuncino all’inglese o all’americana, la risposta è che molto semplicemente non usano questa parola, in Francia c’è la loi sur la vie privée, e in Spagna si parla di privacidad. Gli altri  mica son deficienti (da deficere), e in teoria non lo saremmo neanche noi: non ci manca la parola “privatezza”, solo che non la usiamo (come notava Umberto Eco).

La Waterloo linguistica e l’anglicizzazione dei forestierismi

Bisogna dire la verità. Molti sacerdoti dell’anglopurismo che sono pronti a scagliarsi con la stessa veemenza con cui si condannano i congiuntivi sbagliati anche con chi altera, adatta o traduce l’inglese, spesso se ne fregano dell’imbastardimento dell’italiano, ma anche delle altre lingue. Sempre Gabriele Valle (all’anagrafe Gabriel, a proposito di orgogliose italianizzazioni dei nomi propri) osserva che chi deve pronunciare nomi spagnoli come:

“Daniel, Manuel, Gabriel, Rafael, molto sovente ne ritrae l’accento e pronuncia, sul modello dell’inglese, Dàniel, e così via. Si ignora che, in area latina, quei nomi ebraici sono tutti tronchi, portano cioè l’accento sull’ultima sillaba.” E che dire dei toponimi che nella loro lingua “hanno l’accento sull’ultima sillaba: Iran, Iraq, Beirut, Afganistan, Pakistan, Ecuador, El Salvador” di cui in televisione molto spesso si travisa la pronuncia nell’indifferenza generale?

E l’accento di “Istambul” che dovrebbe essere Istànbul? Perché parliamo di premio “Nòbel” invece di Nobèl come si dovrebbe dire in svedese? E “sòviet” invece del più corretto sovièt?

È evidente che si usano due pesi e due misure: la fanatica inviolabilità dell’inglese non corrisponde a un’analoga attenzione per le altre lingue dei popoli inferiori. Ma c’è ancora di peggio. Stiamo assistendo all’americanizzazione persino della dizione delle parole straniere che non si pronunciano né all’italiana né nella lingua di origine! È sempre più diffusa “l’assurdità (…) di un italiano che non conoscendo l’origine di una parola la pronuncia all’inglese”, nota Claudio Capriolo. E la commentatrice Gretel, esperta di lingua tedesca che viene comunemente redarguita come se sbagliasse quando pronuncia “Porsche” con la “e” finale, aggiunge: riprodurre i forestierismi “nella propria parlata non lo trovo assurdo, anche se non corretto, storpiarli in un’altra parlata è perverso. (…) Quando in televisione sento ‘Baddenbruk’ per i Buddenbrook di Thomas Mann rischio un ictus!”

La pronuncia di Waterloo che si sente molte volte in Italia è “uòterlo”, e mi pare l’emblema della nostra confusione mentale e del nostro sbando linguistico e culturale. Il suo significato per antonomasia è legato alla sconfitta di Napoleone, siamo dunque filonapoleonici nel considerarla una “disfatta” e non una vittoria di britannici, olandesi, tedeschi e belgi, ma solo nel significato, non certo da un punto di vista linguistico, altrimenti la diremmo alla francese. L’origine del nome è però neerlandese, e se qualcuno lo avesse letto “nirlandese” è malato di anglomania: è italiano e si pronuncia con la doppia “e” come è scritto, significa olandese. In questa lingua parlata anche nel nord del Belgio si pronuncia “vàaterloo”, ma poiché la località è poco a sud di Bruxelles esiste anche la pronuncia francese di “vaterlò” (con la “e” aperta), mentre gli inglesi la dicono secondo le proprie regole “uaterlù”. In sintesi: nessuno si pone il problema di “imbarbarirne” l’origine,  ogni popolazione la pronuncia secondo il proprio costume in modo naturale , tranne noi, che dovremmo dire “vàterlo” adeguando il suono alla nostra fonologia, ma il Devoto Oli riporta anche “uàterlo”, visto che ormai la lettera “w” non è più detta “v” come in walzer, Wagner e Walter… c’è solo l’inglese, nella nostra testa di colonizzati. E così una parola francese come stage diventa sempre più spesso “stèig” che in inglese è il palcoscenico, come il refrain diventa “rifrèin” invece di “refrèn”, e “wagon restaurant”, sempre francese, capita di sentirlo all’inglese sul modello di “home restaurant”, che fa “pendant” con “station wagon” in un mischione dove tutte le lingue si fondono con l’itanglese. Un colore come il blu, importato e adattato dal francese bleu, e pronunciato alla francese ancora agli inizi del Novecento, ritorna dall’inglese attraverso espressioni come “blue economy”o “blue chips” dove importiamo la grafia con la “e”, anche se la dizione è come in italiano, sul modello di “bluejeans” (jeans deriva da Genova, attraverso la pronuncia Gênes francese, e nella Wikipedia inglese è annoverato tra gli italianismi, che però loro adattano, anzi “imbastardiscono”, senza farsi problemi). Anche alcune parole latine che ci arrivano d’oltreoceano si dicono all’americana, per non imbastardire la lingua da cui ci piace essere dominati: i media diventano “midia”, e si sente sempre più spesso plus come “plas” e persino junior come “giunior”.

