Cinema e anglicizzazione

La macchina dei sogni, il cinema, ha da sempre esercitato un fascino enorme sulle masse, e quello di Hollywood (da cui l’aggettivo hollywoodiano) ha contribuito sin dagli albori a portare in Italia parole inglesi come star (stella, divo), star system (il mondo del cinema), major (i colossi del cinema contrapposti alle minor, le piccole case di produzione specializzate in b-movie), cast (gli attori, da cui casting, cioè scritturazione, audizione, provini).
E poi gli oscar, i drive-in, le pellicole di cowboy, i western (ma spesso erano solo degli spaghetti western come i film di Sergio Leone), gli stuntman (cascatori o controfigure, acrobatiche se si vuole), i colossal, il flashback… i film!

cinema

Film è una parola ormai assimilata e quasi insostituibile che passa inosservata, ma si tratta di un anglicismo (anche se non viola le regole ortografiche e di pronuncia dell’italiano) che significa semplicemente pellicola. Inizialmente era infatti riportato al femminile, per analogia con pellicola:

“Domatore ferito da una tigre durante una ‘film’ cinematografica” si può leggere su un articolo de La Stampa del 1911, che poi precisa: “Al momento in cui la film aveva cominciato a svolgersi (…) la belva (…) si slanciò sul disgraziato domatore” (La Stampa, venerdì 17 febbraio 1911, p. 4).

E ancora nel 1926, sullo stesso giornale si legge: “‘Maciste all’inferno’ è una bella film d’arte” (La Stampa, giovedì 15 aprile 1926, p. 6), mentre bisogna aspettare i decenni tra il 1930 e il 1940 perché il maschile prenda il sopravvento.

Oggi accanto a film sta prendendo piede anche movie (questo sì un “corpo estraneo” che viola le regole dell’italiano nella grafia e nella pronuncia) che circola in moltissime locuzioni: dopo cult movie (film di culto), è arrivato l’home movie (il mercato domestico, detto anche home video), oltre a instant film si dice anche instant movie, e un film incentrato sul viaggio è un road movie.

 

I generi cinematografici in inglese

Nel Nuovo millennio l’anglicizzazione nel settore cinematografico ci sta veramente sfuggendo di mano.

Dopo alcune categorie storiche come musical o thriller, negli ultimi tempi i generi cinematografici sono sempre più in inglese. Un film d’azione è un action movie, il fantastico è fantasy, l’orrore horror, la fantascienza science fiction, lo spionaggio spy-story, un dramma è chiamato drama, una commedia nera black comedy e il mistero diventa mistery. Un film biografico è chiamato biopic, un film giudiziario legal, un poliziesco è una detective story, un film porno è detto anche blue movie.

Le parole italiane per i generi classici regrediscono di fronte all’avanzata dell’inglese, e nuovi generi si impongono direttamente senza quasi alternative italiane come pulp o splatter, mentre una pellicola pornografica che ritrae torture, omicidi a sfondo sessuale e altre nefandezze si chiama snuff movie, che suona innocente ed edulcorativo. In italiano manca una parola per indicarlo, e qualche linguistica ammuffito lo potrebbe chiamare un prestito di necessità, anche se forse non c’è assolutamente bisogno di creare una parola precisa per ogni cosa, soprattutto per quelle di cui non se ne sente l’esigenza.

In questo delirio di dare un nome alle cose in modo sempre più chirurgico, e spesso inutile, una parola come documentario sembra ormai obsoleta. Di che cosa si sta parlando? Un po’ di precisione, che diamine! Perché nel cinema dei sotto-sotto-generi un docufilm può essere un docudrama o una docufiction (visto il radicamento di fiction invece di finzione anche in tv, per indicare quelli che un tempo erano gli sceneggiati) in un moltiplicarsi di sottili differenze davvero impalpabili. In televisione passano i docu-reality (e non gli sceneggiati), mentre un mockumentary (mock = falso + documentary = documentario) fa più figo di pseudo-documentario (o documentario ucronico, distopico).

