Italiano: open to mostruosità

Di Antonio Zoppetti

Anna mi ha segnalato “l’Italian teacher award 2023” evidentemente partorito dal “Ministero della Pubblica Distruzione e del Demerito Generalizzato”.

Si tratta della quinta edizione di un progetto che “ha lo scopo di celebrare i valori sociali e culturali degli insegnanti italiani, al fine di riconoscere un tributo a tante donne e a tanti uomini che si spendono ogni giorno per l’istruzione e la formazione delle nuove generazioni […] L’Atlante – Italian Teacher Award intende promuovere il valore sociale e culturale degli insegnanti italiani”.

E come esprimere cotanta italianità se non con un nome in inglese?
Su sito di Rai mamy Scuola si può sapere di più sulla mission del progetto e sulle partnership da cui è nato.

Questi approcci, e questa lingua, la dicono lunga su come vengono concepiti i progetti per educare le nuove generazioni, e non solo quelle, all’abbandono dell’italiano e al passaggio all’itanglese.

La redazione online del Corriere pubblicizza invece il Corriere Family. A soli 3 euro sono disponibili 3 account, per ricevere le newsletter e ascoltare i podcast.


Nel 2015 il ministro dei Beni culturali e del Turismo Dario Franceschini aveva lanciato il portale per il turismo e la cultura italiana chiamato VeryBello! fallito miseramente subito dopo.

Allora nel 2021 ci ha riprovato con la “Netflix italiana” per la valorizzazione culturale del nostro Paese intitolata ITsART, solo che è fallito tutto di nuovo (e gli investimenti per queste iniziative non sono pochi). Ma poco male, nel 2023 il nuovo governo di tutt’altro schieramento politico ci riprova con lo stesso schema, e sta nascendo un nuovo progetto il cui motto, anzi slogan è “Open to meraviglia” (in figura con le mie considerazioni) a cui auguro, con tutto il cuore, lo stesso successo delle precedenti iniziative.

E così, mentre la fallita Alitalia cede il posto alla fallimentare ITA Airwais, mentre le Poste italiane introducono le nuove denominazioni dei pacchi attraverso la categorie del Delivery, mentre nasce il Ministero del Made in Italy (e non del prodotto italiano), mentre le Ferrovie dello Stato offrono le tariffe premium, business e economy e il concorrente [*antico termine autoctono oggi meglio traducibile con competitor] Italo sostituisce la figura del capotreno con quella del train manager (nella comunicazione ai passeggeri e nei contratti di lavoro!), mentre il Salone del Mobile e la Settimana della moda di Milano si trasformano in Week Design e Fashion Week, mentre la squadra olimpica italiana diventa un team, mentre il progetto per la reintroduzione degli orsi denominato Life Ursus battezza gli esemplari con sigle come Jj4 (dove la i lunga è pronunciata “gèi” come se esistesse solo l’inglese), mentre i negozi diventano store, shop e outlet, mentre gli animali domestici diventano pet, il cibo food e altri migliaia di esempi del genere quotidianamente trasformano l’italiano in itanglese… capita che una nutrita schiera di linguisti continuino a guardare al fenomeno interpretandolo con le loro lungimiranti categorie dei “prestiti” magari di “lusso” e di “necessità”.

Qui non abbiamo a che fare con qualche prestito perché ci manca una parola e non la sappiamo né vogliamo più tradurre, italianizzare o riconiare all’italiana. Siamo in presenza del crollo dell’italiano e abbiamo a che fare con dei trapianti (altro che prestiti!) di parole e suoni che hanno una frequenza e una profondità devastanti, che riconcetualizzano il nostro modo di pensare trasformando gli insegnanti in teacher (ma ci sono anche i tutor), la famiglia in family (persino il vecchio Movimento per la vita è stato abortito in favore del Movimento pro life) e l’italiano in italian. Questi trapianti si ibridano generando una neolingua che ha ormai le sue regole, ed è fatta di commistioni come Verybello, mentre open to meraviglia è un’enunciazione mistiligue che esce dai “prestiti” e l’italiano open to mostruosità, dove invece di incitare a “vivere italiano” si incita a “vivere in itanglese”, una lingua che si trasforma in un ircocervo che è un mostro orribile, altro che meraviglioso!

Mentre certi linguisti propagandano la panzana che “la lingua si difende da sé” e che l’uso fa la lingua lasciando intendere che sia un processo “democratico” che arriva dal basso, quello che sta accadendo è che l’italiano muore perché i nuovi centri di irradiazione della lingua, per dirla con Pasolini, e cioè le istituzioni, i giornali, la televisione, le aziende, gli intellettuali e l’intera nostra classe dirigente ci educano all’inglese e all’itanglese dall’alto. Perché sono colonizzati nella mente e hanno sposato il progetto del globalese, l’inglese internazionale, la lingua naturale dei popoli dominanti e dei padroni che si vuole far diventare la lingua planetaria, dell’Ue, della formazione universitaria, del lavoro e della cultura di cui gli anglicismi sono gli effetti collaterali (come ho spiegato nel libro Lo tsunami degli anglicismi, per fare un po’ di pubblicità non occulta). Questi collaborazionisti del globish sono i veri responsabili dell’itanglese. E davanti all’attuale tsunami anglicus, utilizzare gli schemini astratti dei prestiti è un po’ come voler misurare la portata di uno tsunami con l’unità di misura della bottiglia! A quante bottiglie corrisponderà l’attuale onda anomala?

In questo contesto tipicamente italiano, visto che in altri Paesi la questione è affrontata in modo ben più serio, capita anche che un bravo comico come Crozza ironizzi sul fatto che le (discutibili e perfettibili) proposte di legge per l’italiano avanzate di recente ci facciano tornare ai tempi del fascismo, quando si volevano sostituire i barbarismi con ridicoli sostitutivi come fiorellare per flirtare, arlecchino per cocktail, pallacorda al posto di tennis e via dicendo. Peccato che, come aveva capito un paio di secoli fa Leopardi (ma già allora ben più avanti dell’intellettuale medio italiano dei giorni nostri), solo l’uso e l’abitudine rendono bella, brutta o ridicola una parola. Dunque questi sostitutivi sono “ridicoli” solo perché non si sono affermati, mentre quelli che hanno avuto successo (regista invece di régisseur, autista invece di chaffeur, calcio invece di football, calcio d’angolo invece di corner…) sono parole oggi del tutto normali. A proposito di italianizzazioni di epoca fascista si potrebbe anche ricordare il successo di pallacanestro al posto di basketball, e nella Breve storia della lingua italiana di Migliorini e Baldelli (Sansoni, 1964, p. 345) si può leggere: “Si sono oramai definitivamente affermati contro gli equivalenti stranieri, prima imperanti” sinonimi come pallacanestro. Gli autori si sbagliavano di grosso, nulla è definitivo, e oggi il basket ha la meglio sulla vecchia pallacanestro, anche se in inglese si chiama basketball. Il che dimostra che non abbiamo a che fare con “prestiti”, ma con un processo di creolizzazione lessicale ben diverso e più profondo, che sta portando a una neolingua ibrida, l’itanglese, che non è più né italiano né inglese.

Tornando a Crozza, è più che comprensibile scherzare sul fatto che il nuovo quadro dirigente governativo predichi benino (bene è una parola grossa) e razzoli male. Ma, belin… possibile, Crozza, che davanti al virgolettato della Santanchè non ti venga in mente che la cosa su cui pungere è come si è ridotto l’italiano?

Mettiamo i puntini sulle “i”: sul canale Nove marchiato Warner Bros Discovery, una rivista italiana denominata Open titola “La ministra Santanché contro il Far West dei bed & breakfast”, utilizzando 11 parole di cui 5 sono in inglese. In italiano rimane un nome proprio (“Santanchè” che non vale ai fini statistici), la parola “ministra” e per il resto ci sono solo articoli e preposizioni! Se ci aggiungiamo le denominazioni in inglese della rivista e del canale ci sarebbe anche il “nove” a salvare l’italiano. E tu fai dell’ironia sull’adattamento di sciampagna al posto di champagne? Ma non vedi che c’è solo l’inglese? Altro che guerra ai barbarismi… il problema è la creolizzazione da una lingua sola che ci sta schiacciando.

