L’inglese globale: un giro d’affari che spazza via il plurilinguismo

Di Antonio Zoppetti

Il mese scorso è uscito un articolo di Maria Teresa Carbone (me l’ha segnalato Carla Crivello) che riferisce di come in Germania si stia assistendo a un calo dell’editoria nella lingua locale che corrisponde a un aumento delle vendite dei libri in lingua inglese. Un fenomeno che si registra anche in altri Paesi con una forte conoscenza dell’inglese. In pratica conoscere bene l’inglese permette di leggere direttamente i libri in lingua originale, il che può essere salutato come un fatto positivo (soprattutto per gli anglofoni) anche se ha delle ricadute sul mercato editoriale interno. Il fenomeno esce dall’editoria cartacea, vale anche per il mercato cinematografico, televisivo e per gli altri settori, e ha delle ricadute distruttive per le lingue locali che si vedono soprattutto in Paesi come l’Islanda.

Maria Teresa Carbone (traduttrice di Decolonizzare la mente di Ngugi wa Thiong’o, Jaca Book, Milano 2015) è molto sensibile al tema del plurilinguismo, ha ben presente anche gli effetti collaterali dell’espansione di una lingua coloniale e imperiale che punta a imporsi come lingua internazionale, e si domanda: “Se la ‘bibliodiversità’ scrive e legge (quasi solo) in inglese, è una vera diversità?”. Nella chiusa del suo pezzo mostra di cogliere bene anche la relazione che c’è tra il globalese e l’anglicizzazione delle lingue locali, che in Italia è particolarmente devastante.

Fare dell’inglese la lingua franca dell’Occidente è il contrario del plurilinguismo: le lingue locali non sono considerate una ricchezza ma un ostacolo alla comunicazione internazionale che dovrebbe avvenire nella lingua naturale dei popoli dominanti. Questo disegno è alla base della moderna diglossia che relega tutte le altre lingue a un rango inferiore.

La posta in gioco di rendere la lingua inglese come universale si porta con sé anche l’esportazione dei valori e del modo di pensare dei Paesi dominanti, e tutto ciò possiede un valore incalcolabile e difficilmente monetizzabile. Mentre da noi domina l’anglomania soprattutto nella nostra classe dirigente, e in pochi si rendono conto degli effetti devastanti del globish, gli anglofoni sanno benissimo il valore che l’imposizione della loro lingua agli altri comporta, e perseguono questo progetto in modo molto lucido e consapevole. Nel 1997, il funzionario dell’amministrazione Clinton David Rothkopf ha dichiarato:

“L’obiettivo centrale della politica estera nell’era dell’informazione deve essere, per gli Stati Uniti, il successo dei flussi dell’informazione mondiale, per esercitare il suo dominio sulle onde come la Gran Bretagna, in altri tempi, lo ha esercitato sui mari. […] Ne va dell’interesse economico e politico degli Stati Uniti vegliare affinché sia l’inglese ad essere adottato quale lingua comune del mondo; affinché siano le norme americane a imporsi nel caso si dovessero emanare norme comuni in materia di telecomunicazioni, di sicurezza e di qualità; affinché, se le varie parti del mondo sono collegate fra loro attraverso la televisione, la radio e la musica, i programmi trasmessi siano americani: e affinché, ad essere scelti come valori comuni, ci siano valori in cui gli Americani si riconoscono” (David Rothkopf, “In Praise of Cultural Imperialism?” in Foreign Policy, n. 107, 1997).

Queste parole ricordano ciò che aveva esplicitamente preconizzato Churchill in un discorso agli studenti dell’università di Harvard il 6 settembre 1943:

“Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente” (la citazione è al minuto 13:18).

Gli introiti dell’inglese internazionale

Come ho già scritto:

“Se il valore che deriva dall’utilizzo della propria lingua sul piano internazionale è difficile da valutare, il tempo e le spese per lo studio dell’inglese che i Paesi non anglofoni si devono sobbarcare sono altissimi, e includono molte voci, a cominciare dai libri di testo, che incidono molto poco percentualmente, ma sono pur sempre un indotto importante. Secondo l’economista ungherese Áron Lukács, per esempio, ogni anno si stampano 800 milioni di libri a supporto dell’insegnamento dell’inglese, mentre circa 700.000 persone si recano nel Regno Unito per imparare la lingua, un numero che si amplierebbe enormemente se si includessero gli Stati Uniti e gli altri Paesi anglofoni. Gli introiti di questi viaggi sono molto appetibili, ma anche il giro di affari di chi eroga i corsi è sterminato, senza contare l’indotto delle tantissime certificazioni come quelle di Cambridge o del TOEFEL americano. Fare dell’inglese la lingua globale significa accaparrarsi questo mercato e farlo diventare un monopolio, lasciando il mercato delle altre lingue alla nicchia che coinvolge solo chi ne studia più di una. Questi costi sarebbero distribuiti in modo diverso, e sarebbero anche soldi ben spesi, se fossero impiegati per lo studio di una ‘seconda lingua’ per motivi culturali, invece di essere convogliati solo verso l’anglosfera. Ma lo studio dell’inglese non è più inquadrabile come un fatto semplicemente culturale: in Italia e in sempre più Paesi è diventato un requisito indispensabile, e le motivazioni sono pratiche, perché sono ormai collegate alla sopravvivenza e alla possibilità di ottenere un posto di lavoro. In questo contesto l’inglese diventa la cultura obbligatoria e tutto il resto si trasforma in qualcosa di facoltativo e di serie B. E allora questi costi non sono uguali per tutti” (Lo tusnami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica, goWare, Firenze 2023, p.156).

I vantaggi degli anglofoni

Riporto un altro brano dal libro già citato (pp. 153-154):

“Mentre in Europa si insegna l’inglese sin dalle elementari, quali lingue straniere studiano gli inglesi e gli angloamericani? In pratica nessuna. Al contrario degli altri popoli, tendenzialmente apprendono solo la propria lingua. (…) Nel 2004, il governo laburista inglese ha reso l’insegnamento delle lingue straniere opzionale per i ragazzi dai 14 ai 16 anni, contribuendo al declino dell’interesse generale a imparare le lingue, e nell’agosto del 2010, il parlamentare inglese liberale Mark Oaten ha dichiarato esplicitamente a Sky News: ‘La lingua internazionale degli affari è l’inglese. Imparare il tedesco è inutile. Preferirei di gran lunga che mio figlio imparasse qualcosa di reale valore e utilità. Imparare il tedesco non gli farà ottenere un lavoro’.
In questo quadro, il numero degli studenti britannici che studiavano francese è diminuito del 6% nel solo 2010, e più in generale, nell’arco di un decennio, gli studenti di francese e di tedesco si sono dimezzati. I dati elaborati nel 2018 dal British Council sullo studio di una seconda lingua a livello del GCSE (la scuola superiore) registrano diminuzioni impressionanti nel Regno Unito. Se nel 2002 coinvolgeva il 76% degli studenti, nel 2017 si è scesi al 47%! Come ha scritto Alessandro Allocca sul sito LondraItalia.com, ‘mentre il resto del mondo investe miliardi per imparare l’inglese, sia attraverso la scuola pubblica che corsi privati, il Regno Unito è sempre meno interessato a perfezionare le proprie conoscenze verso una lingua che non sia la propria’.
E se in Europa gli atenei stanno aumentando il numero dei corsi tenuti in lingua inglese, nelle università britanniche i corsi tenuti in altre lingue praticamente non esistono.”

Se l’Ue investe miliardi di euro per formare le nuove generazioni in inglese a partire dalle scuole elementari, gli Stati Uniti e il Regno Unito, che nel frattempo è uscito dall’Europa, non si sobbarcano questi costi che possono destinare verso altri settori. Nel resto del mondo il numero delle persone che studiano l’inglese è impressionante, ed è stato notato che i cinesi che lo imparano sono di più degli stessi angloamericani, che a loro volta hanno tutto l’interesse che la propria lingua naturale non sia più considerata una “lingua straniera”, per il pianeta, bensì “un’abilità di base”.

Sarebbe ora di riflettere seriamente su queste cose, ma purtroppo raramente trovano spazio sui giornali e nella nostra intellighenzia.

L’imposizione surrettizia dell’inglese a scapito dell’italiano e delle altre lingue

Di Antonio Zoppetti


Mentre giorno dopo giorno uno tsunami di anglicismi si riversa nella nostra lingua, snaturandola, allo stesso tempo l’italiano regredisce e perde terreno davanti all’inglese non solo sul piano internazionale, ma anche su quello interno. Non ci vuole un genio per capire che le due cose sono strettamente connesse.
L’anglicizzazione e l’itanglese sono l’effetto collaterale di una mentalità e di una politica che pone l’inglese in primo piano e lo impone nella società, perché lo considera superiore a tutte le altre lingue e anche alla nostra. E così anno dopo anno la “dittatura dell’inglese” guadagna terreno e si fa più esplicita e spavalda. L’italiano retrocede e il plurilinguismo è sempre meno un valore e sempre più considerato un ostacolo alla comunicazione internazionale monolingue.

Tutto ciò parte dalla scuola, per educare le nuove generazioni a questa mentalità sin dalle elementari.

L’inglese obbligatorio: dalla scuola alla società

Lo studio di una seconda lingua nelle scuole secondarie è stato introdotto negli anni Sessanta, e nel decennio successivo è stato esteso anche alle scuole primarie. Fino agli anni Novanta si poteva scegliere se studiare come seconda lingua il francese o l’inglese (anche se la Circolare n° 304 del 10 luglio 1998 contemplava le opzioni di tedesco e spagnolo, almeno per le scuole medie).

Negli anni Duemila, però, tutto è cambiato, le altre lingue sono diventate di serie B e l’inglese oggi non è più una scelta, ma è diventato obbligatorio.

Il cambiamento è avvenuto con la Riforma Moratti (Legge n. 53 del 28 marzo 2003, e con il successivo Decreto Legislativo 59/2004), attraverso la parola d’ordine delle tre “i” riprese poi da Berlusconi: Inglese, Internet e Impresa.

In poco tempo l’obbligo è passato dagli studenti agli insegnanti, e con la Riforma Gelmini del 2010 l’inglese è stato dichiarato un requisito anche per i docenti che devono conoscerlo a un livello pari al First Certificate dell’Università di Cambridge indipendentemente dalla disciplina che insegnano.

Il passo successivo è stato quello di estendere questo obbligo per l’assunzione non solo dei professori, ma più in generale dell’intera pubblica amministrazione. Il requisito di conoscere “almeno una lingua straniera” per partecipare ai bandi (e quindi essere assunti) introdotto nel 2001 (decreto legislativo n. 165 del 30 marzo, “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”) nel 2017 è stato modificato con la Riforma Madia con questa correzione:

Le parole «e di almeno una lingua straniera» sono sostituite dalle seguenti: «e della lingua inglese»” (vedi: Art. 7. Modifiche all’articolo 37 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165).

In questo modo, in Italia è avvenuta la svolta che ha portato all’introduzione dell’obbligo dell’inglese, e si sono creati i presupposti e i precedenti per sancire un’asimmetria e una discriminazione tra una lingua di serie A, proclamata un’abilità di base, e tutte le altre. Italiano compreso.

È però curioso – diciamo così – che mentre la politica ha imposto l’obbligo dell’inglese agli studenti e ai cittadini nei concorsi della pubblica amministrazione non lo abbia fatto diventare un requisito anche per loro stessi…

I fondi a rischio del Pnrr e l’inglese

Il programma con cui il governo dovrebbe gestire i fondi dell’Ue per risanare lo sfacelo della pandemia, e cioè il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), è da mesi al centro delle polemiche, visto che molti dei nostri progetti non soddisfano i requisiti e rischiamo di non ricevere i finanziamenti. In un articolo del 20 maggio sul Corriere (“Pnrr, con Bruxelles contatti a rilento. I ritardi nella rata e l’effetto sui conti” di Federico Fubini) si legge che uno degli ostacoli dello stallo

deriverebbe dal fatto che non parlano inglese né il ministro agli Affari europei Raffaele Fitto – delegato al Pnrr – né il capo della nuova Struttura di missione rafforzata di Palazzo Chigi, il magistrato della Corte dei conti Carlo Alberto Manfredi Selvaggi. I due terrebbero riunioni in videoconferenza con gli uffici europei preposti al Recovery ogni sette o dieci giorni, senza contatti costanti. E almeno in un caso si sarebbero serviti di un funzionario di Bruxelles portato dal precedente governo a Palazzo Chigi, Claudio Casini, per farsi tradurre le proprie affermazioni e le risposte dei funzionari europei.

Questa narrazione, tuttavia, contribuisce a diffondere la bufala che il problema non sia l’incapacità politica, bensì che i politici italiani non conoscano l’inglese, e in questo modo si fa credere e si dà per scontato che l’inglese sia la lingua dell’Europa, anche se non è affatto così. Benché Ursula von der Leyen, insieme a una potente corrente di anglofili, stia facendo di tutto perché ciò avvenga, il ricorso all’inglese come lingua di lavoro è una prassi che bisognerebbe combattere in modo agguerrito perché non è sancita da alcuna carta ed è dunque illegittima. Non dobbiamo dimenticare che siamo tra i Paesi fondatori dell’Unione, e davanti al fatto che la nostra politica ha delle difficoltà con l’inglese dovremmo ricordare che se l’italiano non è più una delle lingue di lavoro è stato anche grazie al loro, visto che è stato estromesso nell’indifferenza di tutti e che a quasi nessuno è mai venuto in mente di difenderlo. Eppure la prassi dell’inglese nell’Ue, oltre a penalizzarci, fa guadagnare miliardi di euro all’anno al Regno Unito che è fuori dall’Europa e non investe sullo studio di lingue straniere come fa il resto del mondo a beneficio della loro lingua naturale.

