Inclusività e anglicizzazione: la nuova lingua che si vuole imporre dall’alto

Di Antonio Zoppetti

Il Consiglio di amministrazione dell’Università di Trento ha varato da pochi giorni il Regolamento generale di Ateneo scritto con il “femminile sovraesteso”, come l’hanno chiamato, cioè cambiando l’uso storico dell’italiano e introducendo il femminile inclusivo. Tutte le cariche sono state femminilizzate, anche se includono il personale maschile, perché si sottintende la parola “persona”: la presidente, la rettrice, la segretaria, le componenti del Nucleo di valutazione, la direttrice del Sistema bibliotecario di Ateneo, le professoresse, la candidata, la decana…

“Una scelta che ha una valenza fortemente simbolica e che segue altre decisioni in questo senso intraprese dall’Ateneo a partire dal 2017 con l’approvazione del vademecum ‘Per un uso del linguaggio rispettoso delle differenze’”, si legge nel comunicato stampa che si può trovare sulla loro “pressroom” (ufficio stampa forse non è rispettoso delle differenze):

Questa provocazione – che fa però parte del linguaggio istituzionale e ha dunque la sua ufficialità – vuole fare riflettere sul sacrosanto problema della discriminazione femminile, anche se considerare il maschile inclusivo “discriminante” è una presa di posizione politica piuttosto discutibile, non condivisa e che non si fa alcun problema a entrare a gamba tesa sull’uso storico dell’italiano e la sua norma. Personalmente preferirei che le donne avessero delle reali pari opportunità sul lavoro, che fossero pagate come gli uomini e che avessero la possibilità di fare carriera e magari anche di diventare “rettrici” universitarie, visto che al momento sembra che ce ne siano solo 12 in Italia (fonte: Lorenza Ferraiuolo, “Università, Giovanna Spatari è la prima rettrice del Sud Italia”, Fortune Italia, 28/11/2023).

Se poi si vogliono far chiamare “rettori” o “rettrici” credo che dovrebbe essere una loro scelta, e vorrei ricordare che la maggior parte delle donne che sono avvocati, notai o architetti preferiscono il maschile inclusivo, dunque femminilizzarle a forza e volerle “educare” è un atto che non pare troppo “rispettoso delle differenze”. La verità è che questa inclusività esclude… ma comunque la si pensi, non resta che constatare che le fortissime pressioni sociali che spingono per cambiare l’uso in nome dell’inclusività sono le stesse che vogliono cambiare l’uso introducendo l’inglese. Basta contare gli anglicismi presenti sulla pagina principale del sito dell’Ateneo di Trento per vedere come sono “rispettosi” della lingua italiana: ci sono le call, gli hackathon, la reception del Rettorato, le news e le newsletter, gli open days (con la s del plurale), una challenge, la brand identity, il fundraising, lo staff, la categoria “people“…

Anche la Treccani nel 2022 ha deciso di registrare i femminili di nomi e aggettivi prima del maschile, e contemporaneamente ha deciso anche di introdurre il modulo Whistleblowing (proprio sopra la Cookie Policy e la Privacy Policy) invece delle Segnalazioni come si legge all’interno del documento.

Come ho ribadito anche la scorsa settimana al dibattito di Pordenone su dove va la lingua italiana – che è stato archiviato su YouTube se qualcuno è interessato – mentre in Italia sono state emanate raccomandazioni sulla femminilizzazione delle cariche in cui è stata coinvolta la Crusca, sugli anglicismi ci si volta dall’altra parte. E il paradosso è che si usano due pesi e due misure: sull’inclusività si interviene senza remore per educare tutti a parlare in un certo modo, ma davanti ai troppi anglicismi si risponde che sull’uso non si può di certo intervenire perché la lingua arriverebbe “dal basso”. Al contrario si diffondono dall’alto e del fatto che non siano trasparenti o rispettosi del nostro patrimonio linguistico storico o che creino fratture e barriere sociali sembra che non importi niente a nessuno.

Università in inglese: aggiornamenti e riflessioni sul caso Rimini

Di Antonio Zoppetti

Ringrazio i circa 400 cittadini che hanno sottoscritto la protesta organizzata da Italofonia.info contro l’abolizione del corso di Economia del turismo all’università di Rimini sostituito da quello erogato solo in inglese. E torno sul tema con qualche aggiornamento e riflessione.

Anche la Crusca ha preso posizione

L’accademia della Crusca, in copia agli appelli, ha appoggiato il nostro grido, ha inserito la questione nel Consiglio direttivo del 22 febbraio 2024, e ha formalizzato una lettera aperta (che si può leggere sul loro sito) indirizzata al rettore dell’università di Bologna, Giovanni Molari, e alla ministra dell’università e della ricerca, Anna Maria Bernini.

Il documento segnala che, stando alla legge, i corsi triennali (come quello del caso riminese) devono avere come obiettivo il pieno possesso dell’italiano, e questo obiettivo non può essere garantito da un corso erogato solo in inglese. Inoltre ricorda la sentenza della corte Costituzionale che ha sancito la “primazia” dell’italiano nell’offerta formativa, e domanda come sia possibile non rispettarla. Nella conclusione afferma che:

“La progressiva eliminazione dell’italiano dall’insegnamento universitario (come pure dalla ricerca) in vista di un futuro monolinguismo inglese costituisce, come ha osservato anche la European Federation of National Institutions for Language (EFNIL), un grave rischio per la sopravvivenza dell’italiano come lingua di cultura, anzitutto, ma anche come lingua tout court, una volta privata di settori fondamentali come i linguaggi tecnici e settoriali.”

La lettera firmata dal presidente Paolo D’Achille non chiede esplicitamente il ripristino del corso in italiano, perché come precisato nella premessa l’accademia non ha alcun titolo ufficiale per intervenire sulle decisioni del Ministero – da cui dipende – né su quelle dell’ateneo in questione, libero di agire in piena autonomia, anche se le decisioni devono essere approvate dal Ministero. Ma pone delle domande e delle pungenti questioni su cui si spera che l’università Alma Mater e la ministra diano almeno una risposta.

L’eco mediatica: sprazzo o cambiamento?

L’intervento dell’accademia, da ieri sera, è stato riportato dalle agenzie e dai giornali, e la speranza è che generi un dibattito serio sulla questione, perché dietro decisioni come quella di Rimini si consuma la cancellazione del diritto allo studio nella nostra lingua madre con una logica che si è già vista nel caso delle scuole coloniali africane, le cui conseguenze sono state ben denunciate da un autore come Ngugi wa Thiong’o in Decolonizzare la mente (Jaca Book, Milano 2015).

Proprio ieri, sulla prima pagina del Corriere.it (che per il momento non riporta la notizia), c’era un pezzo sull’impoverimento culturale dell’università (“Università: studiare senza libri, con l’ok dei prof”); l’Italia, si legge, è in fondo alle classifiche dei giovani laureati: sono il 28% contro l’obiettivo europeo fissato al 40% (solo la Romania è indietro rispetto a noi); il 25% degli iscritti abbandona senza raggiungere la laurea; nei prossimi vent’anni in Italia è previsto un calo di 400mila iscritti; e l’impoverimento culturale dei corsi a distanza rischia di creare un forte indebolimento delle future classe dirigenti. Ma nulla si dice nel pezzo sulla tendenza a insegnare in inglese, che come è emerso nel caso di Rimini rappresenta un ostacolo per gli studenti e un disincentivo a frequentare i corsi erogati. Insegnare in italiano non aiuterebbe? Gli autori del pezzo si sono guardati bene dal tirare fuori simili questioni, ma forse dopo la presa di posizione della Crusca qualcuno farà 2+2.

Nell’articolo a fianco, “Intelligenza artificiale e sviluppo sostenibile: le scelte degli atenei”, si pubblicizzava invece una gran quantità di corsi in inglese che stanno per essere inaugurati, senza che la giornalista spendesse una riflessione su cosa significhi e comporti. Nessun accenno alla “sostenibilità” dell’inglese, insomma, solo propaganda ai corsi in quella lingua: all’università di Trieste c’è la magistrale in “Materials and Chemical Engineering for Nano, Bio, and Sustainable Technologies (in inglese), mentre sono in fase di accreditamento ministeriale anche le lauree magistrali in “Engineering for the energy transition” e “European policies for digital, ecological and social transitions”. All’università di Torino il nuovo corso erogato in inglese si chiama invece “Economics of innovation for sustainable development”, mentre all’università di Parma da settembre 2024 partirà il corso di laurea magistrale in “Global Food Law: Sustainability Challenges and Innovation” (biennale, in inglese).