Come fai a non capirlo? Almeno tu Crozza… dai!



La creolizzazione culturale e l’educazione all’itanglese (il perché degli anglicismi)

di Antonio Zoppetti

Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi?” si chiedeva Draghi qualche tempo fa. È una domanda che si fanno in molti e che si sente spesso. Perché?

La risposta esce dall’ambito della linguistica. Sotto il ricorso compulsivo agli anglicismi ci sono fenomeni profondi, che sono allo stesso tempo culturali, economici ma anche psico-sociali. Hanno a che fare con una creolizzazione ben più ampia di quella linguistica, e non coinvolgono solo il nostro Paese, ma il mondo intero, travolto da una “globalizzazione” che coincide sempre più con “americanizzazione”.

Naturalmente non esistono culture pure, isolate o vergini. Tutte sono ibridate, meticce e influenzate dall’esterno, ed è un bene che lo siano, perché gli scambi portano arricchimenti. Il punto è che attualmente non si assiste ad alcuno scambio significativo, bensì a un’affermazione unidirezionale dei modelli angloamericani che si espandono in tutto il mondo e schiacciano le altre culture. Questi valori non sono “universali” ma “universalizzanti”: diventano universali perché si riescono a esportare con successo. Il motore di questo processo è l’espansione delle multinazionali angloamericane e delle loro merci, e le conseguenze culturali, sociali e linguistiche sono solo le sovrastrutture.

Dagli hamburger si passa così alla mcdonaldizzazione del mondo. Il monopolio cinematografico, televisivo e di internet produce un mondo virtuale in cui siamo immersi che finisce per inglobarci facendoci assorbire ben precisi comportamenti sociali; le pratiche di consumo indotte dalle pubblicità si trasformano in luoghi appositamente concepiti per metterle in pratica, dai fast food ai cinema multisala dove ciò che si guarda è soprattutto la produzione hollywoodiana e ciò che e si mangia è il popcorn che si appoggia negli appositi spazi previsti dalle poltrone in sala. In questo modo si arriva all’esportazione-importazione persino delle festività come Halloween, dei riti come quello del black friday, delle tradizioni come l’addio al celibato o dei conigli pasquali che affiancano le uova di cioccolato.

Senza tenere presente questo scenario non è possibile comprendere il perché degli anglicismi e dell’anglicizzazione dell’italiano.

L’alienazione culturale e linguistica

La creolizzazione è un concetto molto fumoso e di difficile definizione teorica. Dal punto di vista linguistico si riferisce ai territori coloniali dei Caraibi o dell’India, dove l’imposizione dell’inglese, a contatto con le culture locali, ha portato all’emergere di lingue miste. In Italia non esiste alcun bilinguismo a base inglese sul territorio (per adesso), e il contatto con la lingua e la cultura angloamericana è il risultato di un “sovramondo” virtuale costruito su quello locale. Basta accendere la tv, guardare un film o connettersi a internet per immergersi in questo sovramondo che non è la proiezione della realtà italiana, bensì quella della società americana che lo ha costruito e lo esporta.
Le conseguenze socio-culturali portano alla formazione di nuove generazioni globalizzate e omologate sui gusti delle pressioni universalizzanti statunitensi.

E così capita che uno studente di “storytelling” di Parma scriva racconti dove le automobili sono le Cadilllac, non le Fiat Punto che circolano per la sua città, mentre i nomi dei protagonisti delle sue storie sono in inglese, non sono certo Anna e Marco. Invece di essere in grado di raccontare e di esprimere la vita reale con la sua narrativa, questo aspirante scrittore “medio” non fa altro che proiettare la sua storia nel mondo virtuale che lo ha nutrito e cresciuto. Il mondo dei film e delle serie televisive che lo hanno formato e che ha introiettato, un mondo che nella realtà quotidiana non gli appartiene affatto, ma che scimmiotta inconsapevolmente e gli appare reale e migliore di quello che vive. In questo processo di alienazione culturale il terreno su cui si inseriscono gli anglicismi è molto fertile.

Dall’altra parte, secoli di speculazioni sull’arte della retorica – dai sofisti alle scuole di scrittura creativa che fino a qualche anno fa erano ancora in voga – sono state spazzate via dal piattume di uno “storytelling” di matrice americana in una riconcettualizzazione della scrittura persuasiva e delle tecniche di narrazione di natura pragmatica, e spesso becera, che annulla la storia profonda della nostra cultura e la riscrive spacciandola come una tecnica nuova e priva di legami con quelle che sono sempre state le nostre radici. E così il circolo si chiude e tutto torna. Ma la storia del colonialismo ripercorre proprio gli stessi schemi.

Il colonialismo culturale

Il colonialismo dei secoli passati, imposto con le armi, ha lasciato il posto a una nuova forma morbida di colonialismo culturale che salta la fase della spada, ma alla fine non fa che produrre con altre forme il medesimo processo di assimilazione.
Lo aveva capito Agricola, elogiato da Tacito per aver saputo romanizzare i Britanni, dopo la loro sottomissione militare. Senza questa fase, la conquista non avrebbe potuto avere alcun effetto duraturo.
Il “Tacito asservimento” è avvento attraverso l’edificazione di tipo romano (oggi sono invece i grattacieli di una città come Milano a ridisegnarne lo skyline), attraverso l’importazione delle toghe (oggi c’è l’outfit fatto di T-Shirt, jeans e sneaker). E poi attraverso il trapianto dei costumi romani (oggi lo si fa attraverso Netflix, Google e via dicendo), o con il diffondere le “squisite mense” romane (oggi i fast food e i MasterChef che trasformano la cucina in cook). E infine tutto si è compiuto con l’imposizione della lingua romana a partire dai figli dei capitribù (cioè i rampolli della classe dirigente), in modo che da “disprezzata” divenisse “bramata”. La conclusione di Tacito è che i Britanni alla fine chiamavano la romanizzazione “cultura”, ma era al contrario il loro asservimento.

Sedotti dai valori universalizzanti del nuovo impero globale, un sovramondo virtuale che ricopre ogni territorio, oggi ci asserviamo da soli, come forse hanno fatto gli Etruschi che si sono romanizzati senza guerre sino a scomparire in un’assimilazione con la civiltà che li ha fagocitati.

L’italia creola che crede di essere internazionale

Se lo scrittore africano Thiong’O ha raccontato il dramma delle scuole coloniali inglesi che hanno fatto di questa lingua il requisito della cultura, uccidendo le culture locali e impedendone ogni altra, noi oggi spendiamo delle fortune per mandare i figli dell’alta borghesia nelle scuole di lingua inglese che sono spacciate per internazionali, invece che coloniali, e suonano blasonate e superiori.

Nelle università, nel mondo del lavoro o in quello della scienza il monolinguismo dell’inglese internazionale spazza via tutto il resto, e rende l’apprendimento di ogni altra lingua e cultura qualcosa di superfluo come saper suonare il pianoforte. Ma essere internazionali ed esseri anglofoni sono concetti molto diversi. Il mondo non coincide affatto con l’anglosfera come si vorrebbe far credere, è ben più ampio, complesso e sfaccettato. Identificare la cultura e la lingua inglese con l’internazionalità fa parte di un progetto neocolonialista che prevede l’americanizzazione del mondo, un progetto funzionale agli interessi dei Paesi anglofoni che non ci conviene affatto, anche se facciamo di tutto per perseguirlo senza comprendere che ci sta distruggendo.

Eppure, basterebbe studiare la storia delle imposizioni colonialistiche di una lingua, per comprendere cosa sta avvenendo: prima si conquistano le istituzioni, poi l’intellighenzia, la classe dirigente e dunque l’università; seguono le grandi città, e alla fine tutto si espande anche nei centri periferici e rurali.

I collaborazionisti dell’inglese

“Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente” diceva Churchill nel 1943 (Discorso agli studenti di Harvard, 6 settembre).