In questa follia, va detto che Hollywood ha da tempo spostato gli investimenti produttivi dal cinema alle serie (fino a quando non diremo tutti serial) e nel vuoto artistico e di idee le produzioni hollywoodiane non fanno altro che sfornare trasposizioni di fumetti dette live action (come spiderman, che una volta si chiamava uomo ragno), e rifacimenti chiamati remake. Ma remake è ancora troppo vago, bisogna essere più precisi per dare un nome (inglese) a tutto questo po’ po’ di grandi opere d’arte! Di quale rifacimento si parla? Un conto è rifare ogni dieci anni con effetti speciali sempre più spettacolari un film come King Kong, ma poi ci c’è il sequel, in italiano un seguito, continuazione o prosecuzione di un film di successo, che è importante distinguere da un prequel che non è altro che l’antefatto di una storia che viene ripresa, il come è cominciata. E poi c’è il newquel (ma è uno pseudoanglicismo) per indicare non proprio un rifacimento, ma una storia che si riallaccia a trame precedenti sviluppate in altri modi, senza essere una continuazione né un antefatto (che distinzione importante!), dunque una variazione sul tema, mentre il rilancio di un vecchio film che però prevede un cambiamento della trama (dunque una rivisitazione o una rielaborazione) si chiama reboot. Se invece la storia riprende e sviluppa le vicende o un personaggio preso in prestito da un altro film, cioè se è una costola, una ramificazione o un’opera figlia, derivata da un’altra trama è meglio chiamarlo spin-off (“Mork e Mindy era uno spin off di Happy Days: l’alieno Mork compare per la prima volta accanto a Fonzie in un episodio della quinta serie”).

Parole come location, che inizialmente designavano il luogo scelto per l’ambientazione di una ripresa cinematografica, quindi la scena, lo sfondo, l’ambientazione (scelta o ricostruita) hanno valicato l’ambito cinematografico per designare in modo più esteso un luogo qualsiasi, dunque un ambiente, un posto, una sede, un’ubicazione, una collocazione, una zona, un’area dove ambientare qualunque cosa, per es. la location di un ristorante = la posizione. Parole come nomination, dalla cerimonia degli oscar passano in televisione per indicare la nomina dei concorrenti da eliminare dei reality.

Eppure luogo e nomina sono parole italiane equivalenti e ben più corte degli anglicismi, giusto per ricordare a tutti quelli che vanno dicendo che preferiamo l’inglese perché è più sintetico che non è certo questa la ragione della sua preferenza. La verità è che ci piace di più, ci suona maggiormente evocativo e preciso. Nomination, location… quanto ci piacciono i suoni in “escion” come la Svalutation di Adriano Celentano.

E così un’anteprima è un trailer, un film da botteghino o un campione di incassi è un blockbuster, una locandina animata è un motion poster, ed esistono ben più di cento anglicismi comuni che circolano nel linguaggio cinematografico di base, dalla A di action movie alla Z di zombi.

 

I titoli non tradotti

Un altro fattore sfavorevole per la lingua italiana è la scelta del mercato cinematografico di non tradurre più i titoli dei film che circolano ormai solo in inglese, talvolta affiancati da una traduzione italiana che solo raramente precede il titolo originale, il più delle volte lo segue, sempre che ci sia.

Ed ecco l’imperialismo linguistico americano, l’altra faccia dell’impero economico delle multinazionali, che si impone alla faccia della comprensione e forse del gradimento degli spettatori.

“Vogliamo fare una scommessa? – scriveva Tullio Kezich già vent’anni fa – La settimana prossima mettetevi nell’atrio di un qualsiasi cinema dove proietteranno Out of Sight con George Clooney e chiedete alla gente in uscita che cosa vuol dire il titolo. Scommettiamo che la stragrande maggioranza degli interpellati dimostrerà di non saperlo e si rivelerà incapace di pronunciarlo?”

[Tullio Kezich, “Se ci invade l’italese”, Corriere della Sera, sabato 7 novembre 1998, p. 34].

 

Per quantificare questa tendenza ho provato a fare una ricerca sulle principali banche dati di cinema di tutte le pellicole che contenessero nel titolo la parola break, per sceglierne una tra le tante che si ricombinano in più di un derivato. Ho trovato così 35 film, usciti tra il 1935 e il 2011. Sino al 1976 (i primi 12 titoli) erano stati tutti tradotti. Poi, con il passare del tempo sempre meno: degli altri 23 ne sono stati tradotti solo 7; 12 sono rimasti inglese e 4 hanno mantenuto il doppio titolo, inglese e italiano. In 2 casi ci sono addirittura titoli in inglese per tradurre originali espressi in svedese e cinese!

Di seguito riporto una tabella tratta da Diciamolo in italiano (Hoepli 2017, p. 130-131) che mi pare significativa.