L’adattare tutto ciò che è straniero nella lingua dominante attraverso fenomeni di emulazione ridicoli era già accaduto quando era il francese a rappresentare il nostro modello di riferimento. Ma ci sono enormi differenze rispetto a quanto sta avvenendo oggi, e i due fenomeni non sono paragonabili per dimensioni, rapidità, modalità e penetrazione (vedi → Le profonde differenze tra l’interferenza di francese e inglese). Comunque, se un tempo si cantava la “casetta in Canadà” oggi c’è solo il Canada, il “festivàl” è diventato “fèstival”, il “cognàc” (dall’omonima cittadina francese) è affiancato da cògnac, e una parola ceca come “robòt”, un tempo francesizzata in modo assurdo in “robò” è oggi sempre più spesso inglesizzata in modo altrettanto improprio come “ròbot” (in altri termini si passa dal ceco alla cecità linguistica).

In questo processo, come notava Migliorini, di sicuro: “V’è stata una reazione al ritmo francese, che prima era preferito come quello della lingua forestiera più nota in Italia.” E così abbiamo cominciato a ritrarre gli accenti e a modellarci sull’inglese. Mi chiedo se ci sarà una reazione anche all’attuale anglomania, prima o poi, o se questa emulazione insensata, culturale prima che linguistica, non ci porterà a essere assimilati dalla cultura dominante come gli Etruschi davanti alla romanità. Comunque vada, voglio morire da partigiano e con le armi in pugno.

Grammatica, dubbi ortografici e “LO weekend”

“Diciamolo in italiano” non è solo un luogo di riflessione sull’anglicizzazione della nostra lingua e un’agguerrita lotta contro l’abuso dell’inglese. L’altra faccia della medaglia riguarda il come usare l’italiano. Per questo, un anno fa, queso sito è stato affiancato dal Dizionario AAA delle Alternative Agli Anglicismi.

titolo per menu con graffetteNell’entrare nel terzo anno di vita ho aggiunto un altro pezzo al mio progetto per la promozione della nostra lingua. Si chiama “L’italiano corretto” e non è solo una grammatica tradizionale (con un indice analitico di oltre 400 voci). Raccoglie molti dubbi sull’italiano scritto (“gli” può essere utilizzato anche per il plurale al posto di “loro?”, perché si dice “sopra di noi”, ma “sopra il tavolo”?) e parlato (i dubbi di pronuncia e gli elementi base della dizione), sfata alcune leggende grammaticali (come quelle per cui non sarebbe possibile iniziare un frase con “che” o con “ma”), si sofferma su alcune delle questioni più aperte della lingua del nuovo Millennio (la diatriba su “se stesso” o “sé stesso”, la femminilizzazione delle cariche e il sessismo della lingua), e va oltre la grammatica raccogliendo le principali norme editoriali che riguardano la scrittura professionale (l’uso corretto delle d eufoniche, qual è il modo più corretto di scrivere le sigle tra maiuscole e puntini? Quando si usa il corsivo?).

italiano corretto 200
Ringrazio anticipatamente tutti coloro che ne diffonderanno l’esistenza e ne aiuteranno la circolazione.
La speranza è che, come gli altri siti del circuito, questo lavoro possa essere un sostegno concreto e gratuito per tanti.

 

Inevitabilmente, alcune questioni della grammatica si intrecciano anche con il tema degli anglicismi. Per esempio l’uso dell’articolo il davanti alle parole inglesi che cominciano con “w”, uno strano fenomeno che rappresenta una violazione delle regole dell’italiano.

 

Perché diciamo “LO uomo” ma IL “work in progress”?

Le regole che normano l’uso degli articoli riguardano la pronuncia delle parole, più che la loro grafia. E infatti l’uso dell’apostrofo è consentito davanti alla lettera “h”, che è muta (l’hangar e l’html), o davanti a espressioni come l’8 marzo (come se iniziasse per “o”) o l’Fbi (la pronuncia attuale è “effebiài”, anche se nei vecchi film si pronunciava all’italiana: ”effebi-ì”).
Nelle grammatiche storiche e moderne, davanti a vocale è prescritto l’uso dell’articolo “lo”, e non certo “il”, ma anche se i libri di testo scolastici perlopiù tacciono sulla questione, questa regola va invece riscritta prendendo nota di un’eccezione: davanti alle parole inglesi che cominciano per “w” si usa ormai l’articolo il. Al posto del più corretto “l’whisky” e “gli whisky”, diciamo il e i whisky. Questo affermarsi di un uso grammaticalmente scorretto è diventato la norma, con il curioso risultato che diciamo l’uovo e gli uomini, ma il work in progress o i walkie-talkie, anche se hanno lo stesso suono.