Ma invece di riflettere seriamente sulla questione, sull’importanza del plurilinguismo, sulla democrazia linguistica, sulla discriminazione delle lingue più deboli, la nostra classe dirigente continua a propagandare l’idea che l’inglese sia un obbligo, e che chi non lo sa debba essere penalizzato e colpevolizzato. Come nei titoli di giornale di un brutto episodio avvenuto l’anno scorso.

“Il 118 non parla inglese: muore una turista.” Ma è davvero così?

L’inglese è conosciuto da ben meno del 20% dell’umanità, e venendo all’Europa è inteso da meno della metà di europei e italiani. E non conoscerlo non è una “colpa”.

Nell’aprile 2022 una pioggia di articoli ha alimentato l’idea che la morte di una turista tedesca che ha avuto un malore nei pressi di Roma dipendesse dal fatto che gli operatori del 118 non conoscevano l’inglese. La donna aveva avuto un malore e il fidanzato irlandese ha chiamato i soccorsi lamentandosi perché sarebbe stato messo in attesa per trovare qualcuno che parlasse in inglese (= colpa). Ancora una volta si presuppone che l’inglese sia un obbligo e che tutti debbano conoscerlo. Dunque chiedere i soccorsi in inglese sarebbe un “diritto”.

Se la richiesta di soccorso fosse stata fatta da qualcuno che parlava solo giapponese, filippino, greco, o nigeriano… o se la richiesta di aiuto fosse stata fatta in esperanto, i titoli sarebbero stati diversi. Ma poiché la telefonata è stata fatta da un anglofono si dà per scontato che tutto il mondo debba conoscere e praticare la sua lingua. Forse la tragedia si sarebbe potuta evitare anche se l’irlandese avesse studiato una seconda lingua, per esempio l’italiano o il francese.

Se ci sono stati dei ritardi nei soccorsi o degli episodi di malasanità bisogna indagare sulle responsabilità, invece di far passare l’idea che i ritardi nei soccorsi sono causati dal “deficit” di non conoscere l’inglese. E mentre articoli come questi costruiscono e diffondono l’idea che l’inglese debba essere la lingua dell’umanità e inducono alla discriminazione di chi non lo sa, l’italiano finisce per essere opzionale persino nel nostro Paese, come emerge dalle pretestuose recenti polemiche legate ai direttori stranieri dei musei italiani.

Per dirigere un museo italiano bisogna sapere l’italiano: che scandalo!

Il ministro della Cultura Sangiuliano ha da poco annunciato che nei bandi per l’assegnamento della direzione dei musei italiani sarà necessario certificare la conoscenza della lingua italiana. Tutto ciò ha generato il solito coro dei giornalisti anglomani che sono in prima linea nell’esaltare l’obbligo dell’inglese, mentre davanti all’italiano non riescono nemmeno a immaginare che sia il caso di prendere in considerazione la reciprocità di analoghi provvedimenti.

La questione riguarda gli incarichi che scadranno nel prossimo autunno per la direzione di alcuni prestigiosi musei gestiti da funzionari stranieri, a partire dal direttore degli Uffizi Eike Schmid per proseguire con i sovraintendenti degli scavi di Pompei (Gabriel Zuchtriegel), del Museo Nazionale Romano (Stéphane Verger), della Scala di Milano (Riccardo Chailly), e altri ancora.

Ecco come viene presentata la notizia in un articolo su La Repubblica (“La mossa di Sangiuliano: bando per direttori dei musei aperto solo a chi parla italiano” di Giovanna Vitale):

“Do you speak Italian? È la domanda-chiave cui dovranno rispondere i candidati alla guida dei musei statali che intendano partecipare a uno dei bandi in cottura al ministero della Cultura. Un prerequisito essenziale senza il quale non val neppure la pena di tentare: si verrebbe scartati all’istante. Con un’ulteriore avvertenza, tuttavia. Ai nuovi direttori di gallerie e parchi archeologici nazionali non basterà saper parlare e scrivere nell’idioma di Dante. Troppo facile. La destra tricolore, decisa a «tutelare la lingua madre dall’esterofilia dilagante » al punto da proporre l’espulsione di ogni lemma esotico dagli atti della pubblica amministrazione, esige di più: la conoscenza dell’italiano certificata da appositi test riconosciuti a livello internazionale. Un modo per scremare manager e curatori stranieri che dalle Alpi alla Sicilia la fanno da padroni.

E su Wired si legge persino che “le lingue della cultura sono competenza e trasparenza, non l’italiano”.

Ma di quale trasparenza si parla? Ci rendiamo conto di dove stiamo andando?
Perché non si scrive invece che la lingua dell’insegnamento non è l’inglese? Visto che un professore di italiano, francese, spagnolo o tedesco non può lavorare nella scuola se non certifica il suo inglese.

Da una parte si sancisce l’obbligo dell’inglese nella pubblica amministrazione, e si richiedono certificazioni di livello altissimo, e mentre gli italiani per lavorare nel proprio Paese sono obbligati a conoscere l’inglese, i cittadini non italiani che dirigono i nostri musei non dovrebbero certificare di conoscere la nostra lingua?

Per quanto allucinante, la situazione e la mentalità anglomane è questa, attualmente. E l’unica “crociata” in atto è quella per imporre ovunque il primato dell’inglese.

Dal plurilinguismo al monolinguismo

Accanto ai provvedimenti legislativi che tendono a ufficializzare l’inglese in Italia, questa lingua guadagna terreno anche in modo ufficioso, e diventa di fatto l’unica lingua della prassi anche quando sulla carta sono contemplate le altre lingue solo in teoria. Lo abbiamo visto con il progetto Erasmus, nato e sovvenzionato dall’Ue per l’apprendimento delle “lingue straniere”, ma diventato nella realtà lo strumento di diffusione dell’inglese, più che delle altre lingue. Esattamente come è avvenuto con il progetto CLIL, non a caso acronimo dell’inglese Content and Language Integrated Learning, che prevede l’introduzione nelle scuole di alcune ore in cui una certa materia viene insegnata direttamente in una “lingua straniera”, per favorire l’acquisizione dei contenuti disciplinari e allo stesso tempo l’apprendimento di una lingua, che di fatto è quasi sempre e solo una: l’inglese.

Lo stesso inglese che si vuole fare diventare la lingua della formazione universitaria in alcuni atenei come il Politecnico di Milano, che ha tentato di estromettere l’italiano; l’inglese che si fa strada come lingua ufficiosa nell’Unione Europea; l’inglese che dal 2017 è diventato la lingua obbligatoria per presentare i Progetti di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) e che nel 2021 – l’anno delle celebrazioni dantesche – si è esteso anche alla partecipazione al Fondo Italiano per la Scienza (FIS). Dunque, se si vogliono ottenere finanziamenti per la ricerca “italiana” lo si deve fare in inglese, e in inglese, oltre alle domande, si devono svolgere anche gli eventuali dibattiti.

Ecco come si distrugge la nostra lingua, con questa mentalità che si dovrebbe invece spazzare via.

Italiano: open to mostruosità

Di Antonio Zoppetti

Anna mi ha segnalato “l’Italian teacher award 2023” evidentemente partorito dal “Ministero della Pubblica Distruzione e del Demerito Generalizzato”.

Si tratta della quinta edizione di un progetto che “ha lo scopo di celebrare i valori sociali e culturali degli insegnanti italiani, al fine di riconoscere un tributo a tante donne e a tanti uomini che si spendono ogni giorno per l’istruzione e la formazione delle nuove generazioni […] L’Atlante – Italian Teacher Award intende promuovere il valore sociale e culturale degli insegnanti italiani”.

E come esprimere cotanta italianità se non con un nome in inglese?
Su sito di Rai mamy Scuola si può sapere di più sulla mission del progetto e sulle partnership da cui è nato.

Questi approcci, e questa lingua, la dicono lunga su come vengono concepiti i progetti per educare le nuove generazioni, e non solo quelle, all’abbandono dell’italiano e al passaggio all’itanglese.

La redazione online del Corriere pubblicizza invece il Corriere Family. A soli 3 euro sono disponibili 3 account, per ricevere le newsletter e ascoltare i podcast.


Nel 2015 il ministro dei Beni culturali e del Turismo Dario Franceschini aveva lanciato il portale per il turismo e la cultura italiana chiamato VeryBello! fallito miseramente subito dopo.

Allora nel 2021 ci ha riprovato con la “Netflix italiana” per la valorizzazione culturale del nostro Paese intitolata ITsART, solo che è fallito tutto di nuovo (e gli investimenti per queste iniziative non sono pochi). Ma poco male, nel 2023 il nuovo governo di tutt’altro schieramento politico ci riprova con lo stesso schema, e sta nascendo un nuovo progetto il cui motto, anzi slogan è “Open to meraviglia” (in figura con le mie considerazioni) a cui auguro, con tutto il cuore, lo stesso successo delle precedenti iniziative.

E così, mentre la fallita Alitalia cede il posto alla fallimentare ITA Airwais, mentre le Poste italiane introducono le nuove denominazioni dei pacchi attraverso la categorie del Delivery, mentre nasce il Ministero del Made in Italy (e non del prodotto italiano), mentre le Ferrovie dello Stato offrono le tariffe premium, business e economy e il concorrente [*antico termine autoctono oggi meglio traducibile con competitor] Italo sostituisce la figura del capotreno con quella del train manager (nella comunicazione ai passeggeri e nei contratti di lavoro!), mentre il Salone del Mobile e la Settimana della moda di Milano si trasformano in Week Design e Fashion Week, mentre la squadra olimpica italiana diventa un team, mentre il progetto per la reintroduzione degli orsi denominato Life Ursus battezza gli esemplari con sigle come Jj4 (dove la i lunga è pronunciata “gèi” come se esistesse solo l’inglese), mentre i negozi diventano store, shop e outlet, mentre gli animali domestici diventano pet, il cibo food e altri migliaia di esempi del genere quotidianamente trasformano l’italiano in itanglese… capita che una nutrita schiera di linguisti continuino a guardare al fenomeno interpretandolo con le loro lungimiranti categorie dei “prestiti” magari di “lusso” e di “necessità”.

Qui non abbiamo a che fare con qualche prestito perché ci manca una parola e non la sappiamo né vogliamo più tradurre, italianizzare o riconiare all’italiana. Siamo in presenza del crollo dell’italiano e abbiamo a che fare con dei trapianti (altro che prestiti!) di parole e suoni che hanno una frequenza e una profondità devastanti, che riconcetualizzano il nostro modo di pensare trasformando gli insegnanti in teacher (ma ci sono anche i tutor), la famiglia in family (persino il vecchio Movimento per la vita è stato abortito in favore del Movimento pro life) e l’italiano in italian. Questi trapianti si ibridano generando una neolingua che ha ormai le sue regole, ed è fatta di commistioni come Verybello, mentre open to meraviglia è un’enunciazione mistiligue che esce dai “prestiti” e l’italiano open to mostruosità, dove invece di incitare a “vivere italiano” si incita a “vivere in itanglese”, una lingua che si trasforma in un ircocervo che è un mostro orribile, altro che meraviglioso!

Mentre certi linguisti propagandano la panzana che “la lingua si difende da sé” e che l’uso fa la lingua lasciando intendere che sia un processo “democratico” che arriva dal basso, quello che sta accadendo è che l’italiano muore perché i nuovi centri di irradiazione della lingua, per dirla con Pasolini, e cioè le istituzioni, i giornali, la televisione, le aziende, gli intellettuali e l’intera nostra classe dirigente ci educano all’inglese e all’itanglese dall’alto. Perché sono colonizzati nella mente e hanno sposato il progetto del globalese, l’inglese internazionale, la lingua naturale dei popoli dominanti e dei padroni che si vuole far diventare la lingua planetaria, dell’Ue, della formazione universitaria, del lavoro e della cultura di cui gli anglicismi sono gli effetti collaterali (come ho spiegato nel libro Lo tsunami degli anglicismi, per fare un po’ di pubblicità non occulta). Questi collaborazionisti del globish sono i veri responsabili dell’itanglese. E davanti all’attuale tsunami anglicus, utilizzare gli schemini astratti dei prestiti è un po’ come voler misurare la portata di uno tsunami con l’unità di misura della bottiglia! A quante bottiglie corrisponderà l’attuale onda anomala?

In questo contesto tipicamente italiano, visto che in altri Paesi la questione è affrontata in modo ben più serio, capita anche che un bravo comico come Crozza ironizzi sul fatto che le (discutibili e perfettibili) proposte di legge per l’italiano avanzate di recente ci facciano tornare ai tempi del fascismo, quando si volevano sostituire i barbarismi con ridicoli sostitutivi come fiorellare per flirtare, arlecchino per cocktail, pallacorda al posto di tennis e via dicendo. Peccato che, come aveva capito un paio di secoli fa Leopardi (ma già allora ben più avanti dell’intellettuale medio italiano dei giorni nostri), solo l’uso e l’abitudine rendono bella, brutta o ridicola una parola. Dunque questi sostitutivi sono “ridicoli” solo perché non si sono affermati, mentre quelli che hanno avuto successo (regista invece di régisseur, autista invece di chaffeur, calcio invece di football, calcio d’angolo invece di corner…) sono parole oggi del tutto normali. A proposito di italianizzazioni di epoca fascista si potrebbe anche ricordare il successo di pallacanestro al posto di basketball, e nella Breve storia della lingua italiana di Migliorini e Baldelli (Sansoni, 1964, p. 345) si può leggere: “Si sono oramai definitivamente affermati contro gli equivalenti stranieri, prima imperanti” sinonimi come pallacanestro. Gli autori si sbagliavano di grosso, nulla è definitivo, e oggi il basket ha la meglio sulla vecchia pallacanestro, anche se in inglese si chiama basketball. Il che dimostra che non abbiamo a che fare con “prestiti”, ma con un processo di creolizzazione lessicale ben diverso e più profondo, che sta portando a una neolingua ibrida, l’itanglese, che non è più né italiano né inglese.