ANNO TITOLO ITALIANO TITOLO ORIGINALE REGIA/NAZIONALITÀ
1935 Quando si ama Break of hearts Philip Moeller, USA
1937 Pronto per due Breakfast for two Alfred Santell, USA
1938 Un colpo di vento Breaking the ice Edward Cline, USA
1938 Vogliamo la celebrità Break the News René Clair, UK
1950 Normandia Breakthrough Lewis Seiler, USA
1952 Il pugilatore di Sing Sing Breakdown Edmond Angelo, USA
1955 Interpol agente Z3 Break of the circle Val Guest, USA
1961 Colazione da Tiffany Breakfast at Tiffany’s Blake Edwards, USA
1975 10 secondi per fuggire Breakout Tom Gries, USA
1975 Io non credo a nessuno Breakheart pass Tom Gries, USA
1976 Al primo chiarore dell’alba Break of Day Ken Hannam, Australia
1976 Punto di rottura Breaking Point Bob Clark, Canada
1977 Breaker! Breaker! Breaker! Breaker! Don Hulette, USA
1979 All American Boys Breaking Away Peter Yates, USA
1979 Esecuzione di un eroe Breaker Morant Bruce Beresford, Australia
1980 Breaking Glass Breaking Glass Brian Gibson, USA
1984 Breakdance Breakin’ Joel Silberg, USA
1984 Breakin’ Electric Boogaloo Breakin’ 2: Electric Boogaloo Sam Firstenberg, USA
1984 Breakdance Test Breakdance Test Lech Kowalski, USA
1985 Breakfast Club The Breakfast Club John Hughes
1989 Ladro e gentiluomo Breaking In Bill Forsyth, USA
1991 Point Break – Punto di rottura Point Break Kathryn Bigelow, USA
1996 L’amore non è cieco Breaking Free David Mackay, USA
1996 Le onde del destino Breaking The Waves Lars von Trier, Danimarca
1996 Breakaway Breakaway Sean Dash, USA
1997 Breakdown – La trappola Breakdown Jonathan Mostow, USA
1997 Breaking up – Lasciarsi Breaking up Robert Greenwald, USA
1998 A tutto gas Breakout John Bradshaw, Canada
1999 La colazione dei campioni Breakfast of Champions Alan Rudolph, USA
1999 Breaking Out Vägen ut Daniel Lind Lagerlöf, Svezia
2004 Breaking News Daai Si Gin Johnnie To, Cina
2005 Breakfast on Pluto Breakfast on Pluto Neil Jordan, Irlanda
2006 Complicità e sospetti – Breaking and Entering Breaking and Entering Anthony Minghell, USA
2009 Breaking Upwards Breaking Upwards Daryl Wein, USA
2011 Succhiami Breaking Wind Craig Moss, USA

La comprensibilità o meno da parte della gente sembra passare in secondo piano. Evidentemente prevale la strategia del fascino dello straniero e l’importazione di una lingua da imporre ai consumatori a ogni costo, che lo gradiscano o meno, in una logica sempre più di mercato globale, perché nella comunicazione internazionale l’inglese non è semplicemente una serie di segni e di parole, ma soprattutto un simbolo culturale, e una strategia di espansione economica.

Cfr.: Jenny Cheshire e Lise-Marie Moser, “English as a Cultural Symbol: The Case of Advertisement in French-Speaking Switzerland” in Journal of Multilingual and Multcultural Development, Vol.15, 6.1994, pp. 451–469.

 

Dai titoli dei film alla lingua italiana

Queste strategie commerciali che rinunciano a tradurre i titoli dei film sono le stesse che nel mercato rinunciano a tradurre i nomi dei prodotti in vendita (dai cheeseburger agli skateboard) o che nell’informatica rinunciano a tradurre le interfacce (dai download agli snippet). E in questo modo dai titoli dei film alla lingua italiana il passo è breve. La contaminazione è facile e frequente.

Una delle più antiche è rappresentata da baby doll (lett. piccola bambola) il completo da notte femminile divenuto popolare attraverso l’omonimo film di Elia Kazan (1956).

Ma gli esempi più recenti sono davvero tanti.

♦ 1983: esce The day after (di N. Meyer), incentrato sulle conseguenze di un’esplosione nucleare. L’espressione si impone, e oggi per estensione indica il giorno dopo di un qualunque evento eclatante che comporta conseguenze e cambiamenti: il day after dell’11 settembre, dei mondiali di calcio, di un’elezione politica…

♦ 1984: arriva La rivincita dei nerds, una commedia diretta da Jeff Kanew incentrata sulle vicende di un gruppo di studenti americani emarginati dai propri coetanei liceali perché goffi, trasandati e impacciati con il gentil sesso. In italiano si chiamano secchioni, ma in pochi anni l’anglicismo si fonde con il linguaggio della Rete, e il secchione informatico oggi è solo nerd.