Ho provato a interrogarmi sul perché di questa stranezza e di questa violazione delle norme storiche, e la premessa è che nella nostra lingua i suoni in “u” seguiti da vocale a inizio parola sono davvero esigui. Tra le poche voci registrate dai dizionari c’è “uigùro” =  “relativo o appartenente alla popolazione degli Uiguri” (Devoto Oli) che come da vocabolario richiede l’articolo “gli”, al contrario dei weekend. Oppure c’è “ué”, un’interiezione che se dovessimo articolare prevedrebbe lo e non certo “il ué”.

A dire il vero anche le parole maschili che iniziano con doppia vocale sono molto rare, ma negli altri casi non si registrano violazioni: a parte la questione dell’apostrofo, diciamo lo aiutante esattamente come lo aikido, oppure lo oitanico (relativo alla lingua d’oil) come lo oui francese, lo iettatore e gli uadi (le formazioni geologiche a reticolo caratteristiche di alcuni deserti che sono le tracce dei letti di antichi fiumi).

La stessa anomalia fonetica si ritrova nelle parole che cominciano con “sw“, dove la “w” è percepita come consonante e non come vocale, dunque si dice lo swing ma il suino, lo swap ma il suocero, anche se il fonema è lo stesso (le regole prevedono lo davanti a s impura, cioè seguita consonante: lo specchio).

Mi pare che la ragione dell’anomalia dell’articolazione della ”w” inglese parta dalla bassissima frequenza di questi suoni,  ma vada ricercata nella curiosa storia della “w”, l’unica delle cosiddette lettere straniere a essere veramente tale, visto che le altre erano presenti nell’italiano storico, o nel greco e nel latino, e che la “j” (stupidamente chiamata “jay” persino nelle lezioni dei maestri delle elementari) era utilizzata normalmente ancora nell’Ottocento (majale, principj, personaggj, jella) per indicare appunto la “i lunga”, come si chiama e si pronuncia in italiano (Jacopo, Jolanda, junior, ex Jugoslavia).


La storia della lettera “w”

WLa “W”, come abbreviazione con il significato di viva, risale almeno all’Ottocento; apparve nel Risorgimento sui muri di varie città del nord, per esempio nelle scritte “W Pio IX” o “W Verdi”, e dietro l’omaggio al celebre compositore si dice celasse l’acronimo patriottico anti-austriaco di viva Vittorio Emanuele Re D’Italia. Ma a parte questo uso, le parole con la “w” ci arrivavano non dall’inglese, ma dal tedesco (nei Promessi sposi la “w” ricorre solo nel nome del tedesco Wallenstein) e le abbiamo per questo sempre pronunciate “v”: wagneriano, walzer, il giovane Werther
Bisogna anche tenere presente che fino all’Ottocento l’inglese è rimasto una lingua a noi completamente estranea e sconosciuta, tanto che persino le traduzioni dei romanzi venivano fatte non in modo diretto, ma di seconda mano dalle traduzioni francesi, e una città come New York, in passato, in italiano era più semplicemente Nuova York.

Le prime parole inglesi con questa lettera ci sono arrivate soprattutto per via scritta, e le abbiano dunque sempre pronunciate “v”, come eravamo soliti fare e come ancora facciamo per esempio nel caso dei nomi Walter e Wanda, oppure di watt (1895), wafer (1905) e water (closet), tutt’ora pronunciati all’italiana, con la “v”, come del resto i derivati wattometro e wattora che perciò richiedono giustamente l’articolo “il”.
Anche whisky (1829) o Waterloo in passato si pronunciavano con la “v” (il Devoto Oli riporta ancora oggi la pronuncia all’italiana di “vaterlo”), ma quando le stesse parole hanno cominciato a essere dette all’inglese soprattutto per l’influsso del cinematografo (per via orale), si erano già affermate nell’uso scritto con l’articolazione basata sulla vecchia pronuncia.

La prova di questo assestamento si può rintracciare nel fatto che quando è emerso il problema si sono registrate delle oscillazioni per esempio tra l’whisky e il whisky, e negli anni Sessanta alcuni linguisti come Tagliavini consigliavano la prima forma. Ancora oggi si ritrovano tracce di espressioni come “gli western” che cercando su Google libri sono molto diffuse anche nei libri odierni (negli western, degli western…), accanto a i western. Ma ormai questi tentativi di conservare le nostre regole sono sempre più rari e l’eccezione è entrata nell’uso.

Si può allora ipotizzare che la causa della violazione delle nostre norme sull’articolo (agevolata dalla bassa frequenza delle analoghe parole italiane) sia da rintracciare in questo passaggio per istintiva coerenza con ciò che si era già stabilizzato e per successiva imitazione. La “w” è rimasta percepita come consonante anche quando ha finito per essere pronunciata come vocale, e così, mentre continuiamo a dire il “water” alla vecchia maniera, una forma storica che rimane anche in WC (ma che è saltata nel caso di waterpolo), tutte le nuove parole importate dall’inglese sono invece entrate con la pronuncia “u”, ma mantenendo la vecchia articolazione: il welfare, il windsurf, il web, il wi-fi, il wireless e così via per tutte le altre parole inglesi.