Tornando a Crozza, è più che comprensibile scherzare sul fatto che il nuovo quadro dirigente governativo predichi benino (bene è una parola grossa) e razzoli male. Ma, belin… possibile, Crozza, che davanti al virgolettato della Santanchè non ti venga in mente che la cosa su cui pungere è come si è ridotto l’italiano?

Mettiamo i puntini sulle “i”: sul canale Nove marchiato Warner Bros Discovery, una rivista italiana denominata Open titola “La ministra Santanché contro il Far West dei bed & breakfast”, utilizzando 11 parole di cui 5 sono in inglese. In italiano rimane un nome proprio (“Santanchè” che non vale ai fini statistici), la parola “ministra” e per il resto ci sono solo articoli e preposizioni! Se ci aggiungiamo le denominazioni in inglese della rivista e del canale ci sarebbe anche il “nove” a salvare l’italiano. E tu fai dell’ironia sull’adattamento di sciampagna al posto di champagne? Ma non vedi che c’è solo l’inglese? Altro che guerra ai barbarismi… il problema è la creolizzazione da una lingua sola che ci sta schiacciando.

Come fai a non capirlo? Almeno tu Crozza… dai!



La “sostituzione etnica” non riguarda i migranti, ma il globish

Di Antonio Zoppetti

L’argomento che nei giorni scorsi è impazzato sui mezzi di informazione è quello della “sostituzione etnica” invocata dall’onorevole Lollobrigida. Come nel caso della legge sulla lingua italiana di Rampelli il dibattito che si è visto è superficiale, avvilente e ideologizzato, più che lucido e critico.

Le uscite che ammiccano alla sostituzione etnica non sono nuove – come ha ricordato su il Manifesto Roberto Ciccarelli (19/4/23) – hanno precedenti in dichiarazioni di Salvini del 2015 e in altre del 2016 di Giorgia Meloni che accusò il governo Renzi di prove tecniche “generali di sostituzione etnica in Italia”. Questa espressione infelice si lega alla teoria del complotto di un presunto “piano Kalergi” che favorirebbe l’immigrazione in Europa dall’Africa e dall’Asia con lo scopo di rimpiazzarne la popolazione. Una teoria che è sostenuta negli ambienti più estremi nella destra e tra i negazionisti dell’olocausto, ma che Lollobrigida dice di non conoscere.

Personalmente sono convinto che una sostituzione etnica sia in atto e sia innegabile, ma questa sostituzione non ha a che fare con gli immigrati dai Paesi poveri, bensì con l’importazione dei modelli culturali e linguistici dei Paesi dominanti e cioè quelli dell’anglosfera.

Razzismo, etnicismo e linguicismo

I gruppi etnici sono caratterizzati dal possedere una cultura e una lingua comune, che non hanno a che fare né con il colore della pelle né con il concetto sempre più messo in discussione di “razza”. La parola “razza” compare nella Costituzione italiana (art. 3: “Senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) e in quasi tutte le dichiarazioni dei diritti umani introdotte da analoghi principi. Da qualche tempo, un ampio movimento di opinione vorrebbe mettere al bando questa parola, e questo modo di pensare è sostenuto anche da un gruppo di biologi riduzionisti che abbandonando le storiche distinzioni tra fenotipo e genotipo, preferiscono ricondurre tutto ai geni, e sostengono che le “razze” non esistono dal punto di vista genetico. Ma non è negando o risemantizzando la parola “razza” che si possono eliminare le diversità o il razzismo. E per quello che mi riguarda le razze (e le diversità) esistono – comunque le si voglia chiamare – ed è per questo che bisogna gridare forte che sono una ricchezza, sono tutte sullo stesso piano, che bisogna tutelare quelle discriminate e condannare chiunque pensi che alcune siano superiori o inferiori.
E lo stesso vale per le culture e le lingue, che sono fenomeni completamente slegati dalla questione dei geni o dell’aspetto fisico, ma spesso ugualmente discriminate e gerarchizzate in una visione che le pone su piani diversi.
Oggi l’espressione “Terzo mondo” è considerata politicamente scorretta e si tende a sostituirla con “Paesi in via di sviluppo”, un’espressione decisamente peggiore e totalitaria, perché lo “sviluppo” a cui li si vuole condurre è quello occidentale, dunque tutto conduce a un modo di pensare che utilizza delle categorie di stampo colonialista, dove dietro la parola “Occidente” c’è il modello culturale ed economico degli Stati Uniti e dietro il politicamente corretto c’è il politicamente americano. Questa visione etnicista è stata apertamente sostenuta in più occasioni, per esempio dalla consigliera per gli affari esteri di George W. Bush Condoleezza Rice che aveva dichiarato: “Il resto del mondo trarrà un vantaggio migliore dagli Stati Uniti che perseguono i propri interessi, poiché i valori americani sono universali” [cfr. Robert Phillipson, English-Only Europe?: Challenging Language Policy, Routledge, Londra 2003].
Ma questo atteggiamento neocolonialista non è confinabile all’interno di una visione conservatrice, appare al contrario molto più esteso, radicato e trasversale. Si ritrova anche all’epoca del democratico Bill Clinton e nelle parole di un ex funzionario della sua amministrazione, David Rothkopf: “Gli Americani non devono negare il fatto che, tra tutte le nazioni della storia del mondo, la loro è la più giusta, la più tollerante, la più desiderosa di rimettersi in discussione e di migliorarsi continuamente, il miglior modello per l’avvenire”[“In Praise of Cultural Imperialism?”, in Foreign Policy, n. 107, estate 1997, citato in Serge Latouche, Mondializzazione e decrescita. L’alternativa africana, Dedalo 2009, pp.73-74].
È la stessa concezione espressa nel 2001 da Berlusconi: ”Io credo che noi dobbiamo essere consapevoli della superiorità della nostra civiltà. Una civiltà che costituisce un sistema di valori e principi che ha dato luogo ad un largo benessere nelle popolazioni dei paesi che la praticano. Una civiltà che garantisce il rispetto dei diritti umani, religiosi e politici. Rispetto che certamente non esiste nei Paesi islamici”.

E allora la vera “sostituzione etnica” che si vuole realizzare non è affatto un complotto, ma esiste, anche se non ha nulla a che fare con il piano Kalergi, ma con un piano di stampo neocolonialista che punta a esportare i valori “occidentali” in tutto il mondo. E passando dalle razze e dalle etnie alle lingue, voler fare dell’inglese la lingua planetaria è un pezzo importante di questo disegno. Ma per citare le parole della finlandese Tove Skutnabb-Kangas, tutto ciò si può riassumere con la parola “linguicismo”. Come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo è la discriminazione in base alla lingua madre, che porta a giudizi sulla competenza o non competenza nelle lingue ufficiali o internazionali. Questo riduzionismo monolinguistico, secondo la studiosa, non è solo ingiusto, ma è un “cancro” a cui va contrapposto il riconoscimento dei diritti linguistici. L’autrice si scaglia soprattutto contro le associazioni che proclamano i diritti fondamentali dell’uomo, dove i diritti della lingua sono assenti o poco considerati (a parte le belle dichiarazioni d’intenti), in particolare quello di ricevere un’istruzione nella propria lingua madre. Mentre i Paesi occidentali si presentano come paladini dei diritti umani e delle minoranze e hanno creato il mito per cui loro stessi li rispettano, “in relazione ai diritti all’istruzione linguistica, questo è semplicemente falso, l’Occidente e responsabile del genocidio linguistico e culturale nel mondo” [“I diritti umani e le ingiustizie linguistiche. Un futuro per la diversita? Teorie, esperienze e strumenti”, in Come si e ristretto il mondo, a cura di Francesco Susi, Amando Editore, Roma 1999 (pp. 85-114), p. 99].

La sostituzione delle lingue etniche con l’inglese, la lingua madre dei popoli dominanti, porta alla morte delle lingue minori, come è avvenuto e avviene in Africa e come ha denunciato lo scrittore Ngũgĩ wa Thiongo raccontando la storia dell’imposizione dell’inglese nelle scuole coloniali africane [Decolonizzare la mente, Jaka Book, Milano 2015]. Nel 1992 l’Unesco aveva stimato che il 90% delle quasi 6.000 lingue parlate nel mondo erano a rischio estinzione nell’arco di un paio di generazioni [Cfr. Joe Lo Bianco, “Language, Place and Learning”, pascal International Observatory 2007], e come ha scritto il tunisino Claude Hagège, in questo “olocausto che fluisce senza sosta, apparentemente nell’indifferenza generale” la principale minaccia è proprio l’inglese, che “svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle lingue”[Morte e rinascita delle lingue. Diversita linguistica come patrimonio dell’umanita, Feltrinelli, Milano 2002, p. 7]. Ma mentre le lingue minori rischiano l’estinzione, anche quelle più forti regrediscono. La strada aperta dal Politecnico di Milano di insegnare in inglese e di estromettere la lingua italiana dalla formazione universitaria – una via perseguita anche da altri atenei – va in questa direzione. Come il disegno che striscia in modo silenzioso e surrettizio di fare dell’inglese la lingua dell’Ue, invece di promuovere il plurilinguismo che vive solo sulla carta, ma non nella prassi. L’imposizione del globalese che si fa strada nel lavoro, nella scienza e in sempre più realtà entra però in conflitto con le lingue etniche locali, e gli anglicismi che esplodono in ogni idioma, e che in Italia raggiungono l’apoteosi, sono gli effetti collaterali di questa sostituzione che non è più solo lessicale, ma culturale: dunque è questa la vera sostituzione “etnica” in atto.

La sostituzione linguistica

Tra le ultime voci aggiunte sul Dizionario AAA (Alternative Agli Anglicismi) ci sono lemmi come service learning, overconfidence o jumpscare. L’approccio pedagogico alla formazione civile, che potemmo chiamare educazione civica, esaltato persino dalle scuole cattoliche è chiamato in inglese, service learning, mentre l’eccessiva sicurezza di sé (la sicumera che porta a giudizi e comportamenti improvvidi) è l’overconfidence, e la tecnica cinematografica dello spaventare all’improvviso è il jumpascare. Queste parole astruse diventano la terminologia preferita e diffusa dagli addetti ai lavori e dai giornali. E di esempi di questo tipo se ne possono fare a bizzeffe.

L’altro giorno leggevo che il fenomeno di dormire con il proprio animale è detto co-sleeping, una riconcettualizzazione che ripete le categorie in inglese, dove l’unica cosa che mi ha stupito è che non sia stata usata la parola “pet”, visto che dilaga (a quando il prestito di “necessità” con inversione sintattica del pet co-sleeping?). Invece di parlare di “prestiti linguistici”, sarebbe ora di chiamare le cose con il loro nome. Questi non sono “prestiti” sono trapianti lessicali che spesso si affermano e fanno piazza pulita dell’italiano.

Non è questa una sostituzione lessicale – e prima ancora concettuale – che spazza via le nostre parole etniche per rimpiazzarle con le parole-concetti in inglese? Possibile che la nostra classe dirigente non se ne renda conto e anzi non faccia altro che favorire questi fenomeni ogni giorno più diffusi? Possibile che non veda che è questa l’unica sostituzione “etnica” in atto?

Vivo a Milano, in una strada al confine tra la zona densamente popolata di musulmani di via Padova e un altro quartiere a forte presenza ispanica, non distante dalle vie dietro Porta Venezia, dove si sono concentrati molti immigrati africani. Avevo un ufficio nella Chinatown meneghina, come è soprannominato il quartiere intorno a via Paolo Sarpi, e mi sposto prevalentemente con i mezzi pubblici dove, soprattutto la sera, la percentuale di stranieri è molto alta. Spesso si sentono parlate arabe, orientali, e poi altre di difficile collocazione, andando a orecchio, ma a occhio sembrerebbero di albanesi, rumeni, turchi e altri ancora. Penso alla babele delle lingue che si ascoltano in metropolitana e per la città, e mi domando quale impatto abbia sull’italiano tutto questo pullulare di stranieri. Nessuno. Gli italiani non conoscono una parola di arabo o di cinese. L’unico terreno di scambio linguistico è quello gastronomico. Wanton fritti, kebap, sushi e sashimi, falafel, lo zighinì degli eritrei. Cose così, c’è poco altro. L’italiano è impermeabile alle lingue degli immigrati, risente invece dei modelli culturali ed economici statunitensi (ugualmente extracomunitari), che non sono presenti sul territorio a questo modo, ci arrivano in altre forme.

L’inglese e ormai usato per marcare il territorio milanese, dove in questi giorni si svolge la design week, e sul Corriere, sotto l’etichetta “Style”, si può leggere degli “eventi Audi alla design week per capire cos’è la circular economy”, della “concept car Groundsphere”, del “full electric”, e dell’”automotive” che cambia pelle. Ma a cambiare la pelle è la nostra lingua.

L’itanglese è una realtà che si assorbe attraverso la comunicazione cittadina fatta dei gate delle stazioni, del biglietto contactless dei mezzi pubblici, del bike sharing, degli open day delle scuole prima del back to school… Queste sostituzioni lessicali sono diffuse dai giornali, dalla pubblicità, dal mondo del lavoro, della scienza e della tecnica… e si riverberano inevitabilmente nelle bocche della gente negli uffici, in metropolitana, nei locali. Sulle insegne dei negozi sempre più raramente si leggono denominazioni come barbiere o parrucchiere, come se ci si vergognasse dell’italiano, e ormai tutti scrivono Hair Style. La messa in piega e qualcosa da vecchie signore cotonate, per essere moderni i nuovi parrucchieri che si sentono Hair Style Artist la chiamano brushing; il trucco è make-up, le truccatrici make up artist e chi fa le unghie nail artist.