Questa prassi si aggiunge alle scelte anglomani del Politecnico di Milano, della Bocconi e di sempre più atenei, mentre spuntano i primi segnali per cui la stessa tendenza rischia di allargarsi anche alle scuole secondarie, come nel caso del liceo Avogadro di Torino.
Siamo al punto di non ritorno. O l’anglificazione dell’università si ferma adesso o ne saremo travolti, e poi sarà un po’ tardi per porre rimedio. Bisogna fare in modo che la presa di posizione della Crusca non sia destinata a essere uno sprazzo, ma inneschi una discussione politica seria.

L’economista Michele Gazzola – uno dei sottoscrittori più autorevoli delle lettere di protesta di Italofonia.info – ha ben spiegato ciò che sta avvenendo nelle università al convegno “LaLinguaMadre – La lingua che conviene” (svoltosi il 21 febbraio 2024 nella Sala Capitolare del Senato della Repubblica, a Roma).

La lingua madre: la lingua che conviene

Il problema principale riguarda le famigerate classifiche internazionali che assegnano a ogni ateneo dei punteggi dove uno degli indicatori più importanti è proprio la capacità di attirare gli studenti e i docenti stranieri. Per salire rapidamente nelle classifiche, gli atenei erogano perciò i corsi in inglese fregandosene delle competenze linguistiche o delle esigenze degli studenti italiani; impongono questa lingua, anche se gli italofoni calano, tanto con l’entrata degli stranieri complessivamente aumentano gli iscritti. Questo “turismo universitario”, però, favorisce gli studenti di passaggio che arrivano dall’estero, e ottenuta la laurea tornano a casa loro o vanno altrove (anche perché non parlano italiano), con conseguenze devastanti per il territorio, come lamentano gli albergatori di Rimini. Come se non bastasse, anche gli studenti italiani che studiano in inglese sono incentivati a trasferirsi all’estero, e così la “fuga dei cervelli” – secondo i dati di Gazzola – si incrementa dell’11%.
Per noi tutto ciò rappresenta un costo colossale. Le rette universitarie, infatti, non coprono interamente le ingenti spese dell’università, e lo stato deve intervenire in modo pesante per compensarle. Dunque i soldi delle nostre tasse finiscono per formare in lingua inglese gli studenti che poi andranno all’estero, con la conseguenza che altri Paesi si godranno i frutti della loro formazione fatta a nostre spese.

Questi sono i bei risultati di una classe dirigente miope che lavora per la distruzione dell’italiano e della cultura. A parte le questioni economiche, se si analizza l’aspetto qualitativo e didattico, Gazzola ha citato dei dati molto interessanti per capire il disastro di questo modello. La Libera Università di Bolzano, dove si insegna in italiano, tedesco e inglese, ha condotto delle ricerche da cui emerge che uno studente che studia in una lingua diversa da quella madre ottiene in media un voto inferiore dell’8% rispetto a chi studia nella propria lingua. Dunque apprende meno e peggio.

Ma simili dati arrivano da tutto il mondo. Sul sito Campagna per salvare l’italiano sono stati riportati quelli provenienti dalla Spagna.

Altre statistiche citate da Gazzola che arrivano dalla Svezia mostrano come gli studenti che studiano in islandese, nei questionari danno risposte corrette nel 73% dei casi, ma che questa percentuale precipita drasticamente nel caso di quelli che studiano in inglese.

Mentre in Italia si dà per scontato che l’inglese debba essere la lingua su cui puntare per la formazione – in una voluta confusione tra ciò che è internazionale e ciò che anglofono – basta vedere cosa sta avvenendo nei Paesi scandinavi per rendersi conto di come stiano davvero le cose. Lì hanno sperimentato l’insegnamento in inglese da tempo, ma stanno facendo retromarcia, perché si sono accorti che l’inglese si trasforma in un processo sottrattivo, non aggiuntivo: insegnare in inglese porta alla regressione delle lingue e della terminologia locali, all’impoverimento dell’istruzione, e alla semplificazione degli argomenti. Lo stesso problema denunciato in Olanda alla Bbc dalla professoressa di linguistica all’Università di Amsterdam Annette de Groot:

“Se usi l’inglese nell’istruzione superiore, l’olandese chiaramente peggiorerà. Si tratta di usarlo o perderlo. L’olandese si deteriorerà e la vitalità della lingua scomparirà. Si chiama bilinguismo squilibrato. Aggiungi un po’ di inglese e perdi un po’ di olandese”.

Se questo vale per i Paesi dove l’inglese è inteso dal 90% della popolazione, in Italia, dove è conosciuto da una minoranza degli italiani, l’impatto è ancora più devastante. E scelte di questo tipo creano barriere sociali, escludono e discriminano chi è italofono, imponendo a tutti la dittatura dell’inglese.

Vedremo se l’intervento della Crusca otterrà una risposta, dai destinatari ma anche dall’intellighenzia del Paese. Gli atenei seguono il proprio profitto, non gli interessi collettivi, né quelli etici di garantire il diritto di studio in italiano. Passano sopra persino a una sentenza della Corte costituzionale e dopo averla aggirata con l’introduzione di qualche sporadico corso in italiano (di solito di importanza marginale, ma che fa numero) sembra che adesso riescano addirittura a calpestarla impunemente. La questione è allora politica.

L’unica speranza è che il Ministero dell’Università e Ricerca intervenga, invece che essere complice della morte dell’italiano. E che si facciano sentire altre le altre voci autorevoli, oltre a quelle della Crusca.

La partita per estromettere l’italiano dall’università e la protesta che parte da Rimini

Tra pochi giorni sarà formalizzata la decisione dell’università di Bologna che ha deciso di sopprimere il corso di Economia del Turismo in italiano che si svolge a Rimini. Dal prossimo anno diventerà “Economics of Tourism and Cities” e si terrà solo in lingua inglese.

Qual è la novità? Il corso in inglese era già stato introdotto e già esisteva: la novità è che viene abolito quello in italiano per insegnare solo in inglese.

Questa decisione ha suscitato le proteste sia dei cittadini, che vogliono studiare nella propria lingua madre visto che è un loro diritto e che pagano le tasse, sia dalle associazioni degli albergatori che spiegano come quell’indirizzo di studi avesse da sempre un fortissimo legame con il territorio. In pratica gli studenti che uscivano da quel corso trovavano subito lavoro nelle realtà alberghiere locali. E l’offerta formativa di quella facoltà richiamava a Rimini moltissimi studenti giovani provenienti da ogni regione d’Italia. La sua cancellazione per passare all’inglese punta soprattutto agli studenti stranieri, che però una volta formati non lavoreranno a Rimini ma torneranno nei propri Paesi, anche perché se non parlano in italiano cosa li può trattenere?

Visto che nessuno o quasi dà voce al malcontento, l’associazione/portale Italofonia ha mobilitato tutti gli Attivisti dell’italiano predisponendo un modulo per inviare una protesta digitale indirizzata all’Università e in copia al Ministero dell’Università e Ricerca, all’accademia della Crusca, e ai giornali locali.

In pochi giorni sono partite centinaia e centinaia di proteste, tanto che il Resto del Carlino ha titolato: “Pioggia di mail all’Università: Salvate il corso in italiano”.

Intanto, la pioggia si fa sempre più fitta, e l’ateneo – spiazzato – ha dovuto rispondere attraverso una dichiarazione che lo stesso giornale ha riassunto in nuovo pezzo: “Corso di laurea in inglese: Una scelta condivisa“.

La risposta non ascolta né tiene conto dei pareri contrari e dei cittadini, annuncia di continuare nella strada intrapresa, e rivolta la frittata sostenendo che si tratterebbe di una “scelta condivisa” (da chi? dai vertici della scuola-azienda che non racconta di come l’associazione Promozione Alberghiera si sia invece espressa in senso contrario, secondo le testimonianze raccolte) appellandosi alle solite tiritere:

Le scelte che riguardano i progetti didattici sono il risultato di un percorso ben definito, lungo e con diversi passaggi. Un corso di laurea ha una gestazione pluriennale. Si tratta di scelte meditate, non certo di decisioni prese dall’oggi al domani. L’inglese è una lingua che apre al mondo. Per il territorio è un’opportunità (…) Dopo un’attenta e ponderata valutazione, abbiamo optato per l’inglese come lingua ufficiale del corso, scelta in linea con l’elevato livello di internazionalizzazione che caratterizza tradizionalmente il campus di Rimini.”