NB
: Wikipedia, però, deriva da una radice hawaiana (“wiki” = veloce) dove la lettera “w” si legge “v”, dunque la pronuncia rispettosa dell’etimo dovrebbe essere “vichipedìa” e non all’inglese “uikipìdia”.

Le parole straniere nell’italiano

Le lingue vive evolvono, ed è un bene che lo facciano perché devono riuscire a esprimere i cambiamenti del mondo. Naturalmente si arricchiscono non soltanto creando propri neologismi (via endogena), ma anche per via esogena, cioè attingendo dalle lingue straniere. Il fenomeno dell’interferenza linguistica è assolutamente normale e anche la lingua di Dante era ricca di voci di derivazione provenzale, ebraica, araba e di altre provenienze ancora. Queste parole, tuttavia, non erano crude, ma adattate ai nostri suoni: italianizzate.

In passato, tutti i più aperti e convinti sostenitori dell’importanza di attingere parole straniere – che si scagliarono contro il purismo ostile ai “barbarismi” e ai neologismi – vedevano proprio nell’adattamento e nell’italianizzazione un arricchimento (da Machiavelli sino a Leopardi). Senza questo processo la nostra lingua si sarebbe inevitabilmente “imbarbarita”, “intorbidita”, “imbastardita”.

L’italiano di oggi è sempre più policentrico e globale, e include anche molte parole non italianizzate di cui nessuno si scandalizza più.

Ma quante sono le parole straniere? E di che tipo? Da quali lingue provengono maggiormente? Qual è, complessivamente, il peso dell’interferenza delle altre lingue sulla nostra?

la torre di babele edoardo bennato

Lo studio dei dizionari mostra che le parole non adattate che abbiamo accolto sono tante, ma per ogni lingua ce ne sono poche manciate, come nel caso di quelle russe (per esempio glasnost, perestrojka, soviet, sputnik, tovarisc, troika, vodka, zar) o cinesi (ginseng, kung fu, tao, wok, wonton, yin e yang). Negli ultimi anni sono aumentate in modo significativo le parole giapponesi, che vengono adattate solo di rado (emoji, hentai, hikikomori, karaoke, manga, sakè, sashimi, sushi), ma se le contiamo non arrivano a cento, e le possiamo tranquillamente “ammortizzare” senza snaturare per questo il nostro idioma.

Voci antiche e assimilate come archibugio o birra, invece, sono di derivazione germanica, ma la loro provenienza esogena è invisibile e nascosta nella loro storia etimologica. A queste se ne aggiungono altre più moderne e non adattate come bunker, speck o dobermann, ma ancora una volta sono un centinaio e non rappresentano certo un problema per l’integrità della nostra lingua.

Anche l’interferenza delle lingue che ci hanno plasmati dai tempi più remoti, come l’arabo o lo spagnolo, ci ha lasciato tantissime parole assimilate, e quelle crude non sono numericamente rilevanti. Persino il francese, che ci ha influenzati per secoli, ci ha lasciato migliaia di gallicismi perfettamente italiani (come rivoluzione, ghigliottina, blu o marrone), ma soltanto meno di 1.000 parole non adattate. Fino agli anni Settanta del secolo scorso era questa la lingua che ci aveva maggiormente influenzati. Ma oggi non è più così.

Nel giro di pochi decenni l’inglese è diventata la lingua dalla maggiore interferenza, con una rapidità e delle modalità che non hanno precedenti storici. Gli anglicismi non si adattano, e penetrano crudi in oltre il 70% dei casi, violando quasi sempre le nostre regole di pronuncia e di ortografia. Costituiscono ormai la metà dei neologismi del nuovo Millennio, dunque la nostra capacità di coniare parole nuove (l’evoluzione per via endogena) sembra venire meno, visto che si tende a utilizzare l’inglese.

E allora le lingue vive evolvono, certo, ma come sta evolvendo l’italiano?

Facendo un confronto tra le parole straniere presenti nei dizionari la sproporzione è evidente: tutte le lingue messe assieme, sommate, non raggiungono il numero degli anglicismi che abbiamo importato nell’ultimo mezzo secolo e che utilizziamo sempre più frequentemente.

In un articolo sul portale Treccani ho provato a ricostruire il numero delle parole che provengono dalle altre lingue, a distinguere quelle adattate da quelle crude, e a ragionare sulla sproporzione dell’inglese che con la sua invadenza e frequenza sta cambiando il volto del nostro lessico.