Se vogliano fare un parallelo tra l’immigrazione delle persone e quello delle parole (ma è un accostamento pericoloso e poco calzante) dovremmo tenere a mente una cosa molto importante, che la nostra intellighenzia di collaborazionisti dell’inglese dalla mente colonizzata non sembra in grado di capire.

Nessuna parola o persona è “straniera” per la sua origine o provenienza, ma per non essere integrata. Dal punto di vista lessicale le parole straniere sono quelle non adattate, che non si amalgamano con il tessuto linguistico del nostro idioma, con i nostri suoni e il nostro modo di scrivere, e dunque rimangono dei “corpi estranei” per dirla con Arrigo Castellani. Ben venga l’interferenza di ogni lingua, se passa per l’adattamento e ci arricchisce. Ma quando il numero degli anglicismi crudi – e solo quelli – diventa abnorme per numero, frequenza d’uso e profondità, anche la nostra lingua va in frantumi. Allo stesso modo ben vengano gli emigrati di ogni Paese, etnia e colore. Sono una ricchezza e una risorsa che ci arricchisce, proprio perché si integrano, imparano l’italiano e dunque sono italiani, al contrario di troppi intellettuali colonizzati che sono nativi, come provenienza, ma hanno in testa solo l’angloamericano e preferiscono trasformare la nostra lingua in qualcosa d’altro, attraverso una sostituzione lessicale che fa dell’anglosfera l’etnia superiore.

Sarebbe ora di riflettere su queste cose e di cominciare a raccontare una storia che non è ancora stata raccontata, forse perché non si ha il coraggio di affrontarla. E visto che nessuno lo fa, ho provato a farlo in un lavoro uscito oggi (Lo tsunami degli anglicismi, edizioni goWare disponibile in formato digitale e cartaceo).

Siamo tutti americani? 11 settembre vent’anni dopo

Di Antonio Zoppetti

All’indomani dell’11 settembre 2001, in un momento di forte emotività, il motto “siamo tutti americani” è rimbalzato sui titoli dei giornali di ogni Paese, persino in Francia, tradizionalmente reattiva alle interferenze inglobanti degli Usa, e proprio su Le Monde, da sempre critico verso la politica statunitense. Qualche giorno dopo, tuttavia, sullo stesso giornale uscì anche un pezzo che dissentiva da quel titolo, e Marie-José Mondzain spiegò le ragioni per cui non si sentiva “americana”, invitando a mantenere un giudizio critico davanti agli avvenimenti, anche se eravamo stati ipnotizzati dalle immagini del crollo delle torri gemelle che venivano rimandate all’infinito. [1] La solidarietà davanti alla tragedia, e l’identificazione con una società che ha anche delle enormi differenze rispetto a quella Europea e alle peculiarità dei singoli Stati sono cose molto diverse.

In Italia voci come queste non hanno trovato spazio sui giornali. Di fronte a quell’evento inaudito e inimmaginabile ciò che è accaduto ha portato a un ulteriore passo nel sentirci “americani”.

La nostra progressiva americanizzazione è un processo iniziato nel dopoguerra con il piano Marshall e la sua enorme propaganda, che ha portato al sogno americano degli anni Cinquanta e al miracolo economico che si è realizzato soprattutto negli anni Sessanta. Ma nel Secondo dopoguerra, e ancora sino alla fine del Novecento, il nostro sentirci parte dell’alleanza politica e atlantica non ci aveva ancora inglobati nel “siamo tutti americani” del nuovo Millennio che ha una pervasività pressoché totale. L’itanglese è solo la conseguenza linguistica, la cartina al tornasole per misurare il grado di questo fenomeno. Dalle datazioni dei dizionari si vede bene che tra le parole nate negli anni Quaranta e Cinquanta gli anglicismi crudi rappresentavano una percentuale del 3% o il 4% , e negli anni Sessanta sono raddoppiati attestandosi tra il 6% e il 7% dei neologismi nati in quel decennio. Questi aumenti non dipendono solo dall’importazione sempre più massiccia delle merci e della cultura a stelle e strisce – tra juke boxe e flipper, jeans e rock – ma anche del venir meno di ogni posizione critica nei confronti degli Usa.

In un primo tempo, l’accettazione e l’ammirazione di tutto ciò che è americano conviveva anche con degli atteggiamenti opposti che ne mettevano in discussione il valore e facevano dell’Italia qualcosa di ben distinto. Questo atteggiamento era trasversale a tutto il Paese. Da un punto di vista ideologico nella sinistra italiana c’era una critica al capitalismo e a certi valori della società americana, e anche se i beni di consumo o i film erano accettati dalle masse, l’anticomunismo del maccartismo o l’imperialismo americano erano invece deprecati. Questa “schizofrenia” all’interno del Pci, come qualcuno l’ha definita, in realtà riguardava anche il mondo dei cattolici e la destra.
La Chiesa aveva da sempre un atteggiamento ostile verso il materialismo americano, storicamente tacciato di essere immorale, anche sa davanti al pericolo rosso, aveva preferito appoggiare la Casa Bianca in funzione anticomunista, come il minore dei mali. Lo stesso atteggiamento circolava anche nella Dc, alleata con il Pentagono ma allo stesso tempo diffidente verso il patto atlantico, dai tempi di De Gasperi sino al più volte ministro degli esteri Giulio Andreotti, che davanti alla questione palestinese sembrava avere “come moglie legittima l’America e come amanti gli arabi ed i mediterranei.” [2]
A destra, già i repubblichini di Salò avevano puntato il dito contro l’espansione americana in Europa, un tema che successivamente è circolato molto negli ambienti conservatori, anche se davanti alla politica dei partiti che rivendicava il nostro inserimento nel patto atlantico, questo atteggiamento critico in seguito è rimasto confinato in gruppi e autori più marginali. Come ha scritto Alessandro Portelli, a proposito dell’atteggiamento della destra: “Le stesse forze che stavano trasformando l’Italia in un satellite politico degli Stati Uniti manifestavano a gran voce la loro preoccupazione per l’invasione di prodotti culturali americani che insidiavano la nostra civiltà umanistica e la nostra cultura classica, come pure il nostro modo di vivere contadino e cattolico.” [3]

Decennio dopo decennio, ogni atteggiamento critico è venuto meno e da un satellite politico siamo diventati un satellite anche culturale. Negli anni Settanta gli anglicismi salivano al 9-10% delle nuove parole, negli anni Ottanta al 14-16%, e negli anni Novanta al 27-28%. Intanto era caduto il muro di Berlino e si era dissolta l’Urss e con essa anche ogni resistenza all’americanismo di tipo ideologico. L’aumento delle parole inglesi negli anni Ottanta avviene non a caso negli anni del riflusso ma anche dell’americanizzazione della tv che con l’entrata della Fininvest ha portato a palinsesti fatti in gran parte di film e telefilm americani che prima erano poca cosa, mentre la Rai si subito adeguata allo stesso modello. E il potere morbido dei prodotti culturali che allo stesso tempo veicolano valori e visioni a stelle strisce non è da sottovalutare. Come ha osservato uno dei principali produttori cinematografici inglesi, David Putnam: “Alcuni cercano di convincerci che i film e la televisione siano degli affari come tutti gli altri. Non lo sono. Film e televisione modellano gli atteggiamenti, creano stili e comportamenti, rinforzano o minano i valori della società (…). I film sono più che un semplice divertimento, e più che un grosso affare. Essi sono potenza.”

Negli anni ’90, Berlusconi, l’uomo che aveva americanizzato la tv, per primo americanizzò anche la politica, e la sinistra subito dopo fece anche di più, configurandosi come un partito filoamericano non solo dal punto di vista ideologico, ma anche linguistico, con il “partito democratico” e le “primarie” (mutuati dagli Usa), e con la comunicazione di Veltroni nata dal motto “Yes We Can” che gli valse l’appellativo di “Obama italiano”, continuata con il linguaggio renziano fatto di slide e di streaming che ha prodotto il jobs act e tutta una serie di altre anglicizzazioni.

Intanto, l’avvento di Internet e una globalizzazione che coincide sempre più con “americanizzazione” avevano portato anche a epocali cambiamenti sociali tra la mcdonaldizzazione del mondo o l’importazione di tradizioni come la festa di Halloween.

In questo contesto, il 20 settembre 2001, Bush proclamò il suo discorso in cui dichiarava: “Questa non è solo la lotta dell’America, e in gioco non c’è solo la libertà americana. Questa è la lotta del mondo per la civiltà. Questa è la lotta di tutti coloro che credono nel progresso e nel pluralismo, nella tolleranza e nella libertà. Noi chiediamo a ogni nazione di unirsi a noi.”

La propaganda puntava ad avvicinare l’identità tra Europa e Stati Uniti, e il nuovo Occidente costruito sulla politica del terrore e lo scontro di civiltà, coincide ormai sempre più con i soli Stati Uniti.

Il radicarsi dell’itanglese trova la sua spiegazione in questo quadro. Se siamo tutti americani, anche la loro lingua deve essere ostentata, e dietro ogni anglicismo c’è l’evocare questo mondo e questo sentimento.

Qualche giorno fa è uscito sul Resto del Carlino questo titolo: “La Virtus s’allena a tavola con la nuova ’food room’”. E nell’articolo si legge: “La ‘food room’, o per dirla all’italiana la mensa aziendale”. Cosa ci spinge a utilizzare queste espressioni che a ben pensarci rivelano tutto il nostro ridicolo provincialismo come nelle caricature di Alberto Sordi? Cosa ci spinge a chiamare food room una sala mensa, community una comunità, influencer un influente, mission una missione, e così via per gli altri 4.000 anglicismi riportati nei dizionari?

Questa ammirazione spropositata per tutto ciò che è a stelle e strisce ha delle ragioni sociolinguistiche che affondano le loro radici nella nostra storia. Quest’ammirazione spropositata e priva di spirito critico è connessa con il mito degli Stati uniti ma anche con il nostro complesso di inferiorità che ci sta portando ad abbandonare le nostre radici per sposare quelle di un’altra società, che ha delle profonde differenze rispetto alla nostra, visto che non siamo affatto “americani”, ma ci piace “fare gli americani”. E la vergogna di fare gli italiani ci sta portando ad appoggiare il globalese sul piano internazionale e a trasformare l’italiano in itanglese sul piano interno.

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Note
1) Marie-José Mondzain, “Je ne me sens pas américaine”, Le Monde, 18/9/2001.
2) Massimo Teodori, “Destra sinistra, cattolici”, in Piero Craveri, Gaetano Quagliariello (a cura di), L’antiamericanismo in Italia e in Europa nel secondo dopoguerra, Rubbettino Firenze 2004, p. 111.
3) Alessandro Portelli, The Transatlantic Jeremiad. American Mass Culture and Counterculture and Opposition Culture in Italy, in Rob Kroes e al. (a cura di), Cultural Transmissions and Receptions. American Mass Culture in Europe, Amsterdam, VU University of Amsterdam Press, 1993, p. 129.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Gli effetti collaterali dell’inglese internazionale e il caso Islanda

(C) 2021 Antonio Zoppetti, riproduzione riservata

L’inglese internazionale non è solo quello commerciale o turistico che può essere anche comodo per farsi capire quando si va in vacanza in qualche Paese di cui non si conosce la lingua. Questo inglese è in fondo una riduzione a pochi vocaboli e a frasi di circostanza che hanno un pura funzione comunicativa. Ma una lingua non è solo comunicazione, si porta con sé processi molto più profondi che coinvolgono il modo di pensare. Il filosofo, logico e matematico viennese Ludwig Wittgenstein, nel suo Tractatus pubblicato un secolo fa, scriveva: “I limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo”, perché il linguaggio descrive la realtà, e non è possibile pensare e descrivere la realtà in modo indipendente dal linguaggio. Come ha osservato Andrea Zhok: “Chi pensa a una lingua naturale come a un vestito neutrale, da indossare a piacimento senza che nulla cambi nella propria personalità e nel proprio pensiero, ha semplicemente un’esperienza della lingua povera, meccanica, circoscritta e meramente tecnica.”

Non si può allora dimenticare che l’inglese turistico e ristretto si basa sulla semplificazione della lingua madre dei popoli e delle culture dominanti, e questa lingua naturale ha una profondità che travalica la semplice comunicazione, è espressione del pensiero. Quando l’inglese internazionale diventa la lingua da esportare e da utilizzare in ambiti che coinvolgono il modo di pensare – come quando lo si impiega per la formazione universitaria, ma anche nella scienza o sul lavoro – entrano in gioco fattori complessi che hanno a che fare con i processi di astrazione e la concettualizzazione che sta sotto la lingua.
Fare dell’inglese la soluzione internazionale che ricostruisce la torre di Babele attraverso un grattacielo che assomiglia a quelli americani in cui si parla l’angloamericano non rappresenta solo un problema etico, per cui per essere “internazionali” si dovrebbe rinunciare alla propria lingua nativa per utilizzare quella di chi è più forte. Questa strategia ha anche degli “effetti collaterali” che portano a schiacciare le altre lingue e a non riconoscere il valore del plurilinguismo e delle altre culture. Ma soprattutto, l’inglese globale entra in conflitto con le altre lingue e si trasforma in una minaccia per quelle deboli o minoritarie.