E mezzo secolo dopo, l’ex funzionario dell’amministrazione Clinton, David Rothkop, ha dichiarato:

“L’obiettivo centrale della politica estera nell’era dell’informazione deve essere, per gli Stati Uniti, il successo dei flussi dell’informazione mondiale, esercitando il suo dominio sulle onde come la Gran Bretagna, in altri tempi, lo ha esercitato sui mari. (…) Ne va dell’interesse economico e politico degli Stati Uniti vegliare affinché sia l’inglese a essere adottato quale lingua comune del mondo; affinché siano le norme americane a imporsi nel caso si dovessero emanare norme comuni in materia di telecomunicazioni, di sicurezza e di qualità; affinché, se le varie parti del mondo sono collegate fra loro attraverso la televisione, la radio e la musica, i programmi trasmessi siano americani: e affinché, a essere scelti come valori comuni, ci siano valori in in cui gli Americani si riconoscono.” (David Rothkop, “In Praise of Cultural Imperialism?” in Foreign Policy, n. 107, estate 1997).

Invece di contrastare questo disegno perseguendo i nostri interessi e ponendo l’italiano al centro di una politica linguistica che sia in grado di proiettarlo sul piano internazionale, in Italia, ma anche in Europa, da decenni i ministeri dell’Istruzione investono una quantità spropositata di risorse per promuovere l’inglese globale dall’interno, a scapito del multilinguismo. Il risultato delle pressioni esterne globalizzanti, e di questi sforzi interni, ha già conquistato le nuove generazioni, educate al solo inglese nella scuola sin dall’infanzia, e americanizzate attraverso il linguaggio dei film, dei videogiochi, dell’intrattenimento… E poi ha conquistato i professori, la classe dirigente e gli intellettuali che hanno perso ogni ruolo critico in grado di esprimere il dissenso per diventare il principale strumento di omologazione. Costoro son diventati i principali “collaborazionisti” dell’inglese, per riprendere un’espressione del filosofo francese Michel Serres, si annidano nelle élites e sono i primi a identificarsi con i concetti d’oltreoceano

Ecco perché “dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi”, vorrei rispondere a Draghi. Perché la catechizzazione all’inglese e all’itanglese è sorretta e predicata proprio dalla classe dirigente che lui rappresenta. E per comprenderlo basta togliersi i paraocchi e vedere cosa accade quotidianamente con qualche esempio molto concreto.

Educare all’inglese

Nella nuova riconcetualizzazione e rimappatura della realtà veicolata dai giornali non si fa altro che educare all’inglese e promuovere la cancellazione dell’italiano e delle nostre radici storiche. Questo approccio catechizzante prevede che ogni genere di cosa o concetto si introduca o ribattezzi ripetendo l’inglese a pappagallo e spacciandolo come qualcosa di reale o di necessario. Si trapianta l’inglese e lo si sostituisce all’italiano, perché l’inglese è il nuovo totem da cui attingere, e c’è solo quello: la lingua e la cultura italiana si riducono a ripetere e importare in modo servile e acritico tutto ciò che arriva da un unico modello socioculturale, quello dei Paesi dominanti.

IL DRILLING
E così su Orizzonte Scuola si può leggere: “Inglese: il drilling per entrare in sintonia con la lingua. Cos’è e come usarlo in classe”.

Di che cosi si parla? In cosa consiste questa innovativa e straordinaria pratica? Semplice:

“Esiste una metodologia didattica di insegnamento della lingua straniera che più delle altre consente agli studenti di entrare in sintonia con la lingua studiata, nel nostro caso l’inglese. Si tratta del drilling, che favorisce l’assimilazione delle strutture grammaticali, il miglioramento della pronuncia e dell’intonazione. Essa consiste nella ripetizione ad alta voce delle frasi o delle parole pronunciate dall’insegnante.”

Ci rendiamo conto della pochezza che si cela sotto la solennità dell’inglese? La ripetizione ad alta voce delle frasi, la stessa tecnica secolare impiegata dai talebani per imparare a memoria il Corano, viene nobilitata attraverso l’ennesimo anglicismo-supercazzola che la rende innovativa. E nell’assenza di spirito critico, si ripete questa geniale metodologia andando sempre più a fondo:

“Adesso è arrivato il momento di presentarvi tre tecniche specifiche di drilling: repetition drill, substitution drill e backchaining drill. Vediamole nel dettaglio…”

Queste tre pratiche introdotte in inglese sono semplicemente la ripetizione della parola, la ripetizione con sostituzione, e la ripetizione al contrario. E con un’anglo-idiozia dopo l’altra, il corso prosegue con analoghe banalità che non sono più espresse in italiano, ma attraverso un lavaggio del cervello fatto di concetti come “il guessing game (Indovina cos’è) oppure il disappearing text (Testo che scompare).”

Quando invece di tradurre e reinterpretare questo tipo di metodologie le ripetiamo e “drilliamo” attraverso i concetti e i termini in inglese, ci stiamo comportando da colonizzati.

IL DOOMSCROLLING
Passando dalla scuola alla divulgazione scientifica, ecco come la rivista Focus ci colonizza con il doomscrolling:

Si tratta della ricerca compulsiva di cattive notizie e viene presentato in inglese, la lingua superiore da ripetere senza volere né essere in grado di reinterpretare con i nostri concetti:

“Il doomscrolling è un neologismo inglese entrato nell’Oxford Dictionary nel 2020: la parola indica la tendenza a cercare in modo ossessivo cattive notizie online, scorrendo (scrolling) sullo schermo del nostro telefonino (o tablet, o pc) per informarci sulle sventure (dooms) che accadono nel mondo.”

L’inglese è dio, è la nuova religione, e lo si deve trapiantare e ripetere, mentre l’italiano è una lingua inferiore e impotente di cui vergognarsi.

IL CORE TRAINING
Su AtuttoNotizie possiamo imparare che cos’è il core training:

La risposta è banalmente negli esercizi dei muscoli stabilizzatori:

“Desiderate rafforzare i muscoli dell’area addominale, lombare e del bacino? Il core stability training è ciò che fa al caso vostro. Si tratta infatti di una tecnica pensata proprio per allenare il “core”, il “nucleo del corpo“, ovvero quella zona compresa tra la porzione inferiore del busto e il margine inferiore del bacino. Scopriamo insieme in cosa consiste e quali sono i suoi benefici…”

IL SUNDAYRESET E IL PEARLCORE
Io Donna riconcettualizza il mettere in ordine la casa, il riordinare – una mania che aveva anche mia nonna! – con il nuovo e intraducibile concetto del sundayreset con cui ci educa.

Amica ci insegna un’altra cosa nuova e fondamentale: se vanno di moda le collane di perle siamo di fronte a una tendenza pearlecore.

E così lo studio del nome diventa naming (“Logo e naming per una brand identity efficace”), chi fa formazione introduce gli speed mentoring, gli psicologi parlano di mindfulness e di token economy

La colonia Italia

Con questa classe dirigente, intellettuale e politica l’italiano è finito. Perché è finita la nostra capacità di pensare – e dunque parlare – in modo autonomo. Dovremmo avere il coraggio di dire la verità: queste cose mostrano che l’Italia è una colonia.
I giornali anglofoni hanno chiamato le nostre restrizioni anticovid lockdown, e dal giorno dopo abbiamo ripetuto anche noi questa parola senza più alternative! Trump ha parlato di fake news, e da quel giorno, come sudditi, lo abbiamo fatto anche noi!

Questi non sono semplici prestiti, sono il sintomo del tracollo della nostra lingua, e questo inglese è la diffusione dell’ignoranza della nostra storia e cultura.
La nostra creolizzazione lessicale non ha che fare solo con i cosiddetti “prestiti linguistici”. Siamo in presenza di una creolizzazione culturale ben più ampia di cui gli anglicismi non sono la causa, ma l’effetto. Ubriachi di inglese, lo facciamo nostro, e in preda alla nostra alberto-sordità che ha perso ogni componente comica ci inventiamo da soli suoni-concetti risemantizzati in modo maccheronico che non appartengono né all’italiano né all’inglese: il green pass al posto del certificato verde, il telelavoro è detto smart working, gli assistenti familiari sono caregiver, le vessazioni mobbing, gli orientatori navigator… E mentre i neologismi sono sempre più in inglese, i “prestiti sterminatori” uccidono le nostre parole storiche e completano il quadro.