Nello stesso anno arrivano anche i Gremlins (di Joe Dante) e queste creature di fantasia delle fiabe e delle tradizioni popolari, cioè i folletti, creano una nuova, intraducibile epopea.

1985: è la volta di Top gun (di T. Scott) che diffonde l’espressione al punto che oggi indica un pilota di caccia.

1986: irrompe Highlander – L’ultimo immortale (di Russell Mulcahy) ed ecco che dalla traduzione letterale di scozzese (abitante delle Highlands, le regioni montuose della Scozia, cioè le Alte Terre) che designava anche un militare scozzese, in italiano highlander è ormai diventato sinonimo di immortale, indistruttibile, ineliminabile.

 

Mi sono dilungato forse troppo, ma l’anglicizzazione della lingua italiana non riguarda solo il cinema, intacca ogni settore. I più devastati sono quello informatico e quello aziendale. Ma non c’è settore che si salvi. E dai settori, inevitabilmente molti anglicismi straripano nel linguaggio comune. Con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. A parte di chi continua a negare la questione soltanto perché non la studia.

12 pensieri su “Cinema e anglicizzazione

  1. Di per sé il mantenere i titoli originali, a mio avviso, non è un problema (anche se magari non sarebbe male accompagnarlo da una traduziine italiana fra parentesi, a meno che non si tratti di parole conosciute da tutti), del resto, passando dal cinema alla letteratura e al teatro e dai giorni nostri all’antichità, nessuno si sorprende si diciamo il “De bello gallico” o (in forma italianizzata) le “Ecclesiazuse” anziché “La guerra in Gallia” o “Assemblea di donne”. Caso mai domandiamoci perché dobbiamo importare cinema in simil misura proprio e solo dal mondo anglosassone!

    Più urtanti trovo i titoli pseudooriginali, cioè quelli “tradotti” dall’inglese all’inglese: un vero ridicolo provincialismo.

    Quanto poi ai titoli inglesi di film originariamente non anglosassoni, li trovo come un vero nonsenso, (seppure anche qui non manchino precedenti illustri quanto alla letteratrura: perché citiamo le “Antiquitates Iudaicae” se Giuseppe Flavio scriveva in greco?), del tutto parallelo all’abuso giornalistico dilagante d’indicare in inglese i nomi d’istituzioni di paesi non anglofoni (la “Russian Science Academy”, la “Charles’ University” praghese ecc. Sembrano salvarsi ancora (per quanto) quelli delle istituzioni francesi e spagnole…

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    • Non è che c’è da scandalizzarsi per la mancata traduzione dei titoli in sé, è un problema di numeri e di espansione delle multinazionali. Diciamo che la strategia dei film in inglese nei titoli è paradossale perché invece la scuola di doppiaggio italiana è un’eccellenza, e paradossalmente i film in lingua originale con i sottotitoli non hanno quasi mercato, al cinema. Devono essere in italiano, titoli a parte. Questa strategia, semplicemente, ha delle ricadute importanti sulla nostra lingua, come negli esempi del mio articolo. Ma questo è solo un fattore sfavorevole che si inserisce nell’anglicizzazione generale dell’italiano: nell’informatica, nella politica, nelle pubblicità, nel linguaggio giornalistico, in quello aziendale… Questo quadro complessivo sta portando al regredire della nostra lingua. Il De bello gallico è un’opera in latino, un tempo considerato la nostra lingua madre (che si studiava in latino e traduceva a scuola) anche se oggi l’inglese è sempre più il modello dei neologismi; inoltre non presenta alcuna violazione delle nostre regole grammaticali e fonetiche, e soprattutto è un’opera eclatante, ma che non ha un impatto linguistico come gli esempi che ho citato. Insomma non mi scandalizzo se “Baby doll” era in inglese, mi scandalizzo per la strategia di lasciare in inglese tutti i film in modo indiscriminato. La stessa che porta alle traduzioni delle interfacce informatiche solo a metà lasciando l’inglese che trasborda nei download, negli snippet, nei layout di pagina… La stessa che esporta i muffin e i cheesburger, i decoder, lo stalking… cioè la rinuncia a dirlo in italiano per preferire l’inglese. La rinuncia alle traduzioni dei titoli dei film non è isolata, si inserisce in questo quadro di totale depauperamento linguistico in favore dell’inglese.