L’anglicizzazione degli idiomi locali e le ibridazioni

L’effetto collaterale più evidente, e tutto sommato meno profondo, lo si vede nell’anglicizzazione di ogni idioma, nello “tsunami anglicus”, per dirla con Tullio De Mauro, che si riscontra in ogni luogo. Gli anglicismi sono i detriti del globalese, la lingua della globalizzazione, che penetrano in modo sempre più ampio e profondo nel lessico di ogni parlata, un fenomeno così pervasivo che ovunque ha ormai il suo nome: l’itanglese corrisponde a ciò che in Francia si chiama franglais, in Spagna spaglish, in Germania Denglisch, in Svezia swinglish, in Grecia greenglish, in Russia runglish e così via sino al konglish per il coreano o il japish per il giapponese.

Queste contaminazioni, quando diventano troppo estese e pesanti possono snaturare le lingue locali, e possono dare origine a lingue ibride, cioè mescolate, o creolizzate, il che si verifica quando il mescolamento non è paritario e la lingua dominate schiaccia quella di rango inferiore. Questo fenomeno avviene di solito nei territori dove esiste un bilinguismo locale che porta appunto alle enunciazioni mistilingue e al passaggio di un codice all’altro nelle stesse frasi. È il caso per esempio dello spanglish che ha preso piede nell’America latina, diffuso nelle comunità bilingui tra ispanici, portoricani o messicani, ma anche nelle aree statunitensi a forte presenza ispanica.

In altri casi il bilinguismo sul territorio porta invece a una diglossia, cioè a una gerarchia delle lingue dove la lingua locale diventa quella di serie B, quella del popolo, delle fasce deboli e “ignoranti”, mentre l’inglese è quella di serie A, della cultura, dei ceti sociali alti.
Questa diglossia è forte per esempio in India, dove l’inglese è stato introdotto ai tempi delle colonie britanniche. Da una parte è nata la variante dell’angloindiano che ha ormai assunto le sue forme e connotazioni particolari, tanto che Salman Rushdie ha rivendicato con orgoglio l’indian english dei suoi libri, che travalicherebbe quello ortodosso imponendosi come nuova varietà “autonoma”. Ma questa variante, più che essere sbandierata come il trionfo del meticciato e la lingua di quella popolazione, appare più come figlia del colonialismo. E proprio in India, l’inglese, ortodosso o meticcio, è diventato un simbolo, una lingua superiore, un modo di distinguersi socialmente con delle ricadute molto pratiche. Parlare l’hindi appartiene ai ceti bassi, mentre avere accesso all’inglese è un segno di cultura, un modo per elevarsi, al punto che per il 95% degli uomini la sua conoscenza è diventata un requisito fondamentale da cercare in una donna da sposare, come fosse una dote, perché una moglie che conosce l’inglese è essenziale per frequentare l’alta società (1), mentre dell’hindi ci si vergogna. Lo si vede persino in alcune pellicole di Bollywood, una delle più celebri è Quando parla il cuore (2) che narra le vicende di una donna alla ricerca dell’indipendenza, del rispetto e del riscatto proprio attraverso la conoscenza dell’inglese che va a imparare a New York.

Il globalese che minaccia le lingue minoritarie

Un altro ben più grave effetto collaterale del globalese consiste in un ulteriore passo rispetto al ricorso all’inglese per motivi sociolinguistici, che sono una scelta per elevarsi socialmente e per identificarsi nel gruppo di appartenenza elitario. Il proseguimento di questo processo può portare all’abbandono della propria lingua. Ed è in questo modo che le lingue minori possono scomparire e morire. Questo fenomeno può essere spontaneo, ma può anche essere il risultato di un’imposizione, proprio come è avvenuto, ma avviene ancora oggi, in Africa. È un processo raccontato molto bene dallo scrittore africano Ngũgĩ wa Thiong’o (3) che ne ha vissuto le conseguenze sulla propria pelle. Tutto ha avuto inizio nel 1884 a Berlino, quando venne sancita la spartizione dell’Africa non solo nelle nuove frontiere disegnate a tavolino, ma anche nelle diverse lingue delle potenze europee. I Paesi africani, che un tempo erano colonie e oggi assomigliano a neocolonie, sono stati divisi in territori di lingua inglese, francese e portoghese. Con la nascita delle scuole coloniali che impartivano le lezioni nelle lingue imposte, questo colonialismo linguistico fu portato a termine, determinando la morte di molte lingue locali minoritarie. A lungo andare gli africani hanno cominciato a identificare e definire la propria identità attraverso queste lingue (4), e ancora oggi sono francofoni o anglofoni, anche se successivamente sono sorte anche le aree arabe. Per questo motivo Thiong’o, davanti all’odierno strapotere del globalese, invita a ribellarsi all’inglese, la lingua colonizzatrice che “fiorisce sul cimitero degli altri idiomi.” (5) Ma anche il tunisino Claude Hagège ha denunciato “un olocausto che fluisce senza sosta, apparentemente nell’indifferenza generale” determinato soprattutto dall’inglese, che “svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle lingue”. (6) Ha calcolato che nel mondo “ogni anno muoiono venticinque lingue: un fenomeno di dimensioni spaventose”. (7) Se oggi quelle vive sono circa 5.000, fra un secolo saranno la metà, se non cambia qualcosa.

Queste preoccupazioni non si trovano solo in autori legati all’Africa, e la costatazione per cui tantissime lingue minori scompaiono dal nostro pianeta, con una velocità maggiore di quella della scomparsa delle specie viventi, è al centro delle riflessioni della finlandese Tove Skutnabb-Kangas, che insegna all’università danese di Roskilde e all’accademia universitaria di Vasa in Finlandia, e che da anni si batte per i “diritti linguistici” delle popolazioni e delle minoranze, linguistiche e culturali. Il riduzionismo monolinguistico, secondo la studiosa, non è solo ingiusto, ma è un “cancro” a cui va contrapposto il riconoscimento dei diritti linguistici. (8)

L’inglese internazionale non minaccia solo i Paesi africani o lontani, a rischio ci sono anche le lingue d’Europa, quando sono parlate da un ristretto numero di persone, e il caso dell’Islanda è il più grave.

Il caso islandese e la “minoritarizzazione digitale”

Gli islandesi sono poco più di 300.000, un numero di parlanti estremamente basso, così basso che non sono considerati un mercato appetibile per le multinazionali che non hanno convenienza a tradurre in quella lingua. I film e le serie tv americane per tradizione non sono mai doppiate, ma al massimo sottotitolate, e nell’era di Netflix tendono a circolare direttamente in lingua inglese. L’islandese non è contemplato come lingua della tecnologia basata sul riconoscimento vocale, da Siri ad Alexa, e la conseguenza è che tutto avviene direttamente in inglese, e anche le localizzazioni di piattaforme come Facebook in islandese sono parziali e malfatte.

Il crollo economico di quel Paese, avvenuto nel 2008, ha portato all’abbassamento dei prezzi e all’aumento vertiginoso dei turisti: nel 2008 erano cresciuti sino a 500.000, ma nel 2017 sono stati 2 milioni (più di 5 volte il numero degli abitanti dell’Islanda) e l’inglese è diventata la lingua che di norma si usa anche nei locali e nei negozi, al punto che nei bar e nei ristoranti del centro di Reykjavík non di rado ci si rivolge ai clienti direttamente in inglese.

Quello che sta avvenendo è stato definito dal linguista Eiríkur Rögnvaldsson, professore dell’Università d’Islanda, il fenomeno della “minoritarizzazione digitale”, dove una lingua viva e parlata nel mondo reale si trasforma nel mondo digitale in una lingua secondaria che di fatto non esiste, o lascia poche tracce di sé. Questo fenomeno ha delle ricadute pesanti sui parlanti, perché ormai l’ambiente digitale e quello televisivo sono diventati preponderanti e il tempo che la gente dedica a queste attività è sempre maggiore. Se le interfacce dei cellulari e l’ambiente virtuale parlano l’inglese, finisce che diventa la lingua prioritaria e questo ha un impatto forte soprattutto sulle giovani generazioni, che trascorrono sempre più ore in un mondo digitale che li espone al solo inglese. Su telefonini, tablet, computer, televisioni è tutto un pullulare di giochi, film, serie televisive, video e canzoni in inglese. In questo modo ci si abitua a pensare in inglese e le parole native non vengono più in mente. E in inglese non solo si interagisce con le piattaforme sociali e tecnologiche, ma sempre più spesso anche con gli altri, vista la larga conoscenza di quella lingua. Al punto che gli insegnanti delle scuole secondarie riferiscono che i quindicenni, in cortile durante la ricreazione, sempre più spesso parlano tra loro in inglese. Da una stima sul fenomeno risulta che un terzo degli islandesi dai 13 ai 15 anni parli in inglese con i propri amici, (9) mentre alcune indagini rilevano che nelle fasce dei più piccoli, i bambini riferiscono agli specialisti che non sono in grado di indicare un termine islandese per molte delle figure che vengono loro mostrate. Il rischio paventato da Eiríkur è quello di assistere a una nuova generazione che si forma senza una vera e propria lingua madre. (10) Per i giovani che si nutrono di prodotti di intrattenimento digitali in inglese, in un Paese dove persino al suo interno la lingua locale è sempre meno diffusa, la domanda che ricorre è: “A cosa mi serve parlare in islandese?” E a quel punto passano direttamente all’inglese.

Davanti a questo fenomeno preoccupante il governo ha compreso il problema e varato politiche linguistiche e provvedimenti per favorire la lettura dei libri in islandese, visto che ha subito un calo notevole negli ultimi anni. Inoltre, sono stati stanziati 20 milioni di euro da destinare alle iniziative che lavorino a tecnologie in lingua islandese, (11) che sono fondamentali per arginare l’invadenza dell’inglese globale. Se in Italia la scarsa conoscenza dell’inglese ci mette al riparo dall’abbandonare la nostra lingua, che ha anche una forza e una storia letteraria ben diversa da quella islandese, vediamo lo stesso i risultati che sul piano linguistico comportano le interfacce informatiche concepite nell’anglosfera con i termini dell’anglomondo. Il 50% dei lemmi marcati come informatici, sul Devoto Oli, sono appunto in inglese crudo, e se fino agli anni Settanta potevamo esprimere l’informatica nella nostra lingua, oggi non è più possibile, senza la stampella degli anglicismi. Anche se da noi non esiste alcun bilinguismo sul territorio, esiste però un bilinguismo virtuale e culturale rappresentato dalle interfacce con cui interagiamo in Rete che parlano in inglese e che a livello lessicale abbiamo rinunciato a tradurre passando alla strategia dell’importazione in modo crudo, che consiste nell’adottare invece di adattare.

Mentre in Francia e in Spagna le accademie coniano neologismi autoctoni alternativi a quelli inglesi e li promuovono, e mentre in Germania questo lavoro viene fatto da associazioni sorte dal basso come la VDS che pubblica annualmente l’Indice degli anglicismi con i loro sostitutivi, da noi non c’è nulla del genere, né di istituzionale né di privato (il dizionario AAA è solo una goccia). E il risultato è che da noi le alternative non esistono e siamo costretti a ricorrere agli anglicismi “di necessità”, mentre in Francia, per esempio, ricorrere all’inglese diventa una scelta sociolinguistica culturale o politica, come scrive la terminologa Maria Teresa Zanola, che nota come la reazione al franglais supportato dalle iniziative pubbliche e private ha favorito la coniazione di neologismi e l’evoluzione della lingua francese che è in questo modo piuttosto vitale, (12) al contrario dell’italiano che regredisce.

In Islanda, la figura del “neologista” esiste ufficialmente, e crea alternative agli anglicismi attraverso neoconiazioni che partono dalle radici endogene, cioè dalla propria lingua. Questi linguisti hanno il compito di rinnovare l’islandese e di tenerlo al passo con i tempi creando parole per ogni oggetto o concetto importato. In un primo tempo questi termini venivano pubblicati sui giornali, ma oggi circolano glossari cartacei e dizionari in Rete. E tutto ciò viene fatto formalmente da un apposito dipartimento dello Stato, nel Dipartimento della Pianificazione del Linguaggio che sorge in un istituto culturale nel centro della capitale.

E allora, quando si fa dell’inglese la soluzione alla comunicazione internazionale, quando lo si vende come una lingua che apparterrebbe “a tutti” e che ci unificherebbe, si omette di dire che questa “unificazione” si fa a scapito del plurilinguismo e che è un’unificazione che allo stesso tempo divide e crea barriere sociali. Che non è la lingua di tutti, ma quella dei popoli dominanti che hanno tutta la convenienza a esportarla come “universale” perché costituisce un indotto economico spropositato, perché dà loro un enorme vantaggio comunicativo e perché permette loro di non apprendere alcuna altra lingua e di destinare gli altissimi costi dello studio di una seconda lingua verso altre direzioni come la ricerca. E soprattutto si omette di raccontare anche quali sono gli effetti collaterali di questo globalese tanto esaltato.

Note

1) Cfr. Robert McCrum, William Cran, Robert MacNeil, La storia delle lingue inglesi, Zanichelli, Bologna 1992, p. 39.
2) English Vinglish, di Gauri Shinde (2012) interpretato dall’attrice Sridevi Kapoor, soprannominata la “Meryl Streep d’India”.
3) Ngũgĩ wa Thiong’o, Decolonizzare la mente, Jaka Book, Milano 2015.
4) Ivi, p. 16.
5) “Scrittori, ribelliamoci all’inglese”, di Pietro Veronese (intervista a Ngũgĩ wa Thiong’o), la Repubblica, 2 agosto 2019.
6) Claude Hagège, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano 2002, p. 7.
7) Ivi, p. 99.
8) Cfr. Tove Skutnabb-Kangas, “I diritti umani e le ingiustizie linguistiche. Un futuro per la diversità? Teorie, esperienze e strumenti”, in Come si è ristretto il mondo, a cura di Francesco Susi, Amando Editore, Roma 1999 (p. 85-114), p. 99.
9) Cfr. Fiona Zublin, “Iceland Fights to Protect Its Native Tongue From Siri”, in Ozy.com, 9/7/2018.
10) Cfr. Cristina Piotti “Islandese, una lingua a rischio estinzione”, IL – Il maschile del Sole 24 ore, 21/02/2019. 10
11) Ivi.
12) Maria Teresa Zanola, “Les anglicismes et le français du XXIe siècle : La fin du franglais ?”, Synergies Italie, n. 4,‎ 2008, p. 95.


PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Inglese internazionale o plurilinguismo?

Di Antonio Zoppetti

A Milano, capitale dell’itanglese, in metropolitana la segnaletica è bilingue, italiano e inglese, e lo stesso accade per la comunicazione sonora: a ogni fermata riecheggia l’annuncio bilingue che ripete in modo ossessivo: “Prossima fermata… next stop…”
Nelle ore di punta l’utenza è formata più che altro da pendolari ammassati – almeno prima della pandemia – mentre nelle ore serali c’è un’alta concentrazione di arabi, cinesi, sudamericani… gli anglofoni sono piuttosto rarefatti, insomma. Ma dietro questo tipo di comunicazione c’è una precisa filosofia: straniero = inglese = lingua internazionale. Questi annunci sono un martellamento, un lavaggio del cervello che in modo ipnotico ci abitua alla presenza e all’essenzialità del solo inglese.
Anche prendere un treno significa immergersi in questa logica. Una volta c’erano le targhette con scritto “Vietato sporgersi” o “Non gettate alcun oggetto dal finestrino” affiancate dalle traduzioni in francese, tedesco e inglese. Oggi la traduzione è solo in inglese. E per di più l’inglese sconfina sempre maggiormente, e prende il posto dell’italiano. Nelle stazioni o negli aeroporti francesi, spagnoli o portoghesi ci sono le porte per l’imbarco, in Italia ci sono solo i gate. Viaggiare ai tempi del covid implica non occupare i posti con i divieti, ma i cartellini marcatori nella comunicazione delle Ferrovie dello Stato si chiamano marker (“il distanziamento è garantito da specifici marker sui posti non utilizzabili”), mentre ai passeggeri si “spiega” che “è ripresa la distribuzione del welcome drink a bordo treno” o che sui Frecciarossa ai “nuovi servizi di caring a bordo treno” si aggiunge la consegna gratuita “del safety kit gratuito a tutela della salute”, per garantire un protocollo covid free attraverso l’incentivazione di Qr code e ticketless

In treno è meglio non appoggiare le borse sul “desk”, tutto chiaro in questa “semplice indicazione”?


L’inglese internazionale e l’itanglese sono due fenomeni diversi, ma nascono dallo stesso humus e si alimentano dalla stessa mentalità sottostante che idolatra l’inglese come lingua superiore (cfr. “Globalese e itanglese: le relazioni pericolose”).

Il progetto di portarci sulla via bilinguismo italiano/inglese

Il progetto di portare ogni Paese sulla via del bilinguismo a base inglese è mondiale, e spesso è spacciato attraverso la parola plurilinguismo, che è invece l’esatto opposto: l’imposizione del globalese, la strategia dell’inglese globale, è tutto il contrario del plurilinguismo, che considera la diversità linguistica una ricchezza e un valore da tutelare e promuovere.

Il ricorso all’inglese sovranazionale in parte coincide con l’egemonia economica e culturale degli Stati Uniti – e dunque con la globalizzazione – e in parte è figlio di un imperialismo linguistico di natura coloniale storicamente legato all’espansione del Regno Unito e all’idea di Churchill di continuarlo da un punto di vista linguistico-culturale attraverso l’alleanza con gli Usa:

“Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente” (discorso agli studenti di Harvard, 6 settembre 1943).

Ne ho già parlato più volte, e lo ribadisco: considerare l’inglese come la lingua internazionale che risolve i problemi della comunicazione tra i popoli non è una scelta neutra, come potrebbe essere per esempio l’esperanto, è un enorme vantaggio per i popoli dominanti che impongono a tutti gli altri la propria lingua madre, senza doversi occupare di apprenderne altre. Questa visione non è un assioma indiscutibile, è solo una scelta possibile che si può benissimo mettere in discussione, e per tanti motivi. Eppure da noi il dibattito manca. La nostra classe politica e dirigente, con la complicità di intellettuali e giornalisti, ci fa credere che il globalese sia una realtà compiuta, e non un progetto politico, e lo fa in modo piuttosto subdolo, sia attraverso la propaganda di notizie false sia attraverso prassi subliminali che ci abituano gradualmente, anno dopo anno, ad accettare questa ideologia senza accorgercene e senza che ci sia un dibattito.

Queste prassi surrettizie sono infinite. La sostituzione della comunicazione multilingue dei treni con quella italo-inglese si inserisce in un contesto molto più ampio che vede l’Italia in prima linea nella diffusione dell’inglese globale.
Un tempo a scuola si poteva scegliere se studiare come seconda lingua il francese o l’inglese, oggi c’è solo l’inglese, ben propagandato dalle tre “i” della scuola di epoca berlusconiana e della Moratti ministra dell’istruzione (Inglese, Internet e Impresa). Il Politecnico di Milano di fatto eroga la maggior parte dei suo corsi in inglese, nonostante le polemiche e le sentenze.
Nel 2019, per essere “internazionale” la Rai ha annunciato la nascita di un canale in lingua inglese, mentre gli analoghi progetti dei canali francesi, russi o della stessa BBC (che trasmette in 45 lingue diverse) prevedevano trasmissioni in tante lingue, dallo spagnolo all’arabo, per arrivare a tutti. In realtà Rai English, che ci è costata 2 milioni di euro, è stata solo l’ennesimo progetto naufragato e mai realizzato, ma la mentalità sottostante gode di ottima salute. Sino al 2017 nei concorsi per la pubblica amministrazione era obbligatorio conoscere una “seconda lingua”, ma la riforma Madia ha sostituito tutto con la “lingua inglese” che è diventata un requisito obbligatorio. Questa stessa logica si ritrova nell’obbligo di presentare i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (Prin) in inglese, con il paradosso che un progetto su Dante o sul diritto romano (basato sul latino) debba essere presentato in inglese! Perché?
Perché decennio dopo decennio il nostro Paese sta perseguendo il disegno churchilliano – che non ci conviene affatto – in modo subdolo.
Uno degli esempi più recenti è l’introduzione della nuova carta d’identità in italiano e in inglese.

La nuova carta d’identità italiana, bilingue, e quella tedesca che include anche il francese, come avviene in Austria, e ovunque sul passaporto.

Credete che sia normale che debba essere così visto che siamo ormai cittadini europei? Allora siete stati ben colonizzati. Perché nel passaporto italiano e degli altri stati europei c’è anche il francese, ma nel nuovo documento elettronico la terza lingua è stata fatta sparire?

Un cittadino francese, Daniel De Poli, davanti alla nuova carta d’identità di stile anglo-europeo in francese, ha protestato con il delegato del ministero degli Interni, mostrando che in Germania il nuovo documento prevede, oltre al tedesco, anche il francese e l’inglese (lo stesso vale per l’Austria), come nel caso del passaporto europeo. E di fronte alla risposta che la scelta era motivata dall’essere l’inglese lingua internazionale, Daniel si è rivolto all’associazione di difesa francofona AFRAV che il 20 marzo 2021 ha presentato un ricorso perché questa decisione è illecita.

In Italia non credo che esistano associazioni del genere, e forse nessuno si è nemmeno mai posto il problema.

Notizie false e propaganda

Accanto alle prassi che ci abituano al bilinguismo e oscurano il plurilinguismo c’è poi la propaganda delle false giustificazioni. Una delle più gettonate, per esempio, è quella di sostenere che in ambito scientifico l’inglese internazionale ha preso il posto del latino che una volta era la lingua franca degli scienziati. Un’affermazione falsa sotto molti punti di vista. In primo luogo il latino era semmai la lingua dei teologi, cioè coloro che hanno condannato Galileo, visto che il “padre” della scienza aveva abbandonato il latino del Nuncius sidereus per scrivere il Dialogo dei massimi sistemi e il Saggiatore per la prima volta proprio in italiano. E anche se alcuni scienziati hanno continuato a usare il latino ancora sino all’Ottocento, la rivoluzione scientifica è avvenuta soprattutto nelle lingue locali. Inoltre, il latino di teologi e scienziati non era la lingua madre di nessuno, era una scelta neutra e il paragone inglese-latino regge solo se il confronto lo si fa con il latino dell’epoca imperiale, quando i Romani conquistavano e colonizzavano imponendo i propri i costumi e dunque anche la propria lingua. In terzo luogo non è affatto vero che l’inglese sia la lingua della scienza ovunque e in ogni ambito (cfr. “Inglese unica lingua della scienza? Non dovunque”).

La bufala che ci fa credere che l’inglese globale sia una realtà già compiuta, invece che un disegno che si vuole realizzare a scapito del plurilinguismo, è molto gettonata, ed è l’alibi preferito dagli anglomani. Eppure, proprio secondo i rapporti 2020 dell’Ef Epi – un’organizzazione che stila classifiche sulla conoscenze dell’inglese nel mondo per esaltarne i benefici – l’Italia è al 26° posto in Europa, quindi siamo messi malino. Stando ai rapporti Istat 2015, tra chi sa una o più lingue straniere (quindi solo una parte della popolazione), l’inglese è conosciuto dal 48,1%, il francese dal 29,5% e lo spagnolo dall’11,1% . In sintesi l’inglese è masticato da una minoranza degli italiani, e se si passa all’analisi del livello di conoscenza le cose precipitano: il 28% dichiara una conoscenza scarsa, il 27% buona e solo il 7,2% ottima.

La conoscenza dell’inglese appartiene ai ceti sociali alti, e come ha osservato il linguista tedesco Jürgen Trabant tutto ciò porta a una moderna “diglossia neomedievale” che esclude una larga fetta di popolazione che non ha accesso a questa lingua. I nostri politici, invece di tutelare e promuovere l’italiano, e gli italiani, sembrano invece favorire questa frattura sociale con provvedimenti come quello della riforma Madia. Il loro progetto è quello di farci diventare bilingui, e non quello di promuovere il plurilinguismo. Ma l’inglese globale è una discriminante anche fuori dall’Italia.

Uno dei firmatari del nostro disegno di legge per l’italiano è Jean-Luc Laffineur, italiano che risiede in Belgio, presidente di un’associazione che si batte per una Governanza Europea Multilingue (Gem+).
Mentre nell’Unione Europea – di cui il Regno Unito non fa più parte – è in atto un dibattito sullinglese come presunta seconda lingua, e ci sono fautori dell’euroinglese e quelli dell’inglese britannico, Laffineur interviene con un articolo in cui snocciola numeri e statistiche. L’inglese è la lingua madre di una minoranza di europei: irlandesi e maltesi rappresentano circa l’1,5%, mentre il tedesco è la lingua madre di circa il 20% dei cittadini europei, il francese del 16% e l’italiano del 15%. Anche se l’inglese è la seconda lingua più studiata in Europa (anche grazie ai programmi scolastici che fanno in modo che sia così), non significa che tutti la padroneggino: solo il 15% dichiara di saperlo fare, mentre il 38% dichiara di conoscerla abbastanza per sostenere una conversazione, ma solo il 25% è in grado di comprendere le notizie di giornali e tv. Il tedesco, il francese, l’italiano e lo spagnolo rappresentano insieme circa il 60% delle lingue native della popolazione dell’UE. Se si aggiunge il polacco, questa cifra sale a circa il 70%.
Come scrive Laffineur, la lingua dell’Europa non è però solo un problema di democrazia, ma anche di potere, che si esercita attraverso la lingua, e di identità linguistica. Invece di chiederci quale sia la lingua da imporre all’Europa, perché non dovremmo guardare al pluriliguismo e per esempio al modello elvetico fatto di tedesco, francese e italiano? Se in Svizzera le lingue di lavoro sono 3, perché l’Europa non potrebbe adottarne 5 o 6? Certo, alcune minoranze linguistiche sarebbero comunque escluse, ma forse lavorare in altre lingue oltre all’inglese sarebbe anche nel loro interesse.

Naturalmente si può dissentire e schierarsi dalla parte del globalese che se si affermerà porterà l’italiano e le altre lingue a diventare i dialetti di un’Europa che parla l’inglese. Ma in Italia sembra invece che a porsi questi problemi siano davvero in pochi, e non se ne parla.
Nei Paesi francofoni la difesa della propria lingua è invece normale, e non ha nulla a che fare con l’essere contro l’inglese, ma con il favorire il plurilinguismo e quindi tutte le lingue d’Europa. Laffineur lo spiega chiaramente in un articolo sul giornale belga La libre (chi non lo comprende può avvalersi di un traduttore automatico come Deepl che mi pare migliore di quello che Google promuove come fosse l’unico, cioè il suo). In un altro pezzo sulla stessa rivista l’autore critica persino la decisione di Ursula von der Leyen, madrelingua tedesca, di inaugurare praticamente in inglese il primo discorso sullo stato del Parlamento Europeo proprio nell’anno dell’uscita del Regno Unito (“un bel regalo, per gli inglesi”).

Ve lo immaginate un articolo del genere su un giornale italiano?