Su questo scenario, il problema non sono i singoli anglicismi, alcuni dei quali non sono destinati a radicasi, ma il fatto che non ci sia giornalista, tecnico, scienziato, intellettuale, personaggio pubblico, politico… che non introduca un nuovo concetto in inglese per designare qualcosa di nuovo o presunto tale. Questa nuvola anglicizzata, che ho definito la panspermia del virus anglicus, ci avvolge con un’intensità di un ordine di grandezza superiore al numero delle parole inglesi registrate sui dizionari.

È una follia collettiva irrefrenabile, una nevrosi compulsiva che diffonde i suoni inglesi anche quando siamo di fronte all’aria fritta. E infatti friggere con l’aria diventa Air fry, secondo Paolo Giordano il Waning è la parola chiave per comprendere quanto dura l’effetto di un vaccino, una camminata per raccogliere i rifiuti è il plogging, lavorare dal sud è il South Working


E l’italiano ciao ciao!

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

L’identità dell’italiano davanti allo tsunami anglicus

di Antonio Zoppetti

Fino a che punto una lingua può importare voci da un’altra senza snaturarsi?
Davanti all’interferenza dell’inglese, fino a che punto il nostro idioma può evolversi senza trasformarsi in qualcosa di altro, che si chiama itanglese e porta a una creolizzazione, invece che a un’evoluzione?

La risposta sta nel riflettere sull’identità di una lingua. Una questione che nel caso dell’italiano è emersa sin dal suo apparire, e si ritrova in Dante, alla ricerca di un volgare “illustre” in grado di superare ogni “municipalità” territoriale e di essere inteso in tutto il Paese.
Nel lessico della Commedia si trovano parole di altri dialetti insieme a quelle di origine provenzale, latina, araba e di varie altre provenienze, ma tutto è stato divinamente toscanizzato, e cioè adattato a un preciso “suono” destinato a diventare quello che caratterizza la lingua del bel paese là dove ‘l sì suona.
Quel suono che all’estero gode di una nomea e di un’ammirazione che poche altre lingue vantano. Quel suono che stiamo gettando via con una certa alberto-sordità per passare all’english sound con cui crediamo di farci belli – ma spesso siamo semplicemente ridicoli – nella convinzione di essere internazionali. Dante avrebbe di sicuro bollato l’itanglese come “un’orribile favella” e una “spaventevole” commistione di diverse lingue tipica del tumulto infernale.

Oggi il problema dell’identità linguistica sembra essere sottaciuto da molti studiosi che sottovalutano la nostra anglicizzazione o considerano gli anglicismi dei doni e degli arricchimenti. Eppure, in passato, tutti avevano ben presente la differenza tra “arricchimento” e “snaturamento”. Anche i più agguerriti critici del purismo. Anche i più grandi teorici favorevoli all’accoglimento delle parole straniere.

L’identità linguistica in una prospettiva storica

Nel Cinquecento, mentre i puristi censuravano ogni parola dialettale, ogni barbarismo e ogni neologismo in nome della purezza della lingua delle tre corone toscane (Dante, Petrarca e Boccaccio), molti altri autori si schieravano sul fronte oppposto, e proclamavano che senza un’evoluzione che accogliesse ciò che era nuovo o arrivava da fuori, l’italiano si sarebbe ridotto alla lingua dei morti. In virtù della sua presunta “perfezione” avrebbe finito per cristallizzarsi in una lingua immobile, incapace di evolvere.

Niccolò Machiavelli
Nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, Niccolò Machiavelli (molto probabilmente) sosteneva la necessità di “accatar” parole dalle altre lingue.
Ma una lingua “convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, ed è sì potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro; perché quello ch’ella reca da altri, lo tira a sé in modo che par suo.”

Machiavelli si poneva dunque il problema di importare senza “disordinare” la propria identità linguistica, cioè di far diventare ciò che importiamo “parole nostre”, adattandole ai nostri suoni. Era dunque “necessario” importare nuovi vocaboli, “ma riducendosi, nel parlare, con i modi, con i casi, con le differenze e con gli accenti, fanno una medesima consonanza con i vocaboli di quella lingua che trovano, e così diventano suoi; perché, altrimenti, le lingue parrebbono rappezzate e non tornerebbono bene.”

E nel dialogo che immaginava di avere con Dante, l’autore gli metteva in bocca queste parole, a proposito dei latinismi utilizzati nella Divina Commedia: “Perché le dottrine varie di che io ragiono, mi costringono a pigliare vocaboli atti a poterle esprimere; e non si potendo se non con termini latini, io gli usavo, ma li deducevo in modo, con le desinenze, ch’io gli facevo diventare simili alla lingua del resto dell’opera.”

Ludovico Antonio Muratori
Un paio di secoli dopo, nel 1706, anche Ludovico Antonio Muratori, in Della perfetta poesia italiana, scriveva cose molto simili: “Nel secolo supposto d’oro, in cui gli Scrittori e dalla stessa Latina, e dalla Provenzale, e da i vari Dialetti d’Italia presero non pochi vocaboli, e modi di parlare, e li fecero divenir propri dell’Italiana.” E nel suo criticare il purismo di Bembo e dell’accademico della Crusca Salviati, che consideravano il modello dell’italiano quello dei grandi classici del Trecento, replicava: “Basta leggerli, e prender le mosse dal mezzo del cammin di nostra vita, ove son mille e mille rancidumi, e vocaboli affatto Latini, crudi, e oscuri, condannati dal Bembo stesso.” E quindi si domandava perché mai gli autori moderni non dovessero fare come gli antichi. Le parole nuove arricchiscono una lingua, invece di imbarbarirla: “Che se dopo la morte del Boccaccio si sono aggiunti alla Lingua molti vocaboli, e non poche locuzioni nuove: tanto è lontano, che la Lingua possa perciò dirsi intorbidata, che piú tosto dee confessarsi, esserne ella rimasa maggiormente arricchita, inleggiadrita, e nobilitata.”

Ancora una volta, la questione dell’identità linguistica era semplice e scontata: l’evoluzione passava per l’adattamento e il far divenire italiano ogni barbarismo.

Alessandro Verri
Sessant’anni più tardi, Alessandro Verri, dalle pagine del Caffè, lanciò la celebre “Rinunzia al Vocabolario della Crusca”, un vero e proprio manifesto contro il conservatorismo linguistico in nome della modernità: “Se il Mondo fosse stato sempre regolato dai Grammatici” non avremmo né case, né carrozze, né industria, scriveva. La conclusione fu la “solenne rinunzia” alla pretesa purezza della toscana favella: “Se italianizzando le parole francesi, tedesche, inglesi, turche, greche, arabe, sclavone, noi potremo rendere meglio le nostre idee, non ci asterremo di farlo.”

Anche Verri, con la parola “italianizzando” dava per scontato ciò che molti linguisti di oggi fanno finta di non capire. Ma se l’articolo del Caffè era solo una provocazione, alla fine del Settecento la questione fu ripresa da Melchiorre Cesarotti con ben altro spessore teorico.