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  2. Segnalo un caso recentissimo. Ad agosto è uscito nei cinema italiani il film Warner Bros “The Meg”. Posso capire che gli italiani non abbiano confidenza con un’espressione nota agli americani sin dagli anni Novanta (MEG è la contrazione di Megalodon, il gigante squalo preistorico ampiamente sfruttato da dalla narrativa popolare anglofona ma raramente giunto in italiano) invece non posso darmi pace della scelta (per me stupida) di tradurre con un nome inglese: il film infatti è uscito nelle sale italiane come “Shark. Il primo squalo”. (Ma “primo” rispetto a cosa?)
    La Mondadori subito si è ricordata di avere nei propri archivi il romanzo originale di Steve Alten, “MEG” (1996) fuori catalogo in Italia dal 1997, e giustamente l’ha portato in libreria con il titolo del film “Shark. Il primo squalo”. La scelta editoriale è comprensibile, si vuol far capire che è il libro legato al film, ma il problema si complica quando la Mondadori si ricorda di avere nei propri archivi anche il secondo romanzo della saga, la seconda avventura del protagonista Jonas Taylor: “The Trench”. Come lo traduciamo? “MEG 2”? Eh, ma in libreria non esiste “MEG 1”. Allora “Shark 2”? Mmmm no, facciamo così: chiamiamolo “MEG. Minaccia dagli abissi”.
    Così MEG è uscito come “Shark”, e “MEG 2” è uscito come “MEG”, seguendo storici esempi tipo il celebre “Missing in Action” con Chuck Norris, che in realtà è “Missing in Action 2”, e l’ancor più storico “Gola profonda”, che in realtà è “Deep Throat 2”.

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    • Sono perfettamente d’accordo con te, Lucio, è proprio la logica, la filosofia, la tendenza… chiamiamola come vogliamo, di dirlo in inglese che è deleteria e da combattere, e di esempi come quello che hai fatto se ne possono citare a centinaia. Non si può analizzare ogni singola parola inglese come a sé stante, non si possono considerare gli anglicismi come “prestiti isolati” come fanno molti linguisti piuttosto miopi, altrimenti non si coglie la portata del fenomeno itanglese: gli anglicismi si dividono in famiglie che crescono sempre più numerose, e ogni anglicismo è una porta di ingresso ad altri, in una rete interconnessa. Se non si studia il fenomeno a questo modo non si va da nessuna parte. Per la cronaca in italiano esise la parola “megalodonte”, e il fatto che non circoli o che venga sostituita da Meg e simili è proprio la prova della regressione dell’italiano.

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    • Ciao kuku, grazie.
      Sì, in senso tecnico nel linguaggio cinematografico storico l’anteprima è una proiezione in “anteprima” riservata agli addetti ai lavori o a un pubblico ristretto, ed è un calco del francese avant-première. Tuttavia in senso etimologico e più ampio non contiene in sé il concetto di “visione intera”, indica qualunque cosa che si mostra prima che sia noto, e in ambito cinematografico mi pare indichi ormai anche l’anteprima delle scene pubblicitarie, ho visto che viene usata talvolta nel senso di trailer anche nelle notizie di cinema, per es. qui: https://teletirrenoelba.com/cinema-lanteprima-di-jurassic-world-film-della-settimana/
      mentre a volte si trova anche l’espressione video o clip in anteprima, per es. qui:
      https://www.quotidiano.net/spettacoli/cinema/video/the-imitation-game-1.527864

      Tra le alternative e i sinonimi che ho registrato (quella nell’articolo era solo una possibile traduzione) si può anche dire “anteprima pubblicitaria”, “video pubblicitario”, presentazione pubblicitaria, e anche “prossimamente”, che forse in senso tecnico può essere preferibile. Ti lascio un collegamento alla voce “trailer” sul dizionario AAA: https://aaa.italofonia.info/trailer/
      ma ogni consiglio di addetti ai lavori ed esperti è il benvenuto, tutto è perfettibile! 🙂
      Un saluto

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  3. Anni fa, nel gruppo di Facebook di una nota trasmissione radiofonica dedicata alla lingua, ebbi modo di battibeccare con una persona che sosteneva l’impossibilità di tradurre «set» e «location», perché «sono termini tecnici del cinema». Io ribattei che l’Italia è uno degli Stati piú importanti per la storia del cinema, ed è quindi impossibile che anche ai tempi di Cabiria (1914) si usassero anglicismi come i due succitati. Niente, non c’è stato verso, si è passati al «lei non sa chi sono io», e ho preferito chiudere la conversazione.