Le due Europe

In teoria l’Unione europea nasce all’insegna del multilinguismo e sull’autonomia linguistica di ogni singolo Paese e il problema della comunicazione tra i parlamentari eletti non dovrebbe certo coinvolgere i cittadini europei. Ma le cose non si possono sempre separare così nettamente. Di fatto, accanto all’Europa pluralista, almeno sulla carta, c’è un’altra Europa che invece di basarsi sui diritti linguistici di tutti i cittadini europei privilegia il globalese, e si adopera per portarci tutti sulla via del bilinguismo. Paradossalmente, la supremazia schiacciante dell’inglese e il venir meno del plurilinguismo è esplosa negli anni Duemila con l’entrata dei Paesi dell’Est. Più la Comunità Europea si è allargata e più si è andati verso l’inglese visto come soluzione concreta e pratica. Oggi la lingua di lavoro è diventata soprattutto l’inglese, e solo in maniera minore lo sono anche il francese e il tedesco, mentre l’italiano è stato ormai escluso.

L’Europa dei diritti linguistici, tuttavia, esiste, e all’estero ci sono molte associazioni che la difendono, come la Gem+ di Bruxelles o l’Oep (Osservatorio Euopeo del Plurilnguismo) di Vincennes (Francia), che nella sua carta proclama che “il plurilinguismo non può essere separato dall’istituzione di un’Europa politica.” Inoltre, ci sono parecchie cause internazionali in corso che si appellano a questi principi per combattere le decisioni dell’Europa anglomane. La Corte di giustizia dell’Unione europea (comunicato stampa n. 40/19, 26 marzo 2019), per esempio, ha sancito che “nelle procedure di selezione del personale delle istituzioni dell’Unione, le disparità di trattamento fondate sulla lingua non sono, in linea di principio, ammesse”, a meno che non esistano “reali esigenze del servizio”, ma in questi casi devono essere motivate “alla luce di criteri chiari, oggettivi e prevedibili”.

Come è possibile, allora, che senza alcun criterio esplicitato e senza reali esigenze di servizio, grazie alla riforma Madia in Italia un professore di spagnolo o di francese, non può essere assunto nella scuola se non sa l’inglese, lingua che esula dalle sue competenza specifiche?

Anche da noi dovrebbe nascere un dibattito come quello che si registra nei Paesi francofoni e in più parti dell’Europa, e dovremmo chiederci se davvero l’inglese è la soluzione che ci conviene e che vogliamo.

Per questo la proposta di una legge per l’italiano non si limita a indicare qualche misura concreta per promuovere e difendere la nostra lingua davanti agli anglicismi e all’itanglese, ma anche di sostenerla davanti alla “dittatura dell’inglese” imposta dalla riforma Madia, dal Miur e da tutti quei balzelli linguistici che tutelano e diffondono l’inglese a scapito dell’italiano e degli italiani. Sia sul piano interno sia su quello internazionale.

Grazie alle oltre 500 persone che con le loro firme hanno aderito alla petizione “una legge per l’italiano”.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. Le immagini, i collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Globalese e dittatura dell’inglese: il dibattito che manca in Italia

In Italia può sembrare “estremista” constatare che il globalese – cioè l’inglese planetario esportato in tutto il mondo dalla globalizzazione – fa parte di un progetto di colonizzazione culturale, economica e linguistica che segue le stesse logiche di quelle della Roma imperiale (vedi la scorsa puntata → “Colonialismo linguistico e globalizzazione a senso unico”). Eppure queste posizioni sono date per scontate in molti Paesi, persino all’interno della letteratura inglese. Robert Phillipson, un linguista britannico autore di libri osteggiati e non tradotti (come Linguistic imperialism, Oxford University Press 1992), ha osservato che la politica di George W. Bush ha premuto l’acceleratore sul processo di colonizzazione statunitense, e che la sua consigliera per gli affari esteri Condoleezza Rice lo ha dichiarato esplicitamente: “Il resto del mondo trarrà un vantaggio migliore dagli Stati Uniti che perseguono i propri interessi, poiché i valori americani sono universali.” Esportare la “civiltà” universale ai popoli incivili e inferiori è da sempre la giustificazione del colonialismo per esportare i propri interessi. E l’imposizione della lingua è funzionale e strategica in questo disegno.

Il problema è che da noi manca il dibattito e la nostra posizione appare sempre più quella di coloni collaborazionisti. Non c’è alcuna attenzione per la tutela del nostro patrimonio linguistico sul fronte interno, e su quello esterno pare che nessun politico si ponga la questione di quale dovrebbe essere la lingua d’Europa, o meglio: quali! Diamo per scontato che l’inglese, ormai praticamente extracomunitario, sia l’unico modello possibile per essere internazionali e non promuoviamo l’italiano all’interno dell’Unione Europea, che di fatto lo sta estromettendo da lingua del lavoro, nonostante sulla carta dovrebbe avere gli stessi diritti di inglese o francese (vedi anche → “La petizione per l’italiano come lingua del lavoro”).

Fuori dai nostri confini le cose vanno molto diversamente. Non solo in Francia, dove esiste una forte politica linguistica, in Spagna, dove ci sono una ventina di accademie che governano e promuovono una lingua diffusa negli altrettanti Paesi che conta 400 milioni di madrelingua, o in Svizzera, che ha investito moltissimo nella promozione dell’italiano schiacciato dal tedesco e dal francese in nome del plurilinguismo che contraddistingue questo stato; ma persino in una nazione dall’idioma estremamente anglicizzato come la Germania.

Per essere davvero internazionali dovremmo semplicemente partecipare al dibattito che c’è all’estero.

 

Gli altri Paesi davanti alla dittatura dell’inglese

Il professore tedesco Jürgen Trabant dell’Università libera di Berlino, per esempio, si occupa di pluralismo linguistico, e nelle sue riflessioni su quale debba essere il modello di multilinguismo dell’Europa, ha denunciato che si contrabbanda come “plurilinguismo” la strategia dell’inglese globale (da lui chiamato “globalese”) per cui le lingue locali sono viste come un ostacolo sulla via che dovrebbe portare tutto il pianeta a un bilinguismo dove l’inglese è la lingua internazionale affiancata dalla lingua naturale locale vissuta come un “accidente” da superare. Nelle sue analisi denuncia che l’Europa sta andando incontro a una forma di “diglossia moderna neomedievale”, cioè una situazione dove esistono due lingue gerarchizzate che possiedono due diversi ruoli sociali: l’inglese è quello alto, colto e aristocratico, la lingua locale è quella popolare e della vita di tutti i giorni. Questo intellettuale non è certo un estremista, Tullio De Mauro lo ha definito “uno dei maggiori linguisti europei”, e il suo libro Globalesisch, oder was? (Il global english o cos’altro?) negli scorsi anni ha avuto un notevole successo perché non era una denuncia isolata. Sempre secondo De Mauro, infatti, la politica e la stampa tedesche sono molto più attente di noi a questi temi e

“– dal presidente Joachim Gauck ad Angela Merkel – seguono le questioni del multilinguismo, dagli asili nido all’intera vita sociale. La questione della lingua si pone oggi in Europa come una questione politica, anzitutto di politica democratica, e non solo come questione istituzionale di rapporti ufficiali tra gli stati per la vita formale delle istituzioni dell’Unione. Ma è anche una questione di cultura e di scuola. (…) Se vogliamo che l’Europa a 28 si trasformi in uno stato federale non è più eludibile la questione della lingua come questione politica di democrazia. Trabant critica l’idea che un inglese di servizio, senza radici nella cultura, risolva da solo il problema. Il Globalesisch è accettabile solo se lo faremo convivere con la ricchezza intellettuale della molteplicità di lingue dell’Europa.”

[Tullio De Mauro, “Un’Europa e molte lingue”, Internazionale, 2104]

Mentre da noi è in atto una battaglia sull’insegnamento in inglese nelle Università, come si è tentato di fare nel 2015 al Politecnico di Milano, nella convinzione che questo significhi essere internazionali, spesso si esalta o si porta come esempio quanto accade in vari Paesi del Nord Europa dove questi modelli si sono già affermati. In questo scenario, l’Olanda si può considerare un Paese “modello”, dal punto di vista della globalizzazione: l’inglese è considerato la seconda lingua dal 95% della popolazione, dunque il processo di colonizzazione si è compiuto da tempo, perché si è sempre ritenuto che per competere con l’internalizzazione fosse meglio parlare la lingua globale. Eppure proprio in questo Paese si stanno cominciando a vedere gli effetti nocivi di questa strategia, e Annette de Groot (”L’internalizzazione uccide la lingua locale”), professoressa di linguistica all’Università di Amsterdam, parla apertamente del loro “bilinguismo squilibrato”: l’inglese non si è semplicemente “aggiunto”, ma corrisponde a una perdita dell’olandese e della propria identità. Sono in tanti a lamentare il peggioramento della qualità della comunicazione che è avvenuto, soprattutto nel caso di temi complessi, perché l’inglese non è la lingua madre né dei professori né degli studenti. Un accademico olandese che si occupa di comunicazione come Cees Jan Hamelink parla perciò degli effetti “sottrattivi” dell’apprendimento della lingua globale attraverso concetti come quello della “macdonaldizzazione”. Anche in Danimarca, Norvegia, Svezia e Finlandia hanno questi stessi problemi con l’inglese della scienza e dell’università, e il dibattito riguarda come intervenire politicamente proprio per regolamentare un uso dell’inglese equilibrato e rispettoso della lingua nazionale che sia appunto un’aggiunta al repertorio nazionale, e per fare in modo che non sia invece sottrattivo e che a pagare le spese dell’internazionalizzazione colonialistica siano le lingue locali. Se questi problemi se li pongono in questi Paesi, lo dovremmo fare anche noi a maggior ragione, perché la nostra è una lingua romanza, che non deriva dai ceppi germanici come per esempio molte lingue del Nord, e l’impatto è più pesante. È evidente che studiare in inglese per esempio medicina o altre materie scientifiche all’università porterà alla perdita del lessico tecnico-scientifico italiano. Vogliamo davvero sottrarre questi ambiti alla nostra lingua per passare a quella inglese? È questo il prezzo da pagare per essere internazionali? Bene, non tutti sono d’accordo su questo prezzo, c’è anche chi vede il multilinguismo come un valore, e non come un ostacolo.

Ma c’è ancora di più. Se l’affermazione dell’inglese come lingua franca in Europa sta minacciando la ricchezza linguistica del nostro continente, come denuncia per esempio in Romania Ovidiu Pecican, docente dell’università Babeş-Bolyai di Cluj e articolista di România Liberă, in molti altri casi la minaccia non riguarda né la “ricchezza” né l’ibridazione, coinvolge direttamente l’estinzione delle lingue. La finlandese Tove Skutnabb-Kangas, che insegna nell’università danese di Roskilde e nell’accademia universitaria di Vasa in Finlandia, si batte da anni per i “diritti linguistici” delle popolazioni e delle minoranze, linguistiche e culturali, denunciando che ci sono tantissime lingue minori che scompaiono dal nostro pianeta con una velocità maggiore di quella della scomparsa delle specie viventi. La stessa denuncia del tunisino Claude Hagège (Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano 2002) che ha calcolato che nel mondo “ogni anno muoiono venticinque lingue: un fenomeno di dimensioni spaventose”. Se oggi quelle vive sono circa 5.000, fra un secolo saranno la metà, se non cambia qualcosa. “È un olocausto che fluisce senza sosta, apparentemente nell’indifferenza generale” e la principale minaccia è proprio l’inglese, che “svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle lingue”. Un problema che è gridato anche da uno dei più grandi intellettuali africani, Ngugi wa Thiong’o, molte volte candidato al premio Nobel che per ora non gli è mai stato assegnato e autore di Decolonizzare la mente (Jaca Book, 2015), che in una recente intervista su la Repubblica invitava a ribellarsi all’inglese (“Scrittori, ribelliamoci all’inglese“, 02 Agosto 2019, di Pietro Veronese), la lingua colonizzatrice che “fiorisce sul cimitero degli altri idiomi”.

Questi sono gli effetti collaterali del colonialismo linguistico, della dittatura dell’inglese e del progetto internazionale di renderlo la lingua globale. Questo è il dibattito che si registra all’estero e che coinvolge le istituzioni, la politica, l’università e gli intellettuali.

Nel mondo si stanno scontrando due opposte visioni, quella dominante e imperialista che vorrebbe esportare l’inglese ovunque per i propri vantaggi economici e quella etica che vede nel multilinguismo una ricchezza da salvaguardare che non ha prezzo. In Italia il dibattito non c’è. Le sole reazioni che si possono riscontrare sono fuori dagli ambiti istituzionali. L’atto eroico di Maria Agostina Cabiddu che è riuscita a bloccare la soppressione dei corsi universitari in lingua italiana da parte del Politecnico di Milano con le raccolte di firme e con i ricorsi ai tribunali. Le denunce di una scienziata come Maria Luisa Villa che si batte per l’italiano come lingua della scienza. Le voci fuori dal coro come quella di Giorgio Pagano, o di Diego Fusaro che, con riferimento a 1984 di Orwell, si scaglia contro la “neolingua” dei mercati. Posizioni che appaiono come “eccentriche”, “esagerate” e nel peggiore dei casi “estremiste”, nel vuoto e nell’indifferenza della politica, delle istituzioni e dei mezzi di informazione di un’Italia ormai inglobata nel pensiero unico al punto di non vedere l’alternativa. Quello che rimane è il silenzio e i collaborazionisti che confondono il buon senso con il fanatismo. Ma il fanatismo è nell’anglomania, non nella sua critica.