Queste scelte “meditate” seguono gli interessi dell’ateneo, che non coincidono con quello dei cittadini e degli italiani. Attraverso la manipolazione delle parole, la cancellazione dell’italiano e le difficoltà degli studenti si trasformano in un’imprecisata “opportunità per il territorio”. Il concetto di “internalizzazione” cela invece l’insegnamento in inglese e solo in inglese – non nelle lingue straniere e all’insegna del plurilinguismo – e forse si potrebbe meglio parlare di colonizzazione linguistica e di dittatura dell’inglese, visto che questa strana “internalizzazione” a senso unico implica l’anglificazione della formazione dei Paesi non anglofoni. Come se tutti i turisti tedeschi, spagnoli, francesi e gli altri che giungono in Italia si esprimessero normalmente in inglese (altra bufala che non risponde alla realtà).

Dietro questa visione c’è in gioco il diritto di studio nella nostra lingua madre, una partita vitale per l’italiano.

Italofonia ha intervistato un’albergatrice nonché mamma di uno studente che ha spiegato disperata:

Mio figlio e gli altri ragazzini della sua classe non possono più scegliere. Vede, noi siamo a Rimini, qui c’è il cuore del turismo, noi viviamo di turismo, e questa facoltà era molto ambita dai ragazzi di zona.  Ed era già in due lingue, ma separate: un percorso di Economia del Turismo, in italiano, pensato per le esigenze del territorio, e Turismo Internazionale, in inglese. Ora questa scelta è stata tolta. E questo li metterà in difficoltà.

Passando dal punto di vista dei cittadini a quello di un esperto come Michele Gazzola [1], economista dell’Università dell’Ulster che ci ha risposto appoggiando il nostro appello, le motivazioni di queste scelte che portano all’anglificazione della formazione universitaria nascono da un preciso interesse economico.

La parola chiave per comprendere ciò che è in atto da tempo e che nei prossimi vent’anni potrebbe esplodere in modo ancora più profondo è “razionalizzazione”, ci ha scritto Gazzola, che ha così sintetizzato la questione:

Le università hanno prima aperto corsi paralleli in italiano e in inglese, e adesso stanno chiudendo quelli in italiano perché costa troppo averne due uguali, e perché tanto sanno che con un corso in inglese possono coprire sia il mercato nazionale (sempre più piccolo a causa della denatalità) sia quello internazionale. Tanto lo studente italofono non ha scampo, può studiare in italiano solo in Italia (e in pochissimi altri posti all’estero), quindi se lo si priva del corso in italiano non andrà via.

L’ateneo di Bologna, insomma, pensa solo ai propri interessi e a reclutare gli studenti stranieri per fare numero e batter cassa – è il bel modello delle nuove scuole-aziende che hanno come “mission” il profitto — ed è poco interessato al diritto allo studio in italiano. Dietro le motivazioni ufficiali c’è proprio il fatto che il numero degli iscritti non è poi così interessante per l’Università che si vuole allargare a scapito della qualità della didattica e delle esigenze reali degli studenti del nostro Paese.

Il progetto di cancellazione dell’italiano dalla scuola alta

Tutto è iniziato al Politecnico di Torino che nell’anno accademico 2007-2008 ha avviato i primi corsi in inglese rendendoli gratuiti, al contrario di quelli in italiano, per fare in modo che partissero con un buon numero di iscritti. Ma così facendo discriminava il pubblico pagante che voleva studiare in italiano.

Il secondo episodio, ancora più grave perché ha costituito il precedente che ha fatto saltare il sistema, è avvenuto nel 2012, quando il Politecnico di Milano ha deciso di estromettere l’italiano dalla formazione di ingegneri e architetti che avrebbero potuto studiare solo in inglese. Maria Agostina Cabiddu [2], docente di Istituzioni di diritto pubblico, ha raccolto le proteste di un agguerrito gruppo di insegnanti che, dopo un appello al presidente della Repubblica Mattarella, si sono rivolti al Tar della Lombardia che ha dato loro ragione.

Ma l’ateneo e il Miur – cioè il Ministero dell’istruzione italiano che pare lavorare in favore dell’inglese – non hanno accettato il verdetto e si sono opposti. Dopo lunghi e complicati corsi e ricorsi in cui è intervenuta anche la Corte Costituzionale, è finita con una sentenza (a mio avviso “cerchiobottista”) che da una parte sanciva la “primazia” della lingua italiana nell’università, ma ammetteva i corsi in inglese con una logica di buon senso e proporzionalità che però non era definita, ma lasciata alla discrezione delle parti. E nell’atto finale della vicenda è andata a finire che il Politecnico se ne è infischiato della “primazia” sancita solo sulla carta, e ha continuato a erogare corsi quasi esclusivamente in inglese con una concezione della proporzionalità diciamo così “discutibile”. In sostanza lo spirito della legge viene aggirato con il semplice inserimento di qualche sporadico corso in italiano, magari delle materie più marginali.

Tutto ciò non era affatto destinato a rappresentare un caso isolato, fa parte di un preciso progetto – imposto dall’alto in modo surrettizio e senza interpellare gli italiani – che negli anni successivi si è diffuso in modo sempre più preoccupante. Gli altri atenei-aziende aspettavano solo la via spianata per seguire la stessa strategia per loro più remunerativa. E infatti, Maria Agostina Cabiddu, un’altra importantissima voce che ha raccolto il nostro appello, ha commentato:

Ci eravamo mossi a suo tempo proprio perché avevamo capito che si trattava di un progetto pilota.

Quello che è avvenuto negli anni successivi e quello che sta avvenendo in questi giorni è l’allargamento di questo modello, che dopo tanti altri casi è da poco stato perseguito anche dalla Bocconi di Milano, ma soprattutto rischia di estendersi anche alle scuole secondarie, come ho già denunciato a proposito del liceo Avogadro di Torino.

La novità delle proteste di Rimini è che a mettere in discussione questo progetto “italianicida” e “linguicista” [3] non ci sono solo associazioni come Italofonia e comunità virtuali come quella degli Attivisti dell’italiano, ma anche gli stessi imprenditori, le associazioni degli albergatori, e i cittadini che lottano – mi sembra impossibile doverlo raccontare – per il diritto alla studio nella propria lingua madre!

Tutto ciò è inaccettabile. Ed è inaccettabile che la cancellazione dell’italiano dalle scuole avvenga nel silenzio mediatico – a parte un giornale locale come il Resto del Carlino – e nel vuoto di prese di posizioni di intellettuali e politici.

La speranza è che le nostre proteste possano almeno riaprire un dibattito. La decisione dell’Università di Bologna sembra ormai presa, anche se formalmente sarà ufficializzata entro il 29 febbraio. Ma è importante far arrivare più voci possibili di dissenso per cercare di fare in modo che altri atenei, prima di scegliere di andare in questa direzione, debbano tenere conto anche delle resistenze dei cittadini oltre ai numerini del proprio “businness plan”.

Chi vuole aiutare i riminesi, gli albergatori, Italofonia e soprattutto il diritto allo studio in italiano e la lingua italiana si faccia sentire, e si unisca al nostro appello.

In meno di 30 secondi puoi aderire alla protesta sottoscrivendo e inviando un messaggio precompilato, ma è possibile personalizzarlo a piacere, attraverso il modulo a fine di questo articolo.

Grazie.

Antonio Zoppetti

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Note
[1] Per approfondire la questione: Michele Gazzola, “La ‘anglificazione’ dell’università in Europa è evitabile?Analisi e proposte per una università plurilingue” (2023).
[2] Maria Agostina Cabiddu ha curato: L’italiano alla prova dell’internalizzazione (goWare ed Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA, 2017).
[3] Il linguicismo è concetto introdotto dalla finlandese Tove Skutnabb-Kangas: come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo è la discriminazione in base alla lingua madre, che porta a giudizi sulla competenza o non competenza nelle lingue ufficiali o internazionali.