Melchiorre Cesarotti
Nel Saggio sulla filosofia delle lingue, Cesarotti mostrava che non esiste alcuna lingua “pura” né inalterabile, e tutte, inizialmente, sono “barbare”, perché nascono dall’uso e dalla contaminazione, e non dai principi di autorità o da ordini prestabiliti. L’autore era favorevole ai francesismi che imperavano nel secolo dell’Illuminismo, e anche ai neologismi e ai tecnicismi, diremmo oggi. Ma distingueva il “genio grammaticale“, cioè la struttura di una lingua che deve rimanere immutabile (per esempio il sistema dei casi e delle declinazioni del latino), da quello “retorico” cioè la parte che si può e si deve cambiare, e che comprendeva il lessico, i prestiti, le parole derivate e gli usi traslati dello stile. E su quest’ultimo punto ricordava che gli scrittori sono liberi di ampliare i significati e di creare neologismi per analogia, per cui, nell’accettare parole come magnetismo, elettricità o chimica in senso tecnico, è poi normale che nascano usi metaforici e per estensione, come “sguardo magnetico”, “elettrizzar gli spiriti” o “chimica intellettuale” (cioè affinità).
Insomma, non c’è nulla di male ad adottare parole straniere – ma come male necessario e con cautela – e non si può sostenere che i forestierismi “guastino” una lingua. Ma ciò deve avvenire solo a determinate condizioni. Queste parole non devono intaccare la struttura della lingua e non devono entrare in contrasto con il genio grammaticale: “Quando un termine è conveniente all’idea, quando rappresenta vivamente l’oggetto o colla struttura de’ suoi elementi, o con qualche somiglianza o rapporto; quando inoltre è ben derivato, analogo nella formazione, non disacconcio nel suono, di qualunque autore egli siasi, a qualunque data appartenga, sia esso parlato, o scritto, o immaginato, sarà sempre ottimo, e da preferirsi ad altri insignificanti, strani, disadatti, che non abbiano altra raccomandazione che quella del Vocabolario.”

Giacomo Leopardi
Tutte queste riflessioni sono alla base anche delle posizioni di Leopardi. Nello Zibaldone scriveva che benché gli “europeismi” scientifici, e altre parole come “precisazione”, fossero spesso bollati come “barbarismi” provenienti dal francese, non erano affatto da condannare. E un vocabolo, “venisse ancora dalla lingua tartara, siccome l’uso decide della purità e bontà delle parole e dei modi, io credo che quello ch’è buono e conveniente per tutte le lingue d’Europa, debba esserlo.”

Anche per Leopardi, il criterio di demarcazione tra i prestiti che “corrompono” una lingua e quelli che la “arricchiscono” era molto chiaro: l’adattamento, l’italianizzazione. E venendo alla nostra lingua, scriveva: “Questo appunto è ciò di cui è capace, e non di perderla ed alterare il suo carattere per prenderne un altro forestiero, del che non fu e non è capace nessuna lingua senza corrompersi. E il pregio della lingua italiana consiste in ciò che la sua indole, senza perdersi, si può adattare a ogni sorta di stili.”

L’identità linguistica oggi

Oggi i linguisti si pongono nei confronti della lingua in modo descrittivo e il loro approccio si può riassumere nella massima per cui una lingua non va difesa, va studiata. Ma sembra che, nel far ciò, troppo spesso dimentichino che nell’evoluzione linguistica dei paletti vanno mantenuti.
Le migliaia di anglicismi che importiamo, reinventiamo e utilizziamo in modo crudo non hanno la “consonanza” auspicata da Machiavelli che li rende parole “nostre”: invece di “disordinare” la lingua di provenienza, “disordinano” la nostra che ne risulta “rappezzata”. Se non li facciamo “divenir nostri” come spiegava Muratori, invece di “arricchire, inleggiadrire, e nobilitare” il nostro idioma, lo rendono “intorbidato”. Se non li “italianizziamo” come proponeva Verri, rimangono “disacconci nel suono” e nella formazione come diceva Cesarotti, ed entrano perciò in contrasto con “il genio grammaticale” che dovrebbe invece rimanere immutato; e anche il pregio della lingua italiana di “non corrompersi” e di “non alterare” la sua “indole” invocato da Leopardi svanisce, se assume un “carattere straniero”.

Ecco perché, nel suo “Morbus Anglicus”, Arrigo Castellani definiva gli anglicismi “corpi estranei”. Ecco perché scriveva: “I principali responsabili delle violazioni subite dalle regole fondamentali dell’italiano son forse i giornalisti (compresi naturalmente quelli televisivi). Per pigrizia, si dirà, per mancanza di fantasia, per desiderio di dare ad intendere che conoscono bene l’inglese. Io aggiungerei per un altro motivo: perché nella gran maggioranza dei casi non si rendono conto di come stiano le cose; perché al liceo nessuno gli ha detto quali sono i caratteri fondamentali dell’italiano, quali sono i cambiamenti ch’esso può subire e quali invece sono contrari alla sua natura.”

Posso capire “l’ignoranza” di un giornalista italiano davanti alla questione, e posso capire che “non si renda conto di come stiano le cose”.
Quello che non posso comprendere è come uno studioso o uno specialista non abbia presente secoli di riflessioni sulla nostra identità linguistica.


L’attuale fenomeno dell’itanglese è uno “tsunami anglicus” che non ha precedenti storici per numero, per profondità e per conseguenze: ibrida la nostra lingua e sta cominciando a sovvertire la sintassi (Cfr. Peter Doubt, “Oltre il lessico: 8 esempi strutturali di creolizzazione” da cui rubo la seguente immagine).

Quando qualcuno risponde che le lingue evolvono come è sempre accaduto… quando dice che tutto ciò è “normale” e mescola in un calderone le parole adattate e quelle crude confondendo le acque, bisogna fare attenzione. O non ha studiato come stanno le cose, o è in malafede.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

L’inglese sottrattivo

Di Antonio Zoppetti

C’è un luogo comune molto diffuso per cui ad abusare dell’inglese sarebbe soprattutto chi lo conosce poco, e proprio per questo lo ostenterebbe infilandolo nell’italiano spesso a sproposito, visti i tanti pseudoanglicismi in circolazione. “Chi conosce bene l’inglese non lo mescola con l’italiano”, si dice, e in questa convinzione c’è persino chi pensa che le contaminazioni che danno origine all’itanglese siano addirittura inversamente proporzionali al grado di conoscenza della lingua di Albione.

Questa leggenda non solo è poco sostenibile, ma contiene una visione tipicamente anglomane che sottintende che basterebbe dunque studiare bene l’inglese per “salvare” la lingua italiana, una sciocchezza funzionale al progetto di fare dell’inglese la lingua internazionale alla quale tutto il pianeta si dovrebbe inchinare.

Certo, di sicuro molti di coloro che praticano l’itanglese lo fanno senza cognizione di causa, ma decurtazioni come social e basket al posto di social network e basketball, o espressioni demenziali – dal punto di vista dell’inglese ortodosso – come smart working, no vax e no tamp, si sono ormai affermate nell’uso e sono nelle bocche di tutti, anche di chi conosce molto bene la lingua di Shakespeare che tra l’altro è ben diversa dal globalese, l’inglese maccheronico dell’Economist e della global governance, dell’austerity, del fiscal compact e dello spread, per dirla con Diego Fusaro.

Indubbiamente è vero che i professori italiani che insegnano la lingua inglese aborrono l’itanglish, e lo stesso vale per gli stessi inglesi inorriditi e infastiditi dalle nostre spurie mescolanze all’italiana. Ma ciò non significa affatto che la via per salvare l’italiano sia quella di sapere bene l’inglese, anzi! Affermazioni di questo tipo sembrano volte a non stravolgere la purezza dell’inglese britannico più che attente alla nostra lingua. La verità è che per parlare in italiano bisognerebbe semplicemente amarlo e andarne fieri e basta sentire certi corrispondenti televisivi da New York – come Federico Rampini o Giovanna Botteri, tanto per non fare nomi – per renderci conto di come proprio loro ostentino e importino le espressioni in inglese per mostrare la loro grande conoscenza degli Stati Uniti che esaltano come un modello superiore, sostanzialmente fregandosene della lingua italiana. A importare parole come lockdown o fake news sono stati proprio giornalisti come questi che virgolettano le espressioni d’oltreoceano e delle agenzie internazionali con orgoglio, invece che voler rendere le stesse cose nella nostra lingua.

Avrebbe senso sostenere che chi un tempo si riempiva la bocca di citazioni latine in realtà non lo sapesse affatto? Credo di no, il ricorso a queste espressioni è trasversale alla sua conoscenza, e riguarda il latinorum degli azzeccagarbugli o quello dei professoroni, così come la lingua maccheronica di chi storpia involontariamente le massime – una volta ho sentito persino dulcium in fundis – o si è inventato il porcellum e il mattarellum con la stessa logica del lessico delle Sturmtruppen.