 

(Continua)

Colonialismo linguistico e globalizzazione a senso unico

Sino agli anni Ottanta, la voce “globalizzazione” dei dizionari riportava un significato molto diverso da quello dei giorni nostri. In psicologia indica infatti il processo cognitivo per cui una bambino percepisce le cose innanzitutto nel loro insieme, in modo globale, e solo successivamente riesce a distinguere gli elementi che lo compongono. Questa parola deriva dal francese globalisation, ma a partire dagli anni Novanta i dizionari hanno aggiunto la seconda accezione, quella che oggi tutti conosciamo, che deriva invece dall’inglese globalization, un concetto molto complesso che ha tante definizioni diverse e che è stato preso in considerazione da tanti punti di vista, soprattutto economici e sociali. L’aspetto linguistico del fenomeno è invece meno indagato, soprattutto in Italia. In linea di massima la globalizzazione ci è stata presentata come la tendenza a una dimensione mondiale e sovranazionale dei mercati, delle imprese o delle culture, agevolata dalla velocizzazione tipica dell’epoca contemporanea. Ma passando dalle opportunità teoriche alla pratica, non possiamo fare come i bambini che percepiscono il fenomeno globale senza distinguerne le componenti. Dietro questo fenomeno si cela una globalizzazione a senso unico: la colonizzazione del pianeta mediante un solo modello economico e culturale, quello dominante dei SUA (come dovremmo chiamare gli Stati Uniti d’America se non fossimo dei coloni).

Su larga scala, ciò che avviene oggi non è molto diverso da quello che è avvenuto all’epoca dell’impero romano, e le strategie di espansione e di colonizzazione hanno dei punti in comune molto evidenti. Historia magistra vitae, non dovremmo dimenticarcene.

Il “Tacito” asservimento

Il generale Gneo Giulio Agricola fu uno stratega fondamentale per la conquista e la sottomissione della Britannia all’impero romano. Dopo la campagna militare puntò alla romanizzazione della provincia edificando città con lo stile architettonico di quelle romane e facendo in modo che la cultura romana diventasse anche il modello di educazione delle nuove generazioni a partire dai capi tribù, cioè la classe dirigente, in un consapevole progetto di conquista sia militare sia culturale. Questo disegno è descritto da Tacito in modo esemplare:

“Per assuefar co’ piaceri al riposo ed all’ozio uomini sparsi e rozzi, e perciò pronti alla guerra, [Agricola] consigliò in privato, e coadiuvò pubblicamente le costruzioni di templj, piazze, e case, lodando i solleciti, e riprendendo ì morosi: così orrevol [= onorevole] gara era in vece di forza. Fece ammaestrare i figli de’ Capi nelle arti liberali, dando agl’ingegni Britanni il vanto su’ colti Galli, acciò quei, che testé sdegnavano il linguaggio Romano, ne bramasser poi l’eloquenza. Così anche le foggie nostre vennero in pregio, e la toga, in uso; e a poco a poco si giunse a’ fomiti [= esche, attrattive malefiche] de’vizj, come portici, bagni, squisite mense:  gl’inesperti chiamavan ciò cultura, mentre era parte di servaggio.”

[Agricola di C. Cornelio Tacito, tradotto in Italiano da G. de Cesare, 1805, cap. XXI].

I punti evidenziati mostrano bene come l’imposizione della lingua, che da “disdegnata” doveva divenire “bramata”, facesse parte del progetto di esportare e imporre la propria cultura come quella superiore, in modo che il popolo sottomesso la identificasse come l’unica possibile e auspicabile, invece che percepirla come la schiavitù e lo sradicamento della cultura locale.

Questa era la romanizzazione: l’imperialismo ottenuto con le armi e mantenuto con il colonialismo culturale, un collante senza il quale non sarebbe stata possibile alcuna sottomissione duratura.

Questo modello romano che nel primo secolo dopo Cristo è stato impiegato per asservire i Britanni, oggi è invece utilizzato dai loro discendenti per soggiogare e colonizzare con altre forme il mondo intero. Abbandonata la strada dell’invasione militare (almeno nei Paesi occidentali) la conquista avviene con le armi delle merci. I “fomiti dei vizj” si chiamano oggi Netflix, Facebook o Google; le “squisite mense” sono i cheeseburger dei fast food, i muffin, i marshmallow e altre pietanze che ammiccano attraverso i modelli dei master chef televisivi; e invece delle “toghe” ci sono i jeans, le T-shirt con le scritte in inglese, le sneaker e gli altri indumenti espressi nelle taglie S, M, L e XL.

La nostra nuova aristocrazia cultural-economica, i nuovi capi tribù, paga fior di soldi per far studiare i propri figli nelle scuole inglesi; è il nuovo “status symbol” “radical chic” della nuova classe dirigente che parla in inglese e in itanglese per distinguersi ed elevarsi in “un’onorevole gara” a scapito dell’italiano. Al posto di “porti” e “bagni” l’architettura del nuovo Millennio è quella che l’antropologo francese Marc Augé ha chiamato non luogo (Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, 1992). Un albergo a 5 stelle deve essere ormai stereotipato, in modo che qualunque viaggiatore di ogni parte del mondo si sappia muovere nello stesso schema, da New York a Tokyo, in un ambiente artificiale sradicato dal territorio come un’astronave spaziale, con buona pace della straordinaria bellezza e varietà di altre strutture architettoniche locali, tipiche e caratteristiche. E lo stesso deve valere per gli aeroporti, le stazioni, i centri commerciali, gli impianti sportivi, gli svincoli autostradali…

La storia si ripete con uno schema di duemila anni fa.


Dal piano Marshal alla globalizzazione

Alla fine degli anni Venti del secolo scorso, il britannico Charles Kay Ogden elaborò il “basic english”,  una riduzione dell’inglese concepita come una sorta di lingua artificiale basata su un numero abbastanza limitato di vocaboli (850) e su una semplificazione della grammatica. “Basic” stava per “British American Scientific International Commercial”, e il suo scopo dichiarato era quello di diventare la lingua internazionale di scambio da impiegare appunto in contesti scientifici o commerciali. A differenza dell’esperanto, inventato e sperimentato come perfettamente funzionante ben prima, ma osteggiato proprio perché concepito come una lingua neutrale ed etica (vedi → “Lingue franche e tirannia della maggioranza: latino, esperanto e inglese”), il basic era una semplificazione basata sull’inglese con intenti colonialistici e per perseguire i propri interessi economici: poteva essere insegnato con meno difficoltà dell’inglese naturale alle popolazioni delle colonie e serviva allo stesso tempo per gettare le basi dell’apprendimento dell’inglese vero. Al contrario dell’esperanto, però, questo inglese di base non funzionava molto bene dal punto di vista pratico. In ogni caso i diritti dell’invenzione furono acquistati dal governo britannico e Winston Churchill in un primo tempo fu molto favorevole al progetto e alla sua diffusione. Durante la Seconda guerra mondiale, il 6 settembre 1943,  in un discorso agli studenti di Harvard il politico inglese esplicitò molto lucidamente il suo intento di esportare l’inglese come la lingua del mondo dicendo:

“Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente.”

[“The power to control language offers far better prizes than taking away people’s provinces or lands or grinding them down in exploitation. The empires of the future are the empires of the mind”. Fonte: Winston Churchill – in dialogo con Roosevet – Università di Harvard, 6 settembre 1943].

Ma il progetto inglese del basic era roba da dilettanti, rispetto a quello che stava per accadere.

Sempre all’Università di Harvard, quattro anni dopo, il segretario di Stato statunitense George Marshall annunciò il piano politico-economico per la ricostruzione dell’Europa che usciva dalla Seconda guerra mondiale e che avrebbe preso il suo nome: uno stanziamento di 17 miliardi di dollari che si concluse nel 1951 e che comprava in questo modo l’americanizzazione del nostro continente da un punto di vista economico (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale) e politico (Onu e Nato). L’investimento per l’epoca spropositato, su tempi lunghi, si è rivelato molto proficuo per gli Stati Uniti, non solo economicamente, ma anche dal punto di vista culturale, nel pieno spirito della logica di Agricola.

Se il progetto di Churchill vedeva nell’esportazione della lingua il cavallo di Troia e il grimaldello per esportare l’impero culturale ed economico, il piano Marshall ha dato il via a un percorso molto più ampio e totalitario. Economia, politica, cultura e lingua fanno parte di un unico pacchetto in cui ogni elemento si intreccia con gli altri in un tutt’uno inscindibile. Questo progetto inizialmente rivolto all’Europa è stato il primo passo di una serie di altre tappe che hanno portato oggi alla globalizzazione a senso unico.


Dal basic english al globalese

Dal punto di vista linguistico, dal progetto del basic english siamo passati al global engish, contratto in globish e tradotto con globalese. Tecnicamente, anche questa invenzione si basa su una semplificazione delle regole e su una riduzione a circa 1.500 vocaboli ideata nel 1998 da un ex dipendente di Ibm (il francese Jean-Paul Nerrière che ne detiene i diritti), ma per estensione il globalese non segue affatto queste regole e coincide con la lingua naturale angloamericana, visto che un madrelingua anglofono non si sogna minimamente di rinunciare al proprio idioma per ricordarsi quale delle sue parole siano contemplate da una simile riduzione e quali no. La globalizzazione parla perciò una sola lingua, e ha rafforzato la dittatura dell’inglese su ogni altro idioma, e per i coloni è ormai l’unica possibilità di essere internazionali.

L’inglese globale, tuttavia, non esiste affatto, perché è attualmente parlato solo da un terzo della popolazione mondiale, e anche se è spacciato per una realtà è invece un progetto di colonizzazione planetaria che è tutt’ora in fase di attuazione. L’obiettivo è quello di condurre tutti i Paesi sulla via di un modello basato sul bilinguismo, in modo che ogni cittadino del mondo usi l’inglese come seconda lingua internazionale, mentre le lingue locali si dovrebbero utilizzare solo a uso interno, perché sono viste come un ostacolo all’internalizzazione nel progetto di ricostruzione della torre di Babele basata sull’inglese.
Questo disegno, oltre a essere aberrante e imperialistico, ha dei costi spropositati per chi non è anglofono di nascita, ma tanto sono i coloni a pagarli. L’economista Áron Lukács, per esempio, ha quantificato che il costo diretto e indiretto di questa “tassa” per chi non è di madrelingua inglese, nel caso di un italiano si aggirerebbe sui 900 euro all’anno a testa, che fatti i conti si traduce complessivamente nell’equivalente di quasi tre finanziarie, riporta Giorgio Pagano. Ma il prezzo da pagare non è quantificabile solo nel denaro o nel tempo necessario per apprendere la lingua dominante e nel fatto che i madrelingua, senza alcun esborso, si trovano avvantaggiati nella padronanza comunicativa rispetto a chi è costretto a usare la loro lingua. L’uso dell’inglese globale si sta rivelando non come qualcosa di additivo, che si aggiunge come una ricchezza all’identità linguistica locale, ma è al contrario un fenomeno sottrattivo. Introdurre l’inglese come lingua dell’università, come si è tentato di fare al Politecnico di Milano, come si fa in certe università private e come si vorrebbe fare in molti altri casi, porta a una regressione dell’italiano, a una sottrazione della nostra lingua negli ambiti specialistici in una confusione, voluta, tra l’apprendimento dell’inglese e la lingua dell’insegnamento.
Inoltre, il fatto che la lingua dell’Europa sia di fatto l’inglese, lingua praticamente ormai extracomunitaria che rappresenta una piccolissima minoranza dal punto di vista dei madrelingua, discrimina chi non la padroneggia. Questi fenomeni sottrattivi stanno perciò portando nel nostro continente il fenomeno della diglossia, cioè di bilinguismo gerarchizzato, che divide la popolazione locale. L’inglese è la lingua alta, della classe dirigente, del lavoro, della scienza, ed estromette dal mondo che conta chi non lo padroneggia. Ma se la lingua nazionale diventa patrimonio solo delle fasce sociali “basse”, se viene estromessa dagli ambiti fondamentali della modernità, come l’università, la scienza, la tecnica, l’innovazione, la lingua del lavoro e della cultura alta, si svuota, si riduce a un dialetto della quotidianità; diventa incapace di esprimere ciò che è moderno e strategico che si esprime in inglese. In altre parole la si mutila e la si fa regredire. Usare l’inglese per esprimere la scienza porta inevitabilmente a rendere l’italiano un dialetto, e alla perdita del lessico tecnico-scientifico italiano. Per avere un’idea concreta di cosa ciò significa, basta pensare a quello che è accaduto in ambito informatico, dove la terminologia si esprime in inglese, e l’italiano diventa itanglese, a partire dal mouse per proseguire con tutti i neologismi più recenti che si importano solo in inglese, per finire con la regressione delle nostre parole già affermate che diventano inutilizzabili, come è accaduto a calcolatore davanti a computer.

L’itanglese, e l’ibridazione delle lingue locali che i riscontra anche negli altri Paesi con diversi gradi di contaminazione, è perciò la conseguenza del globalese. Chiamare gli anglicismi “prestiti” – come forse aveva senso più di cento anni fa quando questa categoria ingenua è stata formulata con la distinzione tra “lusso” e “necessità” – significa non comprendere il fenomeno e la sua portata. Chiamarli addirittura “doni” e considerarli una “ricchezza” non è solo miope, è il punto di vista di chi è ormai irrimediabilmente colonizzato e gioca la sua partita da collaborazionista che “brama” il globalese. Nel caso dell’inglese i “prestiti” costituiscono l’impoverimento e la desertificazione dell’italiano, ed è ora di chiamarli con il loro nome: non sono né prestiti che non si possono purtroppo restituire, né doni, sono trapianti linguistici. L’arrivo di Twitter ha trapiantato la sua terminologia, insieme con la sua piattaforma, introducendo parole come followers e following. Airbnb chiama i locatori host (diventa un host!), Youtube chiama i creatori di video creators, Gmail introduce gli snippet come fosse la cosa più naturale e trasparente, e gli esempi di questi trapianti che noi “bramiamo” ed emuliamo sono migliaia.

 

(Continua)