Le scuole coloniali prendono piede in Italia

Di Antonio Zoppetti

La notizia che mi ha segnalato ieri l’attivista dell’italiano Marco Zomer riguarda la “svolta” di una scuola secondaria di Torino, l’Istituto Avogadro, che ha deciso di introdurre nella sua offerta formativa i corsi in lingua inglese invece che in italiano. I percorsi di studio sono due: il liceo scientifico dove la biologia, la chimica, la fisica e l’informatica verranno insegnate in inglese; e l’indirizzo tecnico dove l’inglese sarà la lingua di apprendimento “solo” di informatica e fisica. Come se non bastasse, l’insegnamento dell’inglese già previsto e obbligatorio verrà aumentato di due ore.

Il modo in cui l’articolo della Stampa riporta la notizia è il solito, si esaltano queste decisioni in modo acritico per propagandarle, invece di analizzarle, con la volontà di giustificare e diffondere la visione anglomane che la nostra intellighenzia ha fatto sua. E così leggiamo che la scuola “guarda al futuro” (cioè il futuro coloniale dell’Italia), perché dal prossimo anno includerà “i programmi Cambridge”. A dire il vero questi programmi servono per imparare l’inglese, non per insegnare le materie scientifiche, e andrebbe almeno specificato. Ma il pezzo, il cui incipit è un solenne “Torino chiama Cambridge” punta a mostrare che in questo modo la scuola torinese si eleva al prestigio di quella inglese, e sottolinea la grande innovazione per l’indirizzo tecnico, perché avrebbe solo quattro precedenti in tutta Italia, mentre al liceo scientifico è forse una prassi meno rara.

Le argomentazioni didattiche o pedagogiche sottostanti hanno lo spessore di una televendita di cinture dimagranti eccezionali perché vengono dall’America, a partire dai virgolettati della professoressa Elena Vietti che spiega come la “metodologia Cambridge” favorisca lo sviluppo delle tecniche di problem solving “oltre ovviamente un potenziamento della lingua stessa”. E qui infila la prima evidente castroneria, perché se vogliamo imitare il modello di formazione anglosassone dobbiamo appunto capire una cosa molto semplice: lì potenziano la propria lingua, non quella degli altri. Se Torino chiama Cambridge, va detto che Cambridge non chiama né Torino, né Parigi, né Madrid, né Berlino né alcun altro. A Cambridge non si studiano le materie in francese, tedesco o italiano – forse alla prof sfugge questo piccolo trascurabile particolare – e nei sistemi scolastici angloamericani le lingue straniere non sono contemplate, o comunque non sono obbligatorie, e quando sono previste hanno un ruolo marginale. Ma nel processo di alienazione linguistica in atto – l’abbandono dell’italiano per passare all’inglese – non si racconta che mentre tutta l’Europa spende una fortuna per insegnare l’inglese (lingua di fatto extracomunitaria) e formare le nuove generazioni bilingui a base inglese sin dalle elementari, gli inglesi e gli americani non hanno questi costi, visto che preferiscono che tutto il mondo impari e usi la loro lingua naturale.

Ora, per chiamare le cose con il loro nome, tutto ciò avviene all’insegna del colonialismo linguistico. Non stupisce che gli anglofoni, maestri del colonialismo e anche di quello che un tempo si chiamava imperialismo, spingano in questa direzione che comporta interessi economici e strategici per loro spropositati. Quello che stupisce è che in Italia non lo si capisca o si faccia finta di non capirlo. Colpisce il servilismo con cui ci zerbiniamo davanti alla “lingua dei padroni” e alla dittatura dell’inglese in un’alienazione culturale che distrugge la nostra lingua e cultura.

Dal punto di vista didattico, la citata professoressa spiega l’intento di voler conciliare l’approccio all’istruzione anglosassone di taglio molto pragmatico con la tradizione italiana più “teorica”, ma bisogna specificare che dietro la nostra “teoria” c’è – o forse c’era – un ben diverso criterio che tende a considerare le cose da un punto di vista storico e anche critico, che è molto distante da quello per esempio tipicamente americano che in nome di questo scellerato “problem solving”, già introdotto a forza nelle scuole come criterio di valutazione degli studenti, si limita il più delle volte a fornire nozioni non sottoposte ad analisi critiche né storicizzate. E in questo passaggio a un sistema “misto” (dove però c’è solo la lingua inglese) l’inglese farà da “link” alle materie: collegamento è parola della veterolingua che si vuole cancellare, ma si potrebbe dire forse anche hub, invece di snodo o raccordo (l’itanglese nella sua ricchezza ci sta fornendo sempre più sinonimi). Come se senza questo link, le materie fossero percepire come disgiunte, e come se questo collegamento non si possa fare nella nostra lingua nativa!

Il livello di queste dichiarazioni è sconcertante, e ancora più sconcertante è come i giornali lo ripetano facendolo passare come normale. Questo conciliare i due metodi in modo appunto astratto e teorico ricorda certe caricature con cui si dice di voler essere ecologici ma senza rinunciare al suv, o di volere incentivare prodotti locali a chilometro zero ma anche la Coca Cola. Nella realtà, dietro le proposte di anglificazione della scuola l’obiettivo è solo uno: l’imposizione dell’inglese che diventa LA materia più importante e il cardine attorno al quale si vuol far ruotare l’istruzione. Lo si vede dal bocconcino più goloso dell’operazione che include appunto l’ottenere la certificazione Igcse, la ciliegina che è il vero obiettivo dell’offerta.

Ma l’italiano dov’è? Che ruolo e che peso ha in questo percorso? Come mai le nuove scuole-aziende americanizzate o cambridgizzate e il nuovo sistema scolastico che viene smantellato sfornano studenti con sempre più problemi di analfabetismo di ritorno o funzionale?

Sembra che sul piatto della formazione la pietanza forte sia solo l’inglese, come se tutto il resto forse un contorno di cui si può fare anche a meno. E colpisce l’affermazione di un’altra professoressa che con orgoglio spiega che la nuova offerta anglomane non ha richiesto nuovi docenti, perché quelli in carica sono già patentati del livello C1 e C2 di inglese. Dietro questo fiorellino da mettere all’occhiello non si mette in luce la preparazione, la competenza o la bravura dell’organico, ma solo la sua conoscenza della lingua superiore. Come se fosse questo il requisito da propagandare negli immancabili “Open day” che servono a reclutare gli studenti.

Il numero di Avogadro

La dirigente scolastica dell’Istituto, nello spiegare che si tratta di una sperimentazione solo avviata, anticipa che per il momento ci si aspetta un numero di studenti e classi contenuto, e dalle adesioni dipenderà il futuro allargamento della proposta ad altri indirizzi e classi. La mia speranza è che iniziative di questo tipo falliscano miseramente, e che non si raggiunga il “numero di Avogadro” necessario per continuarli. Più realisticamente so bene che non andrà a questo modo, perché l’anglificazione della scuola nel nuovo millennio si sta allargando in maniera preoccupante.

Uno dei primi segnali è partito proprio da Torino, quando il Politecnico ha deciso di incentivare i corsi in inglese nell’anno accademico 2007-2008 attraverso l’iscrizione gratuita per il primo anno, discriminando di fatto i corsi in italiano che invece si pagavano. Pochi anni dopo, nel 2012, il Politecnico di Milano si è spinto ben oltre decidendo di estromettere la nostra lingua dalla formazione universitaria per erogare corsi solo in inglese. Anche in questo caso ci sono state vicende giudiziarie infinite, ma benché sulla carta sia stata riconosciuta una teorica “primazia dell’italiano”, di fatto l’ateneo continua a erogare corsi quasi solo in inglese. E così mentre questo modello si allarga, e recentemente anche la Bocconi di Milano ha preso la medesima direzione, oggi si abbassa l’asticella includendo anche le scuole secondarie, che sono il prossimo terreno di conquista. Nei Paesi scandinavi, dove l’anglificazione è stata da tempo introdotta e sperimentata, si assiste a una marcia indietro perché si è visto che insegnare in inglese si trasforma in un processo sottrattivo, non aggiuntivo. Insegnare in un’altra lingua comporta la perdita e la riduzione della terminologia nella lingua nativa, induce alla semplificazione dei concetti e dei ragionamenti perché si esprimono con più difficoltà, spinge a pensare in inglese, che invece di aggiungersi alla lingua di partenza finisce per fagocitarla. Noi, al contrario stiamo andando in questa direzione suicida in modo becero, acritico e coloniale. Le nefaste conseguenze di questi approcci sono state denunciate da autori africani come Ngugi wa Thiong’o che le hanno subite: lì, le scuole coloniali in lingua inglese hanno non solo contribuito all’abbandono delle lingue indigene, ma hanno soprattutto creato barriere culturali: chi non sapeva l’inglese non poteva accedere alle scuole che imponevano quella lingua e in quella lingua insegnavano. L’inglese ha creato una diglossia tra lingua della cultura e lingua del popolo che da noi apparteneva al Medioevo, quando il latino era la lingua appunto della scuola e della scrittura e il volgare delle massi analfabete. E noi, oggi, in nome di un supposto “internazionalismo” che viene fatto coincidere in modo surrettizio con il parlare in inglese, stiamo costruendoci da soli analoghe scuole coloniali per formare le future generazioni. Così, mentre l’itanglese diviene la lingua modello del linguaggio della scuola e del Ministero dell’Istruzione, l’inglese puro diviene la lingua della nuova cultura, in una svolta linguicista che discrimina la nostra storia e cultura.