Tsunami anglicus e conoscenza dell’inglese

L’anglicizzazione delle lingue locali non è un fenomeno solo italiano, anche se siamo messi molto peggio degli altri Paesi, è un evento mondiale e ovunque sono nati neologismi per dargli un nome, che in Francia è il franglais, in Spagna spanglish, in Germania Denglisch e così via fino al greenglish greco, il runglish della Russia, il konglish per il coreano, il tinglish per il thai, il japish per il giapponese… Queste contaminazioni non si possono mettere in correlazione con il grado di conoscenza della lingua inglese, tutt’altro.
Anche se circola l’idea – sempre figlia della religione del globish come lingua sovranazionale – per cui gli italiani non conoscono l’inglese (il che è presentato come un peccato mortale nella logica catechizzante che ci deve convertire tutti alla lingua madre dei popoli dominanti e alla cancellazione del plurilinguismo), va detto che siamo in linea con la media europea. Dai dati Eurobaromentro 2012 risulta che solo il 15% degli europei dichiara di padroneggiare bene l’inglese, la restante porzione di chi l’ha studiato non è in grado di comprendere i contenuti di riviste o film né di utilizzarlo per esprimere un pensiero meno superficiale di quello dell’inglese turistico. E questa conoscenza è distribuita in modo squilibrato, perché tocca punte dall’86% al 90% degli olandesi, danesi e svedesi, ma solo dal 20% al 33% di spagnoli, ungheresi, bulgari, rumeni, polacchi e italiani. Eppure, proprio in Svezia, lo swinglish è in costante crescita e uno studio dell’Università di Stoccolma ha rilevato che sempre più parlanti cominciano a formare il plurale delle parole con la “s” invece che con le forme dello svedese che ricorre a “or”, “er” e “ar”[1].

Gli anglicismi che circolano nelle lingue di mezzo mondo, al contrario degli altri forestierismi che hanno una presenza limitata, non sono più un arricchimento e un qualcosa che si aggiunge, diventano al contrario un impoverimento della lingua con un evidente effetto sottrattivo. Le parole inglesi si trasformano in stereotipi e automatismi espressivi che si impongono a scapito delle alternative locali e spesso le fanno regredire o morire, come è successo da noi con “prestiti sterminatori” come computer che ha soppiantato il calcolatore o l’elaboratore. E quando si ricorre a spread invece di scarto, a killer invece di assassino, a droplet invece di goccioline, a trend per tendenza, cluster per focolaio, hub per centro… si sta distruggendo la propria lingua più che arricchirla attraverso quelli che qualcuno ha definito dei “doni”.

Queste parole sono solo i detriti che percolano soprattutto attraverso l’inglese internazionale diffuso da giornalisti, scienziati, imprenditori, pubblicitari, scienziati… e sono da mettere in correlazione con questo fenomeno, non con un’ostentazione dell’inglese maccheronico all’Alberto Sordi che riguarda un numero di parole ben più limitato e certi personaggi pubblici dipinti come macchiette.

Se si esce dall’ambito lessicale e delle singole parole, lo stesso effetto collaterale devastante per le lingue locali riguarda proprio l’utilizzo dell’inglese nell’ambito scientifico o quello della formazione universitaria.

L’inglese come lingua dell’università o della scienza non è un processo “aggiuntivo”, una risorsa in più che si affianca alla cultura nativa, bensì un processo sottrattivo che porta alla regressione delle lingue nazionali e del lessico nativo. E il caso dell’Olanda è esemplare.

L’inglese sottrattivo

Il 90% degli olandesi conosce bene l’inglese e quasi la metà dei corsi universitari sono tenuti in inglese, ma si arriva addirittura all’85% nel caso dei master e della formazione post-universitaria. Questa politica funziona nel suo attrarre gli studenti stranieri, e il rettore dell’Università di Utrecht, Henk Kummeling, ha dichiarato: “Per competere internazionalmente ha più senso utilizzare una lingua mondiale”.L’anglicizzazione del sistema universitario olandese, insomma, nasce dal bisogno di competere e attirare studenti, ovvero da esigenze di mercato. Ma queste scelte hanno anche i loro contro, e benché la quasi totalità degli olandesi consideri l’inglese la propria seconda lingua, molti temono per la perdita dell’idioma locale. “Se usi l’inglese nell’istruzione superiore”, ha spiegato alla Bbc la professoressa di linguistica all’Università di Amsterdam Annette de Groot, “l’olandese chiaramente peggiorerà. Si tratta di usarlo o perderlo. L’olandese si deteriorerà e la vitalità della lingua scomparirà. Si chiama bilinguismo squilibrato. Aggiungi un po’ di inglese e perdi un po’ di olandese”. A confermare questi timori non ci sono solo i difensori del plurilinguismo o i critici del globish, persino gli anglomani più accesi sono costretti ad ammettere questi effetti collaterali, e un autore come Gaston Dorren, entusiasta sostenitore dell’inglese globale, nel rilevare che questo processo non porta all’estinzione delle lingue locali che continuano a essere parlate con orgoglio nella vita quotidiana, ha dovuto per ammettere: “Anche l’olandese per esempio, che ha 25 milioni di parlanti, sta perdendo il dominio scientifico e del business, perché la maggior parte dei corsi scientifici universitari sono in inglese e nelle compagnie multinazionali le persone parlano in inglese.”

La perdita del dominio di alcuni ambiti sembra non preoccupare gli angloentusiasti, come se questo prezzo da pagare fosse poca cosa. La verità è che l’inglese sta sottraendo alle lingue locali sempre più ambiti, e persino la Svezia, che aveva sperimentato l’insegnamento nel solo inglese, ci ha ripensato ritenendo questa scelta dannosa per il futuro del Paese.[2]

Per comprendere le relazioni pericolose tra globalese e itanglese, basta guardare la comunicazione del Politecnico di Milano, che dopo lunghe e complicate vicende giudiziarie, continua a erogare corsi prevalentemente in inglese. Mi hanno appena segnalato alcuni “webinar” organizzati dal Dipartimento di Energia, intitolati “Energy for Motion”, che prevedono interventi in “italiano” i cui titoli sono: “Il ruolo dell’idrogeno per il sector coupling dei settori power e mobility”, “La sfida della durability delle celle a combustibile polimeriche nel settore dei trasporti”, “Lo sviluppo di power train ad idrogeno per heavy duty”, “Lo sviluppo di polimeri speciali per applicazioni nella hydrogen economy”…

In questo linguaggio che si usa per la formazione emerge l’altra faccia della scelta di insegnare in inglese, dove l’italiano si riduce a un ibrido e a una pochezza di cui ci si vergogna, perché se l’insegnamento avviene in inglese anche i concetti chiave diventano inglesi, e occupano la parte alta della gerarchia delle parole, la parte superiore della lingua, per cui si parla dei settori “power” e “mobility” o di “durability” come fosse normale e come se l’italiano non esistesse.

Questo linguaggio è la diretta conseguenza dell’anglificazione dell’ateneo, e questo itanglese non si può liquidare con la favola che chi conosce l’inglese non lo mescola con l’italiano, dimostrano invece tutto il contrario: usare l’inglese fa regredire l’italiano.

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Note

1) Robert McCrum, William Cran, Robert MacNeil, La storia delle lingue inglesi, Zanichelli, Bologna 1992, p. 43.
2) Cfr. Paolo Di Stefano, “Non solo Inglese. Perché è un affare difendere l’italiano”, Corriere della sera, 7/11/2011, Cultura, p. 32.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Gli effetti collaterali dell’inglese internazionale e il caso Islanda

(C) 2021 Antonio Zoppetti, riproduzione riservata

L’inglese internazionale non è solo quello commerciale o turistico che può essere anche comodo per farsi capire quando si va in vacanza in qualche Paese di cui non si conosce la lingua. Questo inglese è in fondo una riduzione a pochi vocaboli e a frasi di circostanza che hanno un pura funzione comunicativa. Ma una lingua non è solo comunicazione, si porta con sé processi molto più profondi che coinvolgono il modo di pensare. Il filosofo, logico e matematico viennese Ludwig Wittgenstein, nel suo Tractatus pubblicato un secolo fa, scriveva: “I limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo”, perché il linguaggio descrive la realtà, e non è possibile pensare e descrivere la realtà in modo indipendente dal linguaggio. Come ha osservato Andrea Zhok: “Chi pensa a una lingua naturale come a un vestito neutrale, da indossare a piacimento senza che nulla cambi nella propria personalità e nel proprio pensiero, ha semplicemente un’esperienza della lingua povera, meccanica, circoscritta e meramente tecnica.”