Per leggerlo: “I forestierismi nei dizionari: quanti sono e di che tipo”.

i forestierismi nei dizionari quanti sono e di che tipo (di antonio zoppetti)

La prolificità degli anglicismi nel lessico italiano

Nella sua evoluzione storica, l’italiano ha da sempre assorbito un gran numero di parole straniere, anche se nella maggior parte dei casi le ha completamente assimilate e italianizzate. Nei dizionari monovolume si trovano un centinaio di ispanismi, un centinaio di germanismi e un migliaio di francesismi, penetrati attraverso substrati plurisecolari. Le parole che arrivano da altre lingue sono invece di un ordine di grandezza inferiore, quantificabile nelle decine. Ma negli ultimi 70 anni il numero degli anglicismi crudi che abbiamo importato è diventato almeno il triplo di quello dei gallicismi, e questa lievitazione non è normale né sana, si tratta di un fenomeno molto preoccupante.

forestierismi adattati e non nel GRADIT
Le parole straniere adattate e non adattate nel Grande dizionario dell’italiano di Tullio De Mauro (Gradit 1999, fonte: Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 87).

Non è possibile sostenere che ciò che accade oggi con l’inglese sia già successo ai tempi in cui era il francese ad influenzarci (cfr. “Le profonde differenze tra l’interferenza di francese e inglese”), sta accadendo qualcosa di più profondo e di inedito sulle cui conseguenze dovremmo cominciare a riflettere con nuove prospettive.

Bastardi senza gloria: le parole ibride e l’effetto domino dell’inglese

Una caratteristica molto allarmante dell’interferenza dell’inglese nel nostro lessico è che gli anglicismi che continuano ad accumularsi sono così tanti che da “prestiti” isolati si sono trasformati in una rete di voci e radici tra loro interconesse che si espandono nel nostro lessico e si strutturano in famiglie di anno in anno più numerose. Questa moltiplicazione fa regredire le parole italiane, e ostacola la traduzione e l’evoluzione della nostra lingua. Ho già accennato a questo tema in più di un’occasione (cfr. “Anglicismi: dai singoli ‘prestiti’ a una rete di parole interconnesse che colonizza interi settori”), ma voglio concentrarmi su un “effetto collaterale” di questo fenomeno che sino a oggi è stato molto trascurato dagli studiosi.

I derivati ibridi che nascono dalle radici inglesi, cioè i semidattamenti come backuppare, bypassare, googlare, fashonista, hackeraggio, leaderistico, linkabile, shampista, targetizzazione, toasteria… sono in grande aumento, e benché il loro numero sia ancora contenuto, questo fenomeno non ha precedenti nell’interferenza del francese.

A questa moltiplicazione di voci che violano le nostre regole di grafia e di pronuncia, vanno poi aggiunti i composti ibridi (come clownterapia, libro-game, pornoshop, punkabbestia, webserie…) che sono molti di più.

E a questi bisogna aggiungere anche un numero ancora più ampio di ricombinazioni soltanto delle radici inglesi (baby sitterpet sitter, dog sitter, cat sitter; babybaby gang, baby killer, baby boss…).

L’effetto domino di tutti questi riaccostamenti è numericamente impressionante, e non si riscontra nell’interferenza delle altre lingue.

Poiché non ci sono molti studi in proposito, ho provato a svelare il meccanismo della prolificità degli anglicismi e a quantificare questi “bastardi senza gloria” in un articolo pubblicato sul sito dell’Enciclopedia Italiana Treccani di cui riporto l’incipit.

L’inglese nell’italiano: espansione per ibridazione

– Attento al camperone, doggialo!
– Droppagli gli shieldini!

da camper a camperone

Questo gergo adolescenziale è molto diffuso tra i giocatori di videogiochi in Rete, soprattutto nell’ambiente dello “sparatutto” attualmente più in voga, Fortnite. “Camperone” è un cecchino, nel gioco indicato con camper, a cui si applica istintivamente la regola dell’accrescitivo e si deriva anche “camperare”, cioè “campeggiare”, appostarsi in un luogo sicuro per sparare a chiunque passi davanti. “Doggiare” (o dodgiare) significa schivare (da to dodge), “droppagli” è un invito a impossessarsi di ciò che il nemico ha lasciato cadere (da to drop) e gli “shieldini” (da shield), detti anche “scudini”, sono pozioni che permettono di guarire dalle ferite e recuperare punti.
L’emergere di termini come questi travalica la categoria del “prestito linguistico”, nasce dalle declinazioni all’italiana (adattamenti morfologici) di radici inglesi che circolano nelle interfacce dei programmi. Dilagano anche “killare” (da to kill) e “le kill” (le uccisioni) che non si possono bollare semplicisticamente come “orribili favelle” gergali giovanili destinate a svanire, sono lo specchio di quello che accade in ogni livello della nostra lingua, da cui scaturiscono anche parole che si stabilizzano.

Il neologismo skippare nasce dal bottone su molti video in Rete (skip) per saltare una pubblicità, oggi sempre più tradotto, ma un tempo prevalentemente in inglese. Lo stesso percorso che ha generato downloadare (trasferire o scaricare), ormai registrato dai dizionari. Questi ibridismi, o “semiadattamenti”, non compaiono solo nell’informatica, si ritrovano nel lavoro (dai gergali skillato o brieffare ai più stabili customizzare o brandizzare), nello sport (dagli incipienti “baskettista” o “cornerista” ai datati waterpolista o dribblare), nella musica (jazzista, rockettaro) per poi finire nel linguaggio comune (shockare, zoomare). Sono parole che di solito non vengono conteggiate nelle statistiche sugli anglicismi e sfuggono alle estrazioni automatiche dei dizionari digitali…

Continua: leggi tutto l’articolo sul portale della Enciclopedia Treccani.