Ma a raccontare queste cose, o per lo meno a mostrare l’altra faccia della medaglia dell’anglificazione, affinché ognuno possa fare le sue scelte in modo consapevole, non sono i giornali, né i politici, né gli intellettuali (a parte sparute eccezioni di qualche “dissidente”), sono più spesso i lettori. E Marco Zomer, agguerrito attivista dell’italiano, è riuscito a fare arrivare la sua voce al giornale, seppur in un trafiletto in cui le sue riflessioni sono state riassunte e semplificate.

L’anglificazione della scuola è il nuovo terreno di conquista che nei prossimi anni emergerà e si allargherà, ma invece di produrre riflessioni serie e dibattiti, viene dato per scontato come “il futuro” ineluttabile, un futuro dove l’italiano finirà per diventare un dialetto.

La formazione in inglese e itanglese della nuova cultura coloniale

Di Antonio Zoppetti

La settimana scorsa l’università (privata) Bocconi di Milano ha inaugurato il nuovo anno accademico con una cerimonia iniziata con il benvenuto in italiano e proseguita con gli interventi in inglese (qui il video). La novità annunciata dal rettore Francesco Billari è che “dalle 32 classi in inglese sulle 53 totali il prossimo anno accademico passeremo ad averne 40 su 54”, e dal 2026 – poiché il nostro “sistema scolastico è troppo vecchio e ancorato a un mondo che non esiste più” – su dieci corsi erogati solo 3 saranno in italiano, mentre gli altri saranno in lingua inglese, una scelta “didattica” che rappresenta il 73% del totale dei corsi.

Con un’imbarazzante propaganda mistificatoria, questa decisione è stata associata al fatto che in Italia i giovani laureati sono meno del 30%, mentre in Francia e Spagna la percentuale è del 50%, arriva al 70% nel caso della Corea del Sud, e noi siamo nel fanalino di coda insieme a Paesi “inferiori” come il Messico e il Costarica.

Cosa c’entrano queste percentuali con la didattica in inglese?
Nulla, ovviamente. Giorgio Cantoni, in un pezzo su Italofonia.info è andato a vedere queste realtà universitarie straniere virtuose e ha constato che i corsi sono sostanzialmente ognuno nella propria lingua madre, e solo talvolta affiancati anche da quelli in inglese, che però si contano sulle dita di una mano.

Mentre il rettore bocconiano le spara a ruota libera e mette in correlazione i disoccupati che hanno smesso di studiare e di cercare lavoro (definiti Neet) con una situazione “figlia di una scuola ancien régime” che ha bisogno di un cambio di rotta prima che sia troppo tardi, questo rinnovamento basato sull’anglificazioen rischia al contrario di allontanare gli studenti. Ma l’obiettivo di simili decisioni è quello di creare una scuola elitaria e di serie A – nella lingua superiore di serie A – relegando l’italiano alla cultura popolare. E nonostante le citazioni dell’ancien régime bollato come retrogrado dalla Rivoluzione francese, il passaggio al new regime in lingua inglese non è affatto un processo rivoluzionario, appartiene invece alla logica delle scuole coloniali imposte in Africa che ha denunciato Ngugi wa Thiong’o, è il ripristino della diglossia neomedievale denunciato dal linguista tedesco Jurgen Trabant, quando la lingua dei dotti era il latino e il volgare apparteneva al popolino o al massimo alla poesia; con la differenza che il latino medievale non era la lingua madre di nessuno, era un lingua di cultura che metteva tutti sullo stesso livello, mentre l’inglese è la lingua naturale dei popoli dominanti che la impongono a tutti in modo coloniale sguazzando negli incalcolabili vantaggi che questo comporta. E da bravi collaborazionisti, in Italia, lavoriamo per la cancellazione della nostra lingua. Mentre i Paesi che hanno da tempo operato queste soluzioni, dalla Svezia all’Olanda, stanno facendo marcia indietro perché si sono accorti che l’inglese universitario si trasforma in un processo sottrattivo, e non aggiuntivo, che porta alla perdita della terminologia locale e alla semplificazione concettuale-argomentativa in un condizionamento che conduce a pensare in inglese, da noi questa follia è invece presentata come moderna e internazionale. Nessuno sembra porsi il problema delle conseguenze e del fatto che l’inglese non è un modo equo di risolvere i problemi della comunicazione, ma un pericoloso sistema di evangelizzazione. Dopo i primi segnali che ormai molti anni fa hanno riguardato l’università pubblica (dal politecnico di Torino a quello di Milano), e anche dopo anni di battaglie legali, sulla carta è stata riconosciuta la “primazia” della formazione universitaria in italiano, secondo un principio di proporzionalità che però non è stato definito, ma lasciato alla discrezione dei giudici, con il risultato che decisioni come quella della Bocconi e di altri atenei pubblici hanno il via libera nella cancellazione dell’italiano. Una strategia che non viene chiamata cultura della cancellazione, come si dovrebbe chiamare, ma viene al contrario venduta come vincente, moderna e ineluttabile.

Sinergy Grant e Academy di alta specializzazione tecnologica

Il 27 ottobre, sul sito dell’Università di Napoli Federico II, si leggeva che l’ateneo ha vinto il Primo Sinergy Grant con queste parole: “È il primo Synergy Grant per l’Università degli Studi di Napoli Federico II quello assegnato da l’European Research Council per EndoTheranostics – Multi-sensor Eversion Robot Towards Intelligent Endoscopic Diagnosis and Therapy a Bruno Siciliano, ordinario di automatica e robotica al Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione, coordinatore del PRISMA Lab, e già assegnatario di un Advanced Grant nel 2013, in collaborazione con il Consorzio CREATE.”

Questo testo in itanglese ben fotografa l’attuale situazione dell’italiano dell’università e della ricerca. Andando a spulciare il bando per partecipare ai “sinergy grant” dell’Unione Europea – disponibile in lingua inglese, of course – si legge che “la domanda può essere presentata in qualsiasi lingua ufficiale dell’UE. Tuttavia, per ragioni di efficienza, l’uso dell’inglese o la traduzione in inglese è fortemente consigliato”, al punto che in un’altra clausola si legge che l’ente si riserva il diritto di effettuare “traduzioni automatiche delle domande presentate in lingue diverse dall’inglese ai fini della valutazione.”

Certo, è sempre meglio dell’obbligo di presentare le domande solo in lingua inglese, come nel caso dei Progetti di ricerca di rilevanza nazionale e dei fondi italiani della scienza (i Prin e il Fis) sanciti dalle istituzioni italiane, ma ancora una volta emerge tutta l’ipocrisia del plurilingusimo sulla carta: chi mai presenterà in un’altra lingua un progetto che deve essere giudicato da chi consiglia fortemente l’inglese e in caso contrario minaccia di avvalersi di traduzione automatiche?

Mentre l’inglese diventa così un obbligo, talvolta dichiarato apertamente, talvolta mascherato da una prassi che di fatto esclude ogni altra lingua, l’istituzionalizzazione dell’inglese è affiancata da un altro preoccupante fenomeno: anche quando si ricorre all’italiano, di fatto è un ibrido a base inglese che non si può che definire “itanglese”, la newlingua che nasce dagli effetti collaterali dell’anglificazione della scuola, del lavoro e di sempre più ambiti.