Non si può allora dimenticare che l’inglese turistico e ristretto si basa sulla semplificazione della lingua madre dei popoli e delle culture dominanti, e questa lingua naturale ha una profondità che travalica la semplice comunicazione, è espressione del pensiero. Quando l’inglese internazionale diventa la lingua da esportare e da utilizzare in ambiti che coinvolgono il modo di pensare – come quando lo si impiega per la formazione universitaria, ma anche nella scienza o sul lavoro – entrano in gioco fattori complessi che hanno a che fare con i processi di astrazione e la concettualizzazione che sta sotto la lingua.
Fare dell’inglese la soluzione internazionale che ricostruisce la torre di Babele attraverso un grattacielo che assomiglia a quelli americani in cui si parla l’angloamericano non rappresenta solo un problema etico, per cui per essere “internazionali” si dovrebbe rinunciare alla propria lingua nativa per utilizzare quella di chi è più forte. Questa strategia ha anche degli “effetti collaterali” che portano a schiacciare le altre lingue e a non riconoscere il valore del plurilinguismo e delle altre culture. Ma soprattutto, l’inglese globale entra in conflitto con le altre lingue e si trasforma in una minaccia per quelle deboli o minoritarie.

L’anglicizzazione degli idiomi locali e le ibridazioni

L’effetto collaterale più evidente, e tutto sommato meno profondo, lo si vede nell’anglicizzazione di ogni idioma, nello “tsunami anglicus”, per dirla con Tullio De Mauro, che si riscontra in ogni luogo. Gli anglicismi sono i detriti del globalese, la lingua della globalizzazione, che penetrano in modo sempre più ampio e profondo nel lessico di ogni parlata, un fenomeno così pervasivo che ovunque ha ormai il suo nome: l’itanglese corrisponde a ciò che in Francia si chiama franglais, in Spagna spaglish, in Germania Denglisch, in Svezia swinglish, in Grecia greenglish, in Russia runglish e così via sino al konglish per il coreano o il japish per il giapponese.

Queste contaminazioni, quando diventano troppo estese e pesanti possono snaturare le lingue locali, e possono dare origine a lingue ibride, cioè mescolate, o creolizzate, il che si verifica quando il mescolamento non è paritario e la lingua dominate schiaccia quella di rango inferiore. Questo fenomeno avviene di solito nei territori dove esiste un bilinguismo locale che porta appunto alle enunciazioni mistilingue e al passaggio di un codice all’altro nelle stesse frasi. È il caso per esempio dello spanglish che ha preso piede nell’America latina, diffuso nelle comunità bilingui tra ispanici, portoricani o messicani, ma anche nelle aree statunitensi a forte presenza ispanica.

In altri casi il bilinguismo sul territorio porta invece a una diglossia, cioè a una gerarchia delle lingue dove la lingua locale diventa quella di serie B, quella del popolo, delle fasce deboli e “ignoranti”, mentre l’inglese è quella di serie A, della cultura, dei ceti sociali alti.
Questa diglossia è forte per esempio in India, dove l’inglese è stato introdotto ai tempi delle colonie britanniche. Da una parte è nata la variante dell’angloindiano che ha ormai assunto le sue forme e connotazioni particolari, tanto che Salman Rushdie ha rivendicato con orgoglio l’indian english dei suoi libri, che travalicherebbe quello ortodosso imponendosi come nuova varietà “autonoma”. Ma questa variante, più che essere sbandierata come il trionfo del meticciato e la lingua di quella popolazione, appare più come figlia del colonialismo. E proprio in India, l’inglese, ortodosso o meticcio, è diventato un simbolo, una lingua superiore, un modo di distinguersi socialmente con delle ricadute molto pratiche. Parlare l’hindi appartiene ai ceti bassi, mentre avere accesso all’inglese è un segno di cultura, un modo per elevarsi, al punto che per il 95% degli uomini la sua conoscenza è diventata un requisito fondamentale da cercare in una donna da sposare, come fosse una dote, perché una moglie che conosce l’inglese è essenziale per frequentare l’alta società (1), mentre dell’hindi ci si vergogna. Lo si vede persino in alcune pellicole di Bollywood, una delle più celebri è Quando parla il cuore (2) che narra le vicende di una donna alla ricerca dell’indipendenza, del rispetto e del riscatto proprio attraverso la conoscenza dell’inglese che va a imparare a New York.

Il globalese che minaccia le lingue minoritarie

Un altro ben più grave effetto collaterale del globalese consiste in un ulteriore passo rispetto al ricorso all’inglese per motivi sociolinguistici, che sono una scelta per elevarsi socialmente e per identificarsi nel gruppo di appartenenza elitario. Il proseguimento di questo processo può portare all’abbandono della propria lingua. Ed è in questo modo che le lingue minori possono scomparire e morire. Questo fenomeno può essere spontaneo, ma può anche essere il risultato di un’imposizione, proprio come è avvenuto, ma avviene ancora oggi, in Africa. È un processo raccontato molto bene dallo scrittore africano Ngũgĩ wa Thiong’o (3) che ne ha vissuto le conseguenze sulla propria pelle. Tutto ha avuto inizio nel 1884 a Berlino, quando venne sancita la spartizione dell’Africa non solo nelle nuove frontiere disegnate a tavolino, ma anche nelle diverse lingue delle potenze europee. I Paesi africani, che un tempo erano colonie e oggi assomigliano a neocolonie, sono stati divisi in territori di lingua inglese, francese e portoghese. Con la nascita delle scuole coloniali che impartivano le lezioni nelle lingue imposte, questo colonialismo linguistico fu portato a termine, determinando la morte di molte lingue locali minoritarie. A lungo andare gli africani hanno cominciato a identificare e definire la propria identità attraverso queste lingue (4), e ancora oggi sono francofoni o anglofoni, anche se successivamente sono sorte anche le aree arabe. Per questo motivo Thiong’o, davanti all’odierno strapotere del globalese, invita a ribellarsi all’inglese, la lingua colonizzatrice che “fiorisce sul cimitero degli altri idiomi.” (5) Ma anche il tunisino Claude Hagège ha denunciato “un olocausto che fluisce senza sosta, apparentemente nell’indifferenza generale” determinato soprattutto dall’inglese, che “svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle lingue”. (6) Ha calcolato che nel mondo “ogni anno muoiono venticinque lingue: un fenomeno di dimensioni spaventose”. (7) Se oggi quelle vive sono circa 5.000, fra un secolo saranno la metà, se non cambia qualcosa.

Queste preoccupazioni non si trovano solo in autori legati all’Africa, e la costatazione per cui tantissime lingue minori scompaiono dal nostro pianeta, con una velocità maggiore di quella della scomparsa delle specie viventi, è al centro delle riflessioni della finlandese Tove Skutnabb-Kangas, che insegna all’università danese di Roskilde e all’accademia universitaria di Vasa in Finlandia, e che da anni si batte per i “diritti linguistici” delle popolazioni e delle minoranze, linguistiche e culturali. Il riduzionismo monolinguistico, secondo la studiosa, non è solo ingiusto, ma è un “cancro” a cui va contrapposto il riconoscimento dei diritti linguistici. (8)

L’inglese internazionale non minaccia solo i Paesi africani o lontani, a rischio ci sono anche le lingue d’Europa, quando sono parlate da un ristretto numero di persone, e il caso dell’Islanda è il più grave.

Il caso islandese e la “minoritarizzazione digitale”

Gli islandesi sono poco più di 300.000, un numero di parlanti estremamente basso, così basso che non sono considerati un mercato appetibile per le multinazionali che non hanno convenienza a tradurre in quella lingua. I film e le serie tv americane per tradizione non sono mai doppiate, ma al massimo sottotitolate, e nell’era di Netflix tendono a circolare direttamente in lingua inglese. L’islandese non è contemplato come lingua della tecnologia basata sul riconoscimento vocale, da Siri ad Alexa, e la conseguenza è che tutto avviene direttamente in inglese, e anche le localizzazioni di piattaforme come Facebook in islandese sono parziali e malfatte.