Buone notizie e qualche argine all’itanglese

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: il recuperare le parole storiche della nostra lingua – attingendo, perché no?, anche dal patrimonio dialettale – per donare loro nuovi significati moderni e attuali. Lo si può fare attraverso la ricombinazione inedita di radici italiane, invece che importare dall’inglese come unica strategia per descrivere le novità del contemporaneo.

Questo è uno dei temi su cui traduttori, linguisti, autori e intellettuali si sono confrontati nei giorni scorsi al Festival dell’italiano e delle lingue d’Italia di Siena, all’interno della manifestazione “Parole in cammino”. Ma il tema delle alternative e delle traduzioni italiane davanti all’inglese, nell’ultima settimana, è rimbalzato anche sulle pagine di tutti i giornali per esempio a proposito della sostituzione di doggy bag con rimpiattino, o di revenge porn con pornovendetta avvalorato dal Gruppo incipit dell’Accademia della Crusca.


Rimpiattino, il doggy bag italiano

La notizia della creazione del neologismo è dell’anno scorso, a dire il vero, ma è rimbalzata sul Corriere di qualche giorno fa perché nella capitale il rimpiattino è diventato un fatto.

Tutto è nato da un concorso della Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) che insieme a Comieco aveva lanciato un’iniziativa contro lo spreco alimentare nei bar e ristoranti. Davanti a una parola mancante, in italiano, per designare il doggy bag, le associazioni hanno indetto una gara tra i ristoratori per trovare una soluzione creativa. L’alternativa vincente è stata quella del Duke’s Bar&Restaurant di Lorenzo Farina di Roma che (nonostante il nome anglicizzatissimo) ha proposto un meraviglioso “rimpiattino” che si appoggia a piatto e ammicca al neologismo impiattare, ormai in voga, in uso e accettabile anche secondo la Crusca: “Si tratta di una formazione corretta e analoga, come abbiamo detto, a molte altre dell’italiano; la diffusione piuttosto ampia e l’accoglimento nei dizionari più recenti confermano inoltre la sua crescente vitalità”.

rimpiattino

Ma poiché il problema non è quello di inventare una parola, bensì di riuscire a diffonderla, la novità è che il rimpiattino non è più solo un nome: è una realtà, un oggetto concreto (e molto bello) che è stato messo in produzione, è disponibile nei locali, e si chiama così, come scritto chiaramente sulla confezione. Un cliente può quindi domandare un rimpiattino, per portarsi via ciò che non ha consumato, senza ricorrere all’inglese doggy bag, senza usare parole più ampie (iperonimi) come busta, confezione o sacchetto e senza ricorrere a perifrasi e giri di parole.

E questa è la prima buona nuova.

 


Traduzioni creative. Fra lingua e dialetto

Al convegno “Traduzione creative. Tra lingua e dialetto” che si è tenuto nella cornice mozzafiato della Biblioteca degli Intronati di Siena (7 aprile 2019) si è discusso anche di un altro concorso: “Parole in cammino”, ideato da Massimo Arcangeli, che invita tutti a proporre nuove traduzioni “creative”, invece che “funzionali”, per le “parole mancanti” (come le chiama la traduttrice Simona Mambrini), attingendo anche dal patrimonio dei nostri dialetti.

siena 7 aprile 2019 parole in cammino
Un’immagine dalla Biblioteca degli Intronati, durante l’intervento che ho fatto insieme a Fabio Pedone e Simona Mambrini.

A proposito degli “intraducibili”, la traduttrice Ilide Carmignani ha distinto acutamente le parole che non si riescono a fare corrispondere perché sottintendono “universi concettuali” differenti tra due lingue, da quelle che non hanno corrispondenti, e Simona Mambrini ha ricordato che di fatto tutto è traducibile, il punto sta semmai nel farlo con una parola sola, ma quando non si riesce si può sempre ricorrere a spiegazioni e perifrasi. La traduzione è perciò anche l’arte di riuscire a creare neologismi, coniazioni e riconiazioni efficaci e, per dirla con Fabio Pedone, valentissimo traduttore di Joyce, il processo di “invenzione” dei neologismi non solo si appoggia al patrimonio linguistico storico, ma spesso è una “reinvenzione” delle parole che allarga i significati precedenti. Quando D’Annnunzio ha utilizzato “velivolo” per indicare l’aeroplano ha operato un’invenzione e allo stesso tempo una reinvenzione: precedentemente la parola indicava le navi leggere che si muovevano con le vele (su i legni velivoli le molte robe imponemmo, Pindemonte), ma dopo la nascita dell’aeroplano è diventata una “macchina volante”. Il gioco del tradurre è molto affine a questo reinventare, secondo Pedone: i traducenti creativi partono spesso da radici e concetti preesistenti, e il bello è che producono risultati imprevisti e imprevedibili, in un gioco di rimbalzi per cui i traducenti proposti con certi significati vanno oltre gli intenti di chi li ha pensati, e producono risemantizzazioni inaspettate che a loro volta possono portare a ulteriori neoconiazioni.