La formazione, insomma, se non viene effettuata direttamente in inglese si può avvalere dell’itanglese. Tra gli infiniti esempi che si possono fare, ma sono davvero troppi, riporto un caso (che mi ha segnalato Domenico) di un istituto tecnico superiore della regione Puglia – dove “Gli Istituti Tecnici Superiori (ITS) sono Academy di alta specializzazione tecnologica istituite dal Ministero dell’Istruzione” – che eroga i seguenti corsi in “italiano”:

“Sales management & marketing nella crocieristica” (Taranto)
“Sustainable and Experiential Wine tourism management” (Brindisi)
“International Hospitality and Tourism Management 4.0” (Bari)
“Food management e sostenibilità nella ristorazione 4.0” (Lecce)
“Management della comunicazione digitale per il turismo e la cultura” (Lecce)
“Hospitality Management Innovation” (Lecce)
“Deep & Digital Tourism Innovation” (Gravina in Puglia)
“Food and Beverage Management” (Trani)
“Adventure and Green Tourism Hospitality Management” (Ugento)
“Sustainable Management for luxury tourism experience” (Fasano)
“Outdoor Tourism and Sport Event Management” (Bari)
“Management e Organizzazione dei Servizi Turistici” (Manduria)
“Management dell’alta ristorazione” (Conversano)
“Yachting and Tourism Services Management”  (Brindisi)

ad libitum sfumando.


Parola d’ordine: educare all’inglese e cancellare l’italiano

Ne è passata di water sotto i bridge da quando, dopo l’avvenuta unificazione dell’Italia il governo varò la prima riforma della scuola unitaria (la legge Coppino del 1877) che istituiva l’obbligo scolastico per i bambini e l’insegnamento dell’italiano. L’unificazione linguistica è avvenuta in seguito proprio grazie alla scuola, oltre alla stampa, alla radio, alla televisione… ma oggi questi stessi centri di irradiazione della lingua educano e impongono l’inglese e l’itanglese.

E così la RCS Academy per formare i “comunicatori del cibo” lancia, insieme alla rivista Cook, un master full time per il Food&Wine basato sui nuovi strumenti di comunicazione di marketing, social e digital.

E quale sarà mai la lingua dei comunicatori che si formano a questo modo se non l’itanglese? La stessa della manifestazione milanese dedicata al vino che però si chiama Milano Wine Week.

La stessa a cui ci educano sia le istituzioni sia le realtà private. Sabato sono andato in un grande magazzino, l’Upim (acronimo di Unico Prezzo Italiano Milano), ma forse oggi non si dice più così e bisogna dire store, visto che la cartellonistica promuoveva in inglese gli sconti di fine stagione diventati Mid Season Sale. Sembra di vivere in Paese occupato e colonizzato, dove per rivolgersi ai cittadini ci sono principalmente l’inglese e l’itanglese.

Alla stazione centrale di Milano non ci sono gli ingressi e le porte, ma ci sono solo i Gate, mentre le insegne dei negozi che vendono il prodotto italiano (arcaismo per Made in Italy) si chiamano di volta in volta italian bakery, italian hair style e via dicendo. E grazie forse agli studenti formati dalla RCS Academy, tra Ice Wine e Wine Bar, la cosa più “italiana” dell’immagine qui a fianco è un divieto di sosta, che forse sarebbe ora di rinominare in no parking, nel passaggio dall’ancien régime al new regime, cioè alla dittatura dell’inglese che piace tanto al rettore della Bocconi.

L’imposizione surrettizia dell’inglese a scapito dell’italiano e delle altre lingue

Di Antonio Zoppetti


Mentre giorno dopo giorno uno tsunami di anglicismi si riversa nella nostra lingua, snaturandola, allo stesso tempo l’italiano regredisce e perde terreno davanti all’inglese non solo sul piano internazionale, ma anche su quello interno. Non ci vuole un genio per capire che le due cose sono strettamente connesse.
L’anglicizzazione e l’itanglese sono l’effetto collaterale di una mentalità e di una politica che pone l’inglese in primo piano e lo impone nella società, perché lo considera superiore a tutte le altre lingue e anche alla nostra. E così anno dopo anno la “dittatura dell’inglese” guadagna terreno e si fa più esplicita e spavalda. L’italiano retrocede e il plurilinguismo è sempre meno un valore e sempre più considerato un ostacolo alla comunicazione internazionale monolingue.

Tutto ciò parte dalla scuola, per educare le nuove generazioni a questa mentalità sin dalle elementari.

L’inglese obbligatorio: dalla scuola alla società

Lo studio di una seconda lingua nelle scuole secondarie è stato introdotto negli anni Sessanta, e nel decennio successivo è stato esteso anche alle scuole primarie. Fino agli anni Novanta si poteva scegliere se studiare come seconda lingua il francese o l’inglese (anche se la Circolare n° 304 del 10 luglio 1998 contemplava le opzioni di tedesco e spagnolo, almeno per le scuole medie).

Negli anni Duemila, però, tutto è cambiato, le altre lingue sono diventate di serie B e l’inglese oggi non è più una scelta, ma è diventato obbligatorio.

Il cambiamento è avvenuto con la Riforma Moratti (Legge n. 53 del 28 marzo 2003, e con il successivo Decreto Legislativo 59/2004), attraverso la parola d’ordine delle tre “i” riprese poi da Berlusconi: Inglese, Internet e Impresa.

In poco tempo l’obbligo è passato dagli studenti agli insegnanti, e con la Riforma Gelmini del 2010 l’inglese è stato dichiarato un requisito anche per i docenti che devono conoscerlo a un livello pari al First Certificate dell’Università di Cambridge indipendentemente dalla disciplina che insegnano.

Il passo successivo è stato quello di estendere questo obbligo per l’assunzione non solo dei professori, ma più in generale dell’intera pubblica amministrazione. Il requisito di conoscere “almeno una lingua straniera” per partecipare ai bandi (e quindi essere assunti) introdotto nel 2001 (decreto legislativo n. 165 del 30 marzo, “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”) nel 2017 è stato modificato con la Riforma Madia con questa correzione:

Le parole «e di almeno una lingua straniera» sono sostituite dalle seguenti: «e della lingua inglese»” (vedi: Art. 7. Modifiche all’articolo 37 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165).

In questo modo, in Italia è avvenuta la svolta che ha portato all’introduzione dell’obbligo dell’inglese, e si sono creati i presupposti e i precedenti per sancire un’asimmetria e una discriminazione tra una lingua di serie A, proclamata un’abilità di base, e tutte le altre. Italiano compreso.

È però curioso – diciamo così – che mentre la politica ha imposto l’obbligo dell’inglese agli studenti e ai cittadini nei concorsi della pubblica amministrazione non lo abbia fatto diventare un requisito anche per loro stessi…

I fondi a rischio del Pnrr e l’inglese

Il programma con cui il governo dovrebbe gestire i fondi dell’Ue per risanare lo sfacelo della pandemia, e cioè il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), è da mesi al centro delle polemiche, visto che molti dei nostri progetti non soddisfano i requisiti e rischiamo di non ricevere i finanziamenti. In un articolo del 20 maggio sul Corriere (“Pnrr, con Bruxelles contatti a rilento. I ritardi nella rata e l’effetto sui conti” di Federico Fubini) si legge che uno degli ostacoli dello stallo

deriverebbe dal fatto che non parlano inglese né il ministro agli Affari europei Raffaele Fitto – delegato al Pnrr – né il capo della nuova Struttura di missione rafforzata di Palazzo Chigi, il magistrato della Corte dei conti Carlo Alberto Manfredi Selvaggi. I due terrebbero riunioni in videoconferenza con gli uffici europei preposti al Recovery ogni sette o dieci giorni, senza contatti costanti. E almeno in un caso si sarebbero serviti di un funzionario di Bruxelles portato dal precedente governo a Palazzo Chigi, Claudio Casini, per farsi tradurre le proprie affermazioni e le risposte dei funzionari europei.