Il crollo economico di quel Paese, avvenuto nel 2008, ha portato all’abbassamento dei prezzi e all’aumento vertiginoso dei turisti: nel 2008 erano cresciuti sino a 500.000, ma nel 2017 sono stati 2 milioni (più di 5 volte il numero degli abitanti dell’Islanda) e l’inglese è diventata la lingua che di norma si usa anche nei locali e nei negozi, al punto che nei bar e nei ristoranti del centro di Reykjavík non di rado ci si rivolge ai clienti direttamente in inglese.

Quello che sta avvenendo è stato definito dal linguista Eiríkur Rögnvaldsson, professore dell’Università d’Islanda, il fenomeno della “minoritarizzazione digitale”, dove una lingua viva e parlata nel mondo reale si trasforma nel mondo digitale in una lingua secondaria che di fatto non esiste, o lascia poche tracce di sé. Questo fenomeno ha delle ricadute pesanti sui parlanti, perché ormai l’ambiente digitale e quello televisivo sono diventati preponderanti e il tempo che la gente dedica a queste attività è sempre maggiore. Se le interfacce dei cellulari e l’ambiente virtuale parlano l’inglese, finisce che diventa la lingua prioritaria e questo ha un impatto forte soprattutto sulle giovani generazioni, che trascorrono sempre più ore in un mondo digitale che li espone al solo inglese. Su telefonini, tablet, computer, televisioni è tutto un pullulare di giochi, film, serie televisive, video e canzoni in inglese. In questo modo ci si abitua a pensare in inglese e le parole native non vengono più in mente. E in inglese non solo si interagisce con le piattaforme sociali e tecnologiche, ma sempre più spesso anche con gli altri, vista la larga conoscenza di quella lingua. Al punto che gli insegnanti delle scuole secondarie riferiscono che i quindicenni, in cortile durante la ricreazione, sempre più spesso parlano tra loro in inglese. Da una stima sul fenomeno risulta che un terzo degli islandesi dai 13 ai 15 anni parli in inglese con i propri amici, (9) mentre alcune indagini rilevano che nelle fasce dei più piccoli, i bambini riferiscono agli specialisti che non sono in grado di indicare un termine islandese per molte delle figure che vengono loro mostrate. Il rischio paventato da Eiríkur è quello di assistere a una nuova generazione che si forma senza una vera e propria lingua madre. (10) Per i giovani che si nutrono di prodotti di intrattenimento digitali in inglese, in un Paese dove persino al suo interno la lingua locale è sempre meno diffusa, la domanda che ricorre è: “A cosa mi serve parlare in islandese?” E a quel punto passano direttamente all’inglese.

Davanti a questo fenomeno preoccupante il governo ha compreso il problema e varato politiche linguistiche e provvedimenti per favorire la lettura dei libri in islandese, visto che ha subito un calo notevole negli ultimi anni. Inoltre, sono stati stanziati 20 milioni di euro da destinare alle iniziative che lavorino a tecnologie in lingua islandese, (11) che sono fondamentali per arginare l’invadenza dell’inglese globale. Se in Italia la scarsa conoscenza dell’inglese ci mette al riparo dall’abbandonare la nostra lingua, che ha anche una forza e una storia letteraria ben diversa da quella islandese, vediamo lo stesso i risultati che sul piano linguistico comportano le interfacce informatiche concepite nell’anglosfera con i termini dell’anglomondo. Il 50% dei lemmi marcati come informatici, sul Devoto Oli, sono appunto in inglese crudo, e se fino agli anni Settanta potevamo esprimere l’informatica nella nostra lingua, oggi non è più possibile, senza la stampella degli anglicismi. Anche se da noi non esiste alcun bilinguismo sul territorio, esiste però un bilinguismo virtuale e culturale rappresentato dalle interfacce con cui interagiamo in Rete che parlano in inglese e che a livello lessicale abbiamo rinunciato a tradurre passando alla strategia dell’importazione in modo crudo, che consiste nell’adottare invece di adattare.

Mentre in Francia e in Spagna le accademie coniano neologismi autoctoni alternativi a quelli inglesi e li promuovono, e mentre in Germania questo lavoro viene fatto da associazioni sorte dal basso come la VDS che pubblica annualmente l’Indice degli anglicismi con i loro sostitutivi, da noi non c’è nulla del genere, né di istituzionale né di privato (il dizionario AAA è solo una goccia). E il risultato è che da noi le alternative non esistono e siamo costretti a ricorrere agli anglicismi “di necessità”, mentre in Francia, per esempio, ricorrere all’inglese diventa una scelta sociolinguistica culturale o politica, come scrive la terminologa Maria Teresa Zanola, che nota come la reazione al franglais supportato dalle iniziative pubbliche e private ha favorito la coniazione di neologismi e l’evoluzione della lingua francese che è in questo modo piuttosto vitale, (12) al contrario dell’italiano che regredisce.

In Islanda, la figura del “neologista” esiste ufficialmente, e crea alternative agli anglicismi attraverso neoconiazioni che partono dalle radici endogene, cioè dalla propria lingua. Questi linguisti hanno il compito di rinnovare l’islandese e di tenerlo al passo con i tempi creando parole per ogni oggetto o concetto importato. In un primo tempo questi termini venivano pubblicati sui giornali, ma oggi circolano glossari cartacei e dizionari in Rete. E tutto ciò viene fatto formalmente da un apposito dipartimento dello Stato, nel Dipartimento della Pianificazione del Linguaggio che sorge in un istituto culturale nel centro della capitale.

E allora, quando si fa dell’inglese la soluzione alla comunicazione internazionale, quando lo si vende come una lingua che apparterrebbe “a tutti” e che ci unificherebbe, si omette di dire che questa “unificazione” si fa a scapito del plurilinguismo e che è un’unificazione che allo stesso tempo divide e crea barriere sociali. Che non è la lingua di tutti, ma quella dei popoli dominanti che hanno tutta la convenienza a esportarla come “universale” perché costituisce un indotto economico spropositato, perché dà loro un enorme vantaggio comunicativo e perché permette loro di non apprendere alcuna altra lingua e di destinare gli altissimi costi dello studio di una seconda lingua verso altre direzioni come la ricerca. E soprattutto si omette di raccontare anche quali sono gli effetti collaterali di questo globalese tanto esaltato.

Note

1) Cfr. Robert McCrum, William Cran, Robert MacNeil, La storia delle lingue inglesi, Zanichelli, Bologna 1992, p. 39.
2) English Vinglish, di Gauri Shinde (2012) interpretato dall’attrice Sridevi Kapoor, soprannominata la “Meryl Streep d’India”.
3) Ngũgĩ wa Thiong’o, Decolonizzare la mente, Jaka Book, Milano 2015.
4) Ivi, p. 16.
5) “Scrittori, ribelliamoci all’inglese”, di Pietro Veronese (intervista a Ngũgĩ wa Thiong’o), la Repubblica, 2 agosto 2019.
6) Claude Hagège, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano 2002, p. 7.
7) Ivi, p. 99.
8) Cfr. Tove Skutnabb-Kangas, “I diritti umani e le ingiustizie linguistiche. Un futuro per la diversità? Teorie, esperienze e strumenti”, in Come si è ristretto il mondo, a cura di Francesco Susi, Amando Editore, Roma 1999 (p. 85-114), p. 99.
9) Cfr. Fiona Zublin, “Iceland Fights to Protect Its Native Tongue From Siri”, in Ozy.com, 9/7/2018.
10) Cfr. Cristina Piotti “Islandese, una lingua a rischio estinzione”, IL – Il maschile del Sole 24 ore, 21/02/2019. 10
11) Ivi.
12) Maria Teresa Zanola, “Les anglicismes et le français du XXIe siècle : La fin du franglais ?”, Synergies Italie, n. 4,‎ 2008, p. 95.


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