Nel concorso “Parole in cammino”  sono proposte due tipologie di parole straniere da tradurre:
♦ quelle che coinvolgono per esempio la traduzione di testi letterari, che riguardano tutte le lingue e si scontrano con il problema delle “parole mancanti” e dei differenti “universi concettuali”;
♦ e poi gli anglicismi che circolano senza alternative nella lingua italiana, oppure di cui esisterebbero i traducenti, anche se non sono in uso o suonano meno evocativi.

Nel primo elenco c’è per esempio lo spagnolo ensimismarse. Come si potrebbe rendere in italiano? Deriva da “en sí mismo” cioè “in sé stesso” e vuol dire astrarsi, immergersi nei propri pensieri, e in certi contesti, mi aveva suggerito Gabriele Valle, è possibile renderlo con l’italiano raccogliersi.
In altri contesti letterari non è invece così semplice rendere la valenza spagnola di “estoy ensimismado”, e Simona Mambrini ha ricordato che esiste una coniazione di Dante che è molto efficace e che si potrebbe forse recuperare e riproporre: il verbo immiarsi (o inmiarsi) che deriva da mio/me, col prefisso in (Già non attendere’ io tua dimanda, / s’io m’intuassi, come tu t’inmii, Par. IX, 80-81).

Questi tentativi di trovare parole italiane in uso (dialetti compresi), o di recuperare parole del passato con nuove valenze e allargamento di significato, sono molto utili anche per il secondo elenco in concorso, gli anglicismi. Purtroppo, sempre più spesso i neologismi della nostra lingua tendono a coincidere con parole inglesi non adattate, e per vari motivi l’italiano fatica a creare parole nuove autoctone per esprimere la modernità. Naturalmente non c’è nulla di sbagliato o di pericoloso nell’importare le parole straniere; per citare le parole di Antonella Cavallo, i forestierismi possono essere una ricchezza, ma non bisogna dimenticare che possono anche rappresentare un impoverimento, dipende dai casi, dai contesti e, mi permetto di aggiungere, dal ricorso all’inglese in modo eccessivo o esclusivo.

E allora, tornando al concorso, come tradurre per esempio una parola come doodle?
Dire che è un prestito di necessità è troppo facile, dire che è intraducibile è sciocco, sarebbe più corretto ammettere “l’impotenza del traduttore” o la “pigrizia” che è alla base del successo degli anglicismi, come ha ricordato Leonardo Luccone in un intervento al Festival.
Doodle letteralmente è uno scarabocchio, ma attraverso Google è divenuto il sinonimo della variazione del logotipo quasi in un esercizio di stile grafico. Davanti a questo apparente “intraducibile”, la soluzione più bella è arrivata da Andrea Cortellessa che ha proposto di recuperare girigogolo (giro + arzigogolo) che non solo è una parola esistente (utilizzata da Manzoni o da Aldo Palazzeschi: Lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizzi stampato in Scherzi di gioventù, 1956) e registrata dai dizionari, ma che trovo geniale perché contiene l’assonanza gogolo-google.

Per fare un altro esempio fuori concorso, davanti a una parola come hangover, che indica i postumi di una sbronza, invece di dire che è “intraducibile” in una parola potremmo attingere all’esempio dello spagnolo che utilizza “resaca” e dire risacca, come suggerisce Ilide Carmignani, una metafora suggestiva per passare dal ritorno del moto ondoso ai ritorni di altra natura… Ma oltre a guardare alle lingue a noi più vicine e affini dell’inglese, non dobbiamo dimenticare che a volte la soluzione va ricercata dentro di noi, anche se forse stiamo perdendo le nostre radici, al punto che non ci ricordiamo più che esiste la parola spranghetta, che si trova nei Promessi sposi (Cap. XV: “E, tra la sorpresa,e il non esser desto bene, e la spranghetta di quel vino che sapete, rimase un momento come incantato”), nelle poesie di Francesco Redi (Quando il Vino è gentilissimo, Digerìscesi prestissimo, E per lui mai non molesta La spranghetta nella testa), e sui dizionari. È vero che lo Zingarelli la definisce “in disuso”, però ho notato che circola anche in alcuni libri del nuovo Millennio (per es. nella traduzione di N. Rainò di: Leena Lehtolainen, Il mio primo omicidio, Fanucci 2010, in quella di Bruno Just Lazzari di: Frédéric Dard, Facce da funerale, e/o editore 2015, e in altre taduzioni oltre che in Andrea De Benedetti, Carlo Pestelli, ¡La lingua feliz! Curiosità, bizzarrie e segreti: tutto quello che avreste voluto sapere sulla lingua spagnola, Utet 2018).