Questa narrazione, tuttavia, contribuisce a diffondere la bufala che il problema non sia l’incapacità politica, bensì che i politici italiani non conoscano l’inglese, e in questo modo si fa credere e si dà per scontato che l’inglese sia la lingua dell’Europa, anche se non è affatto così. Benché Ursula von der Leyen, insieme a una potente corrente di anglofili, stia facendo di tutto perché ciò avvenga, il ricorso all’inglese come lingua di lavoro è una prassi che bisognerebbe combattere in modo agguerrito perché non è sancita da alcuna carta ed è dunque illegittima. Non dobbiamo dimenticare che siamo tra i Paesi fondatori dell’Unione, e davanti al fatto che la nostra politica ha delle difficoltà con l’inglese dovremmo ricordare che se l’italiano non è più una delle lingue di lavoro è stato anche grazie al loro, visto che è stato estromesso nell’indifferenza di tutti e che a quasi nessuno è mai venuto in mente di difenderlo. Eppure la prassi dell’inglese nell’Ue, oltre a penalizzarci, fa guadagnare miliardi di euro all’anno al Regno Unito che è fuori dall’Europa e non investe sullo studio di lingue straniere come fa il resto del mondo a beneficio della loro lingua naturale.

Ma invece di riflettere seriamente sulla questione, sull’importanza del plurilinguismo, sulla democrazia linguistica, sulla discriminazione delle lingue più deboli, la nostra classe dirigente continua a propagandare l’idea che l’inglese sia un obbligo, e che chi non lo sa debba essere penalizzato e colpevolizzato. Come nei titoli di giornale di un brutto episodio avvenuto l’anno scorso.

“Il 118 non parla inglese: muore una turista.” Ma è davvero così?

L’inglese è conosciuto da ben meno del 20% dell’umanità, e venendo all’Europa è inteso da meno della metà di europei e italiani. E non conoscerlo non è una “colpa”.

Nell’aprile 2022 una pioggia di articoli ha alimentato l’idea che la morte di una turista tedesca che ha avuto un malore nei pressi di Roma dipendesse dal fatto che gli operatori del 118 non conoscevano l’inglese. La donna aveva avuto un malore e il fidanzato irlandese ha chiamato i soccorsi lamentandosi perché sarebbe stato messo in attesa per trovare qualcuno che parlasse in inglese (= colpa). Ancora una volta si presuppone che l’inglese sia un obbligo e che tutti debbano conoscerlo. Dunque chiedere i soccorsi in inglese sarebbe un “diritto”.

Se la richiesta di soccorso fosse stata fatta da qualcuno che parlava solo giapponese, filippino, greco, o nigeriano… o se la richiesta di aiuto fosse stata fatta in esperanto, i titoli sarebbero stati diversi. Ma poiché la telefonata è stata fatta da un anglofono si dà per scontato che tutto il mondo debba conoscere e praticare la sua lingua. Forse la tragedia si sarebbe potuta evitare anche se l’irlandese avesse studiato una seconda lingua, per esempio l’italiano o il francese.

Se ci sono stati dei ritardi nei soccorsi o degli episodi di malasanità bisogna indagare sulle responsabilità, invece di far passare l’idea che i ritardi nei soccorsi sono causati dal “deficit” di non conoscere l’inglese. E mentre articoli come questi costruiscono e diffondono l’idea che l’inglese debba essere la lingua dell’umanità e inducono alla discriminazione di chi non lo sa, l’italiano finisce per essere opzionale persino nel nostro Paese, come emerge dalle pretestuose recenti polemiche legate ai direttori stranieri dei musei italiani.

Per dirigere un museo italiano bisogna sapere l’italiano: che scandalo!

Il ministro della Cultura Sangiuliano ha da poco annunciato che nei bandi per l’assegnamento della direzione dei musei italiani sarà necessario certificare la conoscenza della lingua italiana. Tutto ciò ha generato il solito coro dei giornalisti anglomani che sono in prima linea nell’esaltare l’obbligo dell’inglese, mentre davanti all’italiano non riescono nemmeno a immaginare che sia il caso di prendere in considerazione la reciprocità di analoghi provvedimenti.

La questione riguarda gli incarichi che scadranno nel prossimo autunno per la direzione di alcuni prestigiosi musei gestiti da funzionari stranieri, a partire dal direttore degli Uffizi Eike Schmid per proseguire con i sovraintendenti degli scavi di Pompei (Gabriel Zuchtriegel), del Museo Nazionale Romano (Stéphane Verger), della Scala di Milano (Riccardo Chailly), e altri ancora.

Ecco come viene presentata la notizia in un articolo su La Repubblica (“La mossa di Sangiuliano: bando per direttori dei musei aperto solo a chi parla italiano” di Giovanna Vitale):

“Do you speak Italian? È la domanda-chiave cui dovranno rispondere i candidati alla guida dei musei statali che intendano partecipare a uno dei bandi in cottura al ministero della Cultura. Un prerequisito essenziale senza il quale non val neppure la pena di tentare: si verrebbe scartati all’istante. Con un’ulteriore avvertenza, tuttavia. Ai nuovi direttori di gallerie e parchi archeologici nazionali non basterà saper parlare e scrivere nell’idioma di Dante. Troppo facile. La destra tricolore, decisa a «tutelare la lingua madre dall’esterofilia dilagante » al punto da proporre l’espulsione di ogni lemma esotico dagli atti della pubblica amministrazione, esige di più: la conoscenza dell’italiano certificata da appositi test riconosciuti a livello internazionale. Un modo per scremare manager e curatori stranieri che dalle Alpi alla Sicilia la fanno da padroni.

E su Wired si legge persino che “le lingue della cultura sono competenza e trasparenza, non l’italiano”.

Ma di quale trasparenza si parla? Ci rendiamo conto di dove stiamo andando?
Perché non si scrive invece che la lingua dell’insegnamento non è l’inglese? Visto che un professore di italiano, francese, spagnolo o tedesco non può lavorare nella scuola se non certifica il suo inglese.

Da una parte si sancisce l’obbligo dell’inglese nella pubblica amministrazione, e si richiedono certificazioni di livello altissimo, e mentre gli italiani per lavorare nel proprio Paese sono obbligati a conoscere l’inglese, i cittadini non italiani che dirigono i nostri musei non dovrebbero certificare di conoscere la nostra lingua?

Per quanto allucinante, la situazione e la mentalità anglomane è questa, attualmente. E l’unica “crociata” in atto è quella per imporre ovunque il primato dell’inglese.

Dal plurilinguismo al monolinguismo

Accanto ai provvedimenti legislativi che tendono a ufficializzare l’inglese in Italia, questa lingua guadagna terreno anche in modo ufficioso, e diventa di fatto l’unica lingua della prassi anche quando sulla carta sono contemplate le altre lingue solo in teoria. Lo abbiamo visto con il progetto Erasmus, nato e sovvenzionato dall’Ue per l’apprendimento delle “lingue straniere”, ma diventato nella realtà lo strumento di diffusione dell’inglese, più che delle altre lingue. Esattamente come è avvenuto con il progetto CLIL, non a caso acronimo dell’inglese Content and Language Integrated Learning, che prevede l’introduzione nelle scuole di alcune ore in cui una certa materia viene insegnata direttamente in una “lingua straniera”, per favorire l’acquisizione dei contenuti disciplinari e allo stesso tempo l’apprendimento di una lingua, che di fatto è quasi sempre e solo una: l’inglese.

Lo stesso inglese che si vuole fare diventare la lingua della formazione universitaria in alcuni atenei come il Politecnico di Milano, che ha tentato di estromettere l’italiano; l’inglese che si fa strada come lingua ufficiosa nell’Unione Europea; l’inglese che dal 2017 è diventato la lingua obbligatoria per presentare i Progetti di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) e che nel 2021 – l’anno delle celebrazioni dantesche – si è esteso anche alla partecipazione al Fondo Italiano per la Scienza (FIS). Dunque, se si vogliono ottenere finanziamenti per la ricerca “italiana” lo si deve fare in inglese, e in inglese, oltre alle domande, si devono svolgere anche gli eventuali dibattiti.

Ecco come si distrugge la nostra lingua, con questa mentalità che si dovrebbe invece spazzare via.

Dal multilinguismo all’inglese obbligatorio

I concorsi per l’assunzione dei nuovi insegnanti che partiranno in ottobre hanno suscitato polemiche e dibattiti, nella politica e sui giornali. Il Movimento 5 stelle e Italia Viva hanno difeso la scelta “meritocratica” della ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, il Pd voleva posticipare tutto per non aggravare la difficile situazione della scuola durante la pandemia, la Lega e Fratelli d’Italia avrebbero voluto confermare i precari già nelle scuole… In tutto questo rumore – forse per nulla – la cosa più assordante è però il silenzio su un particolare che viene taciuto e che è ben più importante di ciò che emerge dal teatrino della politica e dal chiacchiericcio mediatico.