    Al posto di «sul set» si può dire benissimo «sulle scene», mentre «lochescion» (lo scrivo cosí perché è una parola che mi dà un fastidio epidermico) è semplicemente «ambientazione». Un esempio tratto dalla Rete: perché scrivere «La Regina delle Dolomiti è stata la location di moltissimi film» quando si può dire, anche solo per sfuggire alla monotonia anglicizzante, «La Regina delle Dolomiti è stata l’ambientazione di moltissime pellicole»?

    In quanto a «trailer», non so se sia un mio uso dialettale, ma io li chiamo «prologhi». Forse è un uso legato non alla tivvú ma al cinema, ossia proprio alla fruizione in sala, in cui le anteprime dei filmi in prossima uscita venivano proiettate prima della pellicola stessa…

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    • Sostenere l’intraducibilità di una parola non è argomento logico, ma politico, è una presa di posizione basata sull’importare e basta, invece di creare neologismi, adattare o allargare il significato di parole precedenti. Per esempio dire che brainstorming è tecnicismo intraducibile, è contraddetto dal fatto che è in Francia e in Spagna lo hanno molto semplicemente tradotto e usato attraverso remue meninges (spremimeningi) e lluvia de ideas (tempesta di idee). Noi avremmo potuto dire per esempio “parole in libertà” per collegarci a un concetto italiano, ma i nostri terminologi sostengono invece che è intraducibile, solo perché non lo vogliono tradurre. Ciò premesso, l’origine cinematografica di location, la scena, ben più corto (alla faccia di chi individua nella sintetittà la ragione del successo dell’inglese) è oggi uscito da questo ambito per designare un qualunque posto, luogo, ambito, posizione, ambiente (la location del ristorante che ha preso piede grazie a una terrificante trsmissione televisiva). In radio una volta mi hanno chiesto – come a dire che è intraducbile – ma lei come direbbe in italiano location? Mi domando come facevamo a dirlo 10 anni fa… prima che si diffondesse questa moda di usare l’anglicismo… Comunque il punto è che, come è noto, proprio dall’ambito tecnico gli anglicismi poi si riversano nel linguaggio comune con un senso lato (dribbling dal calcio passa a all’evitare le domande in dribblare, spread, tecnincismo economico, diventa il titolo di tutti i giornali…). Dunque sostemere l’intraducibilità dei tecnicismi e chiudere un occhio sui linguaggi tcnici poi ha le sue ricadute sulla linga comune, il caso dell’informatica è emblematico.

      Su “prologo” da quel che so l’accezione da te proposta è indicata nei dizionari come non comune, e si confonde con il significato di preambolo. Prima che si affermasse “trailer” si diceva promozionale, promo (abbreviazione di “promotion” ma compatibile con le nostre norme) o presentazione/anticipazione cinematografica.

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      • Mi fanno ridere quelli che sostengono —come spesso leggo in fori come Wordreference— «X [qualsiasi forestierismo] non si traduce/rimane cosí». Bello il riferimento a «come si diceva prima?»: è una domanda che mi faccio spesso. In alcuni caso so dare una risposta perché ho notato il passaggio dall’italiano all’inglese: è il caso di «flop» per «fiasco» (tra l’altro gli inglesi usano proprio «fiasco» per dire «insuccesso», è il mondo alla rovescia).

        Secondo me sarebbe molto interessante confrontare, per esempio, le pubblicità cartacee, radiofoniche o televisive di un tempo, diciamo fino al 1968, e quelle di oggi e vedere «come si diceva prima», perché prima andava bene dire «luoghi» e ora non va piú bene e occorre per forza dire «lochescion».

        In quanto a «prologhi», sí, si tratta di un uso minoritario. Ne ho trovato un esempio, giusto per confermare a me stesso che non è un mio uso idiolettale, in un sito d’informazione avellinese: «Sulla facciata del cinema Ideal era posizionato un megaschermo che proiettava i trailer, “i prologhi” dei grandi colossal […]». Ad ogni modo, le varianti che hai fornito sono perfette, compreso «promo», che è un’abbreviazione un po’ informale ma validissima.

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