E allora perché non recuperarla?
Rimane il problema che forse spranghetta non è comprensibile a tutti, ma anche hangover è comprensibile solo a una parte della popolazione italiana, benché (come tutti gli anglicismi) ricorra spesso sui giornali. Insomma, la traduzione implica sempre una scelta, ma anche davanti ai significati opachi dovemmo uscire dal circolo vizioso di dirlo solo in inglese: se non recuperiamo con orgoglio le nostre parole e non ce ne riappropriamo non entreranno mai in uso e rimarranno sempre più oscure e obsolete.

E questa è la seconda buona notizia: attraverso “Parole in cammino” la questione dei traducenti creativi è stata portata alla luce in modo divulgativo, con una gara che continuerà in altri festival e culminerà a maggio con la premiazione delle migliori soluzioni al festival “ANTICOntemporaneo” a Cassino e a Montecassino (le proposte vanno inviate a questo indirizzo: inpuntadilingua@gmail.com). E il gioco è rivolto a tutti, non solo ai traduttori e agli addetti ai lavori. Questa è la cosa importante, può partecipare la gente, si possono inviare soluzioni popolari e dialettali, perché il linguaggio è troppo importante per lasciare che se ne occupino solo i professori di glottologia, per citare Ferdinand de Saussure, ma anche per citare Stefano Jossa, che dal Festival di Siena ha rivendicato con orgoglio che bisogna smettere di ritenere che solo i linguisti possano scrivere della lingua o che solo i critici letterari si possano occupare di letteratura, perché il futuro (e anche il presente) è fatto di interdisciplinarità, e la lingua è anche “corruzione” (senza accezioni negative), cioè contaminazione, scambio e circolazione di parole anche dalle altre lingue. Personalmente approvo il suo inno alla pluralità, anche se constato con amarezza che proprio l’inglese, a mio avviso, sta uccidendo il pluralismo attraverso un predominio economico, culturale e linguistico che sfiora il colonialismo.


Pornovendetta e revenge porn

Davanti all’eccesso dell’inglese, la terza buona notizia, sul fronte culturale e mediatico, riguarda il nuovo comunicato del Gruppo incipit dell’Accademia della Crusca che il 4 aprile 2019 ha finalmente preso posizione su revenge porn sancendo l’alternativa pornovendetta, equivalente che avevo da tempo segnalato e incluso nel mio dizionario AAA delle Alternative Agli Anglicismi, visto che circola da qualche tempo, ma che adesso è avvalorato da chi ha più autorità di me ed è stato ripreso da tutta la stampa. E questo non può che favorire la libertà di scelta nel parlare, e contribuire a spezzare la stereotipia del monolinguismo basato sugli anglicismi.

Non so quanto i giornali utilizzeranno davvero l’italiano pornovendetta; passata l’ondata di articoli di questi giorni, è probabile che continueranno nella loro strategia di usare prevalentemente gli anglicismi. E infatti c’è anche chi ha subito criticato le posizioni della Crusca, per esempio un articolo apparso qualche giorno fa su il Post che ha il pregio di aggiungere un ulteriore traducente, “diffamazione pornografica” (avere a disposizione tanti sinonimi invece di una sola parola è una ricchezza), ma che taccia l’equivalente “pornovendetta” di non essere “corretto” con argomenti che trovo piuttosto deliranti. Porno-vendetta ricalca molto bene l’espressione inglese revenge porn con la giusta inversione dell’elemento specificato (determinante). Non mi pare invece troppo sensato proporre di eliminare la parola “vendetta” che implicherebbe una colpa oggettiva della vittima. Nel diffondere questo tipo di immagini private e intime, purtroppo, l’elemento della vendetta non è trascurabile nei fatti di cronaca: la vittima è umiliata e punita, “rea” magari di avere interrotto una relazione, con una pubblicazione di immagini che, una volta in Rete, diventa virale e sfugge a ogni controllo. Questo è l’aspetto più inquietante della “vendetta”: la replicabilità del digitale marchia come l’acido, e la vendetta porno, una volta messa in atto, diventa spesso impossibile da fermare producendo danni indelebili e potenzialmente inarginabili. Naturalmente, in caso di furto delle immagini ci possono essere altre motivazioni che più che alla vendetta appartengono al ricatto, alla diffamazione per fini politici come è accaduto per una politica del movimento Cinquestelle… ma dire che si tratta di un’espressione “impropria” in inglese e anche in italiano, è un approccio razionalistico che non tiene conto dell’uso che si è imposto così da tempo, in inglese e anche in italiano. Sarebbe un po’ come dire che è improprio dire velivolo perché l’aereo non ha le vele, ma per fortuna la lingua è metafora ed è fatta di rimbalzi imprevedibili, non segue certo la logica di chi vorrebbe inventarla a tavolino con schemini “simpLicistici”.