La novità è che nei concorsi scuola 2020 la conoscenza dell‘inglese è divenuta un requisito obbligatorio. Come specificato negli articoli 8 e 9 del Decreto 201 del 20 aprile 2020, la prova preselettiva e la prova orale accerteranno la conoscenza della lingua inglese almeno al livello B2 del Quadro Comune Europeo di Riferimento. Si tratta di un livello alto che prevede la comprensione di testi complessi e specialistici astratti e concreti, la capacità di comunicare in modo fluente, e un’esposizione chiara, esaustiva e articolata.

Il problema non è solo che (quasi) nessuno parla di questa novità, ma soprattutto che nessuno sembra porsi il problema del perché, e della legittimità, di questo cambiamento.
Perché mai un insegnante di materie come l’italiano o la matematica dovrebbe conoscere obbligatoriamente l’inglese? Dov’è l’inerenza tra il requisito dell’inglese e la materia insegnata? E perché l’inglese e non altre lingue?

La risposta del Ministero dell’Istruzione è stata laconica:

L’accertamento delle competenze linguistiche, previsto nell’ambito di tutte le procedure concorsuali, è stato limitato alla lingua inglese in virtù del novellato articolo 37 del d. lgs. 165/2001. Il d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75 (successivo al d.lgs. n. 59/2017), ha infatti sostituito, in via generale e per tutte le pubbliche amministrazioni, all’accertamento ‘di almeno una lingua straniera’ quello della sola lingua inglese” (Fonte: Orizzonte Scuola).

Il decreto invocato (n. 75 del 2017) è a sua volta l’attuazione della cosiddetta Riforma Madia, che (legge n. 124 del 7 agosto 2015, “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, articolo 17, lettera e) introduceva per i tutti i concorsi pubblici della pubblica amministrazione l’accertamento “della conoscenza della lingua inglese e di altre lingue, quale requisito di partecipazione al concorso o titolo di merito valutabile dalle commissioni giudicatrici, secondo modalità definite dal bando anche in relazione ai posti da coprire.

La legge Bassanini (n. 127/1997) prevedeva da tempo l’accertamento delle competenze informatiche e di una lingua straniera – non per forza l’inglese – per i concorsi pubblici, ma questa direzione che spingeva verso l’inglese si trovava già nel concorso del 2012 indetto dall’allora ministro Francesco Profumo, ed era presente nella legge 107 del 2015 che all’articolo 7 definiva come obiettivi formativi prioritari “la valorizzazione e il potenziamento delle competenze linguistiche, con particolare riferimento all’italiano nonché alla lingua inglese e ad altre lingue dell’Unione europea, anche mediante l’utilizzo della metodologia Content language integrated learning”. Ma mentre prima era sufficiente la conoscenza di una qualsiasi lingua straniera, con la riforma di Marianna Madia l’inglese è diventato obbligatorio per legge per tutti coloro che vogliono accedere ai concorsi pubblici. Basta cambiare una virgola e spostare due parole ed ecco che, zitti zitti, il gioco è fatto. Tutto si ribalta e si introducono nuove prassi che stravolgono completamente i principi formativi trasformando un disegno che dovrebbe promuovere il multilinguismo in un provvedimento che è il suo contrario e sancisce la dittatura del solo inglese.

Per fare chiarezza, il Content and Language Integrated Learning a cui si fa riferimentoche abbiamo introdotto direttamente l’acronimo inglese CLIL visto che siamo un popolo colonizzato che rinuncia sempre più alla nostra lingua – in italiano si chiamerebbe “Apprendimento Integrato di Contenuto e Lingua”, ed è stato proposto in ambito europeo da un economista dell’università di Oxford, David Marsh, nel 1994. La filosofia del progetto era quella di introdurre nelle scuole alcune ore in cui una certa materia venisse insegnata direttamente in una lingua straniera, per favorire l’acquisizione dei contenuti disciplinari e dell’apprendimento di una lingua in colpo solo. Non voglio entrare nel merito di questa proposta didattica di cui non condivido affatto i principi – credo che l’insegnamento di una materia e l’insegnamento di una lingua siano due cose separate che è bene tenere separate e non confondere – bisogna però precisare che riguardava “una lingua straniera” qualsiasi, non necessariamente l’inglese. Come si vanta il Miur: “Il nostro è il primo paese dell’Unione Europea a introdurre il CLIL in modo ordinamentale nella scuola secondaria di secondo grado.” Ma in questa attuazione, di fatto, la lingua straniera scelta è quasi esclusivamente l’inglese.

Fatte queste premesse, dalla prassi si è passati alla norma. Quello che accade oggi è che, per legge (!), la conoscenza di una lingua straniera da parte degli insegnanti e dei dipendenti della pubblica amministrazione è cancellata e sostituita dal solo inglese. Il requisito è obbligatorio, e la conoscenza di altre lingue è solo un di più facoltativo.

Le reazioni a questi imbrogli, realizzati a piccoli passi e in silenzio, si sono visti nel 2017 a proposito del concorso per entrare nell’Inps. Dopo anni di attesa, quando finalmente è uscito il bando è arrivata la sorpresa: tra i requisiti di accesso c’era proprio il possesso di una certificazione linguistica, rilasciata dagli enti autorizzati, attestante almeno il livello B2 della lingua inglese. La certificazione non è obbligatoria per legge, tuttavia chi bandisce un concorso può benissimo includerla nei requisiti, e dunque poco cambia. Nel totale silenzio mediatico – qualcuno ha mai sentito un dibattito televisivo in proposito? – ci sono stati vari ricorsi da parte di potenziali candidati che non erano in possesso della certificazione; in qualche caso il Tar del Lazio li ha accolti (come nel decreto n. 06807 del 18/12/2017), mentre in altri li ha respinti (come nella sentenza n. 1206 del 01/02/2018), perché il profilo di un analista del processo, per esempio, prevedeva la conoscenza dell’inglese.

Ma, nel caso degli insegnanti, qual è il senso della conoscenza obbligatoria dell’inglese nella maggior parte dei casi? Qui non c’è in gioco solo il divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro in nome delle pari opportunità (come nell’articolo 27 del D. Lgs. 165/2001). C’è una discriminazione anche nei confronti delle altre lingue e culture, che diventano improvvisamente di serie B di fronte all’inglese. Dietro provvedimenti del genere c’è una sotterranea e viscida imposizione dell’inglese come la sola lingua internazionale che è tutto il contrario del multilinguismo.

Mentre l’Italia non ha alcuna politica linguistica nei confronti dell’italiano, nei confronti dell’inglese le cose sono molto chiare. Il nostro Paese è in primo piano nell’attuazione del progetto colonialistico di condurre tutti i Paesi sulla via di un bilinguismo dove le lingue locali sono viste non come una ricchezza culturale, ma come un ostacolo alla comunicazione internazionale che deve avvenire nella lingua madre dei popoli dominanti. Invece di favorire lo studio delle lingue, si favorisce lo studio del solo inglese. È il progetto dell’imperialismo linguistico lucidamente prospettato da Churchill e in seguito perseguito dalla politica linguistica internazionale statunitense, dal piano Marshall in poi. Giorno dopo giorno, attraverso una politica graduale fatta di piccoli provvedimenti che passano silenziosi – visto che la cultura e i mezzi di informazione della colonia Italia sono in mano a collaborazionisti anglomani – agevoliamo dall’interno la dittatura dell’inglese globale. E accettiamo queste cose in servile silenzio, senza nemmeno che ci sia un dibattito. In questo modo, passetto dopo passetto, anno dopo anno, l’italiano ha cessato di essere la lingua del lavoro in Europa, la domanda per i Progetti di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) del MIUR, dal 2017, deve essere scritta soltanto in lingua inglese, al Politecnico di Milano si insegna di fatto in inglese, l’inglese è diventato un requisito per entrare nella pubblica amministrazione… e l’italiano? Quello la nostra politica lo vuole mettere in un bel museo. Il ruolo che gli spetta e gli spetterà sempre di più se andiamo avanti a questo modo. E l’anglicizzazione della nostra lingua è solo l’effetto di questa sottomissione politica, economica e culturale ben più ampia e profonda.